1. La vicenda, l’apparente scandalo processuale ed alcune considerazioni preliminari; 2. Il decreto di citazione del responsabile civile e l’ordinanza di rigetto della richiesta di esclusione; 3. Considerazioni in tema di concorso colposo nel delitto doloso e refluenze sulla necessaria identificazione di una condotta di reato ai fini della citazione del responsabile civile; 4. La prova indisponibile alla cui formazione il responsabile civile non ha partecipato.
1. La vicenda, l’apparente scandalo processuale ed alcune considerazioni preliminari
È balzato agli onori delle cronache il recente contenuto di un verbale dell’udienza preliminare relativa al procedimento per la tristemente nota “strage di Fidene”, nell’ambito del quale ad un soggetto vengono contestate plurime ipotesi di omicidio pluriaggravato e di lesioni personali quali conseguenze di altro delitto perpetrate a seguito dell’avvenuta sottrazione, da un poligono di tiro, di una pistola Glok (da qui le ulteriori contestazioni di appropriazione indebita e di violazione di disposizioni in materia di armi).
L’udienza preliminare vede imputato un unico soggetto poiché gli altri due originari accusati, cui vengono contestate violazioni di natura omissiva in termini causalmente rilevanti ai fini della perpetrazione delle condotte più gravi, hanno scelto di rinunciare all’udienza preliminare ed essere giudicati con rito immediato, scelta, questa, evidentemente funzionale ad escludere un’altrimenti rischiosa (tanto in termini strettamente processuali, quanto al fine di evitare la formulazione di domande risarcitorie da parte di numerose parti civili) associazione con il principale imputato.
Fin qui, processualmente parlando, nulla di strano.
L’immancabile eco mediatica della vicenda, tuttavia, ha consentito la diffusione, mediante pubblicazione, di un verbale di udienza preliminare – che, a quanto pare, ha destato profondo sdegno nell’opinione pubblica e commenti assai poco commendevoli da parte dei difensori di alcune parti civili – da cui risulta che l’Avvocatura dello Stato, quale procuratore ex lege del Ministero dell’Interno e del Ministero della Difesa, abbia formulato le proprie conclusioni nei termini che seguono: “insiste nell’istanza già formulata alla scorsa udienza e chiede sentenza di non luogo a procedere”.
La notizia sembra aver fatto ancora più scalpore poiché il difensore dell’imputato, sempre per quanto è possibile leggere dal verbale, nella medesima occasione ha chiesto l’emissione del decreto che dispone il giudizio – si noti, al riguardo, che il dibattimento è il luogo in cui fisiologicamente l’imputato ha maggiori prerogative di natura istruttoria nonché la possibilità di sollecitare il giudice ad assumere prove super partes, per cui la difesa può senz’altro, senza che ciò possa apparire come un’ammissione di responsabilità, avere interesse alla sua instaurazione – e poiché il procuratore di un altro soggetto citato come responsabile civile, che aveva rassegnato le proprie conclusioni subito prima dell’Avvocato dello Stato, si sarebbe limitato ad insistere nella richiesta di esclusione precedentemente formulata dinanzi allo stesso giudice[1].
Occorre fare un passo indietro al fine di comprendere, come potrà sembrare molto più chiaro all’esito dell’analisi del provvedimento precedentemente emesso dal Giudice dell’Udienza Preliminare, che le conclusioni dell’Avvocatura dello Stato, per quanto possano sembrare apparentemente poco felici – ma questo, con tutto il doveroso rispetto, non è di immediata comprensione da parte dei non addetti ai lavori o senza codice alla mano – appaiono tecnicamente corrette.
Sul punto, ed incidentalmente, appare doveroso tenere a mente le modalità e le scansioni che gli artt. 86 ed 87 c.p.p. identificano ai fini della formulazione della richiesta di esclusione del responsabile civile o dell’emissione di un provvedimento di esclusione d’ufficio di quest’ultimo.
Come noto, la richiesta di estromissione può essere formulata dal responsabile civile che non sia intervenuto volontariamente tanto in ragione della insussistenza dei requisiti per la citazione quanto allorché gli elementi di prova raccolti prima della citazione possano recare pregiudizio alla sua difesa nelle prospettiva dell’efficacia extrapenale del giudicato di condanna nel giudizio per il risarcimento del danno od in altri giudizi, civili o amministrativi.
I termini per la formulazione della richiesta, esplicitamente identificati a pena di decadenza, coincidono con il momento degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti nell’udienza preliminare o nel dibattimento; nello stesso senso si pone l’ulteriore previsione, contenuta nell’art. 87 c.p.p., per cui il giudice può disporre d’ufficio l’esclusione del responsabile civile fino a che non sia dichiarato aperto il dibattimento di primo grado.
Al di fuori di queste due occasioni, pertanto, il responsabile civile non può chiedere di essere escluso.
Proprio in ragione di ciò è stato riconosciuto che qualora le prove, alla cui formazione il responsabile civile non ha partecipato, siano state acquisite successivamente all’apertura del dibattimento, questi, non potendo più domandare la sua esclusione in quanto decaduto dal termine di cui all’art. 86, co. 3, c.p.p., potrà solamente dedurre la nullità della citazione e, se del caso, degli atti dipendenti[2].
Occorre poi tenere a mente che due soli sono i possibili provvedimenti che, ai sensi dell’art. 424 c.p.p., il giudice dell’udienza preliminare può emettere a seguito della formulazione delle conclusioni delle parti qualora non ritenga doveroso disporre un’integrazione investigativa o assumere d’ufficio prove che possano apparire necessarie ai fini dell’emissione di una pronuncia di proscioglimento: la sentenza di non luogo a procedere ovvero il decreto che dispone il giudizio. Tertium non datur.
Ciò significa, ancora una volta, che in termini del tutto coincidenti, le parti, allorché invitate a formulare le proprie conclusioni nell’udienza preliminare, non dovrebbero poter chiedere qualcosa di diverso dall’emissione del decreto che dispone il giudizio o della sentenza di non luogo a procedere.
Se, dunque, può destare scalpore, per i non addetti ai lavori, che un soggetto citato come responsabile civile – per quanto dinanzi ad un fatto apparentemente gravissimo in relazione al quale sembrano essere stati acquisiti elementi a carico del tutto univoci – chieda l’emissione di una sentenza di non luogo a procedere, guardando la vicenda in termini tecnici tale richiesta, a ben vedere, perde il suo presunto carattere di anomalia.
Quanto precede vale a prescindere da chi sia il responsabile civile, che, quand’anche costituito sotto forma di Ente Pubblico, nutre un interesse processuale diverso rispetto a quello del Pubblico Ministero, ossia quello di contestare la propria responsabilità civile ex reato.
Vale altresì, ed a maggior ragione, allorché, come nel caso di specie, ci si trovi di fronte ad una citazione del responsabile civile quanto mai atipica, ovvero, come vedremo, disposta non sulla scorta degli ordinari parametri codicistici, per il fatto attribuito all’imputato ed in ragione dei ben noti criteri di imputazione della responsabilità civile per fatto altrui, bensì alla luce dell’identificazione, in capo agli enti collettivi pubblici, di un’autonoma fattispecie di responsabilità colposa che, tuttavia, non discende in termini diretti da un comportamento contestato ad alcun imputato, ed alla quale, quindi, proprio in ragione della sua autonomia rispetto al fatto dell’imputato, in sé considerato, si riferisce la formulazione della richiesta di non luogo a procedere.
Si noti, a tal riguardo, che nel procedimento in questione non è destinatario di accuse da parte del Pubblico Ministero alcun soggetto facente parte delle articolazioni territoriali o centrali dei Ministeri dell’Interno e della Difesa: oltre al soggetto cui vengono contestati i reati prodromici alla perpetrazione dei plurimi omicidi e delle lesioni, nonché questi ultimi, nel procedimento – ma non, comunque, in questa udienza preliminare – sono coinvolti altri due soli imputati, che hanno chiesto il giudizio immediato e che, in ogni caso, non appartengono ad alcuna Pubblica Amministrazione.
I due rappresentanti dello Stato, in sostanza, non hanno fatto nulla di più che il proprio dovere, seguendo il proprio interesse di parte: d’altronde, nessuno si scandalizza quando l’Avvocatura dello Stato, intervenendo dinanzi alla Corte Costituzionale, conclude istituzionalmente, anche a fronte di disposizioni che appaiono manifestamente incoerenti con la Costituzione o lesive di diritti fondamentali, per il mantenimento in vigore dello status quo normativo.
Non si riesce a comprendere, allora, dove risieda il denunciato corto circuito tra gli Organi dello Stato[3].
2. Il decreto di citazione del responsabile civile e l’ordinanza di rigetto della richiesta di esclusione
2.1. Con un primo decreto di citazione dei responsabili civili[4] il GUP del Tribunale di Roma citava, per quanto di interesse, il Ministero della Difesa ed il Ministero dell’Interno, oltre che la Sezione di Roma del Tiro a Segno nazionale e l’Unione italiana tiro a segno “per l’affermazione di responsabilità civile in solido con l’imputato o secondo il proprio titolo di responsabilità”, rappresentando che “il titolo di responsabilità, consistente in una omessa ed incongrua attivazione, da parte degli enti sopra menzionati, dei poteri di vigilanza sull’esercizio di un’attività intrinsecamente pericolosa, discende” dalle disposizioni di legge richiamate dalle parti civili nella richiesta di citazione “e si sostanzia quale fattore causale concorrente con la condotta” ascritta all’imputato.
Rispetto alla legittimazione passiva in capo al Ministero della Difesa, le parti civili sottolineavano che l’Unione italiana tiro a segno – ossia un soggetto di cui era già stata chiesta la citazione come responsabile civile – è sottoposta alla vigilanza del Ministro della Difesa, che ne approva lo statuto e ne nomina i componenti del Consiglio Direttivo ed i revisori dei conti e che risulta aver approvato, in particolare, il regolamento d’uso del poligono di Roma, circostanze dalle quali discenderebbe, in tesi, l’esistenza di un dovere di vigilanza in capo al citato Dicastero.
Da ciò discenderebbe un duplice profilo di responsabilità, un primo consistente nel negligente esercizio della funzione di predisporre idonee misure già nelle piantine di progettazione/adattamento dei luoghi di esercizio del tiro a segno ed un secondo discendente dall’omesso controllo – potremmo dire “di secondo grado” – sulle strutture e sull’organizzazione delle medesime anche in un momento successivo alla predisposizione dei progetti, “creando – in tal modo – l’antecedente logico della condotta delittuosa”.
Quanto, invece, al Ministero dell’Interno, la sua responsabilità civile discenderebbe dalla sussistenza anche in capo ad esso di un dovere di vigilanza nei confronti dell’Unione italiana tiro a segno e delle sue articolazioni territoriali, dalla competenza dello stesso in materia di pubblica sicurezza e, più in generale, sulla disciplina della disponibilità e dell’uso delle armi per i privati ,nonché dai poteri a tal uopo esistenti in capo alla Prefettura quale articolazione territoriale “inferiore gerarchico” del Ministero.
2.2. Invitati a costituirsi come responsabili civili, i predetti Ministeri, mediante un Avvocato dello Stato, comparivano in udienza e svolgevano delle considerazioni finalizzate a sostenere la richiesta di esclusione degli stessi dal procedimento.
In particolare, veniva rappresentato che nell’ambito delle indagini preliminari erano stati svolti degli accertamenti tecnici irripetibili ex art. 360 c.p.p., senza la partecipazione dei responsabili civili, consistenti nell’esecuzione di due consulenze medico legali e di un’analisi di tipo informatico sui dispositivi in uso al principale imputato.
Da ciò sarebbe dovuta discendere l’esclusione – verrebbe da dire “in automatico” – dei predetti esistendo, al riguardo, un’unanime interpretazione della giurisprudenza di legittimità della previsione di cui al comma 2 dell’art. 86 c.p.p. secondo cui, a fronte dell’esistenza di accertamenti che vengono necessariamente acquisiti al fascicolo del dibattimento ex art. 431 c.p.p. quali atti irripetibili, il giudice del merito non può valutarne la concreta incidenza sull’eventuale decisione in tema di responsabilità civile e deve quindi, per ciò solo, emettere un provvedimento di esclusione[5].
