Sommario: 1. Una pronuncia prevedibile. 2. Una questione irrisolta. 2.1. L’art. 49, par. 3, Cdfue è norma immediatamente precettiva. 2.2. Il potere del giudice nazionale di disapplicare la norma interna.
ABSTRACT
La scelta di riflettere sulla pronuncia n. 7 del 2025 non è determinata tanto dalle conclusioni cui la Corte costituzionale è addivenuta, poiché esse si allineano perfettamente a quelle già espresse nel 2019, quanto dalla questione che era stata sottoposta all’attenzione della Cassazione e sulla quale la Corte ha omesso di prendere posizione, preferendo la via del giudizio di incostituzionalità.
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The choice to reflect on ruling no. 7 of 2025 is not so much determined by the conclusions reached by the Constitutional Court, since they are perfectly aligned with those already expressed in 2019, but by the issue that had been brought to the attention of the Court of Cassation and on which the Court failed to take a position, preferring the path of the judgment of unconstitutionality.
- Una pronuncia prevedibile.
E’ ben noto che il legislatore negli ultimi anni ha introdotto numerose misure ablative e speciali ipotesi di confisca del profitto, del prodotto, del prezzo e delle cose utilizzate per realizzare l’illecito[1] – o, in alternativa, se non è possibile la diretta apprensione di essi, di somme di denaro o di beni nella disponibilità del reo (confisca per equivalente o di valore) –, quale ulteriore sanzione da comminare, unitamente alle pene tradizionali, all’esito dell’accertamento di responsabilità. La scelta è stata dettata dalla consapevolezza dell’ineffettività delle pene pecuniarie, dal più basso standard di garanzie prescritto per l’irrogazione di siffatte misure rispetto a quello dovuto per le sanzioni tipiche[2], ma anche dalla loro particolare efficacia quando si procede per reati di criminalità economica. La tipologia di confische, oggi, è così ampia che, come ammette la Consulta[3] ed il Supremo consesso[4], non è possibile una reductio ad unum, sicché la loro natura va apprezzata caso per caso in base all’oggetto su cui cade il vincolo, alla disciplina e alle finalità perseguite[5]. Ciononostante, in dottrina prevale la tesi per la quale, salvo eccezioni, la confisca è divenuta a tutti gli effetti una pena patrimoniale, perché si applica a prescindere dalla pericolosità del reo e perché la sua durata perpetua è inconciliabile con scopi di mera prevenzione post delictum[6]. Il rilievo spiega la ragione per la quale il sindacato di costituzionalità in materia ha riguardato pure la natura eventualmente punitiva di alcune forme di confisca che la Corte, talvolta, ha effettivamente riconosciuto[7]. Nel suo ragionamento non v’è dubbio che la Consulta sia stata condizionata, anche, dall’elaborazioni prodotte dagli organi sovrannazionali, i quali, sollecitando una nozione autonoma di materia penale – da definirsi secondo i criteri indicati nella sentenza Engel[8] – hanno imposto di superare l’etichetta formale per stabilire se una certa disciplina, indipendentemente dalla qualificazione accordata dal legislatore nazionale, abbia in realtà natura afflittiva/repressiva, tale da renderne opportuna la sua riconduzione nell’alveo del diritto punitivo. Partendo da questo assunto, la Corte di Strasburgo ha proceduto ad una disamina strutturale e teleologica della sanzione, che ha differenziato in base alla sua funzione riparatoria, punitiva o preventiva e, per l’ultima categoria, ha distinto quella che ha finalità special-preventiva di contrasto alla pericolosità (trattamento, neutralizzazione) da quella che – pur presentando scopi latu sensu preventivi – è comunque riferibile al concetto di punizione (come deterrenza ed intimidazione); e ha chiarito che, ad essa, devono estendersi le garanzie previste per qualsiasi altra misura rientrante nel perimetro aformalistico della matière pénale[9]. In questa logica, ha definito sostanzialmente punitive specifiche ipotesi di confisca, la cui regolamentazione, perciò, deve conformarsi agli artt. 6 e 7 Cedu[10].
Le conclusioni cui giunge la Corte costituzionale nella pronuncia in esame si allineano perfettamente a quelle contenute nella sua pregressa decisione del 2019[11] – da qui, la prevedibilità della pronuncia –, la cui lettura congiunta consente agevolmente di comprendere il pensiero seguito dal giudice delle leggi: la confisca del profitto è funzionale a ristabilire la situazione patrimoniale preesistente al fatto illecito e, pertanto, ha come unico obiettivo la sottrazione dei vantaggi economici ottenuti con la commissione di un reato o, comunque, conseguiti in modo illecito sulla base di un illegittimo titolo di acquisto. La ablazione del profitto, insomma, ha una mera finalità di “compensazione”, traslato penalistico dell’istituto civilistico dell’arricchimento senza causa[12]. Essendo priva di carattere sanzionatorio-punitivo, la entità della confisca è in re ipsa, corrispondendo esattamente al valore del beneficio ingiustamente ottenuto[13]. La confisca del prodotto o dei beni utilizzati per commettere il reato, invece, eccede la funzione ripristinatoria perché, la limitazione del diritto di proprietà che ne consegue, determina un peggioramento delle condizioni economiche del reo, che si giustifica unicamente sul piano punitivo. Ciò vale specialmente per la confisca degli instrumenta sceleris che non colpisce beni intrinsecamente pericolosi o frutto di attività criminose quanto, di regola, beni legittimamente acquistati e posseduti, e viene disposta senza neppure dover accertare se, nel caso concreto, sia possibile un loro futuro uso illecito, com’è necessario per la confisca facoltativa delle cose che “servirono a furono destinate a commettere il reato”, ai sensi dell’art. 240 c.p.[14]. Dunque, quando la misura ablativa, sia essa in forma diretta che per equivalente, vincola il prodotto o i beni strumentali assume natura spiccatamente sanzionatoria e, quindi, deve rispettare lo statuto di garanzie imposto per le pene tradizionali; non ultimo, il principio di proporzionalità.
Nel caso de quo, in particolare, la Corte chiarisce che la confisca dei beni strumentali prescritta dall’art. 2641 c.c., da qualificarsi – per i motivi innanzi evidenziati – di tipo punitivo, deve essere equiparata alla pena patrimoniale, per cui il quantum da sottoporre al vincolo va calcolato tenendo conto pure delle condizioni economiche e patrimoniali dell’imputato, in ossequio al dictum dell’art. 133 bis c.p.[15]. Rileva, ancora, che in ispecie la confisca, essendo disciplinata in termini di obbligatorietà, deve essere applicata anche quando il giudice la reputa sproporzionata al fatto attribuito all’imputato. Per di più, poiché la misura non ha alcun legame oggettivo o soggettivo con l’illecito, l’entità dell’ablazione non può neppure essere determinata in rapporto alla gravità della condotta accertata; conseguentemente, l’ammontare finisce per dipendere dal solo valore dei beni utilizzati per commettere il reato.
L’effetto prodotto dalla riconosciuta natura sanzionatoria della confisca – e dalla correlata necessità di osservare il principio di proporzionalità – è stato unicamente l’elisione, da parte della Corte costituzionale, di quella porzione della disposizione ove la misura ablativa non colpiva solo il profitto, ma si estendeva anche al prodotto[16] e agli strumenti utilizzati per realizzare il crimine. Pure nel procedimento qui esaminato la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 2641, comma 2, c.c. e, in via conseguenziale del comma 1 dell’art. 2641, per violazione del principio di proporzionalità, laddove la norma imponeva la confisca obbligatoria, anche per equivalente[17], dei beni utilizzati per commettere il reato. La scelta di cancellare la previsione codicistica piuttosto che di modificarla per consentire l’applicazione facoltativa e graduata della confisca o, addirittura, per sostituire la confisca con altra misura meno gravosa – come tradizionalmente è avvenuto per le pene detentive o pecuniarie che apparissero già in astratto sproporzionate alle possibili condotte riconducibili alla fattispecie penale incriminatrice[18] –, è dovuta alla constatazione che l’attribuzione al giudice di un potere discrezionale di stabilire l’an o il quantum confiscabile rappresenti un novum nell’Ordinamento, per cui non sarebbe stato possibile individuare una soluzione per rime obbligate[19]. Eppure, la Cassazione, in situazioni in cui si lamentava la sproporzionalità della confisca rispetto alla tenuità del disvalore del fatto[20], adeguandosi ai diktat della Corte edu – ove si pone l’accento sulla necessità che, fra più misure idonee, bisogna prediligere quella che comprime meno il diritto di proprietà[21]–, ha autorizzato il giudice a ricercare lo strumento maggiormente adeguato alle peculiarità del caso concreto, legittimandolo anche a disapplicare la confisca, qualora essa fosse apparsa sproporzionata agli obiettivi perseguiti dalla norma[22].
