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Breve analisi del reato di omissione di atti d’ufficio

 

SOMMARIO: 1. Note generali. – 2. L’interesse del privato quale presupposto della richiesta e situazioni giuridiche soggettive di riferimento. – 3. Operatività dell’art. 328, comma 2, c.p., nei rapporti tra pubbliche amministrazioni. – 4. Natura della richiesta: diffida ad adempiere. – 5. La risposta del pubblico agente: forma scritta?  – 6. Limiti del sindacato del giudice penale sulla risposta del pubblico funzionario. – 7. Problemi di coordinamento tra il termine di cui alla disposizione penale ex art. 328, cpv., c.p. e il termine di conclusione del procedimento amministrativo di cui all’art. 2, legge n. 241/90 e successive modificazioni. – 8. Omissione di atti d’ufficio e silenzio della P.A.

 

1. Note generali.

La fattispecie penale incriminatrice dell’omissione di atti d’ufficio è contemplata dal secondo comma dell’art. 328 c.p., il quale stabilisce che “Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a euro 1.032. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa”.

Siamo di fronte ad un reato omissivo proprio, di pericolo, per il cui perfezionamento è sufficiente porre in essere l’azione omissiva delineata dalla norma penale di riferimento, consistente in un non fare, essendo irrilevante la causazione di un evento di danno naturalisticamente inteso.

Trattasi di figura delittuosa che si realizza qualora, decorsi trenta giorni da una specifica richiesta, il pubblico agente omette di compiere l’atto del suo ufficio e di esporre le ragioni del ritardo.

L’omissione di atti d’ufficio è un illecito penale plurioffensivo: bene giuridico protetto è il corretto e normale funzionamento dell’azione amministrativa e il buon andamento della P.A., ma, al contempo, il diritto del privato cittadino ad ottenere risposta dalla P.A. medesima nell’ambito di procedimenti amministrativi cui è interessato in quanto titolare di una posizione giuridica soggettiva direttamente coinvolta da detti procedimenti. (1)

Dal punto di vista strutturale oggettivo, il comportamento incriminato si concretizza nell’omissione non motivata di un atto d’ufficio da parte di un pubblico ufficiale o di un incaricato di un pubblico servizio, cioè nel mancato compimento dell’atto richiesto e dovuto e nella mancata giustificazione del ritardo.

Deve, da subito, puntualizzarsi che, come si evince già dalla semplice lettura della disposizione in esame, l’obbligo di rispondere o di attivarsi in capo al pubblico funzionario presuppone che la richiesta provenga da soggetto che abbia interesse diretto al compimento dell’atto, in quanto titolare di una situazione giuridica soggettiva sulla quale l’atto medesimo è destinato ad incidere direttamente. Non rileva, quindi, il generale interesse al buon andamento dell’azione amministrativa, riconosciuto, come tale, ad ogni cittadino, ma uno specifico interesse relativo ad una posizione giuridica di diritto soggettivo o interesse legittimo.

In buona sostanza, l’omissione penalmente rilevante necessita: a) di un’istanza in forma scritta da parte di un soggetto titolare di una situazione giuridica di diritto soggettivo o interesse legittimo su cui l’atto richiesto è destinato ad incidere; b) il decorso di trenta giorni dal ricevimento della richiesta senza che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio abbia compiuto l’atto dovuto, né indicato le ragioni del ritardo nell’adozione dell’atto.

Si parla di delitto di messa in mora, in quanto presupposto necessario dell’illecito penale in questione è la richiesta scritta del privato, la cui ricezione da parte del pubblico funzionario segna l’apertura di un vero e proprio procedimento amministrativo il cui termine finale è di giorni trenta, termine entro il quale deve essere emesso il provvedimento ovvero spiegate dettagliatamente le ragioni del ritardo. (2)

E’ evidente che siamo di fronte ad un reato proprio, posto che soggetto agente può essere esclusivamente chi rivesta la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio.

