Audizione informale sul disegno di legge A.C. 2528 approvato dal Senato della Repubblica in data 23 luglio 2025, recante “Introduzione del delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime”, avanti la II Commissione (Giustizia) della Camera dei deputati – 14 ottobre 2025

Sommario: 1. Introduzione – 2. Considerazioni di carattere generale sulla scelta di introdurre il reato di femminicidio – 3. La fattispecie di femminicidio delineata nel disegno di legge e la sanzione prevista – 4. Alcune considerazioni sull’art. 5 del disegno di legge – 5. In conclusione

1. Introduzione

Mi concentrerò solo su alcuni aspetti del disegno di legge oggetto dell’audizione odierna, partendo da una breve premessa.

Alcune delle ferme considerazioni critiche che esprimerò sono state già condivise e rese pubbliche da un nutrito gruppo di penaliste in un comunicato che è facilmente reperibile online[1].

Le mie osservazioni riguarderanno prioritariamente l’art. 1 del disegno legge (ddl C 2528) che introduce nel codice penale il reato di femminicidio (art. 577-bis c.p.)[2]; un reato caratterizzato, insieme ad ulteriori presupposti, anche dal sesso della vittima (“chiunque cagiona la morte di una donna…”). La pena prevista è quella dell’ergastolo.

Molti degli elementi che caratterizzano il femminicidio, poi, operano come circostanze aggravanti ad effetto speciale in alcuni delitti contro la persona.

È importante ricordare l’impegno che il legislatore italiano ha già mostrato, fin dai primi anni Duemila, mettendo in campo alcune misure di contrasto alla violenza di genere che intervengono su diversi versanti, a partire dall’introduzione di nuovi reati e di pene più severe. Solo per fare un esempio, basti pensare al reato di cui all’art. 612-ter c.p. (Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti,cd. revenge porn), introdotto dall’art. 10 comma 1 della L. 19 luglio 2019 n. 69 nota come “Codice Rosso”. Negli interventi che si sono succeduti nel tempo e che hanno interessato il diritto penale non è mai stata introdotta una distinzione legata al sesso, salvo per quanto riguarda il reato di mutilazioni genitali femminili (art. 583-bis c.p.), dove tuttavia sono le proprio specifiche pratiche di mutilazione contemplate a richiedere una definizione della fattispecie che tenga conto del sesso della vittima.

Per il femminicidio questa considerazione non può essere riproposta ed ecco che questo intervento non può che sollevare molteplici interrogativi, anche sul fronte della sua compatibilità con i principi costituzionali.

Credo sia necessario sgombrare il campo da due equivoci di fondo.

La violenza sulle donne è un fenomeno indubbiamente gravissimo, ma se dovessimo riferirci ai nudi dati che l’Istat ha pubblicato per l’anno 2023 non potremmo non rilevare una diminuzione nel numero degli omicidi ai danni di persone di sesso femminile.

Cito questi pochi dati, che richiederebbero un’analisi ben più ampia ed approfondita, perché, purtroppo, anche questo disegno di legge (come troppo spesso avviene in Italia) non pare supportato da un’analisi empirica seria, da uno studio criminologico, che, oltre ad aiutarci a conoscere il fenomeno, avrebbe permesso di misurare l’impatto, sul sistema, della riforma in termini di efficacia ed effettività.

I dati ISTAT del 2023[3], gli ultimi pubblicati, ci mostrano un aumento degli omicidi, con un tasso che è il più basso d’Europa: gli omicidi sono 334, con un aumento del 3,7% rispetto al 2022. Le vittime donne, invece, sono 117 e sono diminuite rispetto al 2022 (-7,1%).

La stima dei “femminicidi” è più complessa, mancando una definizione condivisa, ma è stata comunque operata tenendo conto di tre tipologie di gender-related killing: gli omicidi di donne da parte del partner; gli omicidi di donne da parte di un altro parente; gli omicidi di donne da parte di un’altra persona, sia conosciuta sia sconosciuta, che però avvenga attraverso un modus operandi o in un contesto legato alla motivazione di genere. Anche su questo fronte, con tutte le difficoltà del caso nell’operare la stima, si registra una diminuzione rispetto all’anno precedente. Sono 63 le donne uccise nell’ambito della coppia, dal partner o dall’ex partner; sono 31 le donne uccise da un altro parente; due le donne uccise da un conoscente con movente passionale. In totale si tratta di 96 femminicidi presunti su 117 omicidi con una vittima donna. Nel 2019 erano 101 su 111, nel 2020 erano 106 su 116, nel 2021 erano 104 su 119, nel 2022 105 femminicidi presunti su 126 omicidi.