Ebbene, pur apprezzando la decisione cui oggi è pervenuta la Corte costituzionale, riteniamo che, più correttamente, l’ablazione dei beni strumentali dovesse essere eliminata dal sistema non perché irrispettosa del principio di proporzionalità sanzionatoria, ma poiché intrinsecamente irragionevole. A dispetto di quanto sostenuto, il particolare oggetto su cui cade la misura presenta una relazione con la condotta se, proprio grazie ad esso, il reato si è potuto commettere: il bene, precisamente, rappresenta il mezzo mediante il quale si è realizzato l’illecito. Al contrario, la disposizione risulta palesemente irrazionale ove si rifletta che l’entità della misura prescinde dalla gravità del reato e dal valore economico del bene, essendo unicamente computata sulla sua oggettiva ed intrinseca consistenza. Difatti, anche laddove si ammettesse una graduazione della confisca, l’assenza di razionali parametri per dosarla in funzione della condotta dell’imputato, farebbe sì che l’ammontare del sacrificio patrimoniale sarebbe sempre rimesso alla totale discrezionalità del giudice[23]. Il problema reale, quindi, è di fondo, perché ci si trova al cospetto di due entità che non sono assiologicamente commensurabili e, dunque, per quanto diffusa sia l’idea che la confisca punitiva sia da considerare una sanzione pecuniaria, essa già in astratto non si presta ad una logica di proporzionalità. Non a caso, la Corte preferisce elidere quella sanzione dalla norma e, non a caso, come osserva la stessa Consulta, nell’Ordinamento non esiste una disposizione che consenta al giudice di computare il quantum della confisca punitiva in rapporto alla gravità del fatto.
Preme, infine, evidenziare il cambiamento di rotta assunto dalla Consulta in ordine ai principi costituzionali che sarebbero violati a fronte di una confisca punitiva la cui disciplina è incapace di modularsi secondo un giudizio di proporzionalità. La questione di illegittimità è stata accolta ritenendo che l’art. 2641 c.c. sia in contrasto con gli artt. 3 e 27 comma III Cost. che, nella dimensione interna, impongono il principio di proporzionalità sanzionatoria, nonché con gli artt. 11 e 117 comma I Cost., in relazione all’art. 49 par. 3, Cdfue, che tutelano il medesimo principio nel versante unionale. Nella precedente pronuncia del 2019, il giudice delle leggi, in senso esattamente opposto, aveva escluso l’inosservanza del comma III dell’art. 27 Cost., mentre aveva reputato lesi gli artt. 3 e 42 Cost. – individuando, in quest’ultima norma, la fonte di tutela del principio di proporzionalità della sanzione limitativa del diritto di proprietà[24]–, e l’art. 49, par. 3 Cdfue[25]. In quell’occasione la Consulta spiegò che il richiamo alla funzione rieducativa della pena sarebbe risultato inappropriato essendo finalità inscindibilmente connessa alla logica privativa o, quantomeno, limitativa della libertà personale; mentre resterebbe sullo sfondo quando la pronuncia ha ad oggetto pene di natura diversa. È come dire che l’ablazione di beni mobili od immobili – e, di conseguenza, anche del denaro – scarsamente contribuiscono alla risocializzazione del reo. Ciò, tuttavia, si affermò, non la escluderebbe dall’osservanza della proporzionalità sanzionatoria che, però, troverebbe la sua copertura costituzionale nell’art. 3 in combinato disposto con l’art. 42, che protegge la proprietà privata, e con l’art. 49 Cdfue, che inibisce l’irrogazione di sanzioni sproporzionate. Insomma, la Consulta aveva prospettato un sindacato nuovo sulle sanzioni patrimoniali, emancipato dai tradizionali parametri adoperati per delimitare la sanzione detentiva, che fondava su un differente bilanciamento di proporzionalità fra gravità del fatto commesso e proprietà privata[26]. Sicché, il riferimento alla equità sanzionatoria unionale diveniva passaggio fondamentale ed irrinunciabile perché contribuiva a definire lo spazio di tutela – nel senso della necessaria proporzionalità del sacrificio – del bene-proprietà privata in rapporto all’entità dell’illecito di colui che subisce la compressione di quel diritto[27]. Con l’attuale pronuncia, invece, la Corte ricava il principio di proporzionalità per la misura ablativa dal combinato disposto degli artt. 3 e 27 comma III, Cost., così com’è avvenuto nel passato per le pene tradizionali; sebbene, poi, nella parte motiva precisa che indubbiamente ogni limitazione della proprietà privata deve soggiacere al limite della proporzionalità rispetto alla finalità della misura, onde non violare la garanzia di cui all’art. 42 Cost. e quella, in forza dell’art. 117 Cost., del corrispondente art. 1, Protocollo addizionale della Convenzione edu. Così ragionando, tuttavia, la Consulta rinvia ad un concetto di proporzione diverso da quello adoperato nella pregressa decisione, com’è interpretato dalla Corte europea[28] in cui il principio è inteso in una logica utilitaristica, ovverosia, quale criterio di relazione tra mezzi impiegati e obiettivi perseguiti, dove i vantaggi devono essere idealmente comparati con i costi che subisce il singolo dall’utilizzo di strumenti incidenti sui diritti della persona.
- Una questione irrisolta.
La scelta di riflettere sulla pronuncia della Corte costituzionale, in verità, non è determinata tanto dalle conclusioni cui è addivenuta – tutto sommato abbastanza prevedibili se in precedenza già si era espressa in termini similari[29] –, quanto dalla questione che era stata sottoposta all’attenzione della Cassazione, sulla quale la Corte ha omesso di prendere posizione preferendo la via del giudizio di incostituzionalità.
Per comprendere appieno l’interessante problematica è opportuno un cenno al caso specifico. In un processo molto complesso, la Corte di appello, in parziale riforma della sentenza di condanna impugnata, confermava la pronuncia di prime cure per i reati di cui agli artt. 2637 e 2638 c.c. ancora non prescritti, e disapplicava la confisca dei beni adoperati per commettere il reato imposta dall’art. 2641 c.c. sia per la piena idoneità del trattamento sanzionatorio ad esaurire la risposta punitiva dello Stato, sia per l’assenza di qualsivoglia profitto, suscettibile di valutazione economica, al quale (in ipotesi) ancorare l’importo da sottoporre ad ablazione. La Corte d’appello perveniva alla decisione ragionando sulla pronuncia C-205/20 NE, con la quale la Corte di Giustizia aveva spiegato che il principio di proporzionalità sanzionatoria, di cui all’art. 49, par. 3, Cdfue, fosse norma immediatamente utilizzabile dai giudici comuni e che, pertanto, questi sarebbero stati autorizzati a disapplicare parzialmente la sanzione edittale reputata sproporzionata alla gravità del fatto, al fine di riportarla ad equità. Contro la sentenza, il Procuratore generale proponeva ricorso per cassazione, fra l’altro, al fine di sollecitare il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, per comprendere se la diretta disapplicazione della normativa interna, consentita da quella Corte, potesse avvenire in assenza di una base legale sufficientemente determinata, in violazione del principio di legalità e di separazione dei poteri. La Cassazione, ragionando sulle peculiarità strutturali della confisca regolata dall’art. 2641 cc., rilevava che, prima ancora di un problema di proporzionalità in concreto rispetto alla complessiva risposta sanzionatoria, si ponesse un dubbio di proporzionalità intrinseca della misura già nella sua astratta formulazione; per cui, invece di pronunciarsi sul quesito principale, sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 2641 c.c. per violazione degli artt. 3, 27 commi I e III, 42 e 117 – quest’ultimo con riferimento all’art. 1 del Primo protocollo addizionale Cedu – nonché degli artt. 17 e 49, par. 3, Cdfue. La Corte costituzionale, successivamente investita, ovviamente non si è potuta esprimere in proposito; epperò, nel giustificare la scelta della Corte di cassazione che, in ipotesi di doppia pregiudiziabilità, ha inteso percorrere la strada interna piuttosto che rivolgersi ai giudici lussemburghesi[30], fra le righe della motivazione sembrerebbe condividere le argomentazioni del Procuratore generale. Essa, difatti, osserva che la immediata operatività dell’art. 49, par. 3, Cdfue, si pone in tensione col principio di legalità penale e col principio di parità di trattamento; evenienza, questa, che però può essere superata se la Corte sostituisce, con effetto erga omnes, le prescrizioni legislative incompatibili con i principi costituzionali e unionali, ovvero se il legislatore fornisce precise indicazioni per delimitare il potere discrezionale del giudice nella determinazione della pena (punto, 2.2.3.).
Ebbene, crediamo che la questione prospettata innanzi alla Corte di cassazione debba comunque essere affrontata poiché potrebbe riproporsi, in un prossimo futuro, quando un giudice interno, considerando sproporzionata all’effettiva condotta dell’imputato la sanzione prevista da una diversa fattispecie incriminatrice, richiamerà nuovamente la sentenza della Corte di Giustizia del 2022 per disattendere, verso il basso, i limiti di pena predeterminati dalla legge[31]. Non è, questa, un’eventualità così remota se pensiamo, anche, alla diversa ipotesi in cui la norma penale punisce una condotta con la pena detentiva e la pena pecuniaria ovvero con la pena detentiva o pecuniaria e la pena accessoria, ed il giudice potrebbe ritenere proporzionata, nel caso concreto, l’applicazione di una sola di esse.
- L’art. 49, par. 3, Cdfue è norma immediatamente precettiva
Il primo punto da chiarire è se effettivamente l’art. 49, par. 3 Cdfue, per le materie di competenza dell’Unione, come sostengono i giudici lussemburghesi, sia disposizione immediatamente precettiva per i giudici comuni che appartengono agli Ordinamenti degli Stati-membri.
E’ ampiamente riconosciuto che la Corte di giustizia sia interprete qualificato del diritto europeo e che la sua decisione ha efficacia ultra partes, dovendo ad essa attribuirsi <<il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione[32], con efficacia erga omnes nell’ambito della Comunità>>[33]. Sicché, nessun dubbio dovrebbe sorgere sul carattere obbligatorio del suo dictum quando ha stabilito che l’art. 49, par. 3, Cdfue è norma self executing, che il suo destinatario è il giudice, il quale deve disapplicare quella parte della legislazione nazionale da cui deriva la sproporzionalità della sanzione[34], senza dover attendere che la disciplina contrastante sia rimossa dalla Corte costituzionale o dal legislatore[35]. Ciononostante, qualche perplessità in proposito permane, probabilmente perché la citata sentenza della Grande Sezione segue una sua precedente pronuncia di segno esattamente opposto[36].