La norma incriminatrice de qua trova collocazione sistematica nel libro secondo del codice penale, titolo II, capo I, tra i delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione.

Deve premettersi che l’ambito operativo della disposizione penale di cui al secondo comma dell’art. 328 c.p. risulta circoscritto dalla clausola di riserva posta all’incipit del citato comma (“fuori dei casi previsti dal primo comma”), clausola con la quale il legislatore ha inteso limitare scrupolosamente la sfera di applicazione del reato di omissione ai casi concreti non integranti il più grave delitto di rifiuto di atti d’ufficio di cui al primo comma dell’art. 328 c.p.

Con riferimento all’elemento psicologico del reato di omissione di atti d’ufficio, è pacifico trattarsi di delitto a dolo generico, per la ricorrenza del quale è necessaria la consapevolezza (coscienza) da parte del soggetto pubblico agente della richiesta scritta dell’interessato e dell’obbligo di compiere l’atto d’ufficio o servizio e la volizione (volontà) dell’inadempimento e della mancata risposta, ossia la coscienza e volontà di ingiustificatamente omettere di dare risposta all’intimazione del soggetto privato interessato.

 

2. L’interesse del privato quale presupposto della richiesta e situazioni giuridiche soggettive di riferimento.

Come già sottolineato, affinchè la condotta doppiamente omissiva del pubblico agente si possa permeare di disvalore penale è necessaria, innanzitutto, la formale richiesta del soggetto che “vi abbia interesse”.

Sul punto, bisogna ricordare che la scelta del legislatore di utilizzare detta, in parte generica, locuzione è stata fonte di contrastanti posizioni interpretative in merito a chi può far scattare la punibilità ex art. 328, comma 2, c.p.

La più autorevole dottrina, al pari dell’ormai consolidata giurisprudenza di merito e di legittimità, ritiene che l’espressione in esame svolga una funzione normativa ben definita: delimitare la punibilità alle sole azioni omissive che seguono ad una richiesta proveniente da soggetti titolari di posizioni giuridiche rilevanti e protette dall’ordinamento giuridico in via diretta, cioè diritti soggettivi e interessi legittimi, con esclusione dei soggetti titolari di interessi di mero fatto, in quanto tali ultimi interessi rilevano solo sul piano della efficienza, correttezza e trasparenza dei rapporti tra P.A. e consociati, la cui tutela è garantita da altri strumenti predisposti dall’ordinamento, ma non possono certo determinare alcun specifico dovere di rispondere in capo alla P.A., rilevante ai sensi e per gli effetti di cui al secondo comma dell’art. 328 c.p. (3)

Insomma, il provvedimento richiesto non può essere espressione di un potere pubblico riguardante finalità di ordine generale, ma deve necessariamente riferirsi a soggetti ben individuati, vale a dire specificatamente e direttamente destinatari dell’atto amministrativo in questione.

L’interesse del privato deve, in buona sostanza, essere di tipo qualificato, cioè essere un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata dall’ordinamento.

E’, pertanto, chiaro che vengono in rilievo le situazioni giuridiche soggettive tradizionali di diritto soggettivo e interesse legittimo, quest’ultimo nelle sue diverse manifestazioni di interesse legittimo di tipo pretensivo (o diritto in attesa di espansione) e interesse legittimo di tipo oppositivo (o diritto soggetto ad affievolimento).

 

3. Operatività dell’art. 328, co. 2, c.p., nei rapporti tra pubbliche amministrazioni.

Sempre con riferimento al soggetto interessato, non specificando la norma in merito, dottrina minoritaria ha posto la questione se tale possa essere anche un soggetto pubblico, cioè un’amministrazione diversa da quella di appartenenza del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio chiamato all’adozione di un atto, laddove questo sia destinato ad incidere sulla realizzazione delle finalità istituzionali del soggetto pubblico richiedente. (4)

Ebbene, a tale questione, non solo la dottrina maggioritaria e più autorevole, ma la consolidata giurisprudenza della Suprema Corte ha dato risposta negativa, nel senso che è da escludere l’operatività della fattispecie incriminatrice in esame con riferimento ai rapporti tra pubbliche amministrazioni, in quanto l’espressione “chiunque vi abbia interesse” è da intendersi riferita al privato cittadino. (5)

Tale interpretazione, peraltro, appare in linea con il fine della figura delittuosa di cui al comma 2 dell’art. 328 c.p., cioè regolare, solo ed esclusivamente, i rapporti tra la pubblica amministrazione e i soggetti privati ad essa esterni.