Pur a fronte di fatti gravissimi, questi numeri sono minimamente incoraggianti. Stanno dando i primi timidi frutti le politiche già messe in campo nella lotta alla violenza di genere?

Non ci sono poi obblighi di matrice sovranazionale che impongano di introdurre una fattispecie di femminicidio. Né la Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011 (Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica) né la Direttiva (UE) 2024/1385 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 maggio 2024, sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica, impongono questo intervento.

La Direttiva, in particolare, utilizza il termine femminicidio solo all’interno del Considerando n. 9, dove si prevede che nella nozione di violenza contro le donne non rientrino solo i reati definiti nella direttiva stessa, ma anche alcuni reati previsti dagli ordinamenti nazionali, come il femminicidio. Essa, tuttavia, non richiede di introdurre il femminicidio.

Ci sarebbero quindi tutte le condizioni per non fare le cose in fretta e per riflettere più approfonditamente su di un fenomeno molto complesso, analizzando – mi sembrerebbe il primo passo da fare – i contesti nei quali si genera la violenza, al fine di approntare misure preventive adeguate, sostenute da idonee risorse.

Le cause del fenomeno sono diverse e devono essere indagate con maggior attenzione, per poter essere combattute.

2. Considerazioni di carattere generale sulla scelta di introdurre il reato di femminicidio

Questa proposta di introduzione di un nuovo reato si inserisce, invece, in un quadro più generale, caratterizzato da un inarrestabile e irrazionale ricorso al diritto penale per venire incontro ad un diffuso e marcato furore repressivo. Stiamo assistendo a campagne mediatiche ad alto tasso emotivo che ingenerano preoccupazione nei cittadini, rispondendo alle quali si ricorre al diritto penale come ad una sorta di “ansiolitico sociale”, per utilizzare un’efficace espressione già utilizzata[4], senza nessuna preoccupazione per l’impatto dell’intervento normativo.

È una tendenza che con buona parte della dottrina penalistica mi sento di stigmatizzare per plurime ragioni, ma che in questo caso è anche del tutto priva di giustificazione visto che già esistono le norme che consentono di sanzionare, addirittura con l’ergastolo o con pene assai severe, i casi di omicidio che riconduciamo alla nozione – di matrice sociologica, come vedremo – di femminicidio, senza dare luogo a problemi di natura sistematica o a irragionevoli disparità di trattamento, che invece si creerebbero con questo reato.

L’intervento non si giustifica sul piano della generalprevenzione.

Come è noto a tutti, nel nostro ordinamento già esiste il reato di omicidio, senza distinzioni di sesso o di genere dal lato della persona offesa. L’omicidio è già punibile con l’ergastolo quando avviene nel contesto di relazioni familiari o affettive (art. 577 c.p. n. 1 “contro l’ascendente o il discendente anche per effetto di adozione di minorenne o contro il coniuge, anche legalmente separato, contro l’altra parte dell’unione civile o contro la persona stabilmente convivente con il colpevole o ad esso legata da relazione affettiva”) o di altre manifestazioni della violenza di genere (art. 576 c.p. – in occasione della commissione del delitto di cui all’art. 572 c.p., per esempio).

Alcune sentenze pronunciate di recente per casi notissimi di femminicidi hanno applicato proprio la pena dell’ergastolo. Non possiamo quindi affermare che ci sia una lacuna di tutela di fronte a questo complesso fenomeno.

Il paragone tra femminicidio e art. 416-bis c.p., che si è sentito fare[5], non è conferente.

Una nuova fattispecie serve se quelle già esistenti non riescono ad accogliere al loro interno le condotte che si vogliono vietare o se la risposta sanzionatoria approntata è inadeguata.

Il reato di associazione di tipo mafioso, introdotto nel 1982, era necessario perché tra le finalità perseguite dai soggetti uniti dal vincolo associativo ve n’erano anche di lecite, e ciò costituiva un limite all’applicazione dell’art. 416 c.p. La disposizione di cui all’art. 416-bis c.p., quindi, era necessaria per punire, mentre nessuno pensa che uccidere una donna oggi – come atto d’odio o di discriminazione o in relazione al rifiuto di instaurare o di mantenere un rapporto affettivo – non sia sussumibile in una fattispecie già esistente nel nostro ordinamento.