Di qui la necessità di compiere una riflessione più approfondita su tale profilo.
Tradizionalmente, nell’Ordinamento giuridico dell’Unione si è soliti differenziare i principi dalle regole perché gli uni, diversamente dagli altri, vincolano le Istituzioni e gli Stati membri nella misura in cui questi provvedono alla loro attuazione e, così, i primi diventano parametro di legalità o di compatibilità per la norma che li applica[37]. Essi, inoltre, non sono invocabili per contestare la legittimità della norma (sovranazionale o interna) se quest’ultima non è stata immediatamente adottata per realizzare quello specifico principio. I principi, quindi, non sarebbero suscettibili di applicazione diretta da parte dei giudici comuni, né darebbero adito a pretese di azioni positive ad opera delle Istituzioni dell’unione (art. 51, par. 1)[38]. La caratteristica dei principi è la genericità, e in particolare la genericità unita all’indeterminatezza e, siffatte peculiarità, si riscontrano anche nelle conseguenze normative di un principio. In altre parole, la fattispecie di un principio di solito proclama un valore, un fine (l’uguaglianza, la libertà di manifestazione del pensiero, la correttezza nelle relazioni contrattuali, ecc.), senza stabilire chiaramente in che modo dovrà essere realizzato: quali precise conseguenze siano ad esso associate dipende da una serie di circostanze non esattamente predeterminabili[39]. Dunque, pur sapendo di muoverci su un terreno assai insidioso, perché la indicata distinzione fra principi e regole non è sempre così netta, sembra che l’art. 49 par. 3, Cdfue, abbia proprio tutti i connotati del principio. In qualche modo è la stessa Corte di Giustizia ad ammetterlo quando afferma che la proporzionalità è un principio generale del diritto dell’Unione che riceve una specifica declinazione, <<a livello costituzionale>>, per la materia penale, nel già menzionato art. 49. La disposizione, difatti, si limita a pretendere che vi sia una relazione fra pena e gravità del reato, senza spiegare quali siano i criteri per la misurazione concreta della sproporzionalità. Quindi, se la proporzionalità sanzionatoria è principio non potrebbe godere di efficacia diretta, ma dovrebbe trovare ingresso, nell’Ordinamento interno, mediante un provvedimento legislativo. Pertanto, fino a quel momento, la proporzionalità sanzionatoria non potrebbe avere altra funzione che di canone rafforzativo, per convergenza assiologica, dei contenuti dell’art. 27, comma III, Cost. e, di conseguenza, potenziare l’interpretazione di quel parametro nei giudizi di legittimità costituzionale.
Peraltro, secondo autorevole dottrina, la disapplicazione diretta della norma interna in contrasto con quella europea è possibile quando le due disposizioni hanno lo stesso grado di astrazione, tale da far derivare, in modo logicamente necessario ed univoco, la contraddizione fra di esse. Ove, invece, il livello di astrazione della norma unionale è più alto e distante di quello della norma interna, il giudizio di incompatibilità non può essere svolto dal giudice comune, sebbene dalla Corte costituzionale[40]. Invero, poiché nell’attuazione del diritto dell’Unione gli Stati membri godono di un certo margine di apprezzamento[41], che si realizza proprio nel momento della produzione della norma esplicativa della volontà sovranazionale, quello spazio di discrezionalità osterebbe ad un sindacato diretto fra l’una e l’altra disposizione. Il rilievo sarebbe tanto più corretto quando ci si trova al cospetto di principi come la proporzionalità, strutturalmente graduabile secondo le scelte compiute da ciascuno Stato[42]. Ebbene, nel caso sottoposto alla nostra attenzione, il raffronto dovrebbe avvenire fra l’art. 49, par. 3, Cdfue, che ha natura di principio generale, e l’art. 2641, commi 1 e 2, c.c., che prevede la confisca anche per equivalente in aggiunta alla sanzione comminata dagli artt. 2637 e 2638 c.c., norma di sicuro carattere regolamentare[43]. Per cui, il differente grado di astrazione fra le due disposizioni impedirebbe una loro comparazione diretta e il giudice comune non avrebbe alternativa diversa dal chiedere l’intervento della Consulta, o della Corte di Giustizia, per verificare se, la discrezionalità adoperata dallo Stato membro, non abbia finito per disattendere il principio unionale.
Sennonché, sembra smentire i rilievi finora svolti la considerazione che, talvolta, pure le regole hanno carattere generale e che il diritto unionale si muove spesso su principi, i quali si concretizzano e si specificano mediante le pronunce della Corte di Giustizia[44]. Ed è stata la stessa Corte ad affermare che l’art. 49, par. 3, Cdfue, ha immediata efficacia, il suo destinatario è il giudice, il quale può disapplicare di propria iniziativa, sia pure in parte, la sanzione edittale. L’assenza, nella norma o nella pronuncia dei giudici lussemburghesi, di ulteriori chiarimenti volti a comprendere le modalità per apprezzare la sproporzione della pena rispetto al reato – che, dunque, priverebbero la disposizione di carattere precettivo a causa della sua genericità – potrebbe non essere dovuta ad una lacuna, alla natura di principio dell’art. 49, par. 3, Cdfue, o ad una dimenticanza dei giudici europei, quanto, piuttosto, frutto di una precisa volontà. Invero, poiché nel diritto europeo manca una dogmatica penalistica, il giudice comune non avrebbe punti di riferimento per stabilire se la pena è sproporzionata: bisogna avere come base di osservazione le modalità dell’offesa ad un determinato bene giuridico? Oppure, la riprovevolezza del comportamento dell’imputato? O, ancora, la pericolosità sociale del reo?[45]. In altre parole, l’assenza di un referente teleologico vincolante europeo[46] non consentirebbe di attribuire una specifica direzione alla sproporzione che potrebbe tanto essere letta in una logica spiccatamente retributiva, quanto di prevenzione speciale anche negativa: certamente, però, non si rileverebbe alcun aggancio con la funzione rieducativa della pena, intesa come offerta di reinserimento sociale[47]. Di ciò ne sarebbe pienamente consapevole il legislatore europeo e, conseguentemente, la Corte di Giustizia che, attraverso l’art. 49, par. 3, Cdfue, non pretendono di attribuire alla pena una precisa finalità ma, essendo consapevoli del loro ruolo di custodi dei diritti fondamentali, vogliono porre un limite di garanzia (id est, la proporzionalità alla gravità del reato), oltre il quale la sanzione non giustifica più il fine, qualunque esso sia, cui mira la norma incriminatrice. La proporzionalità sanzionatoria, insomma, è principio metagiuridico – potremmo definirlo agnostico – perché prescinde dalle scelte di politica criminale di ciascuno Stato. La littera dell’art. 49, par. 3, Cdfue, è estremamente significativa in proposito: non prescrive che la pena sia proporzionata al reato – espressione che potrebbe essere intesa come una indicazione sulla funzione della pena – quanto, piuttosto, che la pena non deve eccedere la gravità del reato, proprio per evidenziare che quella relazione rappresenta lo sbarramento punitivo massimo consentito dal diritto europeo[48]. Dunque, né il diritto unionale, né l’art. 49 Cdfue, né la Corte di Giustizia spiegano i criteri a cui il giudice interno dovrebbe ispirarsi nella valutazione di sproporzionalità o nella modulazione della pena per ricondurla ad equità, perché non interessa, né vi sono le condizioni per compiere quelle scelte: l’unico scopo, l’unico criterio che si adotta è che la pena non possa superare la sua proporzione con il fatto realmente commesso. Sicché, il giudice comune deve sindacare l’iniquità del trattamento punitivo alla luce delle direttive costituzionali interne e, laddove rilevi tale sperequazione, l’art. 49, par. 3, Cdfue, lo autorizza ad irrogare una pena, secondo i criteri stabiliti dal proprio Ordinamento per la dosimetria della sanzione, anche al di fuori dei minimi edittali, al fine di assicurare la giusta proporzione rispetto alla gravità del fatto accertato.
- Il potere del giudice nazionale di disapplicare la norma interna.
Dalla lettura del ricorso per cassazione presentato dal Procuratore generale e dalla pronuncia della Corte costituzionale, si è detto, sembrerebbe che la diretta disapplicazione parziale della sanzione, ad opera del giudice comune, trovi un ostacolo nella Carta costituzionale, in particolare nell’art. 25 Cost. È nota la funzione di garanzia del principio di legalità e, principalmente, della riserva di legge, nella misura in cui, impedendo l’irrogazione di una pena non espressamente contemplata dalla fattispecie incriminatrice, protegge l’imputato dall’arbitrio del giudice nel momento della determinazione del debito punitivo. Tuttavia, è evidente che, in ispecie, l’esigenza giustificativa della guarentigia si attenua, anzi si inverte, perché l’autonomia di cui verrebbe a godere il giudice, svincolato dalla sanzione legale, sarebbe servente alla comminazione di una pena meno afflittiva[49]. Quindi, anche i c.d. controlimiti, elaborati dalla Corte costituzionale nella famosa saga Taricco[50] – e, per il tramite di essi, la riaffermazione che le norme penali (e le sanzioni) devono essere previste per legge, determinate e formulate in termini chiari, precisi e stringenti – risulterebbero ininfluenti. È facilmente comprensibile che la rivendicazione del primato della legalità penale e dei suoi corollari apparirebbe poco proficua se è vero che, nella vicenda Taricco, il richiamo al principio di legalità era finalizzato a privilegiare una normativa interna più favorevole; mentre, qui, l’immediata operatività dell’art. 49, par. 3, Cdfue, permetterebbe l’irrogazione di una sanzione in mitius.