D’altro canto, un’interpretazione diversa ed estensiva della norma penale in esame finirebbe per violare la tipicità degli atti della pubblica amministrazione nonché per entrare in conflitto con la legislazione in materia di azione amministrativa e di procedimento amministrativo caratterizzato dall’intervento e coinvolgimento di più amministrazioni pubbliche, senza considerare, altresì, che la tutela dei pubblici uffici è garantita da istituti diversi e più efficaci.

 

4. Natura della richiesta: diffida ad adempiere.

In merito al requisito strutturale oggettivo della forma scritta che deve caratterizzare la richiesta del privato, bisogna, innanzitutto, enfatizzare che, pur non essendo necessari particolari formalismi, la citata richiesta scritta deve essere precisa e puntuale nel suo contenuto, cioè in grado di validamente informare il pubblico agente dell’atto dovuto da adottare, dovendosi escludere rilevanza ad istanze tese ad ottenere meri chiarimenti, come a richieste palesemente pretestuose. (6)

Inoltre, la Suprema Corte ha puntualizzato che detta richiesta deve sostanzialmente coincidere con una diffida ad adempiere, dovendosi negare tutela penale ad istanze “capricciose” ovvero irragionevolmente puntigliose, tese a sollecitare un’attività amministrativa superflua e non dovuta. (7)

Ed allora, la richiesta del privato deve fondarsi su una pretesa seria, diretta, volta ad ottenere un provvedimento per la soddisfazione di una sua posizione giuridica non in contestazione, posto che non può essere riconosciuta tutela al privato che sia perfettamente consapevole che la sua pretesa non può, almeno in quel determinato momento, trovare soddisfazione perché oggetto di accertamento  giurisdizionale in un processo in corso. (8)

La responsabilità penale ex art. 328, comma 2, c.p. in capo al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio non scatta soltanto in caso di mancata concreta emanazione dell’atto richiesto e dovuto, ma è necessaria un’ulteriore omissione, ossia la mancata spiegazione delle ragioni del ritardo entro il termine previsto di trenta giorni dalla ricezione della richiesta.

Siamo di fronte ad un delitto “a doppia omissione”, nel senso che, ai fini della sua configurabilità, trascorso il termine di trenta giorni dalla ricezione della richiesta, devono concorrere due azioni omissive: mancato compimento del provvedimento e mancata giustificazione del ritardo.

 

5. La risposta del pubblico agente: forma scritta?

Al pari della “diffida ad adempiere” del privato, secondo la giurisprudenza dei giudici di piazza Cavour anche la risposta del pubblico agente deve rivestire la forma scritta e, quindi, la PA è tenuta ad esporre per iscritto le ragioni del ritardo nel compimento dell’atto. (9)

Tale indirizzo giurisprudenziale appare conforme allo spirito della riforma dei reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, intervenuta con la legge n. 86 del 1990, con la quale il legislatore ha inteso offrire ai privati cittadini una tutela maggiore e rafforzata nei confronti dell’operato della pubblica amministrazione, nonché orientato dall’esigenza di evitare o limitare situazioni di incertezza in ordine all’accertamento del reato de quo. (10)

La posizione della giurisprudenza di legittimità non trova, però, sempre seguito nella giurisprudenza di merito e, infatti, non sono poche le pronunce dei giudici di merito che ritengono sufficiente una risposta orale per escludere la sussistenza del delitto di omissione di atti d’ufficio, poggiando su una stretta interpretazione del dato letterale della norma, la quale, nella sua formulazione, non accenna a particolari formalità per la risposta del pubblico funzionario e, pertanto, pretendere la forma scritta significherebbe imporre un ulteriore elemento costitutivo del reato che la fattispecie tipica non contiene, con conseguente violazione dei canoni di tassatività e sufficiente determinatezza delle norme penali incriminatrici.