Possiamo poi pensare davvero, per esempio, che un uomo lasciato dalla sua compagna, incapace di accettare o gestire il rifiuto e l’abbandono e che non sia ancora riuscito ad interiorizzare i valori della libertà della donna o più in generale della persona diversa da sé, si faccia dissuadere dal commettere un reato di omicidio – o di femminicidio, in ipotesi di accoglimento della proposta di riforma – visto che la pena prevista potrà essere sempre quella dell’ergastolo e non più invece quella della reclusione di minimo ventuno anni, aggravabile comunque fino all’ergastolo in presenza delle circostanze sopra ricordate?

Non stiamo parlando di autori di reato “razionali”.

La domanda è retorica, ma una prima risposta la si può trovare nelle condotte di molti uomini (circa un terzo) che si rendono responsabili di questi femminicidi: si tolgono la vita, o tentano di farlo, dopo aver ucciso la donna.

Se, invece, ciò che muove l’intervento è una ragione prioritariamente simbolica o pedagogica, non si può non ricordare che lo scopo legittimo del diritto penale è la tutela dei beni giuridici, non l’affermazione di valori culturali che prescindano da esso o che lo trascendano.

L’intervento introduce irragionevoli differenziazioni. Nel Dossier del 1° ottobre 2025 elaborato dal Servizio Studi del Dipartimento di Giustizia, che accompagna il disegno di legge (pag. 10), si afferma apoditticamente che si sarebbe attribuito “un preciso disvalore alla condotta omicidiaria al fine di rispondere alle esigenze di tutela contro il fenomeno della violenza nei confronti delle donne”. Questo preciso disvalore, però, all’interno della fattispecie penale, non si coglie e, comunque, non giustifica una differenza di trattamento tra i motivi contemplati e, per esempio, gli altri motivi di genere.

Certo, dovremmo addentrarci meglio nella formulazione della fattispecie, ma una domanda di fondo dobbiamo porcela. Si può sacrificare la neutralità del diritto penale per riequilibrare, per mezzo della pena, disuguaglianze strutturali?

Questo, a livello teorico, potrebbe forse avvenire solo se, davvero, attraverso la pena si potesse superarle. Ma non è così e di certo il risultato non si ottiene con la fattispecie di femminicidio.

La Convenzione di Istanbul, nel preambolo riconosce la “natura strutturale” della violenza contro le donne in quanto basata sul genere e riconosce “che la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione”. La Direttiva del 2024, poi, nel 10° Considerando, evidenzia come la violenza contro le donne sia “una manifestazione persistente della discriminazione strutturale nei confronti delle donne, derivante da rapporti di potere storicamente iniqui tra donne e uomini”.

L’art. 3 c. 2 Cost. – che individua tra i compiti della Repubblica quello “di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” – non può legittimare questo intervento.

Non credo che sia corretto pensare che il compito dell’art. 3 c. 2 Cost. possa essere svolto per mezzo della reazione penale (o comunque di una reazione più punitiva); come la dottrina ha evidenziato, ciò, oltre a contrastare con l’art. 3 c. 1 Cost. contrasta con l’art. 27 c. 1 e c. 3 Cost.[6]: il singolo autore del reato finisce per essere strumentalizzato per ragioni simboliche, per scopi promozionali, pedagogici, quando, in qualche misura, egli stesso è condizionato dal contesto culturale che con quella norma si vorrebbe cambiare.

Il compito può essere svolto solo con misure che, guardando alle cause di fondo delle disuguaglianze, siano costruttrici di pari opportunità e con strumenti che operino seriamente sul piano culturale.

Come è stato chiaramente affermato “convertire i maschilisti dovrebbe costituire un obiettivo da perseguire solo con la cultura, l’educazione, la promozione di condizioni ambientali più evolute nei contesti in cui perdurano visioni patriarcali”[7].

Più in generale, poi, non credo si giustifichi un trattamento differenziato in base al sesso biologico della vittima, quando la matrice o il contesto di un certo comportamento violento sia comunque di carattere discriminatorio, espressione di dominio o di possesso nei confronti della stessa.

Un diritto penale che è, almeno in parte, antidiscriminatorio non può divenire irragionevolmente discriminatorio.

3. La fattispecie di femminicidio delineata nel disegno di legge e la sanzione prevista

Veniamo allora alla tecnica di tipizzazione della fattispecie, che sconta un problema di fondo. Il termine femminicidio è mutuato dal sapere sociologico. La sociologa, attivista del movimento femminista, Russell lo ha definito come un crimine d’odio contro le donne a causa della loro condizione di persone di sesso femminile, espresso con la formula: «per il fatto di essere donna». Esso rappresenta il punto culminante di una spirale di violenza originata dalla relazione disuguale tra uomini e donne che caratterizza la società patriarcale[8].