Peraltro, è stata la stessa Corte costituzionale ad affermare che il principio di sovranità della Costituzione può essere superato quando sia funzionale ad ampliare la tutela dei diritti della persona: sia pur riferendosi al rapporto fra Costituzione e Convenzione edu, ma con argomentazioni suscettibili di una valenza più generale, ha chiarito che <<…il confronto tra tutela convenzionale e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla massima espansione delle garanzie, anche attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi diritti>>[51]. La Corte, insomma, appare aperta ad un confronto libero con le giurisprudenze comunitarie ed internazionali, rifiutando di ripiegarsi su logiche nazionaliste[52].
Il discorso potrebbe indurre ad esiti differenti se si ragionasse sull’altro versante della riserva di legge, di garanzia che assicura la separazione dei poteri. Difatti, quando il giudice disapplica la norma perché commina una pena di quantità inferiore a quella prescritta si altera il rapporto col legislatore: l’impianto costituzionale colloca il giudice, per un verso, in una posizione di autonomia e di indipendenza da ogni altro potere, e, per altro verso, in una condizione di subordinazione alla legge (art. 101 Cost.)[53]. I due profili si bilanciano perché l’indipendenza funzionale dal potere legislativo ha il suo contrappeso nel dovere di rispettare il prodotto di quel potere[54]. La scelta della pena edittale – oltre che la definizione della condotta penalmente rilevante – è espressione di apprezzamenti discrezionali di politica criminale che spettano al legislatore in quanto organo di democrazia; e, tale legittimazione è messa in pericolo quando il giudice irroga una sanzione diversa da quella stabilita, ma pure, qualora, in ragione della evanescenza dei criteri indicati per computarla, i suoi spazi valutativi si dilatano eccessivamente[55]. <<Gli ordinamenti costituzionali degli Stati di civil law non affidano al giudice il potere di creare un regime legale penale, in luogo di quello realizzato dalla legge approvata dal Parlamento, e in ogni caso ripudiano l’idea che i Tribunali siano incaricati di raggiungere uno scopo, pur legalmente definito, senza che la legge specifichi con quali mezzi e in quali limiti ciò possa avvenire>>[56].
Epperò, se la prioritaria esigenza di proteggere la forma di Stato adottata dalla Carta costituzionale imporrebbe di vietare al giudice qualsiasi intervento motu proprio, la conclusione non terrebbe in debito conto che la sua legittimazione ad agire non nasce da una arbitraria ed unilaterale iniziativa quanto, piuttosto, dall’obbligo di omologarsi al diritto europeo[57]. Obbligo che deriva, paradossalmente, da un atto volitivo dello stesso legislatore quando ha consentito di subordinare la propria autorità a quella del legislatore europeo, nelle materie di competenza del secondo. Quindi, se, forse, potrebbe apparire eccessivo sostenere che il potere di disapplicazione della norma penale trae direttamente origine dalla legge parlamentare, risponde sicuramente al vero che l’esercizio di quel potere non esprime, certamente, la volontà di appropriarsi di competenze assegnate ad altro organo, evenienza – questa sì – che metterebbe in crisi il sistema.
Infine, qualora si consentisse al giudice di disapplicare parzialmente la pena indicata dalla norma non si rileva alcuna violazione dell’art. 3 Cost., sebbene, questa, sia la ragione principale per la quale la dottrina preferisce percorrere la via del giudizio di incostituzionalità[58]. Riteniamo che il rischio di disparità di trattamento fra gli imputati – dovuto alla diversità di valutazioni che, in assenza di criteri vincolanti, il singolo organo giurisdizionale sarebbe chiamato ad effettuare nel proprio procedimento – in qualche modo è già insito nel momento della effettiva irrogazione pena, perché essa è strettamente condizionata dalle peculiarità della vicenda e perché – come si evidenzierà meglio nel prosieguo – i parametri normativi di riferimento sono talmente ampli ed elastici da lasciare al giudice un dominio assoluto sul trattamento punitivo. Se la pena minima serve a garantire la parità di trattamento ed esprime il giudizio di riprovevolezza manifestato dal legislatore verso le condotte astrattamente riconducibili ad una determinata fattispecie incriminatrice, il sistema, per contro, già permette al giudice di andare al di sotto del limite edittale quando il fatto, al suo incontestabile apprezzamento, si palesi estremamente esiguo.
Per altro verso, la discussa legittimazione del giudice ad irrogare una pena inferiore al minimo legale, se confrontata con le prassi applicative e con la disciplina codicistica, non risulta così distonica dagli altri poteri che l’Ordinamento già gli conferisce.
Quando, ad esempio, la Corte costituzionale ritiene illegittimo il trattamento sanzionatorio previsto da una norma penale, perché sproporzionato alla gravità dei possibili comportamenti ad essa riferibili – dunque, non raffronta la norma con altri illeciti, ma si esprime in forza di un sindacato di irragionevolezza totalmente interno alla disposizione – essa finisce per manifestare un giudizio di iniquità che inevitabilmente è di tipo valutativo e prevale sulla libera discrezionalità legislativa. Se, poi, il giudizio di incostituzionalità prescinde completamente dal tertium comparationis e, quindi, la individuazione della pena da sostituire non è per rime obbligate, la Consulta svolge un compito che compete al Parlamento[59]. Ebbene, se è indubbio che la Corte costituzionale è la garante dei principi fondamentali, quando procede alla ricerca delle nuove sanzioni all’interno del sistema penale diventa essa stessa legislatore, perché impone una propria visione che, se funzionale a salvaguardare i diritti dell’individuo, viola la riserva di legge[60].
Al di là del caso innanzi citato, certamente peculiare – per l’organo che si pronuncia e per le funzioni istituzionali ad esso conferite – che il giudice comune sia dotato di un potere discrezionale nella scelta della pena, fino al punto di poter disapplicare in tutto o in parte la sanzione edittale, emerge chiaramente ove si rifletta sul c.d. doppio binario sanzionatorio, ammesso dalla giurisprudenza italiana[61] dopo le note sentenze Grand Stevens del 2014 e, soprattutto, A. e B. contro Norvegia del 2016[62]. È risaputo che la Corte edu – offrendo una lettura sostanziale della garanzia del ne bis in idem – ha consentito, a certe condizioni, la duplicazione dei giudizi sullo stesso fatto qualora il secondo giudice, nell’applicazione della sanzione, possa prendere in considerazione quella già inflitta in una diversa sede; cosicché, la complessiva risposta punitiva risulti proporzionata all’intero disvalore del fatto. Poiché l’interpretazione è stata recepita anche dalla Corte di giustizia[63], il giudizio di proporzionalità sanzionatoria complessiva, ai fini della violazione del ne bis in idem, è oggi affidato all’insindacabile apprezzamento del giudice della cognizione – quando si tratta di materie di competenza dell’unione – perché l’art. 50 Cdfue, che cristallizza il principio, è norma immediatamente precettiva. Per cui, in ossequio a tale principio, la Corte di cassazione ha riconosciuto al giudice penale, intervenuto dopo la comminazione di una sanzione amministrativa, il potere di irrogare una pena al di fuori del minimo edittale[64] e, addirittura, di disapplicarla totalmente qualora ritenga che la prima abbia completamente esautorato il giudizio di proporzionalità[65]. In queste circostanze, è palese, il principio di legalità diventa recessivo rispetto alla necessità di assicurare una risposta punitiva proporzionata. E se è vero che, quando il giudice disapplica la sanzione penale, ragiona contando su quella impartita da un altro giudice, è altrettanto evidente che essa è computata sulla base di logiche e finalità diverse dai criteri che orientano la materia penale; e ciò avviene in contrasto con la riserva di legge che esige una propria sanzione per la sola rilevanza penale della condotta[66].
Per di più, siffatto potere manipolativo sulla sanzione edittale attribuito al giudice per via giurisprudenziale non rappresenta un’ipotesi isolata dovuta all’esigenza prioritaria di uniformarsi ai dicta sovranazionali – che già basterebbe per ritenere risolto, in senso positivo, il quesito che ci siamo posti – perché la legittimazione ad apprezzare la sanzione complessiva e, quindi, a violare i minimi edittali penali, gli è stata affidata dal legislatore del 2024 per superare problemi di bis in idem che potrebbero sorgere in forza dellanuova disciplina interna in materia di beni culturali[67]; e perché pure in altre occasioni il Supremo consesso si è attribuita la facoltà di ridefinire la pena[68].