Mentre per la richiesta del privato è espressamente prevista la forma scritta, nulla dice la norma in relazione alla forma che deve assumere la risposta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio e, quindi, detta risposta ben può essere formulata con modalità diverse dalla forma scritta e anche verbalmente, senza con ciò incorrere nella responsabilità penale per il delitto in argomento. (11)

Sarebbe, forse, opportuno sul punto un intervento del legislatore finalizzato ad inserire specificatamente quale requisito della struttura oggettiva dell’illecito penale in esame la forma scritta della risposta del pubblico funzionario.

 

6. Limiti del sindacato del giudice penale sulla risposta del funzionario pubblico.

Sempre con riferimento alla risposta della P.A., altra diversa questione è quella relativa alla misura del potere del giudice penale di controllare la serietà e non pretestuosità delle giustificazioni addotte con la risposta medesima.

Infatti, la possibilità  per il pubblico agente di poter adempiere il suo dovere di dare una risposta utilizzando motivazioni-tipo, vere e proprie “giustificazioni prestampate”, consentite in procedimenti amministrativi con istruttorie particolarmente complesse (casi, ad esempio, in cui è necessaria l’acquisizione di numerosi documenti, pareri tecnici ovvero situazioni specifiche, anche organizzative, che non consentono l’osservanza del termine di trenta giorni) finisce per apparire quale comodo strumento per il pubblico funzionario per sottrarsi alla sanzione penale, in considerazione anche dei limiti che incontra il sindacato del giudice penale con riferimento alle valutazioni discrezionali e di merito della pubblica amministrazione. (12)

A tal proposito, non sembra potersi prescindere dal contemperare le esigenze di tutela dell’interesse del privato cittadino con la prevista autonomia dell’azione delle pubbliche amministrazioni, le cui scelte rimangono insindacabili per il giudice penale, il quale potrà valutare la corrispondenza al vero delle circostanze o fatti posti a fondamento della risposta giustificativa, onde accertare la responsabilità penale del soggetto pubblico, ma dovrà astenersi dall’entrare nel merito delle valutazioni e scelte discrezionali proprie dell’agire amministrativo. (13)

 

7. Problemi di coordinamento tra il termine di cui alla disposizione penale ex art. 328, comma 2, c.p. e il termine di conclusione del procedimento amministrativo di cui all’art. 2, legge 241/90 e successive modificazioni.

Il capoverso dell’art. 328 c.p. detta il termine fisso di trenta giorni entro il quale il pubblico agente deve provvedere e tale previsione ha posto problematiche di coordinamento tra detto termine e il termine di conclusione del procedimento amministrativo di cui all’art. 2 della legge 241/1990 sul procedimento amministrativo, che, pur rinviando all’autonomia regolamentare delle pubbliche amministrazioni la fissazione di termini diversi di conclusione dei procedimenti amministrativi delle proprie rispettive competenze, ha previsto un termine generale e residuale della durata dei procedimenti amministrativi, fissato in giorni trenta. (14)

In pratica, la previsione del termine di trenta giorni di cui al comma 2 dell’art. 328 c.p. ha posto un problema di coordinamento con il termine di trenta giorni di conclusione del procedimento amministrativo di cui al citato art. 2 della legge 241/1990 e successive modificazioni.