È un concetto sociologico, diretto, in assonanza agli obiettivi della sua creatrice, a descrivere un fenomeno; un fenomeno che in America Latina, in particolare, proprio alla fine del secolo scorso, ha assunto dimensioni drammatiche, anche a causa dell’inerzia del sistema di law enforcement.

È indubbiamente difficile riuscire a tradurre in una fattispecie penale, in modo chiaro e preciso, un concetto complesso come questo, per esprimere il disvalore di questa particolare forma di uccisione di una donna. I termini utilizzati in una fattispecie penale dovrebbero poi essere suscettibili di essere afferrati sul piano processuale, per le connesse e rilevanti esigenze di prova. Diversamente, potrebbe essere molto più semplice per un pubblico ministero valorizzare, ai fini della qualificazione del fatto, elementi relazionali più agevolmente dimostrabili e già sufficienti per aggravare la pena e quindi chiamare l’imputato a rispondere di omicidio aggravato e non di femminicidio.

La scelta che è stata fatta con l’art. 1 di questo disegno di legge è intrinsecamente contraddittoria.

Le prime sei ipotesi (atto di odio o di discriminazione o di prevaricazione…) sono caratterizzate da una motivazione di genere – o più precisamente motivazione legata al sesso femminile in senso biologico –, condensata nella formula «in quanto donna» e cercano di tradurre nella fattispecie la menzionata definizione di femminicidio, ma la formulazione scelta è barocca e pone i problemi di accertamento appena ricordati.

Come si riconosce e si prova, in un processo penale, se un atto è motivato dall’odio “in quanto donna”? Oppure dall’odio “in quanto quella donna, in carne ed ossa, lo ha tradito” (per esempio)?

Per riuscire ad intercettare, con una norma penale, altre condotte utili a descrivere il fenomeno che oggi sociologicamente – o per fini statistici –  riconduciamo al femminicidio, nella versione approvata al Senato si è estesa allora la fattispecie includendovi la formula “o in relazione al rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo o come atto di limitazione delle sue libertà individuali”, che, da un lato, ponendo l’accento sul contesto relazionale in cui la condotta violenza può originarsi rende la fattispecie, in questa parte, leggermente meno sfuggente, ma che, dall’altro, rende ancora più evidente l’irragionevolezza della distinzione operata sulla scorta del sesso biologico della vittima.

Il rifiuto rileva solo se da esso scaturisce la spinta psico-motivazionale dell’autore nel senso della causazione della morte di una donna[9], ma in conclusione non si riesce proprio a cogliere cosa caratterizzi il reato di femminicidio.

Opportuna è la valorizzazione del contesto relazionale (rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo) in cui si innesca la violenza, ma, ancora una volta, non sussistono ragioni che giustifichino la differenza di trattamento tra chi uccide una donna e chi uccide un uomo, in questo contesto.

Per quanto attiene all’“atto di limitazione delle sue libertà individuali”, invece, la formulazione presenta evidenti deficit di determinatezza, se riferita a qualsiasi donna.

Esiste un omicidio che non limiti le libertà individuali? È difficile immaginare una condotta omicidiaria realizzata con dolo intenzionale che non abbia il fine di sopprimere l’esercizio di libertà della vittima come effetto inevitabile dell’evento morte.

Il femminicidio si configurerebbe sempre.

Non a caso, nel Dossier del 1° ottobre 2025 (pag. 16) si legge che la privazione del bene-vita, già di per sé, impedisce “l’esercizio di tutto il coacervo delle libertà di cui era titolare la persona offesa” e vi è un invito ad “approfondire l’utilizzo del termine “limitazione delle sue libertà individuali” in considerazione del fatto che, con il venir meno del bene-vita stesso le libertà ed i diritti non sono meramente limitati, ma soppressi”.

In sostanza ci troviamo davanti ad un bivio. Il reato, in questa ipotesi, potrebbe essere integrato quasi sempre, se la persona uccisa è una donna, rendendo ancora più manifesta la violazione dell’art. 3 Cost., oppure, al contrario, incontrare difficoltà di accertamento.

Sempre con riferimento al fatto tipico, come interpretiamo il termine “donna”? Rileva l’identità anagrafica o la percezione soggettiva della propria identità di genere?