Se tali orientamenti mettono in crisi la riserva di legge, in qualche modo si spiegano col bisogno di non intrappolare in <<rigide gabbie normative>> la capacità valutativa del giudice nella definizione della sanzione, perché è la stessa funzione costituzionale della pena a pretenderlo, tanto da indurre la dottrina a parlare di una <<legalità costituzionale della commisurazione della pena>>[69]. Difatti, sarebbero proprio le esigenze di rieducazione a prescrivere che la pena sia proporzionata al fatto e necessariamente individualizzata, principi destinati ad operare specificamente nel momento della sua concreta inflizione[70]. A conti fatti, basta leggere l’art. 133 c.p. – norma di riferimento imprescindibile che, in ogni processo, dovrebbe guidare nella sua attività decisoria – per intuire quanto sia estesa la discrezionalità del giudice in sede di definizione del trattamento punitivo: la disposizione rinvia ad una congerie tale di criteri, oggettivi e soggettivi, da ricomprendere qualsiasi elemento che, logicamente e razionalmente, sarebbe possibile utilizzare per orientarsi nel computo della pena[71]. L’onnicomprensività dell’elencazione, insomma, finisce per perdere la funzione di vincolo e consegna al giudice un potere pieno e libero di stabilire la entità della pena secondo il proprio inconfutabile giudizio[72]. Potere che si amplifica a dismisura quando deve verificare la sussistenza delle circostanze attenuanti comuni o generiche (artt. 62 e 62 bis c.p.), ove peraltro, nel secondo caso, manca qualunque parametro, per quanto generico, per indirizzarlo. Eppure, quelle disposizioni consentono al giudice ampi spazi di discrezionalità verso il basso: di movimento al di sotto della cornice minima e di bilanciamento in caso di compresenza di circostanze aggravanti ed attenuanti[73].
Ad ogni modo, anche laddove il giudizio di sproporzionalità dovesse indurre a ritenere opportuna la totale disapplicazione della pena, è fattispecie, questa, già contemplata dallo stesso legislatore, nell’art. 131 bis c.p., che facoltizza il giudice ad escludere la punibilità dell’imputato in presenza delle condizioni indicate nella norma. Qui, il giudice si trova al cospetto di un fatto di reato perfetto in tutti i suoi elementi costitutivi, epperò, può decidere di rinunciare all’inflizione della pena perché qualitativamente e quantitativamente sproporzionata all’offesa[74]. E, quasi paradossalmente, si prescrive che la valutazione del fatto debba avvenire sulla base dei generici parametri codificati nell’art. 133 comma 1, c.p. Ora, benché sia il Parlamento a legittimare il suo operato – quindi non sembra violata la riserva di legge – la vaghezza dell’enunciato normativo, generale ed astratto – se si esclude il riferimento alla sanzione minima per gli illeciti per i quali si applica l’istituto – nei fatti, lascia al giudice un potere incondizionato di rinunziare alla pena. E la rinuncia è proprio frutto di un sindacato di immeritevolezza: questo è un tipico caso in cui il giudice disapplica la sanzione perché sproporzionata rispetto alla scarsa gravità del fatto[75]. Ciononostante, non si è posto alcun dubbio sulla compatibilità della norma col principio costituzionale della legalità penale, della riserva di legge, della separazione dei poteri o, ancora, nessuno ha contestato l’assenza di una base legale sufficientemente precisa che guidi il giudice nel suo percorso valutativo. Forse perché l’istituto serve a soddisfare esigenze di efficienza, che evidentemente sono state considerate prevalenti ai principi fondamentali che regolano la materia penale[76].
Dunque. Le prassi giurisprudenziali consentono al giudice di disapplicare la pena, in tutto od in parte, in ipotesi di doppio binario processuale, qualora la risposta complessiva appaia sproporzionata; gli artt. 62 e in particolare 62 bis c.p. conferiscono al giudice un ampio margine di arbitrarietà nella concretizzazione del trattamento sanzionatorio, fino a legittimarlo all’irrogazione di una pena anche al di sotto del minimo edittale, indipendentemente dalla norma incriminatrice; l’art. 131 bis c.p. permette al giudice di non infliggere alcuna sanzione, però limita la possibilità alle sole fattispecie che prevedono nel minimo due anni di reclusione[77]. Il risultato, insomma, è l’emergere di un sistema in cui la discrezionalità giudiziaria nella determinazione della pena è <<a macchia di leopardo>> e ciò appare irrispettoso del principio di proporzione, di ragionevolezza e di uguaglianza[78].
In conclusione. In un Ordinamento in cui, non esistendo né sentencing guidelines né rigidi parametri commisurativi[79], il giudice ha il dominio assoluto nel computo della pena – soprattutto quando deve correggerla verso il basso o non irrogarla – sembra assolutamente in linea, con le sue prerogative, la possibilità di disapplicare parzialmente la pena perché sproporzionata alla gravità del fatto, come gli riconosce la Corte di Giustizia[80].
[1] Per la distinzione concettuale fra profitto, prodotto, prezzo e cose utilizzate per commettere il reato, si veda la recente sentenza delle Sezioni Unite del 26 settembre 2024, n. 13783.
[2] Si pensi, a tal proposito, alle note vicende giurisprudenziali interne e sovranazionali, sulla legittimità della confisca inflitta unitamente alla sentenza dichiarativa della prescrizione del reato, sfociate poi nell’intervento legislativo del 2022 sull’art. 578 bis c.p.p. La vicenda è la dimostrazione che il processo penale può divenire mera forma quando si tratta di affliggere beni come la proprietà privata.
[3] Già dalla pronuncia del 9 giugno 1961, n. 29.
[4] Cass., Sez. Un., 2 luglio 2008, n. 26654, Fisia Italimpianti s.p.a. ed altri, in Ced n. 239923; Id., Sez. Un., 31 gennaio 2023, n. 4145.
[5] “Caleidoscopio di istituti, ciascuno dei quali iscritto in un differenziato regime, fortemente condizionato dalla specifica natura della res da assoggettare alla misura, dal reato cui la cosa pertiene, e, da ultimo ma certo non per ultimo, dagli esiti del processo in cui la confisca viene applicata”. Così si esprime, Cass., Sez. Un., 26 giugno 2015, n. 31617.
[6] A.A. Maugeri, La riforma delle sanzioni patrimoniali (la confisca penale), in Dir. Pen. e Proc., 2021, 1372; T. Trinchera, Confiscare senza punire?, Torino, 2020, 34.
[7] Cfr., Corte cost., 2 aprile 1999, n. 97; id., 20 novembre 2009, n. 301; id., 7 aprile 2017, n. 68; id., n. 196 del 2010; id. n. 112 del 5 marzo 2019, in Dir. Pen. e Proc., 2020, 197.
[8] Corte edu, 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi bassi, secondo la quale, è ben noto, per delineare la natura penale della sanzione bisogna riferirsi alla qualificazione formale ufficiale o alla determinazione dell’ordinamento di appartenenza, alla natura stessa dell’infrazione, con particolare riferimento alle sue forme di tipicizzazione e al procedimento adottato, alla natura ed al grado di severità della sanzione.
[9] Così parafrasando, V. Manes, L’ultimo imperativo della politica criminale: nullum crimen sine confiscatione, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2015.
[10] Corte edu, 9 febbraio 1995, Welch c. Regno Unito, ric. 17440/90; id., Sez. IV, Phillips c. Regno Unito, 5 luglio 2001, ric. 41087/98; id., 9 novembre 2009, Adzhigovich c. Russia, ricorso n. 23202/05; id., Sez. IV, Grayson e Barnham c. Regno Unito, 23 settembre 2008, ric. 19955/05, 15085/06. Specificamente, sulla necessità che debba essere rispettato il principio di proporzionalità sanzionatoria, cfr., Corte edu, 20 gennaio 2009, Sud Fondi srl c. Italia, n. 75909/01; id., Sez. I, 6 novembre 2008, Ismayilov c. Russia, ricorso n. 30352/03.
[11]Ci si riferisce alla sentenza della Corte cost. n. 112 del 5 marzo 2019, cit., con la quale è stata dichiarata la illegittimità dell’art. 187 sexies del d.lv. n. 58 del 1998, nel testo introdotto dall’art. 9, comma 2 lett. a) della legge n. 62 del 2005, nella parte in cui prevedeva la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto degli illeciti amministrativi in materia di abuso di mercato e dei beni utilizzati per commettere il reato, e non solo del profitto. Si vedano, pure, le sentenze citate alla nota n. 7.
[12] V. Manes, L’ultimo imperativo della politica criminale: nullum crimen sine confiscatione, cit., 1274.
[13] Conforme è la dottrina maggioritaria, la quale, tuttavia, precisa che, se confisca si allarga a ciò che non è strettamente espressione dell’illecito, allora pur’essa finisce per avere natura afflittiva e, dunque, sarebbe necessaria una proporzionalità rispetto alla gravità del fatto. Così, A.A. Maugeri, La proposta di una nuova direttiva per la confisca dei beni: l’armonizzazione e l’actio in rem contro il crimine organizzato e l’illecito arricchimento, in www.sistemapenale.it, 89.; T. Trinchera, Confisca e principio di proporzione, in Dir. Pen. e Proc., 2021, 828; A. Alessandri, voce Confisca nel diritto penale, in Dig. Disc. Pen., vol. III, Torino, 1989, 44 ss. Ebbene, pur condividendo la conclusione cui è giunta la Corte costituzionale a proposito della confisca del profitto, non può nascondersi che residui qualche perplessità e che la distinzione abbia piuttosto il sapore di una truffa delle etichette: escludendo la natura sanzionatoria della misura, la Corte può disinvoltamente proporzionarla alla sola entità dell’illecito profitto e, dunque, prescindere da ogni complicata commisurazione con la gravità del reato. Invero, pur essendo indubbia la sua funzione riparativa, la confisca del profitto sembra presentare, altresì, finalità punitiva, perché rappresenta la reazione dell’Ordinamento alla violazione di una norma che prevede un illecito e punisce il reo privandolo del suo ingiusto arricchimento. Per cui, seguendo gli insegnamenti dei giudici d’oltralpe, la confisca dell’illecito dovrebbe qualificarsi come sanzione di natura punitiva e, quindi, godere delle garanzie previste per le sanzioni penali. In senso adesivo, M. Romano, Confisca, responsabilità degli enti, reati tributari, in Riv. It. Dir. Proc. Pen, 2015, 1683; V. Mongillo, Confisca (per equivalente) e risparmi di spesa: dall’incerto statuto alla violazione dei principi, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2015, 731; A. M. Dell’osso, Sulla confisca di prevenzione come istituto di diritto privato: spunti critici, in Dir. Pen. e Proc., 2019, 1002.