A tal riguardo, chi scrive fa notare che prova (seppur empirica) di ciò si trae, tra l’altro, dalla sempre maggior frequenza di casi in cui i Pubblici Ministeri invitano a partecipare agli accertamenti tecnici ex art. 360 c.p.p. i possibili responsabili civili mediante una loro capziosa iscrizione come persone offese[6] nonché dai provvedimenti con cui i giudici per le indagini preliminari citano a partecipare all’incidente probatorio coloro che, in caso di esercizio dell’azione penale e di costituzione di parte civile, potrebbero essere chiamati a costituirsi come tali, con ciò sostanzialmente riconoscendoli come tali ante causam[7].
A quanto precede l’Avvocatura dello Stato aggiungeva una serie di considerazioni che sembrano idonee a legittimare la collocazione della vicenda che ci occupa in un pericoloso trend di spettacolarizzazione del processo penale da cui discende l’inclusione, all’interno delle aule di giustizia – e ciò vale soprattutto in casi giudiziari di interesse giornalistico – di istanze del tutto estranee a quelle previste dal codificatore[8].
Il vero elemento sostanziale della richiesta di esclusione dei Ministeri nasceva, infatti, dalla constatazione per cui la citazione era avvenuta non sulla scorta di un fatto che era loro attribuito in ragione di una fictio legata alle previsioni civilistiche che prevedono la responsabilità dei padroni e dei committenti per il fatto illecito dei loro domestici e commessi, bensì in ragione dell’attribuzione, in capo ai predetti, di un autonomo titolo di responsabilità colposa derivante dalla mancata vigilanza su un’attività – l’esercizio di un tiro a segno – che, seppur lecita, è intrinsecamente pericolosa e, quindi, è accompagnata da una presunzione di colpa.
Il punto di partenza delle considerazioni dell’Avvocatura è rappresentato da quanto previsto dal comma 2 dell’art. 185 c.p., il quale – nel prevedere che ogni reato che abbia cagionato un obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui – postula l’unicità del fatto generatore di responsabilità.
Proprio in ragione di ciò, secondo la giurisprudenza di legittimità, “non può assumere la veste di responsabile civile, ex art. 185 cod. pen., il soggetto che, versando in colpa, abbia un titolo diretto di responsabilità per i danni lamentati dalla parte civile, in quanto la legittimazione del responsabile civile sussiste solo se nel processo penale è presente un imputato del cui operato egli debba rispondere per legge, ex art. 185 cod. pen.”[9] , né “quello che abbia un titolo indiretto non correlato alla posizione della persona fisica tratta a giudizio quale imputato”[10].
A ciò aggiungeva che l’eventuale coinvolgimento nel giudizio penale di un responsabile civile in ragione di un rimprovero allo stesso identificabile in termini di fatto proprio colposo impedirebbe a tale parte la possibilità di difendersi compiutamente dalla contestazione poiché, a ben vedere, non esisterebbe una contestazione di responsabilità civile estranea a quella dipendente dal reato.
2.3. Tali argomentazioni venivano ritenute non fondate dal GUP del Tribunale di Roma.
Tralasciando le ulteriori considerazioni spese nel corpo dell’ordinanza[11], non immediatamente rilevanti ai fini di questo scritto, ciò che merita richiamare è che il GUP, rispetto al tema dell’avvenuta esecuzione di attività di accertamento tecnico irripetibile, rappresentava che l’eccezione sarebbe stata effettivamente fondata qualora non fosse stata “paralizzata”dalla rappresentazione, esplicitata dall’Ufficio del Pubblico Ministero, per cui questi non avrebbe utilizzato gli esiti degli accertamenti irripetibili, non se ne sarebbe avvalso “ai fini della decisione” e non ne avrebbe chiesto “l’allegazione al fascicolo formato ex art. 431 c.p.p.”.
Basterà notare, per il momento, che le prove contenute nel fascicolo del Pubblico Ministero (prescindiamo, per un attimo, da che tipo di accertamenti si tratti) non colpite da inutilizzabilità non possono essere escluse dalla cognizione del Giudice dell’Udienza Preliminare e sono disponibili a tutte le parti, compresi i responsabili civili, ragione per cui possono (o devono) essere ammesse nell’eventuale dibattimento; che la Procura della Repubblica non dovrebbe assumere alcuna decisione, ma, al netto delle determinazioni che assumono la forma del decreto, di regola formula istanze o pareri e produce atti di parte e; che, ai sensi dell’art. 431 c.p.p., la volontà delle parti ai fini della formazione del fascicolo del dibattimento dovrebbe valere solo rispetto a ciò che è disciplinato dal comma 2 della medesima disposizione.
Per quanto attiene, invece, al tema della fonte della responsabilità civile, il giudicante affermava che “il modello di responsabilità per fatto altrui preclude effettivamente la possibilità di citare in giudizio in qualità di responsabile civile l’autore di una condotta propria, rilevante, quale antecedente causale, nella produzione del danno, dovendo quest’ultimo essere chiamato a rispondere unicamente per il fatto altrui. Tuttavia, tale assunto … deve in concreto misurarsi con i contenuti peculiari e con i criteri soggettivi di imputazione del reato contestato, sì che, ove non possa correttamente prevedersi l’attribuibilità soggettiva del fatto reato al responsabile civile, potrà conseguentemente prefigurarsi una sua legittima partecipazione al processo penale esclusivamente per rispondere del fatto altrui. È questa l’ipotesi ricorrente nel caso in trattazione, ove il responsabile civile, nei confronti del quale è possibile muovere una censura di omessa o incongrua vigilanza e, dunque, il rimprovero di aver dato causa ad una condotta omissiva colposa, non potrebbe rispondere, a titolo di colpa, del fatto reato ascritto all’imputato, stante l’inconfigurabilità nel nostro sistema del modello del concorso colposo nel reato doloso”.
Il titolo di responsabilità che ha determinato la citazione in giudizio dei Ministeri veniva quindi nuovamente esplicitato, in una successiva parte del provvedimento, mediante l’indicazione puntuale del “titolo normativo fondante l’astratta prospettazione della responsabilità civile scaturente dall’esercizio di attività intrinsecamente, per sua natura, pericolosa”: le connotazioni fattuali della vicenda, invero, ed in particolare “le circostanze di fatto che hanno reso tangibile una grave carenza del sistema di sicurezza da ricollegare … ad un grave deficit di vigilanza da parte dei soggetti per legge preposti al controllo”, “ben si attanagliano, in astratto, al titolo di responsabilità fondato, per le ragioni sopra illustrate, sul disposto dell’art. 2050 c.c.”.
Cercando, per quanto possibile, di sintetizzare: l’apparente o possibile responsabilità civile dei Ministeri discenderebbe, in termini sostanziali, dalla loro omessa vigilanza su un’attività pericolosa.
Tuttavia, in ragione della impossibilità di contestare al responsabile civile – ossia, si badi, ad un ente collettivo– il concorso colposo nell’omicidio volontario, sarebbe nondimeno possibile “recuperarlo” mediante la sua citazione nel giudizio penale sulla scorta di quel titolo di responsabilità che, se fosse stato possibile il concorso di persone con tipicità soggettiva eterogenea, sarebbe (presumibilmente?) divenuto oggetto di contestazione da parte del Pubblico Ministero poiché la condotta propria dei responsabili civili, su cui dovrebbe incombere un dovere di vigilanza, non avrebbe impedito l’assunzione di una condotta omissiva colposa che, a sua volta, avrebbe reso possibile l’efferato omicidio plurimo.
3. Considerazioni in tema di concorso colposo nel delitto doloso e refluenze sulla necessaria identificazione di una condotta di reato ai fini della citazione del responsabile civile
3.1. Un argomento menzionato nella più recente ordinanza, secondo il quale il nostro ordinamento non contemplerebbe il concorso colposo nel delitto doloso, merita un breve approfondimento.
Ciò, in particolare, poiché dall’esame delle posizioni della dottrina maggioritaria e della giurisprudenza più recente sulla materia è possibile cogliere degli spunti che consentono di ulteriormente confermare l’impossibilità, nel procedimento in questione, della citazione dei predetti responsabili civili in assenza di una esplicita contestazione, semmai di natura omissiva colposa, ad un determinato soggetto rispetto al quale possano essere chiamati a rispondere, a norme delle leggi civili, i due Ministeri.
Come noto, la dottrina maggioritaria ha sempre espresso la propria perplessità rispetto alla configurazione del concorso colposo nel delitto doloso sulla scorta di una serie di considerazioni, prime fra tutte la presenza di una norma, l’art. 42 c.p., che pone il principio generale – non derogabile nell’ambito della partecipazione di più soggetti al reato[12] – della necessità di un’espressa previsione di legge per ascrivere una responsabilità penale a titolo di colpa nonché l’esplicitazione, da parte dell’art. 113 c.p., della punibilità della “cooperazione nel delitto colposo”, con ciò escludendosi implicitamente la possibilità di ritenere ipotizzabile, in termini generali, una partecipazione colposa nel delitto volontario[13].
A tale argomento se ne aggiunge uno di tipo sistematico, che trae origine dalla constatazione per cui il legislatore ha identificato in termini diretti le ipotesi di concorso colposo nel delitto doloso – quali l’agevolazione colposa nella distruzione o sabotaggio di opere militari (artt. 253 e 254 c.p.) o nello spionaggio di notizie di cui è stata vietata la divulgazione (artt. 258 e 259 c.p.) così come l’agevolazione colposa di evasione (art. 387 c.p.) – circostanza dalla quale discenderebbe il numero chiuso di esse[14].
La questione, poi, determina il coinvolgimento di argomenti più profondi rispetto alla reale funzione dell’art. 113 c.p., se – come ritiene la giurisprudenza prevalente[15] – incriminatrice oppure di mera disciplina[16], funzionale alla identificazione, in via generale, delle condotte cautelarmente orientate all’applicazione di un modello comportamentale modale proiettato in termini di precauzione generalizzata[17].
Appare a chi scrive che la non configurabilità della partecipazione colposa nel delitto doloso non possa discendere da un impedimento di natura dogmatica.
Ciò per la semplice considerazione per cui se il nostro ordinamento ammette delle forme, seppur specifiche, di siffatta forma di responsabilità, di natura autonoma e non ancillare rispetto a quella dell’agente principale, significa che – compatibilmente con il requisito della rappresentabilità dell’altrui condotta illecita del terzo in termini non meramente astratti od impliciti[18], necessario al rispetto del principio di colpevolezza[19] – essa è ipotizzabile ma è sottoposta, proprio in ragione della sua complessità concettuale e della sua natura essenzialmente eccezionale, ad una rigorosa applicazione del principio di legalità e tassatività della legge penale.
In ogni caso, come riconosciuto dai più recenti arresti giurisprudenziali, l’esclusione generalizzata del concorso colposo nel delitto doloso non costituisce un pericolo di natura politico criminale poiché, a ben vedere, essa non determina alcuna preclusione rispetto alla possibile imputazione di responsabilità a titolo monosoggettivo.
Nella prospettiva dell’esclusione, come anticipato, si muoveva l’interpretazione tradizionale della Suprema Corte, che, fino alla fine degli anni ’90, negava la configurabilità del concorso colposo nel delitto doloso in ragione della non frazionabilità, da un punto di vista strettamente dogmatico, della natura unitaria del concorso di persone salve le espresse deroghe previste dal legislatore[20].
A partire dal 2002 tale orientamento veniva accantonato nell’ambito di alcuni procedimenti in cui veniva contestato il concorso colposo di professionisti di area sanitaria nelle condotte violente di loro pazienti – tema che potrebbe nuovamente tornare caldo rispetto ad un recente fatto di cronaca[21] – o di soggetti ai quali avevano permesso (rectius, non avevano impedito) l’ottenimento del porto d’armi: ciò sulla scorta dell’assunto secondo cui il dolo e la colpa si differenzierebbero sulla base di un parametro esclusivamente quantitativo[22].
Da quanto precede discendeva, da una parte, la soddisfazione della necessità di un’incriminabilità a titolo di colpa ex art. 42 comma 2 c.p. dalla identificazione, in parte speciale, di una determinata fattispecie colposa applicabile alla condotta monosoggettiva e, dall’altra, e di conseguenza, che l’art. 113 c.p. non costituiva un ostacolo alla configurabilità del concorso colposo in qualsiasi tipo di delitto[23].