Nel Dossier (pag. 12) si pone giustamente l’attenzione anche su questo aspetto e si richiamano le disposizioni in materia di rettificazione di attribuzione di sesso della l. 164/1982 e la successiva giurisprudenza della Corte costituzionale, evidenziando che “alla luce delle considerazioni svolte in relazione all’ambito definitorio della persona offesa “in quanto donna”, si valuti l’opportunità di precisare l’estensione del riferimento contenuto nella disposizione in esame”.

In conclusione, su questo articolo, un cenno alla pena dell’ergastolo, che è stata prevista per il femminicidio. Questa sanzione continua a sollevare in una parte della dottrina – parte in cui mi annovero – degli interrogativi in merito alla sua compatibilità con la finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27 c. 3 Cost.

L’ergastolo non dovrebbe essere più considerato nel nostro ordinamento, ma soprattutto non dovrebbe essere previsto anche in questo caso, senza un previo necessario raccordo con le altre aggravanti che già sono contemplate per l’omicidio e che sono sanzionate con questa pena.

Ma l’ergastolo non è la sola pena fissa che l’art. 577-bis c.p. contempla.

Quando ricorre una sola circostanza attenuante o quando una circostanza attenuante concorre con taluna delle circostanze aggravanti di cui al secondo comma, e la prima è ritenuta prevalente, la pena non può essere inferiore ad anni ventiquattro di reclusione. La proposta deroga alla disciplina dell’art. 65 c.p. che per i reati puniti con l’ergastolo prevede, in presenza di una sola attenuante, la sostituzione con la pena della reclusione da venti a ventiquattro anni. Se si considera tuttavia che la reclusione, in assenza di indicazioni diverse, non può essere superiore a ventiquattro anni (art. 23 c.p.), ne consegue che, in forza del combinato disposto tra gli artt. 577-bis e 23 c. p., la pena prevista è fissa: ventiquattro anni[10] e una pena fissa è anche incostituzionale, per contrasto con i principi di proporzione e individualizzazione della sanzione penale.

4. Alcune considerazioni sull’art. 5 del disegno di legge

Un cenno molto rapido voglio riservarlo all’art. 5 del disegno di legge – che interviene sulla legge 26 luglio 1975, n. 354, recante norme sull’ordinamento penitenziario – e in particolare a due disposizioni.

Grazie alla prevista modifica dell’art. 4-bis  o.p. si prevede che “al fine della concessione dei benefici ai detenuti o internati per il delitto di cui all’articolo 577-bis del codice penale, il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza acquisisce altresì le informazioni in merito alla presenza, nel luogo in cui l’istante chiede di recarsi, di prossimi congiunti della persona offesa deceduta in conseguenza del reato per il quale il condannato o l’internato è detenuto e alle eventuali iniziative dell’interessato a favore dei medesimi, nonché le dichiarazioni che gli stessi prossimi congiunti abbiano inteso rendere”.

Preoccupa in particolare la previsione, inedita per il nostro sistema, di lasciare uno spazio “dichiarativo” ai prossimi congiunti della donna deceduta per il femminicidio al fine della concessione dei benefici a detenuti e internati, se questa è l’interpretazione che si imporrà nella giurisprudenza. Si introduce l’acquisizione di dichiarazioni che essi abbiano inteso rendere, finendo per coinvolgere la vittima nella dinamica punitiva e aprendo le porte ad una prospettiva puramente privatistica, che non dovrebbe invece inquinare la valutazione alla quale è chiamata la magistratura di sorveglianza alla luce dei progressi compiuti dal condannato nel percorso rieducativo/risocializzante.

Del tutto irragionevole appare poi la previsione di una riduzione della durata dei permessi premio per i minorenni. La lettera b) del comma 1, introdotta al Senato, inserisce nell’art. 30-ter o.p. un nuovo comma 2-bis, con il quale la durata per i permessi premio concessi ai condannati minori di età per il reato di femminicidio (art. 577-bis c.p.) viene limitata rispetto a quanto ordinariamente previsto.

Ai sensi dell’articolo 30-ter o.p., i permessi premio, alla luce di presupposti assai stringenti, possono essere concessi, in misura non superiore ogni volta a 15 giorni, ai condannati che hanno tenuto regolare condotta, avendo manifestato costante senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzate negli istituti e nelle eventuali attività lavorative o culturali, e non risultino socialmente pericolosi. La durata dei permessi non può superare complessivamente 45 giorni in ciascun anno di espiazione.

Con riferimento ai condannati minori di età, il comma 2 stabilisce che la durata dei permessi premio non può superare ogni volta i 30 giorni e la durata complessiva non può eccedere i 100 giorni in ciascun anno di espiazione.