[14] Il principio viene affermato con maggiore chiarezza nella decisione in commento.
[15] In questi termini, la Corte conferma quanto già sostenuto con la sentenza n. 28 del 2022, ove ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 53, l. 689/1981, nella parte in cui prevedeva un tasso di conversione delle pene detentive brevi in pene pecuniarie inidoneo a tenere adeguatamente conto delle condizioni economiche del reo.
Peraltro, l’equiparazione della confisca punitiva alla pena pecuniaria comporta il superamento di quell’orientamento giurisprudenziale per il quale è possibile applicare la confisca in solido per tutti i concorrenti. Tesi, in verità, già superata da Cass., Sez., Un., 26.9.2024.
[16] … inteso come le cose derivate, sul piano causale, dal reato commesso.
[17] Che la confisca per equivalente avesse natura sanzionatoria, era già stato chiarito dalla Consulta con l’ordinanza del 2 aprile 2009, n.97, la quale però era giunta a siffatta conclusione rilevando che i beni sottoposti alla misura ablativa non avessero un rapporto di pertinenzialità con il reato, inteso come nesso diretto, attuale e strumentale. Con questa pronuncia, invece, muta il criterio per determinare la natura della confisca: non è più il legame diretto o meno con il fatto di reato, quanto l’entità del valore della confisca eccedente il profitto concretamente conseguito dal reo. Sicché, si prescinde dalla tradizionale distinzione fra confisca diretta e per equivalente.
[18] Cfr, in proposito, Corte cost., n. 50 del 1980, in Riv. it. dir. proc. pen., 1981, 725 ss.
[19] Chiarisce, infine, che resta comunque inalterata la facoltà del giudice, nel rispetto del principio di proporzionalità, di disporre la confisca diretta delle cose che servirono a commettere il reato, ai sensi dell’art. 240 c.p., come espressamente richiamato dall’art. 2641, comma 3, c.c.
[20] Cfr., in particolare, Corte di Appello Bari, sez. II, 18 maggio 2020, in www.sistemapenale.it, del 22 giugno 2020, con nota di S. Finocchiaro, Principio di proporzionalità e confisca urbanistica: alla Consulta una nuova questione di costituzionalità dell’art. 44 T.U ove, in un caso di lottizzazione abusiva, il giudice chiedeva di disporre l’obbligo di adeguamento delle opere in conformità delle prescrizioni urbanistiche in luogo della confisca dei terreni.
[21] Cfr., in particolare, Corte edu del 28 giugno 2018, causa G.I.E.M. s.r.l. ed altri c/ Italia, ove la Grande Camera evidenzia che, ai fini della valutazione della proporzionalità della confisca, devono essere presi in considerazione diversi parametri, quali la possibilità di adottare misure meno restrittive, come la demolizione di opere non conformi alle disposizioni pertinenti o l’annullamento del progetto di lottizzazione; la natura illimitata della sanzione derivante dal fatto che può comprendere indifferentemente aree edificate e non edificate e anche aree appartenenti a terzi; il grado di colpa o di imprudenza dei ricorrenti o, quanto meno, il rapporto tra la loro condotta e il reato.
[22] Cass. Sez. III, 5 febbraio 2020, n. 12640, Iannelli; Cass., Sez. III, 20 novembre 2020, n. 3727, Santamaria.
[23] T. Trinchera, Confisca e principio di proporzione, cit., 826, il quale tuttavia reputa che, in ispecie, sorga un problema di sproporzionalità. L’Autore osserva, difatti, che pure laddove si riuscisse ad individuare i criteri per adeguare la misura alla gravità del fatto, si correrebbe il rischio di generare risultati evidentemente iniqui a fronte di condotte ugualmente rilevanti sul piano del disvalore, ma che siano state realizzate adoperando beni strumentali di valore assolutamente diverso.
[24] Per completezza, preme rilevare che la Corte costituzionale ha ritenuto, altresì, violati gli artt. 1 Prot. addiz. Cedu e 17 Cdfue che, nel diritto della Convenzione e dell’Unione europea, tutelano il medesimo principio, in quanto riferito a una sanzione patrimoniale.
[25] …perché, pur riferendosi alle “pene” e al “reato” si applicherebbe all’insieme delle sanzioni sia penali che amministrative se di carattere “punitivo”, come spiegato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, del 20 marzo 2018, G.R. SA e altri, in causa C-537/16, paragrafo 56.
[26] …senza però indicare i criteri in base ai quali dovrebbe compiersi la valutazione della sproporzionalità. Così, R. Acquaroli, La confisca e il controllo di proporzionalità: una buona notizia dalla Corte costituzionale, in Dir. Pen. e Proc., 2020, 200.
[27] Per queste considerazioni si veda T. Trinchera, Confisca e principio di proporzione, cit., 826.
[28] Cfr., ad esempio, Corte europea, nel caso G. I.E.M. srl c. Italia, del 28 giugno 2018.
[29] Corte cost., n. 112 del 5 marzo 2019, cit.
[30] …scelta, peraltro, già avallata numerose volte dalla Corte costituzionale, fin dalla sentenza n. 269 del 2017.
[31] Nel proseguire col ragionamento, sembra utile evidenziare la diversità del caso che ha indotto la Corte di Giustizia a pronunciarsi nei termini innanzi descritti, da quello sul quale è intervenuta la Corte di cassazione. La Corte di Giustizia, difatti, in forza del par. 3 dell’art. 49, ha autorizzato il giudice interno a rimodulare una pena che potremmo definire fissa, perché avrebbe dovuto essere computata sulla base di parametri oggettivi del tutto svincolati dalla gravità della condotta. Nel procedimento nostrano, si è già detto, la sanzione era duplice, in quanto alla pena detentiva, variabile fra un minimo ed un massimo particolarmente elevati, andava aggiunta la confisca dei beni strumentali, quale ulteriore conseguenza per gli illeciti in contestazione. Sicché, il giudice territoriale, ragionando sulla sanzione complessiva, aveva considerato proporzionata al fatto contestato l’applicazione della sola pena limitativa della libertà personale. Pertanto, se si assume come punto di riferimento la sanzione complessiva, la eliminazione della confisca deve intendersi come disapplicazione parziale della pena; se si guarda alle due sanzioni di specie diverse, la disapplicazione parziale ha comportato la disapplicazione totale di una di esse.
[32] …anche se poi la linea di confine fra interpretazione – ammessa – e creazione – vietata – della norma comunitaria è estremamente sottile, se le norme europee si muovono per principi e se la Corte di Giustizia ha il dovere di specificarne il contenuto e l’ambito di applicazione.
[33] Così, Cass., Sez. V, n. 22577 del 11 dicembre 2012; Cass., Sez. III, 2 marzo 2005, n. 4466 e Cass. 30 agosto 2004 n. 17350
[34] Invero, già nella sentenza del 14 luglio 1977, causa 8/77, Sagulo e altri, la Corte di Giustizia aveva chiarito che <<qualora uno Stato membro non abbia adattato la propria legislazione alle esigenze derivanti in materia dal diritto comunitario, il giudice nazionale dovrà far uso della libertà di valutazione riservatagli, al fine di pervenire all’applicazione di una pena adeguata alla natura e allo scopo [delle norme comunitarie] di cui si vuole reprimere l’infrazione>>.
[35] Nel caso in esame si discuteva della violazione del principio di proporzionalità sanzionatoria di una legge interna che, in applicazione della direttiva UE 2014/67, aveva previsto sanzioni pecuniarie eccessivamente elevate nel minimo, in contrasto con l’art. 20 della medesima direttiva che impone che le pene siano effettive proporzionate e dissuasive. Peraltro, l’Avvocato generale – che sollecitava il riconoscimento diretto del requisito di proporzionalità della direttiva – rilevava che il mancato riconoscimento avrebbe comportato la paradossale negazione dell’efficacia diretta del par. 3 dell’art. 49 della Carta. La Grande Sezione, nell’accogliere la interpretazione proposta dall’Avvocato generale, circa l’effetto diretto del requisito di proporzionalità indicato nella direttiva, motiva attraverso ragionamenti che coinvolgono direttamente il principio di proporzionalità contenuto nel par. 3 dell’art. 49. Dopo aver chiarito che il principio di proporzionalità, a cui si riferisce la direttiva, è sufficientemente preciso, con motivazioni tautologiche spiega che la proporzionalità sanzionatoria è principio generale dell’Unione, regolato dall’art. 49 e che l’art. 20 della direttiva citata si limita a richiamare. Dunque, di riflesso, anche il principio di proporzionalità indicato nella direttiva ha carattere imperativo. Non può sottacersi, però, che, generalmente, le pronunce della Corte di Giustizia sono fortemente condizionate dalle specificità del caso sottoposto alla loro attenzione. Ebbene, deve evidenziarsi che questa decisione nasce dopo ben due rinvii pregiudiziali, ove la Corte aveva già considerato la disciplina interna sproporzionata rispetto al diritto unionale e, poiché il legislatore non aveva proceduto a modificarla, essa perviene alla sentenza nei termini innanzi precisati.