Un significativo distacco da tale impostazione si è quindi fatta largo in tempi più recenti grazie ad una pronuncia[24] – anch’essa, come le precedenti, della Quarta Sezione – avente ad oggetto una vicenda in cui erano state originariamente contestate plurime condotte di cooperazione colposa nel comportamento delittuoso di un soggetto che, dopo aver ottenuto il rinnovo del porto di fucile per uso sportivo, aveva fatto ingresso agli uffici della Regione Umbria, aveva ucciso due dipendenti regionali e si era poi suicidato.
Orbene, la Corte di Cassazione, sulla scorta della riconosciuta diversità strutturale tra la fattispecie dolosa e quella colposa (e, dunque, anche sulla differente consistenza dei due elementi soggettivi), da una parte riconosceva la configurabilità del concorso doloso nella condotta colposa del terzo, tipicamente realizzata mediante una strumentalizzazione dell’altrui mancanza involontaria, mentre dall’altra escludeva, in ossequio al principio di legalità ed al divieto di analogia in malam partem, la possibilità di tipizzare su base interpretativa fattispecie non previste dalla legge penale.
Tutto ciò, però, insegna la Suprema Corte, non ha come conseguenza l’esenzione da rimprovero di quei comportamenti antecedenti che hanno agevolato la perpetrazione del reato doloso, i quali, invero, possono assumere rilevanza, ex art. 41 c.p., in termini di condotte indipendenti ed idonee ad inserirsi nel decorso causale che si conclude, all’esito dell’incidenza di un ulteriore contegno volontario del terzo – di per sé non qualificabile in termini di causa sopravvenuta sola sufficiente a determinare l’evento – con l’evento delittuoso[25].
Quanto precede da una parte consente di apprezzare che l’ordinamento non intende lasciare vuoti di tutela penale – circostanza che, sebbene socialmente sostenibile, porta con sé il rischio di un ricorso generalizzato alla criminalizzazione di sfere di illecito che potrebbero essere sanzionate mediante risposte pubblicistiche di altro tipo – ma, dall’altra, impedisce di ritenere che nel processo penale, in ragione della inammissibilità di esecuzione di salti logico-giuridici, la responsabilità, qualunque essa sia, possa prescindere dalla identificazione di una condotta umana potenzialmente qualificabile in termini di reato e quindi meritevole di sanzione penalistica.
3.2. Ed allora anche la responsabilità civile da reato postula la contemporanea necessaria presenza di: i) un fatto di reato; ii) un imputato per quel fatto di reato; iii) una disposizione di legge civile[26] che preveda la produzione di una fattispecie di responsabilità in capo ad un terzo estraneo all’illecito (con un’apparente assimilazione alla responsabilità amministrativa degli enti, la cui produzione postula la commissione di un reato presupposto da parte di una persona fisica e di una carenza di natura preventiva, qualificata in termini di colpa di organizzazione, in capo all’ente collettivo)[27].
Solo mediante la contestuale presenza di questi tre elementi – ma, in particolar modo, alla luce di un medesimo fatto generatore di responsabilità, ossia quello ascritto all’imputato nell’atto di contestazione predisposto dalla Pubblica Accusa – sarà possibile coinvolgere nel processo penale, in cui si discute di un reato, anche un soggetto che deve rispondere per i danni cagionati da quello specifico fatto attribuito a quello specifico imputato.
Non dovrebbe essere ammissibile, allora, nel giudizio penale– nemmeno profittando di un caso eclatante nella sua gravità e, quindi, di un’eco mediatica che indubbiamente sostiene le ragioni (per carità, più che legittime e fondate) delle parti civili nonché di un imputato che, secondo quanto è possibile dedurre dai commenti scandalistici menzionati in precedenza, potrebbe addirittura “meritarsi” che nei suoi confronti le regole processuali vengano meno – realizzare alcuna scorciatoia mediante la quale formulare un’azione che dovrebbe essere rivolta alla competente Autorità in sede civile, dinanzi alla quale è ben possibile articolare la domanda mediante una massima libertà di allegazione ed argomentazione e, dunque, prescindendo dall’esistenza di una responsabilità risarcitoria derivante da reato di una singola persona fisica.
La contestazione di responsabilità civile della vicenda che ci occupa, peraltro, non discendendo da alcuna Accusa mossa ad alcun individuo – per lo meno in questo procedimento – non sarebbe in ogni caso, come rappresentato dall’Avvocatura di Stato, compiutamente descritta.
A tale argomento potrebbe replicarsi che essa potrebbe discendere dalla formulazione del decreto di citazione del responsabile civile.
Tuttavia il provvedimento disciplinato dall’art. 83 c.p.p., proprio perché nell’intenzione del legislatore si è di fronte ad una forma di responsabilità discendente in via automatica dall’applicazione della legge civile al fatto illecito (come avviene, anche in questa prospettiva, con la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche), è strutturalmente inidoneo a fornire una contestazione di natura civilistica.
In esso, infatti, non deve affatto essere contemplato il fatto generatore della responsabilità né identificata la specifica fonte normativa di quest’ultima (ad esempio se si tratta di una responsabilità rispetto al quale vige un particolare onere della prova), bensì soltanto le domande che sono fatte valere nei confronti del responsabile civile.
Rispetto ad esse, peraltro, la norma da ultimo citata non pretende, ancora, che siano specificate, così come avviene per la costituzione di parte civile, le ragioni che le giustificano[28] (agli effetti civili[29]), ossia che ne sia esplicitata la causa petendi: d’altronde, se il responsabile civile è tale per legge non è necessario né che la parte civile ricostruisca la fonte della sua responsabilità né che il responsabile civile possa avere interesse, per il sol fatto di aver ricevuto la citazione, a conoscere a che titolo la parte civile ha formulato una richiesta risarcitoria che nelle more non è stata dichiarata inammissibile dal giudice che procede.
L’accusa civilistica, allora, di fatto finirebbe per essere definita dal contenuto dell’atto di costituzione di parte civile, che però, a sua volta, ai sensi del comma 1 dell’art. 78 c.p.p., impone l’identificazione dell’imputato nei cui confronti viene esercitata l’azione civile, ossia di quel (solo) soggetto in ragione del cui (solo) comportamento può, ai sensi dell’art. 185 c.p., discendere, a norma delle leggi civili, la responsabilità civile di un soggetto estraneo al reato.
Tutto ciò consente di concludere, con la massima serenità – e senza volere, evidentemente, prendere posizione sul tema della responsabilità penale nel caso concreto – nel senso che l’azione civile in sede penale ha natura essenzialmente subordinata a quella propria del Pubblico Ministero e che, allo stesso modo, il coinvolgimento di soggetti in ulteriori posizioni processuali deve discendere, in ogni caso, dall’avvenuta formulazione di un’accusa nei confronti di una persona fisica dalla cui condotta possa discendere la responsabilità civile di un ente collettivo.
Non può esservi spazio, allora, all’interno del processo penale – che nella sua originaria impostazione, prima della proliferazione di posizioni processuali non strettamente ortodosse[30] o della previsione di nuove forme di responsabilità parapenalistiche, riguardava solo le persone fisiche – per un responsabile civile che sia chiamato a rispondere per una condotta omissiva propria ma, come tale, priva di contestazione penalistica ed organicamente attribuita ad una persona giuridica.
Si finirebbe, altrimenti, pur in assenza di un’idonea iniziativa da parte del Pubblico Ministero, per ammettere l’esistenza del concorso colposo “innominato” di una o più persone giuridiche nel delitto doloso della persona fisica e per attribuire al giudice penale la cognizione, peraltro limitata ai profili civilistici, di tale forma di responsabilità.
4. La prova indisponibile alla cui formazione il responsabile civile non ha partecipato
Né il provvedimento in questione pare aver meglio messo “a fuoco” la questione dell’incidenza della prova irripetibile sugli effetti extrapenali dell’eventuale giudicato di condanna, e ciò, in particolare, nella parte in cui ha riconosciuto al Pubblico Ministero il diritto potestativo di escludere dal materiale utilizzabile ai fini delle determinazioni proprie del giudice dell’udienza preliminare, ma ancor più della Corte d’Assise[31], quegli accertamenti tecnici irripetibili la cui sola esistenza è di per sé elemento ostativo alla citazione di un qualsivoglia responsabile civile.
Pur non essendo stato possibile consultare il provvedimento di formazione del fascicolo del dibattimento – in cui, come detto, il Pubblico Ministero dovrebbe non aver richiesto l’inserimento delle consulenze tecniche su accertamenti tecnici irripetibili – e nonostante oggi l’identificazione di ciò che vada ivi inserito si realizzi in contraddittorio e sia possibile, entro i termini dell’art. 491 c.p.p., argomentare in merito al suo contenuto, ciò che appare doveroso significare è che già nell’impostazione della legge delega, il Parlamento aveva previsto[32] “la immediata trasmissione al giudice del dibattimento del provvedimento che dispone il giudizio con gli atti relativi alla procedibilità e all’esercizio dell’azione civile, con quelli non ripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero e con quelli compiuti dal giudice negli incidenti probatori”.
L’art. 431 c.p.p., invero, appare chiarissimo nel realizzare una disciplina binaria rispetto al materiale da trasferire nel fascicolo del dibattimento: mentre tutto ciò che non è previsto dalla norma e non è inutilizzabile è rimesso al consenso tra le parti, ai sensi del comma 2, ciò che è elencato al comma 1 costituisce il contenuto minimo inderogabile del fascicolo del dibattimento.
Ciò si trare, oltre che dall’utilizzo dell’indicativo nella previsione normativa (“nel fascicolo del dibattimento sono raccolti…”), dall’unanime giurisprudenza di legittimità esistente in materia, che, ad esempio, rispetto all’atto di querela ha in più occasioni puntualizzato la sua necessaria acquisizione al fascicolo del dibattimento e la correlata assenza di disponibilità di esso in capo alle parti[33] e precisato persino che ne è legittima l’acquisizione, ai fini della verifica sulla procedibilità dell’azione penale, ancorché effettuata dopo la chiusura del dibattimento, in quanto, per la sua funzione tipica di impulso processuale, essa deve essere inserita nel fascicolo del dibattimento anche d’ufficio ed in qualsiasi momento[34].
In argomento, ancora, è stato affermato, più in generale, che “l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento degli atti tassativamente indicati nell’art. 431, comma 1, c.p.p. non è soggetta a preclusioni o decadenze e può avvenire anche nel giudizio di appello, se il giudice dell’udienza preliminare non la abbia disposta, ovvero, pur avendola disposta, ciò non sia materialmente avvenuto, in quanto non rientra nel potere dispositivo delle parti restringere l’ambito degli atti che per legge devono essere raccolti nell’incartamento processuale, tale approdo restando fermo anche se a ciò non abbia ovviato il giudice di primo grado”[35].
L’orientamento è stato anche recentemente sugellato da un intervento delle Sezioni Unite, che, chiamate a valutare la natura della nullità derivante dall’omessa notifica all’imputato dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, hanno affrontato incidentalmente la questione inerente il contenuto del fascicolo del dibattimento[36] e puntualizzato che, in relazione alla “elencazione espressa contenuta nell’art. 431 c.p.p. … la tassatività, della esclusione o inclusione, sia limitata agli atti di indagine con valenza probatoria”[37].
Proprio le prove irripetibili assunte nel corso delle indagini, e coerenti con la loro formazione in termini di contraddittorio (partecipativo od argomentativo), allora, non possono non essere acquisite al fascicolo del dibattimento, rendendo così processualmente irrilevante l’eventuale interesse di una delle parti al loro mantenimento nel fascicolo del Pubblico Ministero.
Rispetto agli accertamenti tecnici irripetibili, peraltro, il dato in giurisprudenza risultava ampiamente acquisito secondo l’orientamento che esclude l’allegazione al fascicolo del dibattimento di quelli disposti dal Pubblico Ministero ex art. 360 c.p.p. e la loro utilizzabilità – indipendentemente dall’eventuale escussione in sede dibattimentale del consulente tecnico all’uopo nominato – soltanto in ragione dell’avvenuta formulazione, da parte della difesa, della riserva di promozione dell’incidente probatorio[38], eventualità che tuttavia non consta nel caso che ci occupa.