In deroga al termine ordinario, la disposizione in commento stabilisce che, in caso di condanna per il reato di femminicidio, la durata dei permessi premio concessi ai minorenni non possa eccedere ogni volta i 20 giorni e che la durata complessiva non possa superare i 70 giorni in ciascun anno di espiazione.

Questo intervento è coerente con la logica punitiva nei confronti del minore autore di reato sottesa ad altri interventi normativi che si sono succeduti negli ultimi anni – una logica che ha aperto le porte a giudizi di legittimità costituzionale ancora in corso –  ma entra in contraddizione con le esigenze di recupero e (ri)educazione del minore che trovano un fondamento costituzionale negli artt. 27, c. 3 e 31, c. 2 Cost., con gli obiettivi che sono stati riaffermati anche nel d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 121 e, ancora una volta, con l’art. 3 Cost. L’intervento è manifestatamente irragionevole in quanto distingue, ai fini dell’applicazione di questo istituto, i minori autori di femminicidio dagli autori di altri reati, quanto meno, di pari gravità: perché il femminicidio e non la strage (per esempio)?

5. In conclusione

In conclusione, quindi, non credo che questo intervento, nonostante le buone intenzioni che lo possono animare, sia auspicabile sul piano politico-criminale.

Io ritengo che non ci sia bisogno di questa riforma che, almeno per quanto attiene alle disposizioni da me considerate, non produrrà effetti virtuosi, quanto piuttosto effetti distorsivi inutili e differenziazioni irragionevoli, scardinando l’opportuno impianto “gender-neutral” del nostro codice penale.

Stiamo solo fingendo di occuparci di un problema serio, che ha radicate e complesse matrici culturali. Ecco perché questo intervento è inopportuno, non solo inutile. Ecco perché questo intervento ha sollecitato una presa di posizione netta, inedita – ancorché inascoltata – di moltissime penaliste, in Italia.

Abbiamo bisogno di prendere atto di come il fenomeno della violenza contro le donne e, più ampiamente, della violenza di genere, superi i confini del diritto e richieda un approccio integrato, mediante misure coraggiose di perequazione economica e sociale – per il superamento delle molteplici disparità di genere che ancora si registrano a molti livelli, a partire da quello lavorativo – nonché mediante attività formative e serie politiche culturali. Se sono raccomandabili le iniziative di formazione per i magistrati e in ambito sanitario, che questo disegno di legge prevede, dobbiamo rilevare che manca del tutto un serio investimento nella prevenzione primaria.

La riforma si chiude poi con l’ennesima clausola di invarianza finanziaria (art. 14). Le risorse da impiegare sono pochissime e riguardano questioni di dettaglio.

Il timore più grande, così, è che, sposando una logica meramente punitiva, con l’illusione di aver trovato una buona soluzione, si finisca per dimenticare l’obiettivo principale: quello di lavorare sulle politiche di prevenzione.

Gli investimenti da fare sono cospicui, anche in termini economici.

Per essere subito concreti, basti ricordare il problema posto dall’assenza o dal mancato funzionamento dei braccialetti elettronici[11].

Per quanto riguarda il codice penale, se si vuole riconoscere uno spazio ai motivi legati al genere e/o al sesso biologico, lo si dovrà fare in modo indifferenziato, con una specifica aggravante “neutra” da coordinare con le altre aggravanti dell’omicidio, anche per evitare duplicazioni sul piano sanzionatorio. I reati contro la persona, del resto, dovrebbero essere fatti oggetto di un ripensamento complessivo e l’aggravante potrebbe e dovrebbe incontrare un campo applicativo più vasto.

Questa soluzione permetterebbe di superare una lettura esclusivamente biologica della “donna”.

Non è secondario ricordare che “il genere indica un costrutto sociale e culturale che collega determinate manifestazioni esteriori alle aspettative sociali connesse al sesso e non è sovrapponibile al dato biologico della differenza sessuale”[12].

Si potranno porre problemi di accertamento, come abbiamo anticipato, ma già conosciamo fattispecie connotate dalla motivazione ed auspicabilmente si potrebbe immaginare di favorire una rilettura del motivo di genere in chiave oggettiva[13]. Inoltre, vista la presenza delle altre aggravanti dell’omicidio, la scelta che verrà operata dal pubblico ministero per ragioni probatorie non impedirebbe di qualificare quell’omicidio, sociologicamente, come “femminicidio”.