[36] Ci si riferisce alla sentenza della Corte di giustizia UE, 4 ottobre 2018, Link Logistic, C-384/17 ove il giudice ungherese dubitava della proporzionalità di una sanzione amministrativa quantificata dalla legge, in attuazione di una direttiva comunitaria 1999/62, in misura fissa che, pertanto, non consentiva di adeguare la sanzione alle caratteristiche del caso concreto nonostante che, l’art. 9 bis della medesima direttiva, imponesse la proporzionalità della pena. La Corte, tuttavia, addiviene ad una decisione contraddittoria perché, se per un verso esclude l’effetto diretto di una direttiva che prescrive sanzioni effettive proporzionate e dissuasive, dall’altro ribadisce la necessità di garantire l’adempimento degli obblighi derivanti dalla direttiva, attraverso l’interpretazione conforme, ma anche mediante la disapplicazione di ogni disposizione nazionale che comporti un risultato contrario al diritto dell’unione.
[37] Sul tema, M. Condinanzi, Diritti, principi e principi generali nell’ordinamento giuridico dell’Unione europea, in L. D’Andrea – G. Moschella – A. Ruggeri – A. Saitta (a cura di), La Carta dei diritti dell’Unione europea e le altre Carte (ascendenze culturali e mutue implicazioni), Torino, 2016, 82-83.
[38] S. Manacorda, Dalle Carte dei diritti a un diritto penale “à la carte”?, in www.penalecontemporaneo.it, del 17 maggio 2013,11.
[39] Sulla differenza fra principi e regole, cfr., G. Pino, Principi e argomentazione giuridica, in Ars Interpretandi, Rivista di ermeneutica giuridica, 2009, 131 ed in particolare, dello stesso Autore, Diritti fondamentali e principio di proporzionalità, cit., 541, ove, spiega che, se si pone attenzione al modo in cui sono codificati i diritti fondamentali nelle costituzioni contemporanee, si rileva che solitamente essi sono espressi con formulazioni estremamente ampie, indeterminate; talvolta, la proclamazione di un diritto è accompagnata anche dall’indicazione di uno o più fattori in vista dei quali è possibile limitare quel diritto, ma anche questi fattori sono a loro volta formulati in modo ampio e indeterminato («ordine pubblico», «buon costume», «sicurezza, libertà, dignità e umana»…).
[40] Il pensiero è di F. Palazzo, Europa e diritto penale: i nodi al pettine, in Dir. Pen. e Proc., 2011, 659.
[41] ..o come preferisce definirlo C. Sotis (La “mossa del cavallo”. La gestione dell’incoerenza nel sistema penale europeo, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 2012, 464), margine nazionale di bilanciamento che, sottolinea l’Autore, sarebbe un parametro molto più affidabile e razionalizzabile dell’altro: con il “margine nazionale di bilanciamento” la Corte di giustizia giudicando sulla natura fondamentale di un diritto costituzionale nazionale, secondo quanto stabilito dalla giurisprudenza nazionale, individua immediatamente un interlocutore e attua un vero programma di sussidiarietà giudiziaria.
[42] In proposito, F. Viganò, Il diritto penale sostanziale, in F. Viganò – O. Mazza (a cura di), Europa e giustizia penale, speciale di Dir. Pen. e Proc., 2011, 22 ss.
[43] È ovvio che le considerazioni sarebbero identiche anche se cambiasse il secondo termine di paragone, visto che le norme penali incriminatrici interne assumono sempre la veste di regola e mai di principio.
[44] Segnala A. Bernardi (Il rinvio pregiudiziale in ambito penale e i problemi posti dalle sentenze interpretative della Corte di Giustizia, in www.sistemapenale.it, del 30 maggio 2023, 37), v’è una progressiva tendenza della Corte di giustizia sia a creare per via pretoria “principi di diritto non scritto” ricchi di ricadute sulle misure punitive nazionali adottate nei settori di competenza UE, sia a implementare e arricchire con sempre nuovi corollari i principi/diritti UE “di diritto scritto” destinati a vincolare in vario modo le scelte sanzionatorie nazionali in sede di attuazione del diritto UE, sia a riconoscere efficacia diretta ai suddetti principi/diritti, e dunque a generalizzare il ricorso al meccanismo disapplicativo da parte dei giudici nazionali in caso di contrasto della normativa interna con tali principi/diritti. Epperò, prosegue l’Autore, percorrendo la strada intrapresa con la sentenza NE, v’è il rischio che, in un prossimo futuro, la Corte possa imporre la disapplicazione di una sanzione “tipologicamente sproporzionata” e contestualmente – in nome della lotta all’impunità – investire il giudice nazionale del potere-dovere di applicare una sanzione di tipo diverso, più mite ma pur sempre corredata dal necessario coefficiente di efficacia e dissuasività.
[45] C. Sotis, Il trattato di Lisbona e le competenze penali dell’Unione europea, in Cass. Pen., 2010, 326 e ss; D. Pulitanò, Diritto penale e costruzione europea, atti del Convegno “Il diritto penale nella prospettiva di riforma dei trattati europei”, del 27 e 28 giugno 2008; R. Sicurella, La costruzione della dimensione penale dell’Unione europea: deriva simbolico-repressiva o occasione di approfondimento dei presidi garantistici?, in Riv Trim. Dir. Pen. Ec., 2013, 419; A.M. Maugeri, Il principio di proporzione nele scelte punitive del legislatore europeo: l’alternativa delle sanzioni amministrative comunitaria, in G. Grasso – L. Picotti – R. Sicurella (a cura di), L’evoluzione del diritto penale nei settori di interesse europeo alla luce del trattato di Lisbona, Milano, 2011, 75; S. Moccia, Funzioni della pena e implicazioni sistematiche: tra fonti europee e Corte costituzionale italiana, in Dir. pen. e proc., 2012, 921 e ss.
[46] È proprio l’assenza di un’esperienza penalistica dell’unione che ha spinto autorevoli studiosi a predisporre un manifesto per una politica penale europea che identifichi quale sia la funzione da attribuire alla sanzione penale a livello, appunto, europeo. Cfr., European Criminal policy initiative, Manifesto sulla politica criminale, in Riv. It. Dir. Proc., 2010, 1262 e ss.
[47] Pur nella consapevolezza che ogni scelta in materia penale sia espressione di una opzione politica criminale, la circostanza che il Consiglio..avesse riconosciuto la necessità di elaborare linee ufficiali di politica criminale, manifesta l’esigenza di una chiara e netta determinazione della funzione della pena. Così osserva Moccia, Funzioni della pena de implicazioni sistematiche: tra fonti europee e Corte costituzionale italiana, cit., 923. Si veda, sul punto, anche M. Sbriccoli, La penalistica civile. Teorie ed ideologie del diritto penale nell’Italia unita, in Storia del diritto penale e della giustizia, Milano, 2010, 148.
In proposito, sulla diversa finalità che assume il principio di proporzionalità nell’Unione europea e nella Carta costituzionale, volendo, B. Nacar, Il principio di proporzionalità sanzionatoria quale criterio per la disapplicazione parziale della sanzione penale, fra diritto unionale, principi costituzionali e disciplina codicistica, in Iudicium, 2024.
[48] Cfr., F. Viganò, La proporzionalità della pena tra diritto costituzionale italiano e diritto dell’unione europea: sull’effetto diretto dell’art. 49, paragrafo 3, della carta alla luce di una recentissima sentenza della Corte di giustizia, cit.,120; M. Donini, Il volto attuale dell’illecito penale, Milano, 2004, 275, i quali, ragionando anche sulle origini storiche del concetto di proporzionalità dove, nel modello tedesco, la pena applicata non può superare il limite della colpevolezza del fatto (per tutti, C. Roxin, C., Politica criminale e sistema del diritto penale, 1970, traduzione italiana a cura di S. Moccia, Napoli, 1988, 51), affermano che la proporzionalità sanzionatoria debba essere intesa con funzione limitativa della potestà punitiva statale, a fronte delle ragioni di natura preventiva incorporate nelle finalità della pena, onde assicurare che essa si mantenga entro la dimensione di una risposta adeguata alla gravità del fatto commesso.
[49] La tesi è sostenuta da V. Manes, Metodo e limiti dell’interpretazione conforme alle fonti sovranazionali in materia penale, in Arch. Pen., 2012, 37, nonché da C. Sotis, Tra Antigone e Creonte io sto con Porzia. Riflessioni su Corte costituzionale 24 del 2017, cit., 9.
[50] La vicenda Taricco, nota a tutti, aveva determinato un lungo dialogo fra Corte costituzionale e Corte di giustizia in merito all’istituto della prescrizione che, secondo la prima, era attratto nella materia sostanziale e, dunque, sottostava al principio di legalità ed ai suoi corollari, secondo l’altra, rientrava nella materia processuale penale. Il dialogo è stato serratissimo ed ha avuto inizio con la decisione della Corte di giustizia, dell’8 settembre 2015, C-105/14, cui è seguita la pronuncia della Consulta, la n. 24 del 2017, con la quale si è effettuato un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, a cui è seguita la decisione della Grande Camera di Lussemburgo (CGCE, 5 dicembre 2017, C-42/17, M.A.S. e M. B.), alla quale ha replicato la Consulta con la decisione n. 115 del 2018.
[51] Corte cost. n. 317 del 4 dicembre 2009.