Inizialmente, la giurisprudenza, sostenuta anche da parte della dottrina, in un’ottica tesa a garantire al privato la massima tutela penale ai sensi dell’art. 328, comma 2, c.p., ha affermato la coincidenza dei due menzionati termini di trenta giorni, asserendo che l’istanza del privato tesa all’ottenimento di un provvedimento amministrativo segnava l’apertura del relativo procedimento amministrativo e, al contempo, aveva natura giuridica di richiesta/presupposto per la decorrenza del termine di trenta giorni ai fini penalistici, con la conseguenza che il decorso del termine di trenta giorni senza adozione del provvedimento e senza giustificazione del ritardo perfezionava l’illecito penale, oltre all’illecito civile e/o amministrativo per inadempimento in capo al responsabile del procedimento. (15)

Tale ricostruzione si fondava anche sulla preoccupazione che ritenere il termine di trenta giorni di cui al comma 2 dell’art. 328 c.p. diverso da quello di conclusione del procedimento amministrativo e decorrente dalla ricezione di richiesta scritta da poter avanzare solo successivamente alla inutile scadenza del termine amministrativo, in considerazione della potestà regolamentare delle pubbliche amministrazioni di fissare termini diversi, anche notevolmente lunghi, di conclusione di procedimenti amministrativi, significava vanificare la ratio del reato di omissione di atti d’ufficio, favorendo abusi del potere amministrativo, il quale, attraverso la fissazione di termini eccessivamente lunghi di conclusione dei procedimenti amministrativi, poteva sostanzialmente raggirare il dettato normativo penalistico. (16)

Tuttavia, è bastato poco per dover riconoscere che detta ricostruzione mal si conciliava con principi generali dell’ordinamento giuridico, primo tra tutti quello della giusta separazione dei poteri dello Stato.

Innanzitutto, che il termine di trenta giorni di cui al comma 2 dell’art. 328 c.p. non potesse coincidere con il termine di conclusione del procedimento amministrativo appariva inevitabile in quanto, come già detto, legittimamente le pubbliche amministrazioni possono fissare termini diversi e anche particolarmente lunghi in caso di procedimenti complessi o per ragioni specifiche e/o organizzative, tanto che la stessa legge sul procedimento amministrativo riserva tale potestà all’autonomia  regolamentare delle pubbliche amministrazioni, avendo il termine di trenta giorni di conclusione del procedimento amministrativo di cui all’art. 2 legge 241/1990 esclusivamente natura generale e residuale.

Pertanto, emergeva come inaccettabile ammettere un’ipotesi di responsabilità penale per omissione di atti d’ufficio laddove lo status procedimentale fosse assolutamente lecito e legittimo sul piano amministrativo.                  

Inoltre, la stessa natura giuridica di diffida ad adempiere, unanimemente assegnata alla richiesta del privato ex art. 328, comma 2, c.p., rende evidente che l’operatività della fattispecie penale incriminatrice in analisi presuppone la conclusione del procedimento amministrativo e la formazione di una situazione di silenzio inadempimento, perché solo in presenza di inerzia della pubblica amministrazione scatta l’interesse del privato a “mettere in mora” la pubblica amministrazione medesima nonchè l’esigenza, avvertita dall’ordinamento, di sanzionare penalmente la violazione dell’obbligo di fare da parte del pubblico agente. (17)

Pertanto, non può revocarsi in dubbio che il termine di trenta giorni di cui al comma 2 dell’art. 328 c.p. è diverso dal termine di conclusione del procedimento amministrativo, qualunque esso sia ed anche in caso di termine di conclusione di giorni trenta.

Il privato interessato all’esito del procedimento amministrativo deve attendere l’inutile scadenza del termine di conclusione del procedimento amministrativo medesimo e, cioè, la mancata adozione del provvedimento alla scadenza del termine di conclusione del procedimento, vale a dire la formazione di una situazione di silenzio inadempimento da parte dell’amministrazione pubblica procedente e, a quel punto, può avanzare la formale intimazione scritta di cui all’art. 328, comma 2, c.p., necessaria per attivare un procedimento amministrativo ad hoc, che potrà portare, ricorrendo tutti gli elementi strutturali richiesti dalla norma, ad una responsabilità penale del pubblico agente per il reato di omissione di atti d’ufficio.