Anche per quanto riguarda, poi, il rifiuto di instaurare o mantenere un rapporto affettivo, l’aggravante dovrebbe essere introdotta nell’art. 577 c.p., per l’omicidio, e nelle disposizioni che definiscono altri reati spia, senza distinzioni legate al sesso biologico. In questo caso l’atto violento ha una chiara matrice relazionale.

Se, poi, in conclusione, avvertiamo comunque, come irrinunciabile, la necessità di dare legislativamente un nome al fenomeno, per riconoscerlo o per renderlo riconoscibile[14], per trattare i casi in modo più consapevole, o, addirittura, per agevolare la misurazione del fenomeno sul piano statistico, possiamo comunque farlo – siamo in ancora in tempo per farlo – senza modificare il codice penale. Dare un nome al fenomeno non è un compito del diritto penale.

A tale riguardo credo sia interessante la soluzione offerta dall’ordinamento belga, dove, il 13 luglio 2023 è stata approvata la Loi sur la prévention et la lutte contre les féminicides, les homicides fondés sur le genre et les violences[15].Il Dossier del 1 ottobre 2025 contiene, nell’appendice, un utile tratteggio del quadro comparato e si descrive anche questa scelta (pag. 136 s.), precisando, correttamente, “che non si tratta […] di una fattispecie autonoma di reato, punita diversamente dall’omicidio, ma di una definizione che incide su altri aspetti della legislazione”. Sembrerebbe un punto di debolezza, ma è proprio questo – al contrario – il punto di forza della proposta.

La legge belga non modifica il codice penale; ha lo scopo di creare un quadro generale per la lotta e la prevenzione dei femminicidi, degli omicidi di genere (“omicidio di una persona a causa del suo genere”) e della violenza che li precede, senza introdurre nel sistema penale delle fattispecie nuove. Vengono fornite delle definizioni di femminicidio[16] utili per procedere a raccolte dati ufficiali, per migliorare la valutazione e la gestione dei rischi, per mettere a punto una formazione adeguata per gli operatori del settore e per riconoscere alle vittime dei diritti specifici, evitando prioritariamente qualsiasi vittimizzazione secondaria.

Ecco, proprio gli “altri aspetti della legislazione” su cui incide la definizione (pag. 137 del Dossier) sono obiettivi importanti da perseguire in questo momento.


[1] Il comunicato è reperibile ai seguenti indirizzi: https://archiviopenale.it/ddl-femminicidio/contenuti/31750; https://www.lalegislazionepenale.eu/contro-lintroduzione-del-reato-di-femminicidio-documento-sottoscritto-da-oltre-70-studiose-di-diritto-penale/; https://www.sistemapenale.it/it/documenti/femminicidio-documento-penaliste; https://www.penaledp.it/il-reato-di-femminicidio-presentato-dal-governo-le-ragioni-della-nostra-contrarieta/

[2] Questa è la formulazione proposta: “Art. 577-bis. – (Femminicidio) – Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di odio o di discriminazione o di prevaricazione o come atto di controllo o possesso o dominio in quanto donna, o in relazione al rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo o come atto di limitazione delle sue libertà individuali è punito con la pena dell’ergastolo”.

[3] I dati sono pubblicati in https://www.istat.it/wp-content/uploads/2024/11/Report_Vittime-di-omicidio_Anno-2023.pdf

[4] G. Fiandaca, Cari prof. di diritto penale, è ora di protestare contro il delitto di femminicidio, in Sist. pen., 14 marzo 2025, par. 1.

[5] P. Di Nicola Travaglini, Il femminicidio esiste ed è un delitto di potere, in Sist. pen., 5/2025, 34.

[6] Così, e per ulteriori considerazioni, A. Perin, Motivi aggravanti e circostanze discriminatorie. Legittimità e limiti della sanzione penale dell’offesa alla pari dignità, Torino, 2024, 306.

[7] G. Fiandaca, Cari prof. di diritto penale, è ora di protestare contro il delitto di femminicidio, cit., par. 1.

[8] Cfr. D. E. Russell, R. A. Harmes (a cura di), Feminicidio: una perspectiva global, Ciudad de México, 2006, passim (fin dalla quarta di copertina).

[9] R. Bartoli, Il tornante del femminicidio: si compirà il passaggio dal populismo al sadismo penale?, in Sist. pen., 15 luglio 2025, 7.

[10] M. Pelissero, Il disegno di legge sul femminicidio: una proposta di puro populismo penale che distoglie dalle vere questioni culturali di genere, in Diritto penale e processo, 2025, n. 5, 563; G.L. Gatta, Il reato di femminicidio: una proposta da riformulare. Tra real politik e principi costituzionali, in Sist. pen., 6/2025, 162.