Ciò rende evidente, a parere di chi scrive, che la rinuncia all’utilizzo in giudizio formulata dal Pubblico Ministero debba essere ritenuta – oltre che, quanto meno a prima vista, processualmente discutibile poiché non spiegabile altrimenti che con la volontà di “tirare dentro” (melius, non consentire l’esclusione de) i due Ministeri – del tutto inefficace, non essendo possibile, per alcuna delle parti, e fuori dai ben noti casi di inutilizzabilità, disporre dell’acquisizione al fascicolo del dibattimento degli atti di accertamento irripetibile.
La conclusione, a questo punto, dovrebbe discendere in termini piuttosto semplici dal rispetto delle previsioni di diritto positivo, sostanziale e processuale, che presiedono alla costituzione, in sede penale, di un contraddittorio civilistico allargato e disciplinano il profilo della legittimazione passiva in capo a soggetti privati estranei all’imputato che non hanno avuto la possibilità di partecipare alla formazione di prove che, poiché irripetibili, dovranno necessariamente entrare a far parte della originaria cognizione del giudice del dibattimento.
Ciò non vuol dire assolutamente che le vittime, primarie e secondarie, di questa macabra vicenda non potranno ottenere il giusto risarcimento da tutti i soggetti che, a vario titolo, hanno avuto un contributo nella produzione fenomenica dei delitti in questione.
Significa soltanto (salvo che il Pubblico Ministero identifichi delle autonome condotte illecite indipendenti e causalmente connesse agli omicidi ed alle lesioni e, pertanto, eserciti l’azione penale, in autonomo procedimento, nei confronti di soggetti legati da rappresentanza organica o da rapporto di lavoro tanto al Ministero della Difesa quanto al Ministero degli Interni) che la sede per ottenere giustizia per i danneggiati dovrà essere più propriamente quella civile, in cui potranno essere citati a rispondere soggetti pubblici e privati, individuali o collettivi, a prescindere dalla identificazione, in capo agli stessi, di una responsabilità penale.
Ciò che il provvedimento in esame restituisce al lettore, concludendo, al netto delle questioni più strettamente tecniche, è la tendenziale – ed a parere di chi scrive non ortodossa né ragionevole – trasformazione del processo penale in uno strumento funzionale alla soddisfazione di istanze compensative incoerenti con il suo obiettivo primario, che è e rimane, anche a prescindere dall’esigenza sociale di vedere aumentare le sedie occupate in aula, l’accertamento della responsabilità penale delle persone fisiche.
[1] Appare difficile che, specie nell’intervallo tra due udienze, una determinata decisione, per quanto sofferta o semmai anche nelle more riconosciuta come errata, possa essere, melius re perpensa, riformata dallo stesso magistrato. Ciò fa tornare alla mente la fortunata espressione, contenuta nell’ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale da parte del Tribunale di Ravenna, che, con ordinanza registrata al n. 80/2022 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, 1a Serie Speciale – Corte Costituzionale, n. 28 del 13 luglio 2022), nel promuovere questione di legittimità costituzionale – poi dichiarata non fondata dalla sentenza n. 91/2023 del 9 maggio 2023 – degli articoli 623, comma 1, lettera a) e 34 del codice di procedura penale, esplicitava il concetto della “forza della prevenzione insita nel condizionamento per aver egli (il giudice) adottato il provvedimento”.
[2] In argomento si v. SANTORO, Appunti sulla domanda risarcitoria al responsabile civile: un ‘tertium genus’ tra citazione ed intervento volontario?, in Archivio Penale 2015, 8.
[3] L’espressione è spesa in un articolo pubblicato su https://www.today.it/opinioni/strage-fidene-processo-campiti.html
[4] GUP Roma, 18 ottobre 2023, inedito.
[5] Ex plurimis Cass. Pen. Sez. IV, 14 dicembre 2018, n. 12870; Id., 28 aprile 2016, n. 39028.
[6] Ciò, tuttavia, lascia aperto il tema per cui l’interesse alla partecipazione e la finalità del soggetto in questione è, sulla scorta della qualificazione eseguita dall’Autorità, diametralmente opposto a quello che lo stesso soggetto giuridico avrebbe allorché fosse citato come responsabile civile.
[7] In argomento si v. BARDELLE, Il contraddittorio anticipato cautelativo con il responsabile civile nell’incidente probatorio in indagini preliminari: nota ad un recente provvedimento del Tribunale di Rovigo, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 7-8, che riguardava un caso di citazione del responsabile civile su richiesta dell’indagato; ancora più complesso sarebbe invece il caso della eventuale citazione del responsabile civile su richiesta di una persona offesa, ossia di un soggetto che non solo non ha formulato alcuna richiesta risarcitoria, ma che potrebbe anche decidere di esercitarla – semmai anche sulla scorta dell’esito dell’incidente probatorio – nella sua sede tradizionale.
[8] Si pensi al profluvio di enti che si costituiscono parte civile e che quotidianamente partecipano a processi per colpa medica o per incidenti sul lavoro, per episodi di disastro ecc., che, a stretto rigore, dovrebbero essere autorizzati a partecipare al dibattimento in numero di uno e previo consenso della persona offesa e legittimati ad assumere esclusivamente le iniziative processuali proprie della persona offesa.
[9] Cass. Pen. Sez. V, 3 febbraio 2015, n. 28157; nei medesimi termini, ex multis, Sez. VI, 27 settembre 2012, n. 41520.
[10] Cass., Pen. Sez. I, 3 febbraio 2022, n. 25158.
[11] GUP Roma, 27 novembre 2023, inedito.
[12] Così CONTINIELLO, Il concorso di persone con coefficiente psicologico omogeneo e eterogeneo. Una questione ancora controversa, in Giurisprudenza penale web 2020, 9, 10.
[13] CUPELLI, Il concorso colposo nel delitto doloso e la svolta “garantista” della Cassazione, in Giurisprudenza Italiana 2019, 1921. Sulla funzione di sbarramento svolta dall’art. 113 c.p. si v. MASSARO, Colpa penale e attività plurisoggettive, in La Legislazione Penale 2020, 21, in particolare nota 59. Contra SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione nel delitto colposo, Milano 1988, 236 ss.
[14] In argomento, tra gli altri, ORLANDI, Concorso nel reato e tipicità soggettiva eterogenea. Il concorso colposo nel reato doloso, in Archivio Penale 2020, 25 – 26.
[15] Cass. Pen. Sez. IV, 21 giugno 2012, n. 36280, in Cassazione Penale 2013, 3015; su di essa, ex multis, PIQUE’, La funzione estensiva della punibilità dell’articolo 113 c.p. in relazione ai delitti causali puri, in Cassazione Penale 2014, 882.
[16] In argomento, anche per i richiami dottrinali, MASSARO, Colpa penale e attività plurisoggettive, cit., 14 – 15.
[17] La “Commissione Grosso” aveva immaginato di abrogare la norma proprio in ragione della sua dubbia funzione incriminatrice, che risulterebbe comunque adempiuta dalla previsione generale della norma sul concorso di persone nel reato, dell’originalità della previsione in ambito europeo e dell’allora prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità che, fino agli inizi del nuovo millennio, escludeva la possibilità di configurare una partecipazione colposa nel delitto doloso.
[18] Sul punto MASSARO, loc. cit., 17.
[19] Peraltro nel caso del concorso colposo nel delitto doloso la rappresentabilità della condotta del terzo potrebbe implicare una differente qualificazione della condotta agevolatrice, che, evidentemente, finirebbe per integrare gli estremi del concorso doloso.
[20] Sul punto Cass. Pen. SS.UU., 3 febbraio 1990, n. 2720 e Sez. IV, 11 ottobre 1996, n. 9542.
[21] È di questi giorni la notizia dell’esistenza di un percorso psicologico da parte di Filippo Turetta, indagato per l’omicidio della giovane Giulia Cecchettin.
[22] Il fondamento normativo della teoria può identificarsi nel lavoro di MARINUCCI, Non c’è dolo senza colpa. Morte dell’ “imputazione oggettiva dell’evento” e trasfigurazione nella colpevolezza?, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale 1991, 3 ss.
[23] In questa prospettiva si muovevano Cass. Pen. Sez. IV, 11 marzo 2008, n. 10795; Id., 28 gennaio 2009, 4107.
[24] In questi termini Cass. Pen. Sez. IV, 14 febbraio 2019, n. 7032.
[25] Secondo un’ulteriore prospettiva, che sembra tuttavia non perfettamente aderente ai principi in materia di imputazione causale, non ci sarebbe bisogno nemmeno di invocare il concorso di cause indipendenti ma sarebbe possibile imputare una responsabilità diretta, di tipo colposo, in capo al soggetto che abbia violato un obbligo di natura cautelare, cui sarebbe quindi autonomamente imputabile l’evento commesso dal terzo: PIRAS, Svanisce il concorso colposo nel reato doloso, in Diritto Penale Contemporaneo 2019, 3, 9.
[26] Sull’esclusione della possibilità di far valere in sede penale una responsabilità civile di natura contrattuale, ex plurimis, Cass. Pen. Sez. IV, 27 maggio 2011, n. 38704.
[27] Deve escludersi che, anche in questo caso, tale forma di responsabilità possa essere assimilabile a quella del concorso di persone nel reato con coefficiente psicologico eterogeneo: in tal senso ROMANO, La responsabilità amministrativa degli enti, società o associazioni: profili generali, in Rivista delle Società 2002, 410.
[28] Sul differente contenuto si v., anche solo ai fini della ricostruzione dicotomica, ex multis, Cass. Civ. Sez. III, Ord. 1 aprile 2021, n. 9128; Id., 12 settembre 2019, n. 22729.
[29] Ossia, ai sensi dell’art. 163 comma 3 n. 4), “l’esposizione in modo chiaro e specifico dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni”.
[30] V. supra, nota 8.
[31] Nel caso di specie deve tenersi nella dovuta considerazione da una parte l’impossibilità di chiedere il giudizio abbreviato e dall’altra la considerazione per cui, in tal caso, il responsabile civile avrebbe dovuto essere automaticamente escluso ai sensi dell’art. 87 comma 3 c.p.p.
[32] Così si esprime la direttiva 57 della legge delega al Governo per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale (Legge 16 febbraio 1987, n. 81).
[33] Cass. Pen. Sez. V, 18 giugno 2004, n. 31741.
[34] Cass. Pen. Sez. III 9 marzo 2011, n. 26162; nei medesimi termini, ex multis, Sez. V, 21 dicembre 2005, n. 4036.
[35] Così Cass. Pen. Sez. III, 26 gennaio 2016, n. 12795 e Sez. II, 23 maggio 2014, n. 25688.
[36] In particolare, il tema era quello dell’inserimento, nel fascicolo del dibattimento, della documentazione relativa alle notifiche dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare allo scopo di consentire al giudice, nelle varie fasi e gradi del processo, di effettuare i doverosi controlli sulla correttezza della procedura di notificazione degli atti ed in particolare di quella relativa alla vocatio in iudicium dell’imputato.
[37] Cass. Pen. SS.UU., 17 febbraio 2017, n. 7697.
[38] “La consulenza tecnica medico legale ha natura di atto non ripetibile disciplinato dall’art. 360 cod. proc. pen. che, in mancanza della riserva di promozione di incidente probatorio, va inserito nel fascicolo per il dibattimento ex art. 431, lett. c), cod. proc. pen. ed è, pertanto, utilizzabile indipendentemente dall’esame dibattimentale del consulente, anche in relazione al fatto che l’accertamento tecnico non ripetibile è caratterizzato da una forma di contraddittorio che può estrinsecarsi o attraverso l’obbligo di avviso al difensore, oppure attraverso la facoltà, riconosciuta alla persona sottoposta alle indagini, di formulare riserva di promuovere incidente probatorio”: Cass. Pen. Sez. IV, 17 luglio 2019, n. 38583. “La consulenza tecnica balistica e quella tecnica medico legale hanno natura di atti non ripetibili che, in mancanza della riserva di promozione di incidente probatorio, vanno inseriti nel fascicolo per il dibattimento ex art. 431, lett. c e sono, pertanto, utilizzabili indipendentemente dall’esame del consulente”: così Cass. Pen. Sez. I, 11 febbraio 2010, n. 8082. In termini coincidenti, ancora, Sez. IV, 18 giugno 2013, n. 27954.