 

8. Omissione di atti d’ufficio e silenzio della P.A.

E’ indubbio che l’unica figura di silenzio della P.A. rilevante ai fini della potenziale operatività della fattispecie penale incriminatrice in questione è quella del silenzio inadempimento, cioè dell’inerzia della pubblica amministrazione alla quale non è conferita dal legislatore valenza provvedimentale (silenzio-assenso o accoglimento e silenzio-diniego o rigetto).

Sebbene non manchino, a tutt’oggi, opinioni contrastanti, non sembra che i casi di silenzio-assenso e silenzio-diniego possano rilevare ai fini del delitto de quo: non i casi di silenzio-assenso, che vedono il privato soddisfatto nella sua pretesa e, quindi, un problema di “interesse” ex art. 328, comma 2, c.p. non sussiste alla radice, ma neppure i casi di silenzio-diniego, avendo tale figura di silenzio natura provvedimentale, in quanto è la legge ad assegnare al silenzio della P.A. valore di provvedimento di rigetto e, pertanto, se il privato interessato riterrà illegittimo il silenzio-provvedimento di rigetto della P.A. potrà impugnarlo, secondo le regole ordinarie e generali, dinnanzi alla competente Autorità Giudiziaria. (18)

Sul punto, la giurisprudenza maggioritaria di legittimità e di merito sentenzia che l’obbligo di risposta imposto dall’art. 328, comma 2, c.p. non ha alcuna ragion d’essere quando è la stessa legge a regolamentare la materia riconoscendo al silenzio della P.A. l’efficacia di un provvedimento di accoglimento o di rigetto, presupponendo la fattispecie penale incriminatrice in questione una situazione di “inerzia non significativa” della P.A. medesima. (19)

 

(1) Sul punto, Il reato di omissione di atti di ufficio, punito dall’art. 328 comma secondo c.p. integra un delitto plurioffensivo, nel senso che lede, oltre all’interesse pubblico al buon andamento ed alla trasparenza della pubblica amministrazione, anche il concorrente interesse del privato leso dall’omissione o dal ritardo dell’atto amministrativo dovuto. Tale norma, infatti, da un lato presuppone una richiesta presentata da un soggetto che vi abbia interesse, in quanto titolare di una situazione giuridica qualificata come diritto soggettivo o interesse legittimo e, dall’altro, tutela l’aspettativa dell’istante ad ottenere il provvedimento richiesto o, in alternativa, la comunicazione dei motivi del ritardo o della mancata adozione. Ne consegue che il richiedente interessato riveste la posizione di persona offesa dal reato, tutelata dalle garanzie procedimentali previste dagli artt. 408 – 410 c.p.p.” (Cass. Pen., Sez. VI, sent. 5376/2003, Becchina in proc. Cuffaro, RV 223937); ed ancora, ex multis, Cass. Pen., Sez. VI, sent. 1817/95, Piscitelli, RV 202818.

(2) Ex multis, Cass. Pen., Sez. VI, sent. 42610/2015; Cass. Pen., Sez. VI, sent. 45629/2013; Cass. Pen., Sez. VI, sent. 41225/2005, P.M. in proc. Grassi ed altro, RV 232765; Fiandaca – Musco, Diritto Penale, Parte Speciale, Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Rifiuto di atti d’ufficio. Omissione, Cap. 2, Sez. I, p. 266, Vol. 1 Zanardelli, Quinta Edizione.