[11] Comunicato dell’Esecutivo di Magistratura Democratica del 18 agosto 2025, in Sist. pen., 22 agosto 2025.

[12] M. Pelissero, Il disegno di legge sul femminicidio: una proposta di puro populismo penale che distoglie dalle vere questioni culturali di genere, cit., 558. Sulla motivazione di genere cfr. anche V. Mongillo, Diritto penale e ingegneria simbolica: i limiti della proposta di un nuovo delitto di femminicidio e le esigenze di tutela effettiva, in Sist. pen., 12 giugno 2025, 13.

[13] In tal senso A. Massaro, Riflessioni sul disegno di legge in materia di femminicidio, in Sist. pen., 25 giugno 2025, par. 2.1, anche se, a mio dire problematicamente, la valorizzazione del contesto di predominio maschile sulla donna finisce per introdurre una presunzione; L. Goisis, Genere e diritto penale. Il crimine d’odio misogino, in Questgiust., 2/2022, 25, ritiene che il “movente di genere” dovrebbe ritenersi accertato laddove «le condotte contengano effettivamente i segni di una finalità di discriminazione e di odio – di genere – allorché l’azione si manifesti come consapevole esteriorizzazione, immediatamente percepibile, nel contesto in cui è maturata, avuto riguardo anche al comune sentire, di un sentimento di avversione o di discriminazione fondato sul genere e cioè di un sentimento immediatamente percepibile come connaturato all’esclusione di condizioni di parità».

[14] Nel «Libro bianco per la formazione – Violenza maschile contro le donne», a cura del Comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio sul fenomeno della violenza nei confronti delle donne e sulla violenza domestica, presso il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, pubblicato in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne del 2024, si sottolinea l’importanza di dare un nome al fenomeno.

[15] https://etaamb.openjustice.be/fr/loi-du-13-juillet-2023_n2023044133.html. Cfr. E. Corn, Il reato di femminicidio, cronaca di una controversia annunciata. il disegno di legge a.s. 1433-a approvato al senato il 23 luglio 2025, in corso di pubblicazione, par. 1 del dattiloscritto.

[16] Art. 4 § 2 “§ 2. Ai fini dell’applicazione e dell’esecuzione della presente legge, per “femminicidio” si intende l’omicidio volontario di una donna a causa del suo genere o la morte di una donna derivante da pratiche che causano danno alle donne, indipendentemente dal fatto che l’omicidio volontario o le pratiche dannose siano commessi da un partner, da un familiare o da una terza persona. Il femminicidio intimo, non intimo e indiretto è caratterizzato come segue: 1° Il femminicidio intimo è l’uccisione intenzionale di una donna a causa del suo genere, commessa da un partner o da un familiare in nome della cultura, del costume, della religione, della tradizione o del cosiddetto “onore” o per altre ragioni; 2° Il femminicidio non intimo è l’omicidio intenzionale di una donna a causa del suo genere commesso da una terza persona. È: – commesso principalmente in un contesto di sfruttamento sessuale; – commesso principalmente in un contesto di tratta o traffico di esseri umani; – commesso principalmente in un contesto di violenza sessuale; – commesso principalmente come parte di un continuum di violenza legato a una relazione di potere ineguale o a un abuso di potere da parte dell’autore sulla vittima; – commesso in un altro contesto, a causa del genere della vittima. 3° Il femminicidio indiretto è l’omicidio involontario di una donna a causa del suo genere quando si tratta della morte di una donna risultante da pratiche che causano danno alle donne, o del suicidio di una donna che risulta: – principalmente da violenza tra partner o in un contesto familiare; – mutilazione genitale femminile primaria; – o violenza commessa da terzi. § 3. L’omicidio di genere è l’omicidio di una persona a causa del suo sesso, o la morte di una persona derivante da pratiche di genere dannose per queste persone, ad eccezione degli omicidi o delle morti di cui al paragrafo 2 della presente disposizione. Gli omicidi di genere sono intimi, non intimi o indiretti e sono definiti in conformità con il § 2, paragrafo 2, punti da 1° a 3°. § 4. Si ha tentato femminicidio intimo o non intimo o omicidio di genere quando la determinazione a commettere i comportamenti di cui ai § 2, punti da 1° a 2° e § 3 è stata manifestata da atti esterni che costituiscono un inizio di esecuzione e che sono stati solo sospesi o non hanno avuto effetto per circostanze indipendenti dalla volontà dell’autore”.

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