Basteranno le sedie? Preoccupazioni in tema di selezione del soggetto legittimato ad essere citato come responsabile civile e di indisponibilità della prova irripetibile
1. La vicenda, l’apparente scandalo processuale ed alcune considerazioni preliminari; 2. Il decreto di citazione del responsabile civile e l’ordinanza di rigetto della richiesta di esclusione; 3. Considerazioni in tema di concorso colposo nel delitto doloso e refluenze sulla necessaria identificazione di una condotta di reato ai fini della citazione del responsabile civile; 4. La prova indisponibile alla cui formazione il responsabile civile non ha partecipato.
1. La vicenda, l’apparente scandalo processuale ed alcune considerazioni preliminari
È balzato agli onori delle cronache il recente contenuto di un verbale dell’udienza preliminare relativa al procedimento per la tristemente nota “strage di Fidene”, nell’ambito del quale ad un soggetto vengono contestate plurime ipotesi di omicidio pluriaggravato e di lesioni personali quali conseguenze di altro delitto perpetrate a seguito dell’avvenuta sottrazione, da un poligono di tiro, di una pistola Glok (da qui le ulteriori contestazioni di appropriazione indebita e di violazione di disposizioni in materia di armi).
L’udienza preliminare vede imputato un unico soggetto poiché gli altri due originari accusati, cui vengono contestate violazioni di natura omissiva in termini causalmente rilevanti ai fini della perpetrazione delle condotte più gravi, hanno scelto di rinunciare all’udienza preliminare ed essere giudicati con rito immediato, scelta, questa, evidentemente funzionale ad escludere un’altrimenti rischiosa (tanto in termini strettamente processuali, quanto al fine di evitare la formulazione di domande risarcitorie da parte di numerose parti civili) associazione con il principale imputato.
Fin qui, processualmente parlando, nulla di strano.
L’immancabile eco mediatica della vicenda, tuttavia, ha consentito la diffusione, mediante pubblicazione, di un verbale di udienza preliminare – che, a quanto pare, ha destato profondo sdegno nell’opinione pubblica e commenti assai poco commendevoli da parte dei difensori di alcune parti civili – da cui risulta che l’Avvocatura dello Stato, quale procuratore ex lege del Ministero dell’Interno e del Ministero della Difesa, abbia formulato le proprie conclusioni nei termini che seguono: “insiste nell’istanza già formulata alla scorsa udienza e chiede sentenza di non luogo a procedere”.
La notizia sembra aver fatto ancora più scalpore poiché il difensore dell’imputato, sempre per quanto è possibile leggere dal verbale, nella medesima occasione ha chiesto l’emissione del decreto che dispone il giudizio – si noti, al riguardo, che il dibattimento è il luogo in cui fisiologicamente l’imputato ha maggiori prerogative di natura istruttoria nonché la possibilità di sollecitare il giudice ad assumere prove super partes, per cui la difesa può senz’altro, senza che ciò possa apparire come un’ammissione di responsabilità, avere interesse alla sua instaurazione – e poiché il procuratore di un altro soggetto citato come responsabile civile, che aveva rassegnato le proprie conclusioni subito prima dell’Avvocato dello Stato, si sarebbe limitato ad insistere nella richiesta di esclusione precedentemente formulata dinanzi allo stesso giudice[1].
Occorre fare un passo indietro al fine di comprendere, come potrà sembrare molto più chiaro all’esito dell’analisi del provvedimento precedentemente emesso dal Giudice dell’Udienza Preliminare, che le conclusioni dell’Avvocatura dello Stato, per quanto possano sembrare apparentemente poco felici – ma questo, con tutto il doveroso rispetto, non è di immediata comprensione da parte dei non addetti ai lavori o senza codice alla mano – appaiono tecnicamente corrette.
Sul punto, ed incidentalmente, appare doveroso tenere a mente le modalità e le scansioni che gli artt. 86 ed 87 c.p.p. identificano ai fini della formulazione della richiesta di esclusione del responsabile civile o dell’emissione di un provvedimento di esclusione d’ufficio di quest’ultimo.
Come noto, la richiesta di estromissione può essere formulata dal responsabile civile che non sia intervenuto volontariamente tanto in ragione della insussistenza dei requisiti per la citazione quanto allorché gli elementi di prova raccolti prima della citazione possano recare pregiudizio alla sua difesa nelle prospettiva dell’efficacia extrapenale del giudicato di condanna nel giudizio per il risarcimento del danno od in altri giudizi, civili o amministrativi.
I termini per la formulazione della richiesta, esplicitamente identificati a pena di decadenza, coincidono con il momento degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti nell’udienza preliminare o nel dibattimento; nello stesso senso si pone l’ulteriore previsione, contenuta nell’art. 87 c.p.p., per cui il giudice può disporre d’ufficio l’esclusione del responsabile civile fino a che non sia dichiarato aperto il dibattimento di primo grado.
Al di fuori di queste due occasioni, pertanto, il responsabile civile non può chiedere di essere escluso.
Proprio in ragione di ciò è stato riconosciuto che qualora le prove, alla cui formazione il responsabile civile non ha partecipato, siano state acquisite successivamente all’apertura del dibattimento, questi, non potendo più domandare la sua esclusione in quanto decaduto dal termine di cui all’art. 86, co. 3, c.p.p., potrà solamente dedurre la nullità della citazione e, se del caso, degli atti dipendenti[2].
Occorre poi tenere a mente che due soli sono i possibili provvedimenti che, ai sensi dell’art. 424 c.p.p., il giudice dell’udienza preliminare può emettere a seguito della formulazione delle conclusioni delle parti qualora non ritenga doveroso disporre un’integrazione investigativa o assumere d’ufficio prove che possano apparire necessarie ai fini dell’emissione di una pronuncia di proscioglimento: la sentenza di non luogo a procedere ovvero il decreto che dispone il giudizio. Tertium non datur.
Ciò significa, ancora una volta, che in termini del tutto coincidenti, le parti, allorché invitate a formulare le proprie conclusioni nell’udienza preliminare, non dovrebbero poter chiedere qualcosa di diverso dall’emissione del decreto che dispone il giudizio o della sentenza di non luogo a procedere.
Se, dunque, può destare scalpore, per i non addetti ai lavori, che un soggetto citato come responsabile civile – per quanto dinanzi ad un fatto apparentemente gravissimo in relazione al quale sembrano essere stati acquisiti elementi a carico del tutto univoci – chieda l’emissione di una sentenza di non luogo a procedere, guardando la vicenda in termini tecnici tale richiesta, a ben vedere, perde il suo presunto carattere di anomalia.
Quanto precede vale a prescindere da chi sia il responsabile civile, che, quand’anche costituito sotto forma di Ente Pubblico, nutre un interesse processuale diverso rispetto a quello del Pubblico Ministero, ossia quello di contestare la propria responsabilità civile ex reato.
Vale altresì, ed a maggior ragione, allorché, come nel caso di specie, ci si trovi di fronte ad una citazione del responsabile civile quanto mai atipica, ovvero, come vedremo, disposta non sulla scorta degli ordinari parametri codicistici, per il fatto attribuito all’imputato ed in ragione dei ben noti criteri di imputazione della responsabilità civile per fatto altrui, bensì alla luce dell’identificazione, in capo agli enti collettivi pubblici, di un’autonoma fattispecie di responsabilità colposa che, tuttavia, non discende in termini diretti da un comportamento contestato ad alcun imputato, ed alla quale, quindi, proprio in ragione della sua autonomia rispetto al fatto dell’imputato, in sé considerato, si riferisce la formulazione della richiesta di non luogo a procedere.
Si noti, a tal riguardo, che nel procedimento in questione non è destinatario di accuse da parte del Pubblico Ministero alcun soggetto facente parte delle articolazioni territoriali o centrali dei Ministeri dell’Interno e della Difesa: oltre al soggetto cui vengono contestati i reati prodromici alla perpetrazione dei plurimi omicidi e delle lesioni, nonché questi ultimi, nel procedimento – ma non, comunque, in questa udienza preliminare – sono coinvolti altri due soli imputati, che hanno chiesto il giudizio immediato e che, in ogni caso, non appartengono ad alcuna Pubblica Amministrazione.
I due rappresentanti dello Stato, in sostanza, non hanno fatto nulla di più che il proprio dovere, seguendo il proprio interesse di parte: d’altronde, nessuno si scandalizza quando l’Avvocatura dello Stato, intervenendo dinanzi alla Corte Costituzionale, conclude istituzionalmente, anche a fronte di disposizioni che appaiono manifestamente incoerenti con la Costituzione o lesive di diritti fondamentali, per il mantenimento in vigore dello status quo normativo.
Non si riesce a comprendere, allora, dove risieda il denunciato corto circuito tra gli Organi dello Stato[3].
2. Il decreto di citazione del responsabile civile e l’ordinanza di rigetto della richiesta di esclusione
2.1. Con un primo decreto di citazione dei responsabili civili[4] il GUP del Tribunale di Roma citava, per quanto di interesse, il Ministero della Difesa ed il Ministero dell’Interno, oltre che la Sezione di Roma del Tiro a Segno nazionale e l’Unione italiana tiro a segno “per l’affermazione di responsabilità civile in solido con l’imputato o secondo il proprio titolo di responsabilità”, rappresentando che “il titolo di responsabilità, consistente in una omessa ed incongrua attivazione, da parte degli enti sopra menzionati, dei poteri di vigilanza sull’esercizio di un’attività intrinsecamente pericolosa, discende” dalle disposizioni di legge richiamate dalle parti civili nella richiesta di citazione “e si sostanzia quale fattore causale concorrente con la condotta” ascritta all’imputato.
Rispetto alla legittimazione passiva in capo al Ministero della Difesa, le parti civili sottolineavano che l’Unione italiana tiro a segno – ossia un soggetto di cui era già stata chiesta la citazione come responsabile civile – è sottoposta alla vigilanza del Ministro della Difesa, che ne approva lo statuto e ne nomina i componenti del Consiglio Direttivo ed i revisori dei conti e che risulta aver approvato, in particolare, il regolamento d’uso del poligono di Roma, circostanze dalle quali discenderebbe, in tesi, l’esistenza di un dovere di vigilanza in capo al citato Dicastero.
Da ciò discenderebbe un duplice profilo di responsabilità, un primo consistente nel negligente esercizio della funzione di predisporre idonee misure già nelle piantine di progettazione/adattamento dei luoghi di esercizio del tiro a segno ed un secondo discendente dall’omesso controllo – potremmo dire “di secondo grado” – sulle strutture e sull’organizzazione delle medesime anche in un momento successivo alla predisposizione dei progetti, “creando – in tal modo – l’antecedente logico della condotta delittuosa”.
Quanto, invece, al Ministero dell’Interno, la sua responsabilità civile discenderebbe dalla sussistenza anche in capo ad esso di un dovere di vigilanza nei confronti dell’Unione italiana tiro a segno e delle sue articolazioni territoriali, dalla competenza dello stesso in materia di pubblica sicurezza e, più in generale, sulla disciplina della disponibilità e dell’uso delle armi per i privati ,nonché dai poteri a tal uopo esistenti in capo alla Prefettura quale articolazione territoriale “inferiore gerarchico” del Ministero.
2.2. Invitati a costituirsi come responsabili civili, i predetti Ministeri, mediante un Avvocato dello Stato, comparivano in udienza e svolgevano delle considerazioni finalizzate a sostenere la richiesta di esclusione degli stessi dal procedimento.
In particolare, veniva rappresentato che nell’ambito delle indagini preliminari erano stati svolti degli accertamenti tecnici irripetibili ex art. 360 c.p.p., senza la partecipazione dei responsabili civili, consistenti nell’esecuzione di due consulenze medico legali e di un’analisi di tipo informatico sui dispositivi in uso al principale imputato.
Da ciò sarebbe dovuta discendere l’esclusione – verrebbe da dire “in automatico” – dei predetti esistendo, al riguardo, un’unanime interpretazione della giurisprudenza di legittimità della previsione di cui al comma 2 dell’art. 86 c.p.p. secondo cui, a fronte dell’esistenza di accertamenti che vengono necessariamente acquisiti al fascicolo del dibattimento ex art. 431 c.p.p. quali atti irripetibili, il giudice del merito non può valutarne la concreta incidenza sull’eventuale decisione in tema di responsabilità civile e deve quindi, per ciò solo, emettere un provvedimento di esclusione[5].