 (3) In tal senso, “In tema di omissione di atti d’ufficio, la norma di cui all’art. 328 secondo comma c.p. prevede che la richiesta del privato, cui corrisponde un dovere di rispondere o di attivarsi da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, deve riflettere un interesse personale e diretto alla emanazione di un atto o di un provvedimento identificabile in una posizione giuridica soggettiva di diritto soggettivo o di interesse legittimo, con esclusione di qualsiasi situazione che attenga ad interessi di mero fatto (nella specie, la Corte ha ritenuto che l’interesse all’acquisizione di un atto, per fini di mera documentazione necessaria all’attività politica di un consigliere comunale, rientrasse fra gli interessi di mero fatto non tutelati a norma dell’art. 328, secondo comma, c.p.” (Cass. Pen., Sez. VI, sent. 43492/2003, P.M. in proc. Biondi, RV 226904); ed ancora, Cass. Pen., Sez. VI, sent. 18033/2001, Gremmo L., RV 219176; Cass. Pen., Sez. VI, sent. 21735/2008; Cass. Pen., Sez. VI, sentenza 10/05/1995, in Cass. Pen. 1997, 1392.

 (4) Segreto – De Luca, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, 1999, p. 233.

 (5) Vedasi, Cass. Pen., Sez. VI, sent. 2351/1998, Schillizzii A., RV 209978: “In materia di omissione di atti d’ufficio, l’ipotesi prevista dall’art. 328 cpv. c.p. è diretta a disciplinare esclusivamente i rapporti tra la pubblica amministrazione e i soggetti ad essa esterni, fornendo a questi ultimi uno specifico e puntuale strumento di tutela: l’omissione di atti rilevanti esclusivamente all’interno dei rapporti tra diverse amministrazioni in nessun caso può essere ricondotto a tale fattispecie. (Nell’affermare il principio di cui in massima la Corte ha escluso che potesse integrare la fattispecie ipotizzata dai giudici di merito la omessa comunicazione, da parte di un sindaco, dei dati richiesti e reiteratamente sollecitati da un assessorato regionale indispensabili ai fini dell’adozione di provvedimenti regionali di pianificazione territoriale”; in senso unanime, Cass. Pen., Sez. VI, sent. 534/1996; Cass. Pen., Sez. VI, sent. 34385/2011; Mario Romano, I delitti di rifiuto ed omissione di atti d’ufficio, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2000, pp. 17 – 44.

 (6) In tal senso, Cass. Pen., Sez. VI, sent. 2331/2014; Cass. Pen., Sez. VI, sent. 20/11/2001, in Riv. Pen. 2002, 630; Cass. Pen., Sez. VI, sent. 41645/2001, Giordano + altri, RV 220245; Cass. Pen., Sez. VI, sent. 41225/2005, P.M. in proc. Grassi ed altro, RV 232765: “In tema di omissione o rifiuto di atti d’ufficio, la richiesta di cui all’art. 328, secondo comma, c.p. assume la natura e la funzione tipica della diffida ad adempiere: essa deve quindi, con percepibile immediatezza, essere rivolta a sollecitare il compimento dell’atto o l’esposizione delle ragioni che lo impediscono ed il reato si consuma quando, in presenza di tale presupposto, sia decorso il termine di trenta giorni senza che l’atto richiesto sia stato compiuto o senza che il mancato compimento sia stato giustificato”.

 (7) Vedasi, Cass. Pen., Sez. VI, sent. 79/2012; Cass. Pen., Sez. VI, sent. 6778/2000; Cass. Pen., Sez. VI, 5/11/1998, in Cass. Pen. 2000, 1250; Cass. Pen., Sez. VI, sent. 12977/1998, P.C. in proc. Raimondi M. e altro, RV 212312: “La disposizione dell’art. 328 c.p. mira a tutelare il privato che intenda ottenere un risultato utile in relazione al rapporto amministrativo tra lui e la pubblica amministrazione, onde il concetto di “atto di ufficio” deve intendersi nel senso di atto dovuto dai pubblici poteri quale risultato concreto del loro agire, cioè quale effetto positivamente apprezzabile del dovere di attivarsi per la realizzazione dei fini istituzionali dell’ente pubblico. Ne consegue che rimangono al di fuori della tutela legale quelle richieste che, per mero capriccio o irragionevole puntigliosità, sollecitano alla pubblica amministrazione un’attività superflua e non doverosa, la quale non è destinata a spiegare alcuna necessaria incidenza sul rapporto amministrativo, già ben definito nei suoi contorni essenziali. (Nella specie, un dipendente di una Usl aveva esternato il suo disappunto per le mansioni affidategli, sollecitando “chiarimenti” al riguardo che la pubblica amministrazione non era tenuta a fornire al di fuori dell’atto ufficiale a rilevanza esterna che aveva già adottato e che era costituito dal relativo ordine di servizio”.