[52] F. Gallo, Rapporti tra Corte costituzionale e Corte edu, in www.cortecostituzionale.it/documenti.
[53] Il principio della divisione dei poteri è stato rinvenuto nell’art. 101, comma II, Cost. dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 230 del 12 ottobre 2012.
[54] Così, D. Pulitanò, La chiusura della saga Taricco e i problemi della legalità penalistica, in Dir. Pen. e Proc., 2018, 1292 e C. Sotis, Tra Antigone e Creonte io sto con Porzia. Riflessioni su Corte costituzionale 24 del 2017, cit., 13.
[55] R. E. Kostoris, Processo penale, diritto europeo e nuovi paradigmi del pluralismo giuridico postmoderno, cit.,177. In giurisprudenza, cfr., Corte cost., n. 299 del 30 dicembre 1992, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1992, 1468, secondo la quale “Il principio di legalità richiede che l’ampiezza del divario tra il minimo e il massimo della pena non ecceda il margine di elasticità necessario a consentire l’individualizzazione della pena secondo i criteri di cui all’art. 133 e non sia manifestamente non correlato alla variabilità delle fattispecie concrete e delle tipologie soggettive rapportabili alla fattispecie astratta”.
[56] Così, espressamente, Corte cost., Ordinanza n. 24 del 14 dicembre 2017, cit.
[57] Scrive S. Silvestri (La discrezionalità tra legalità e giurisdizione, in www.sistemapenale.it, del 17 maggio 2024, 13) “Senza entrare in una disamina dettagliata della giurisprudenza delle Corti europee in tema di legalità (penale), possiamo dire – anche alla luce di considerazioni tratte dal diritto interno – che oggi non ci si può limitare a guardare soltanto alla legge formale per valutare la sussistenza e la consistenza delle garanzie di libertà dei cittadini, ma bisogna far riferimento al “clima costituzionale” complessivo, che risulta dalla confluenza della nostra Costituzione, della CEDU e della Carta dei diritti fondamentali della UE… Con la conseguenza che la riserva di legge, anche in materia penale, perde la sua esclusività legalistica, per inglobare il portato dell’interpretazione giurisprudenziale – ormai vera e propria fonte del diritto concorrente – e dare un peso diverso che per il passato agli spazi di discrezionalità lasciati ai giudici”.
[58] Peraltro, è evidente che, qualora sia la Corte costituzionale ad elidere dal sistema la sanzione sproporzionata, la sua pronuncia, oltre ad avere efficacia in tutti i procedimenti in corso, produrrebbe effetti anche nei confronti di coloro che siano già stati giudicati con sentenza passata in giudicato, ai sensi del combinato disposto dell’art. 30, legge n. 87/1953 e 670 c.p.p., come sostenuto da Cass., Sez. Un., 24 ottobre 2013, n. 18821.
Sul tema, Cfr., O. Spataro, La proporzionalità della sanzione nella prospettiva della Corte di Giustizia dell’Unione Europea: riflessioni a partire da un’importante sentenza della Grande Sezione, in www.dirittifondamentali.it, 458; F. Viganò, La proporzionalità della pena tra diritto costituzionale italiano e diritto dell’unione europea: sull’effetto diretto dell’art. 49, paragrafo 3, della carta alla luce di una recentissima sentenza della Corte di giustizia, cit., 17 ss.; N. Recchia, La proporzione sanzionatoria, cit., 891 ss.
[59] In senso adesivo, R. Bartoli, Il sindacato di costituzionalità sulla pena tra ragionevolezza, rieducazione e proporzionalità, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 2022,1441.
[60] Cfr., a titolo esemplificativo, Corte cost., nn. 112 del 10 maggio 2019, 156 del 21 luglio 2020 e 28 del 1° febbraio 2022.
[61] Corte cost., 2 marzo 2018, n. 43; Cass., Sez. V, 15 aprile 2019 n. 39999; Cass. Sez. V, 9 novembre 2018, n. 5679.
[62] Corte edu, 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia e Grande Camera, A e B contro Norvegia del 15 novembre 2016.
[63] Grande sezione 20 marzo 2018, Menci, C-524/15; Garlsson Reale Estate, C-537/16; id., Di Puma, C-596/16, ove espressamente si rinvia al principio di proporzionalità di cui all’art. 49, par. 3.
[64] Cass., Sez. VII, 15 marzo 2016, n. 27674; Cass., Sez. III, 3 giugno 2014, n. 29985.
[65] Cass., Sez. V, 15 aprile 2019, in Ced n. 276963-04. Si vedano anche, Cass., Sez. V, 21 settembre 2018, Chiarion, in Ced n. 274604; id., Sez. V, 16 luglio 2018, Franconi, in Ced n. 274179; id., Sez. V, n. 5679 del 19 novembre 2019, Erbetta, in Ced n. 275314. Cfr., però, Corte cost., n. 149 del 16 giugno 2022, la quale – nel dichiarare la parziale illegittimità dell’art. 649 c.p.p. – osserva che, ai fini della commisurazione della pena complessiva, nel sistema non esiste un meccanismo per consentire al giudice penale di tenere conto della precedente sanzione irrogata da altro giudice.
[66] Così, M. Pelissero, Il principio di proporzionalità (non sproporzionalità) delle pene: recenti sviluppi e impatto anomalo delle fonti eurounitarie sul principio di legalità delle pene, in Dir. Pen. e Proc., 2023, 1360; T. Padovani, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1992, 445.
[67] Ci si riferisce alla recente legge del 22 gennaio 2024, n. 6, in materia di tutela dei beni culturali e paesaggistici
[68] Si pensi al caso, ben noto, in cui la Cassazione, in materia di sostanze stupefacenti, ha trasformato un elemento quantitativo non numerico – contenuto nella fattispecie – come l’<<ingente quantità>>, in specifici limiti quantitativi numerici, adoperando un proprio criterio ponderale. Cfr., Cass., Sez. Un., del 24 maggio 2012 n. 36258/12
[69] L’espressione è F. Palazzo, Commisurazione della pena e discrezionalità giudiziale: un terreno di tensioni ed incertezze, in Dir. Pen. e Proc., 2022, 1345.
[70] Il tema è complesso e non può essere racchiuso in poche battute. Si rinvia perciò a F. Palazzo, Commisurazione della pena e discrezionalità giudiziale: un terreno di tensioni ed incertezze, cit., 1345 e ss.
[71] C. Massa, Le attenuanti generiche, Napoli, 1959, 70.
[72] Eppure, l’art. 133 c.p. nulla dice sul se e come la commisurazione della pena debba essere orientata alla rieducazione e, ancor prima e più in generale, su come i criteri commisurativi special-preventivi debbano essere armonizzati con quello della proporzione posto in primo piano nella struttura dell’art. 133 c.p. Né la norma ci consente di comprendere che peso debbano avere la proporzione e la finalità rieducativa nella commisurazione infraedittale Così, F. Palazzo, Commisurazione della pena e discrezionalità giudiziale: un terreno di tensioni ed incertezze, cit., 1346.
[73] C. Massa, Le attenuanti generiche, cit., 216, nonché F. Basile, L’enorme potere delle circostanze sul reato e l’enorme potere dei giudici sulle circostanze, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2015, 1743.
[74] D. Brunelli, Il fatto tenue tra offensività ed equità, in www.archiviopenale.it, 2016, 258.
[75] Ancora, F. Palazzo, Commisurazione della pena e discrezionalità giudiziale: un terreno di tensioni ed incertezze, cit., 1345.
[76] Discorso analogo potrebbe compiere per la nuova disciplina dell’estinzione del reato per condotte riparatorie, il quale, all’art. 162-ter, prevede che, per i reati procedibili a querela, il giudice dichiara estinto il reato quando l’imputato ha riparato interamente il danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e ha eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose del reato. Invero, rileva (M. Donini, Punire e non punire. Un pendolo storico divenuto sistema, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 2023, 1331), tutta la riforma Cartabia è una macchina della dialettica punire/non punire… che spinge verso una nuova cultura della discrezionalità.
[77] La previsione di un limite minimo di pena, si ritiene, sarebbe dovuta all’esigenza di limitare il potere del giudice che, diversamente, sarebbe eccessivamente dilatato. Peraltro, quel limite servirebbe a garantire il principio di uguaglianza. In proposito, D. Brunelli, Il fatto tenue tra offensività ed equità, cit., 260.
[78] L’espressione è di D. Brunelli, Il fatto tenue tra offensività ed equità, cit., 260.
[79] …tanto indurre la dottrina a ritenere che sia plausibile che il giudice finisca per determinare intuitivamente la pena meritata, secondo un criterio di proporzionalità che avrà maturato lungo la propria esperienza personale, e solo successivamente ricostruisca ex post il calcolo della pena secondo le scansioni normative. Cfr., F. Viganò, La proporzionalità della pena tra diritto costituzionale italiano e diritto dell’Unione europea: sull’effetto diretto dell’art. 49, paragrafo 3, della Carta alla luce di una recentissima sentenza della Corte di Giustizia, cit., 168.
[80] Invero, in conclusione, si tratterebbe di estendere un potere che già l’art. 131 bis c.p. conferisce al giudice, perché, come affermato dalla Cassazione, l’istituto opera quando, utilizzando i parametri commisurativi, il giudice si accorge che la pena dovrebbe scendere al di sotto del limite legale, non essendo sufficiente neppure la diminuzione conseguente all’applicazione delle attenuanti generiche. Cfr., Cass. Sez. VI, 22 ottobre 2015, n. 44417, in Ced n. 265065.