A tal riguardo, chi scrive fa notare che prova (seppur empirica) di ciò si trae, tra l’altro, dalla sempre maggior frequenza di casi in cui i Pubblici Ministeri invitano a partecipare agli accertamenti tecnici ex art. 360 c.p.p. i possibili responsabili civili mediante una loro capziosa iscrizione come persone offese[6] nonché dai provvedimenti con cui i giudici per le indagini preliminari citano a partecipare all’incidente probatorio coloro che, in caso di esercizio dell’azione penale e di costituzione di parte civile, potrebbero essere chiamati a costituirsi come tali, con ciò sostanzialmente riconoscendoli come tali ante causam[7].
A quanto precede l’Avvocatura dello Stato aggiungeva una serie di considerazioni che sembrano idonee a legittimare la collocazione della vicenda che ci occupa in un pericoloso trend di spettacolarizzazione del processo penale da cui discende l’inclusione, all’interno delle aule di giustizia – e ciò vale soprattutto in casi giudiziari di interesse giornalistico – di istanze del tutto estranee a quelle previste dal codificatore[8].
Il vero elemento sostanziale della richiesta di esclusione dei Ministeri nasceva, infatti, dalla constatazione per cui la citazione era avvenuta non sulla scorta di un fatto che era loro attribuito in ragione di una fictio legata alle previsioni civilistiche che prevedono la responsabilità dei padroni e dei committenti per il fatto illecito dei loro domestici e commessi, bensì in ragione dell’attribuzione, in capo ai predetti, di un autonomo titolo di responsabilità colposa derivante dalla mancata vigilanza su un’attività – l’esercizio di un tiro a segno – che, seppur lecita, è intrinsecamente pericolosa e, quindi, è accompagnata da una presunzione di colpa.
Il punto di partenza delle considerazioni dell’Avvocatura è rappresentato da quanto previsto dal comma 2 dell’art. 185 c.p., il quale – nel prevedere che ogni reato che abbia cagionato un obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui – postula l’unicità del fatto generatore di responsabilità.
Proprio in ragione di ciò, secondo la giurisprudenza di legittimità, “non può assumere la veste di responsabile civile, ex art. 185 cod. pen., il soggetto che, versando in colpa, abbia un titolo diretto di responsabilità per i danni lamentati dalla parte civile, in quanto la legittimazione del responsabile civile sussiste solo se nel processo penale è presente un imputato del cui operato egli debba rispondere per legge, ex art. 185 cod. pen.”[9] , né “quello che abbia un titolo indiretto non correlato alla posizione della persona fisica tratta a giudizio quale imputato”[10].
A ciò aggiungeva che l’eventuale coinvolgimento nel giudizio penale di un responsabile civile in ragione di un rimprovero allo stesso identificabile in termini di fatto proprio colposo impedirebbe a tale parte la possibilità di difendersi compiutamente dalla contestazione poiché, a ben vedere, non esisterebbe una contestazione di responsabilità civile estranea a quella dipendente dal reato.
2.3. Tali argomentazioni venivano ritenute non fondate dal GUP del Tribunale di Roma.
Tralasciando le ulteriori considerazioni spese nel corpo dell’ordinanza[11], non immediatamente rilevanti ai fini di questo scritto, ciò che merita richiamare è che il GUP, rispetto al tema dell’avvenuta esecuzione di attività di accertamento tecnico irripetibile, rappresentava che l’eccezione sarebbe stata effettivamente fondata qualora non fosse stata “paralizzata”dalla rappresentazione, esplicitata dall’Ufficio del Pubblico Ministero, per cui questi non avrebbe utilizzato gli esiti degli accertamenti irripetibili, non se ne sarebbe avvalso “ai fini della decisione” e non ne avrebbe chiesto “l’allegazione al fascicolo formato ex art. 431 c.p.p.”.
Basterà notare, per il momento, che le prove contenute nel fascicolo del Pubblico Ministero (prescindiamo, per un attimo, da che tipo di accertamenti si tratti) non colpite da inutilizzabilità non possono essere escluse dalla cognizione del Giudice dell’Udienza Preliminare e sono disponibili a tutte le parti, compresi i responsabili civili, ragione per cui possono (o devono) essere ammesse nell’eventuale dibattimento; che la Procura della Repubblica non dovrebbe assumere alcuna decisione, ma, al netto delle determinazioni che assumono la forma del decreto, di regola formula istanze o pareri e produce atti di parte e; che, ai sensi dell’art. 431 c.p.p., la volontà delle parti ai fini della formazione del fascicolo del dibattimento dovrebbe valere solo rispetto a ciò che è disciplinato dal comma 2 della medesima disposizione.
Per quanto attiene, invece, al tema della fonte della responsabilità civile, il giudicante affermava che “il modello di responsabilità per fatto altrui preclude effettivamente la possibilità di citare in giudizio in qualità di responsabile civile l’autore di una condotta propria, rilevante, quale antecedente causale, nella produzione del danno, dovendo quest’ultimo essere chiamato a rispondere unicamente per il fatto altrui. Tuttavia, tale assunto … deve in concreto misurarsi con i contenuti peculiari e con i criteri soggettivi di imputazione del reato contestato, sì che, ove non possa correttamente prevedersi l’attribuibilità soggettiva del fatto reato al responsabile civile, potrà conseguentemente prefigurarsi una sua legittima partecipazione al processo penale esclusivamente per rispondere del fatto altrui. È questa l’ipotesi ricorrente nel caso in trattazione, ove il responsabile civile, nei confronti del quale è possibile muovere una censura di omessa o incongrua vigilanza e, dunque, il rimprovero di aver dato causa ad una condotta omissiva colposa, non potrebbe rispondere, a titolo di colpa, del fatto reato ascritto all’imputato, stante l’inconfigurabilità nel nostro sistema del modello del concorso colposo nel reato doloso”.
Il titolo di responsabilità che ha determinato la citazione in giudizio dei Ministeri veniva quindi nuovamente esplicitato, in una successiva parte del provvedimento, mediante l’indicazione puntuale del “titolo normativo fondante l’astratta prospettazione della responsabilità civile scaturente dall’esercizio di attività intrinsecamente, per sua natura, pericolosa”: le connotazioni fattuali della vicenda, invero, ed in particolare “le circostanze di fatto che hanno reso tangibile una grave carenza del sistema di sicurezza da ricollegare … ad un grave deficit di vigilanza da parte dei soggetti per legge preposti al controllo”, “ben si attanagliano, in astratto, al titolo di responsabilità fondato, per le ragioni sopra illustrate, sul disposto dell’art. 2050 c.c.”.
Cercando, per quanto possibile, di sintetizzare: l’apparente o possibile responsabilità civile dei Ministeri discenderebbe, in termini sostanziali, dalla loro omessa vigilanza su un’attività pericolosa.
Tuttavia, in ragione della impossibilità di contestare al responsabile civile – ossia, si badi, ad un ente collettivo– il concorso colposo nell’omicidio volontario, sarebbe nondimeno possibile “recuperarlo” mediante la sua citazione nel giudizio penale sulla scorta di quel titolo di responsabilità che, se fosse stato possibile il concorso di persone con tipicità soggettiva eterogenea, sarebbe (presumibilmente?) divenuto oggetto di contestazione da parte del Pubblico Ministero poiché la condotta propria dei responsabili civili, su cui dovrebbe incombere un dovere di vigilanza, non avrebbe impedito l’assunzione di una condotta omissiva colposa che, a sua volta, avrebbe reso possibile l’efferato omicidio plurimo.
3. Considerazioni in tema di concorso colposo nel delitto doloso e refluenze sulla necessaria identificazione di una condotta di reato ai fini della citazione del responsabile civile
3.1. Un argomento menzionato nella più recente ordinanza, secondo il quale il nostro ordinamento non contemplerebbe il concorso colposo nel delitto doloso, merita un breve approfondimento.
Ciò, in particolare, poiché dall’esame delle posizioni della dottrina maggioritaria e della giurisprudenza più recente sulla materia è possibile cogliere degli spunti che consentono di ulteriormente confermare l’impossibilità, nel procedimento in questione, della citazione dei predetti responsabili civili in assenza di una esplicita contestazione, semmai di natura omissiva colposa, ad un determinato soggetto rispetto al quale possano essere chiamati a rispondere, a norme delle leggi civili, i due Ministeri.
Come noto, la dottrina maggioritaria ha sempre espresso la propria perplessità rispetto alla configurazione del concorso colposo nel delitto doloso sulla scorta di una serie di considerazioni, prime fra tutte la presenza di una norma, l’art. 42 c.p., che pone il principio generale – non derogabile nell’ambito della partecipazione di più soggetti al reato[12] – della necessità di un’espressa previsione di legge per ascrivere una responsabilità penale a titolo di colpa nonché l’esplicitazione, da parte dell’art. 113 c.p., della punibilità della “cooperazione nel delitto colposo”, con ciò escludendosi implicitamente la possibilità di ritenere ipotizzabile, in termini generali, una partecipazione colposa nel delitto volontario[13].
A tale argomento se ne aggiunge uno di tipo sistematico, che trae origine dalla constatazione per cui il legislatore ha identificato in termini diretti le ipotesi di concorso colposo nel delitto doloso – quali l’agevolazione colposa nella distruzione o sabotaggio di opere militari (artt. 253 e 254 c.p.) o nello spionaggio di notizie di cui è stata vietata la divulgazione (artt. 258 e 259 c.p.) così come l’agevolazione colposa di evasione (art. 387 c.p.) – circostanza dalla quale discenderebbe il numero chiuso di esse[14].
La questione, poi, determina il coinvolgimento di argomenti più profondi rispetto alla reale funzione dell’art. 113 c.p., se – come ritiene la giurisprudenza prevalente[15] – incriminatrice oppure di mera disciplina[16], funzionale alla identificazione, in via generale, delle condotte cautelarmente orientate all’applicazione di un modello comportamentale modale proiettato in termini di precauzione generalizzata[17].
Appare a chi scrive che la non configurabilità della partecipazione colposa nel delitto doloso non possa discendere da un impedimento di natura dogmatica.
Ciò per la semplice considerazione per cui se il nostro ordinamento ammette delle forme, seppur specifiche, di siffatta forma di responsabilità, di natura autonoma e non ancillare rispetto a quella dell’agente principale, significa che – compatibilmente con il requisito della rappresentabilità dell’altrui condotta illecita del terzo in termini non meramente astratti od impliciti[18], necessario al rispetto del principio di colpevolezza[19] – essa è ipotizzabile ma è sottoposta, proprio in ragione della sua complessità concettuale e della sua natura essenzialmente eccezionale, ad una rigorosa applicazione del principio di legalità e tassatività della legge penale.
In ogni caso, come riconosciuto dai più recenti arresti giurisprudenziali, l’esclusione generalizzata del concorso colposo nel delitto doloso non costituisce un pericolo di natura politico criminale poiché, a ben vedere, essa non determina alcuna preclusione rispetto alla possibile imputazione di responsabilità a titolo monosoggettivo.
Nella prospettiva dell’esclusione, come anticipato, si muoveva l’interpretazione tradizionale della Suprema Corte, che, fino alla fine degli anni ’90, negava la configurabilità del concorso colposo nel delitto doloso in ragione della non frazionabilità, da un punto di vista strettamente dogmatico, della natura unitaria del concorso di persone salve le espresse deroghe previste dal legislatore[20].
A partire dal 2002 tale orientamento veniva accantonato nell’ambito di alcuni procedimenti in cui veniva contestato il concorso colposo di professionisti di area sanitaria nelle condotte violente di loro pazienti – tema che potrebbe nuovamente tornare caldo rispetto ad un recente fatto di cronaca[21] – o di soggetti ai quali avevano permesso (rectius, non avevano impedito) l’ottenimento del porto d’armi: ciò sulla scorta dell’assunto secondo cui il dolo e la colpa si differenzierebbero sulla base di un parametro esclusivamente quantitativo[22].
Da quanto precede discendeva, da una parte, la soddisfazione della necessità di un’incriminabilità a titolo di colpa ex art. 42 comma 2 c.p. dalla identificazione, in parte speciale, di una determinata fattispecie colposa applicabile alla condotta monosoggettiva e, dall’altra, e di conseguenza, che l’art. 113 c.p. non costituiva un ostacolo alla configurabilità del concorso colposo in qualsiasi tipo di delitto[23].