 (8) Ex multis, Cass. Pen., Sez. VI, sent. 24567/2001, in Riv. Pen. 2001, 823.

 (9) Sul punto, Cass. Pen., Sez. VI, sent. 19/11/2003, in C.E.D., Cass. 227741.

 (10) Tra le altre, Cass. Pen., Sez. VI, sent. 11484/1997, Masiello A., RV 209721: “La risposta prevista dall’art. 328, comma 2, c.p. (nel testo modificato con l’art. 16 della legge 26 aprile 1990, n. 86), con cui la pubblica amministrazione è tenuta ad esporre al richiedente le ragioni del ritardo nel compimento dell’atto, deve rivestire la forma scritta, in base ai principi generali dell’ordinamento che richiedono la forma scritta per gli atti destinati ad essere controllati da un’autorità diversa e normalmente sovraordinata, ovvero come nel caso in cui la verifica dell’esistenza dell’atto e del suo contenuto, sia rimessa non all’autorità amministrativa, ma all’autorità giudiziaria; ciò è conforme allo spirito della riforma di cui alla L. 86/90 cit., con cui il legislatore ha inteso offrire ai cittadini una maggiore tutela nei confronti dell’operato della pubblica amministrazione, e risponde all’esigenza di evitare incertezza in ordine all’accertamento del reato stesso”.

 (11) Sul punto, Trib. Pen. di Cagliari, sent. 23/02/1995, in GI, 1996, II, 552; G.U.P. presso il Trib. di La Spezia, 7/11/2001.

 (12) Carlo Benussi, I delitti contro la pubblica amministrazione, Padova, 2001.

 (13) Mario Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali. Commentario sistematico (artt. 314 – 335 bis), Milano, I ed. 2002, II ed. 2006, III ed. 2013.

 (14) Alessandro Masi, La riforma dell’art. 328 c.p. e la legge 7 agosto 1990 n. 241: un coordinamento poco chiaro, in Rivista penale dell’economia, 1993, p. 68.

 (15) Ex multis, Cass. Pen., Sez. VI, sent. 15/07/1999, in DPP, 2000, 969.

 (16) Grassano, La tutela del principio di legalità nelle funzioni pubbliche con specifico riguardo alle figure dell’abuso funzionale e di rifiuto di atti d’ufficio, in Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, 1995, 1449.

(17) Pen., Sez. VI, sent. 12977/1998, RV 212311: “In tema di richiesta di accesso ai documenti amministrativi, ai sensi dell’art. 25 della legge 7 agosto 1990 n. 241, coincidendo il termine di trenta giorni dalla richiesta dell’interessato formulata ex art. 328, comma secondo, c.p. con il termine per il maturarsi del silenzio rifiuto, deve escludersi la configurabilità del reato di omissione di atti di ufficio se il pubblico ufficiale non compie l’atto richiesto e non risponde al richiedente, perché con il silenzio rifiuto, sia pure per una presunzione, si ha il compimento dell’atto e viene comunque a determinarsi una situazione che è concettualmente incompatibile con l’inerzia della pubblica amministrazione”.

 (18) Morbelli, Omissione di atti d’ufficio e silenzio della pubblica amministrazione, in Diritto Penale e Processo, 1999, 1145; D’Arma, Il maturare del silenzio rigetto vale ad escludere la fattispecie penale dell’omissione di atti d’ufficio?, in Cassazione penale, 1997, 3022.

 (19) Ex multis, Cass. Pen., Sez. VI, sent. 11/12/1998, in DPP, 1999, 1145.

 

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