Un significativo distacco da tale impostazione si è quindi fatta largo in tempi più recenti grazie ad una pronuncia[24] – anch’essa, come le precedenti, della Quarta Sezione – avente ad oggetto una vicenda in cui erano state originariamente contestate plurime condotte di cooperazione colposa nel comportamento delittuoso di un soggetto che, dopo aver ottenuto il rinnovo del porto di fucile per uso sportivo, aveva fatto ingresso agli uffici della Regione Umbria, aveva ucciso due dipendenti regionali e si era poi suicidato.
Orbene, la Corte di Cassazione, sulla scorta della riconosciuta diversità strutturale tra la fattispecie dolosa e quella colposa (e, dunque, anche sulla differente consistenza dei due elementi soggettivi), da una parte riconosceva la configurabilità del concorso doloso nella condotta colposa del terzo, tipicamente realizzata mediante una strumentalizzazione dell’altrui mancanza involontaria, mentre dall’altra escludeva, in ossequio al principio di legalità ed al divieto di analogia in malam partem, la possibilità di tipizzare su base interpretativa fattispecie non previste dalla legge penale.
Tutto ciò, però, insegna la Suprema Corte, non ha come conseguenza l’esenzione da rimprovero di quei comportamenti antecedenti che hanno agevolato la perpetrazione del reato doloso, i quali, invero, possono assumere rilevanza, ex art. 41 c.p., in termini di condotte indipendenti ed idonee ad inserirsi nel decorso causale che si conclude, all’esito dell’incidenza di un ulteriore contegno volontario del terzo – di per sé non qualificabile in termini di causa sopravvenuta sola sufficiente a determinare l’evento – con l’evento delittuoso[25].
Quanto precede da una parte consente di apprezzare che l’ordinamento non intende lasciare vuoti di tutela penale – circostanza che, sebbene socialmente sostenibile, porta con sé il rischio di un ricorso generalizzato alla criminalizzazione di sfere di illecito che potrebbero essere sanzionate mediante risposte pubblicistiche di altro tipo – ma, dall’altra, impedisce di ritenere che nel processo penale, in ragione della inammissibilità di esecuzione di salti logico-giuridici, la responsabilità, qualunque essa sia, possa prescindere dalla identificazione di una condotta umana potenzialmente qualificabile in termini di reato e quindi meritevole di sanzione penalistica.
3.2. Ed allora anche la responsabilità civile da reato postula la contemporanea necessaria presenza di: i) un fatto di reato; ii) un imputato per quel fatto di reato; iii) una disposizione di legge civile[26] che preveda la produzione di una fattispecie di responsabilità in capo ad un terzo estraneo all’illecito (con un’apparente assimilazione alla responsabilità amministrativa degli enti, la cui produzione postula la commissione di un reato presupposto da parte di una persona fisica e di una carenza di natura preventiva, qualificata in termini di colpa di organizzazione, in capo all’ente collettivo)[27].
Solo mediante la contestuale presenza di questi tre elementi – ma, in particolar modo, alla luce di un medesimo fatto generatore di responsabilità, ossia quello ascritto all’imputato nell’atto di contestazione predisposto dalla Pubblica Accusa – sarà possibile coinvolgere nel processo penale, in cui si discute di un reato, anche un soggetto che deve rispondere per i danni cagionati da quello specifico fatto attribuito a quello specifico imputato.
Non dovrebbe essere ammissibile, allora, nel giudizio penale– nemmeno profittando di un caso eclatante nella sua gravità e, quindi, di un’eco mediatica che indubbiamente sostiene le ragioni (per carità, più che legittime e fondate) delle parti civili nonché di un imputato che, secondo quanto è possibile dedurre dai commenti scandalistici menzionati in precedenza, potrebbe addirittura “meritarsi” che nei suoi confronti le regole processuali vengano meno – realizzare alcuna scorciatoia mediante la quale formulare un’azione che dovrebbe essere rivolta alla competente Autorità in sede civile, dinanzi alla quale è ben possibile articolare la domanda mediante una massima libertà di allegazione ed argomentazione e, dunque, prescindendo dall’esistenza di una responsabilità risarcitoria derivante da reato di una singola persona fisica.
La contestazione di responsabilità civile della vicenda che ci occupa, peraltro, non discendendo da alcuna Accusa mossa ad alcun individuo – per lo meno in questo procedimento – non sarebbe in ogni caso, come rappresentato dall’Avvocatura di Stato, compiutamente descritta.
A tale argomento potrebbe replicarsi che essa potrebbe discendere dalla formulazione del decreto di citazione del responsabile civile.
Tuttavia il provvedimento disciplinato dall’art. 83 c.p.p., proprio perché nell’intenzione del legislatore si è di fronte ad una forma di responsabilità discendente in via automatica dall’applicazione della legge civile al fatto illecito (come avviene, anche in questa prospettiva, con la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche), è strutturalmente inidoneo a fornire una contestazione di natura civilistica.
In esso, infatti, non deve affatto essere contemplato il fatto generatore della responsabilità né identificata la specifica fonte normativa di quest’ultima (ad esempio se si tratta di una responsabilità rispetto al quale vige un particolare onere della prova), bensì soltanto le domande che sono fatte valere nei confronti del responsabile civile.
Rispetto ad esse, peraltro, la norma da ultimo citata non pretende, ancora, che siano specificate, così come avviene per la costituzione di parte civile, le ragioni che le giustificano[28] (agli effetti civili[29]), ossia che ne sia esplicitata la causa petendi: d’altronde, se il responsabile civile è tale per legge non è necessario né che la parte civile ricostruisca la fonte della sua responsabilità né che il responsabile civile possa avere interesse, per il sol fatto di aver ricevuto la citazione, a conoscere a che titolo la parte civile ha formulato una richiesta risarcitoria che nelle more non è stata dichiarata inammissibile dal giudice che procede.
L’accusa civilistica, allora, di fatto finirebbe per essere definita dal contenuto dell’atto di costituzione di parte civile, che però, a sua volta, ai sensi del comma 1 dell’art. 78 c.p.p., impone l’identificazione dell’imputato nei cui confronti viene esercitata l’azione civile, ossia di quel (solo) soggetto in ragione del cui (solo) comportamento può, ai sensi dell’art. 185 c.p., discendere, a norma delle leggi civili, la responsabilità civile di un soggetto estraneo al reato.
Tutto ciò consente di concludere, con la massima serenità – e senza volere, evidentemente, prendere posizione sul tema della responsabilità penale nel caso concreto – nel senso che l’azione civile in sede penale ha natura essenzialmente subordinata a quella propria del Pubblico Ministero e che, allo stesso modo, il coinvolgimento di soggetti in ulteriori posizioni processuali deve discendere, in ogni caso, dall’avvenuta formulazione di un’accusa nei confronti di una persona fisica dalla cui condotta possa discendere la responsabilità civile di un ente collettivo.
Non può esservi spazio, allora, all’interno del processo penale – che nella sua originaria impostazione, prima della proliferazione di posizioni processuali non strettamente ortodosse[30] o della previsione di nuove forme di responsabilità parapenalistiche, riguardava solo le persone fisiche – per un responsabile civile che sia chiamato a rispondere per una condotta omissiva propria ma, come tale, priva di contestazione penalistica ed organicamente attribuita ad una persona giuridica.
Si finirebbe, altrimenti, pur in assenza di un’idonea iniziativa da parte del Pubblico Ministero, per ammettere l’esistenza del concorso colposo “innominato” di una o più persone giuridiche nel delitto doloso della persona fisica e per attribuire al giudice penale la cognizione, peraltro limitata ai profili civilistici, di tale forma di responsabilità.
4. La prova indisponibile alla cui formazione il responsabile civile non ha partecipato
Né il provvedimento in questione pare aver meglio messo “a fuoco” la questione dell’incidenza della prova irripetibile sugli effetti extrapenali dell’eventuale giudicato di condanna, e ciò, in particolare, nella parte in cui ha riconosciuto al Pubblico Ministero il diritto potestativo di escludere dal materiale utilizzabile ai fini delle determinazioni proprie del giudice dell’udienza preliminare, ma ancor più della Corte d’Assise[31], quegli accertamenti tecnici irripetibili la cui sola esistenza è di per sé elemento ostativo alla citazione di un qualsivoglia responsabile civile.
Pur non essendo stato possibile consultare il provvedimento di formazione del fascicolo del dibattimento – in cui, come detto, il Pubblico Ministero dovrebbe non aver richiesto l’inserimento delle consulenze tecniche su accertamenti tecnici irripetibili – e nonostante oggi l’identificazione di ciò che vada ivi inserito si realizzi in contraddittorio e sia possibile, entro i termini dell’art. 491 c.p.p., argomentare in merito al suo contenuto, ciò che appare doveroso significare è che già nell’impostazione della legge delega, il Parlamento aveva previsto[32] “la immediata trasmissione al giudice del dibattimento del provvedimento che dispone il giudizio con gli atti relativi alla procedibilità e all’esercizio dell’azione civile, con quelli non ripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero e con quelli compiuti dal giudice negli incidenti probatori”.
L’art. 431 c.p.p., invero, appare chiarissimo nel realizzare una disciplina binaria rispetto al materiale da trasferire nel fascicolo del dibattimento: mentre tutto ciò che non è previsto dalla norma e non è inutilizzabile è rimesso al consenso tra le parti, ai sensi del comma 2, ciò che è elencato al comma 1 costituisce il contenuto minimo inderogabile del fascicolo del dibattimento.
Ciò si trare, oltre che dall’utilizzo dell’indicativo nella previsione normativa (“nel fascicolo del dibattimento sono raccolti…”), dall’unanime giurisprudenza di legittimità esistente in materia, che, ad esempio, rispetto all’atto di querela ha in più occasioni puntualizzato la sua necessaria acquisizione al fascicolo del dibattimento e la correlata assenza di disponibilità di esso in capo alle parti[33] e precisato persino che ne è legittima l’acquisizione, ai fini della verifica sulla procedibilità dell’azione penale, ancorché effettuata dopo la chiusura del dibattimento, in quanto, per la sua funzione tipica di impulso processuale, essa deve essere inserita nel fascicolo del dibattimento anche d’ufficio ed in qualsiasi momento[34].
In argomento, ancora, è stato affermato, più in generale, che “l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento degli atti tassativamente indicati nell’art. 431, comma 1, c.p.p. non è soggetta a preclusioni o decadenze e può avvenire anche nel giudizio di appello, se il giudice dell’udienza preliminare non la abbia disposta, ovvero, pur avendola disposta, ciò non sia materialmente avvenuto, in quanto non rientra nel potere dispositivo delle parti restringere l’ambito degli atti che per legge devono essere raccolti nell’incartamento processuale, tale approdo restando fermo anche se a ciò non abbia ovviato il giudice di primo grado”[35].
L’orientamento è stato anche recentemente sugellato da un intervento delle Sezioni Unite, che, chiamate a valutare la natura della nullità derivante dall’omessa notifica all’imputato dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, hanno affrontato incidentalmente la questione inerente il contenuto del fascicolo del dibattimento[36] e puntualizzato che, in relazione alla “elencazione espressa contenuta nell’art. 431 c.p.p. … la tassatività, della esclusione o inclusione, sia limitata agli atti di indagine con valenza probatoria”[37].
Proprio le prove irripetibili assunte nel corso delle indagini, e coerenti con la loro formazione in termini di contraddittorio (partecipativo od argomentativo), allora, non possono non essere acquisite al fascicolo del dibattimento, rendendo così processualmente irrilevante l’eventuale interesse di una delle parti al loro mantenimento nel fascicolo del Pubblico Ministero.
Rispetto agli accertamenti tecnici irripetibili, peraltro, il dato in giurisprudenza risultava ampiamente acquisito secondo l’orientamento che esclude l’allegazione al fascicolo del dibattimento di quelli disposti dal Pubblico Ministero ex art. 360 c.p.p. e la loro utilizzabilità – indipendentemente dall’eventuale escussione in sede dibattimentale del consulente tecnico all’uopo nominato – soltanto in ragione dell’avvenuta formulazione, da parte della difesa, della riserva di promozione dell’incidente probatorio[38], eventualità che tuttavia non consta nel caso che ci occupa.
Ciò rende evidente, a parere di chi scrive, che la rinuncia all’utilizzo in giudizio formulata dal Pubblico Ministero debba essere ritenuta – oltre che, quanto meno a prima vista, processualmente discutibile poiché non spiegabile altrimenti che con la volontà di “tirare dentro” (melius, non consentire l’esclusione de) i due Ministeri – del tutto inefficace, non essendo possibile, per alcuna delle parti, e fuori dai ben noti casi di inutilizzabilità, disporre dell’acquisizione al fascicolo del dibattimento degli atti di accertamento irripetibile.
La conclusione, a questo punto, dovrebbe discendere in termini piuttosto semplici dal rispetto delle previsioni di diritto positivo, sostanziale e processuale, che presiedono alla costituzione, in sede penale, di un contraddittorio civilistico allargato e disciplinano il profilo della legittimazione passiva in capo a soggetti privati estranei all’imputato che non hanno avuto la possibilità di partecipare alla formazione di prove che, poiché irripetibili, dovranno necessariamente entrare a far parte della originaria cognizione del giudice del dibattimento.
Ciò non vuol dire assolutamente che le vittime, primarie e secondarie, di questa macabra vicenda non potranno ottenere il giusto risarcimento da tutti i soggetti che, a vario titolo, hanno avuto un contributo nella produzione fenomenica dei delitti in questione.
Significa soltanto (salvo che il Pubblico Ministero identifichi delle autonome condotte illecite indipendenti e causalmente connesse agli omicidi ed alle lesioni e, pertanto, eserciti l’azione penale, in autonomo procedimento, nei confronti di soggetti legati da rappresentanza organica o da rapporto di lavoro tanto al Ministero della Difesa quanto al Ministero degli Interni) che la sede per ottenere giustizia per i danneggiati dovrà essere più propriamente quella civile, in cui potranno essere citati a rispondere soggetti pubblici e privati, individuali o collettivi, a prescindere dalla identificazione, in capo agli stessi, di una responsabilità penale.
Ciò che il provvedimento in esame restituisce al lettore, concludendo, al netto delle questioni più strettamente tecniche, è la tendenziale – ed a parere di chi scrive non ortodossa né ragionevole – trasformazione del processo penale in uno strumento funzionale alla soddisfazione di istanze compensative incoerenti con il suo obiettivo primario, che è e rimane, anche a prescindere dall’esigenza sociale di vedere aumentare le sedie occupate in aula, l’accertamento della responsabilità penale delle persone fisiche.
[1] Appare difficile che, specie nell’intervallo tra due udienze, una determinata decisione, per quanto sofferta o semmai anche nelle more riconosciuta come errata, possa essere, melius re perpensa, riformata dallo stesso magistrato. Ciò fa tornare alla mente la fortunata espressione, contenuta nell’ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale da parte del Tribunale di Ravenna, che, con ordinanza registrata al n. 80/2022 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, 1a Serie Speciale – Corte Costituzionale, n. 28 del 13 luglio 2022), nel promuovere questione di legittimità costituzionale – poi dichiarata non fondata dalla sentenza n. 91/2023 del 9 maggio 2023 – degli articoli 623, comma 1, lettera a) e 34 del codice di procedura penale, esplicitava il concetto della “forza della prevenzione insita nel condizionamento per aver egli (il giudice) adottato il provvedimento”.
[2] In argomento si v. SANTORO, Appunti sulla domanda risarcitoria al responsabile civile: un ‘tertium genus’ tra citazione ed intervento volontario?, in Archivio Penale 2015, 8.
[3] L’espressione è spesa in un articolo pubblicato su https://www.today.it/opinioni/strage-fidene-processo-campiti.html
[4] GUP Roma, 18 ottobre 2023, inedito.
[5] Ex plurimis Cass. Pen. Sez. IV, 14 dicembre 2018, n. 12870; Id., 28 aprile 2016, n. 39028.
[6] Ciò, tuttavia, lascia aperto il tema per cui l’interesse alla partecipazione e la finalità del soggetto in questione è, sulla scorta della qualificazione eseguita dall’Autorità, diametralmente opposto a quello che lo stesso soggetto giuridico avrebbe allorché fosse citato come responsabile civile.
[7] In argomento si v. BARDELLE, Il contraddittorio anticipato cautelativo con il responsabile civile nell’incidente probatorio in indagini preliminari: nota ad un recente provvedimento del Tribunale di Rovigo, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 7-8, che riguardava un caso di citazione del responsabile civile su richiesta dell’indagato; ancora più complesso sarebbe invece il caso della eventuale citazione del responsabile civile su richiesta di una persona offesa, ossia di un soggetto che non solo non ha formulato alcuna richiesta risarcitoria, ma che potrebbe anche decidere di esercitarla – semmai anche sulla scorta dell’esito dell’incidente probatorio – nella sua sede tradizionale.
[8] Si pensi al profluvio di enti che si costituiscono parte civile e che quotidianamente partecipano a processi per colpa medica o per incidenti sul lavoro, per episodi di disastro ecc., che, a stretto rigore, dovrebbero essere autorizzati a partecipare al dibattimento in numero di uno e previo consenso della persona offesa e legittimati ad assumere esclusivamente le iniziative processuali proprie della persona offesa.
[9] Cass. Pen. Sez. V, 3 febbraio 2015, n. 28157; nei medesimi termini, ex multis, Sez. VI, 27 settembre 2012, n. 41520.
[10] Cass., Pen. Sez. I, 3 febbraio 2022, n. 25158.
[11] GUP Roma, 27 novembre 2023, inedito.
[12] Così CONTINIELLO, Il concorso di persone con coefficiente psicologico omogeneo e eterogeneo. Una questione ancora controversa, in Giurisprudenza penale web 2020, 9, 10.
[13] CUPELLI, Il concorso colposo nel delitto doloso e la svolta “garantista” della Cassazione, in Giurisprudenza Italiana 2019, 1921. Sulla funzione di sbarramento svolta dall’art. 113 c.p. si v. MASSARO, Colpa penale e attività plurisoggettive, in La Legislazione Penale 2020, 21, in particolare nota 59. Contra SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione nel delitto colposo, Milano 1988, 236 ss.
[14] In argomento, tra gli altri, ORLANDI, Concorso nel reato e tipicità soggettiva eterogenea. Il concorso colposo nel reato doloso, in Archivio Penale 2020, 25 – 26.
[15] Cass. Pen. Sez. IV, 21 giugno 2012, n. 36280, in Cassazione Penale 2013, 3015; su di essa, ex multis, PIQUE’, La funzione estensiva della punibilità dell’articolo 113 c.p. in relazione ai delitti causali puri, in Cassazione Penale 2014, 882.
[16] In argomento, anche per i richiami dottrinali, MASSARO, Colpa penale e attività plurisoggettive, cit., 14 – 15.
[17] La “Commissione Grosso” aveva immaginato di abrogare la norma proprio in ragione della sua dubbia funzione incriminatrice, che risulterebbe comunque adempiuta dalla previsione generale della norma sul concorso di persone nel reato, dell’originalità della previsione in ambito europeo e dell’allora prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità che, fino agli inizi del nuovo millennio, escludeva la possibilità di configurare una partecipazione colposa nel delitto doloso.
[18] Sul punto MASSARO, loc. cit., 17.
[19] Peraltro nel caso del concorso colposo nel delitto doloso la rappresentabilità della condotta del terzo potrebbe implicare una differente qualificazione della condotta agevolatrice, che, evidentemente, finirebbe per integrare gli estremi del concorso doloso.
[20] Sul punto Cass. Pen. SS.UU., 3 febbraio 1990, n. 2720 e Sez. IV, 11 ottobre 1996, n. 9542.
[21] È di questi giorni la notizia dell’esistenza di un percorso psicologico da parte di Filippo Turetta, indagato per l’omicidio della giovane Giulia Cecchettin.
[22] Il fondamento normativo della teoria può identificarsi nel lavoro di MARINUCCI, Non c’è dolo senza colpa. Morte dell’ “imputazione oggettiva dell’evento” e trasfigurazione nella colpevolezza?, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale 1991, 3 ss.
[23] In questa prospettiva si muovevano Cass. Pen. Sez. IV, 11 marzo 2008, n. 10795; Id., 28 gennaio 2009, 4107.
[24] In questi termini Cass. Pen. Sez. IV, 14 febbraio 2019, n. 7032.
[25] Secondo un’ulteriore prospettiva, che sembra tuttavia non perfettamente aderente ai principi in materia di imputazione causale, non ci sarebbe bisogno nemmeno di invocare il concorso di cause indipendenti ma sarebbe possibile imputare una responsabilità diretta, di tipo colposo, in capo al soggetto che abbia violato un obbligo di natura cautelare, cui sarebbe quindi autonomamente imputabile l’evento commesso dal terzo: PIRAS, Svanisce il concorso colposo nel reato doloso, in Diritto Penale Contemporaneo 2019, 3, 9.
[26] Sull’esclusione della possibilità di far valere in sede penale una responsabilità civile di natura contrattuale, ex plurimis, Cass. Pen. Sez. IV, 27 maggio 2011, n. 38704.
[27] Deve escludersi che, anche in questo caso, tale forma di responsabilità possa essere assimilabile a quella del concorso di persone nel reato con coefficiente psicologico eterogeneo: in tal senso ROMANO, La responsabilità amministrativa degli enti, società o associazioni: profili generali, in Rivista delle Società 2002, 410.
[28] Sul differente contenuto si v., anche solo ai fini della ricostruzione dicotomica, ex multis, Cass. Civ. Sez. III, Ord. 1 aprile 2021, n. 9128; Id., 12 settembre 2019, n. 22729.
[29] Ossia, ai sensi dell’art. 163 comma 3 n. 4), “l’esposizione in modo chiaro e specifico dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni”.
[30] V. supra, nota 8.
[31] Nel caso di specie deve tenersi nella dovuta considerazione da una parte l’impossibilità di chiedere il giudizio abbreviato e dall’altra la considerazione per cui, in tal caso, il responsabile civile avrebbe dovuto essere automaticamente escluso ai sensi dell’art. 87 comma 3 c.p.p.
[32] Così si esprime la direttiva 57 della legge delega al Governo per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale (Legge 16 febbraio 1987, n. 81).
[33] Cass. Pen. Sez. V, 18 giugno 2004, n. 31741.
[34] Cass. Pen. Sez. III 9 marzo 2011, n. 26162; nei medesimi termini, ex multis, Sez. V, 21 dicembre 2005, n. 4036.
[35] Così Cass. Pen. Sez. III, 26 gennaio 2016, n. 12795 e Sez. II, 23 maggio 2014, n. 25688.
[36] In particolare, il tema era quello dell’inserimento, nel fascicolo del dibattimento, della documentazione relativa alle notifiche dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare allo scopo di consentire al giudice, nelle varie fasi e gradi del processo, di effettuare i doverosi controlli sulla correttezza della procedura di notificazione degli atti ed in particolare di quella relativa alla vocatio in iudicium dell’imputato.
[37] Cass. Pen. SS.UU., 17 febbraio 2017, n. 7697.
[38] “La consulenza tecnica medico legale ha natura di atto non ripetibile disciplinato dall’art. 360 cod. proc. pen. che, in mancanza della riserva di promozione di incidente probatorio, va inserito nel fascicolo per il dibattimento ex art. 431, lett. c), cod. proc. pen. ed è, pertanto, utilizzabile indipendentemente dall’esame dibattimentale del consulente, anche in relazione al fatto che l’accertamento tecnico non ripetibile è caratterizzato da una forma di contraddittorio che può estrinsecarsi o attraverso l’obbligo di avviso al difensore, oppure attraverso la facoltà, riconosciuta alla persona sottoposta alle indagini, di formulare riserva di promuovere incidente probatorio”: Cass. Pen. Sez. IV, 17 luglio 2019, n. 38583. “La consulenza tecnica balistica e quella tecnica medico legale hanno natura di atti non ripetibili che, in mancanza della riserva di promozione di incidente probatorio, vanno inseriti nel fascicolo per il dibattimento ex art. 431, lett. c e sono, pertanto, utilizzabili indipendentemente dall’esame del consulente”: così Cass. Pen. Sez. I, 11 febbraio 2010, n. 8082. In termini coincidenti, ancora, Sez. IV, 18 giugno 2013, n. 27954.
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