Segnaliamo le conclusioni finali del parere indipendente ed esperto del prof. Paulo Pinto de Albuquerque, Confiscation without Conviction for Membership of Mafia, Lisbona, 23.5.2025, relativamente al procedimento pendente davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo sul noto ricorso dei fratelli Cavallotti, in cui l’illustre cattedratico ravvisa la violazione degli articoli 6 § 2 e 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dell’articolo 1 del Protocollo n. 1.
454. Questo parere legale indipendente viene finalizzato esattamente 33 anni dopo la tragica uccisione del giudice Giovanni Falcone da parte della mafia corleonese sull’autostrada A29 nei pressi del paese di Capaci. La saga giudiziaria della famiglia Cavallotti mi ha ricordato le sue potenti parole sulle misure preventive quando, con la sua schiettezza, affermò che “le misure di prevenzione sono un mezzo antidemocratico e che il vero luogo della punizione del responsabile è il processo penale” Per il giudice Giovanni Falcone, provvedimenti senza accertamento di colpevolezza, in via preventiva, sono “una strategia già perdente che non serve a nulla. Serve soltanto a creare ancora una volta dei martiri dello Stato, delle persone che affermano di aver subito delle profonde ingiustizie e, in buona parte, è anche vero”.
455. Oltre ad aggirare le norme fondamentali del diritto penale e processuale penale e ad attenuare il divario tra diritto penale e civile, questa strategia già perdente è ancora più preoccupante perché il Legislatore ignora la reale dimensione del suo impatto sulla società e sull’economia italiana. La relazione ufficiale basata sull’articolo 49 del Codice Antimafia non fornisce informazioni in merito al presunto reato che ha dato origine alla confisca preventiva (ad esempio, quanti decreti di confisca sono stati emessi per sospetto di appartenenza a un’associazione di tipo mafioso), alla decisione definitiva pronunciata nel rispettivo procedimento penale (ad esempio, quanti decreti di confisca sono stati emessi a seguito di un’assoluzione), allo stato dei beni al momento della restituzione alla società (se fossero ancora operativi o meno) e alle perdite in termini di occupazione, entrate e gettito fiscale causate dall’emissione di decreti di confisca preventiva.
456. Peggio ancora, i dati disponibili lasciano un dubbio scomodo e persistente che non sia un caso che i martiri dello Stato siano sempre gli stessi e provengano sempre dalle stesse regioni d’Italia. A conferma dell’inequivocabile affermazione fatta in Parlamento il 25 maggio 1965 riguardo a chi il legislatore intendeva colpire con la nuova legge sulla confisca preventiva, la risposta fornita all’interrogazione del deputato Giachetti il 10 febbraio 2025 ha riconosciuto che 7.182 imprese erano state sottoposte a confisca preventiva tra il 2019 e il 2023, con una “particolare concentrazione in Sicilia, Campania e Calabria”.
457. È giunto il momento che il legislatore e la magistratura italiana riconsiderino se l’attuale sistema di confisca preventiva sia ancora uno strumento compatibile con la Costituzione italiana, a tutela dei diritti umani, e con i suoi obblighi internazionali. È logicamente e deontologicamente inammissibile che il Governo difenda una posizione, a Roma e a Bruxelles, per giustificare il reciproco riconoscimento dei provvedimenti di confisca preventiva all’interno dell’Unione europea, e la posizione opposta a Strasburgo, per privare i destinatari di tali provvedimenti delle garanzie degli articoli 6, commi 2 e 3, 7 e 4 del Protocollo n. 7.
458. Questa necessaria riflessione può essere avviata solo se il Legislatore e la Magistratura riconoscono veramente ciò che è ovvio, ovvero che la confisca preventiva ai sensi della Legge n. 575/1965 e delle sue modifiche e del Codice Antimafia hanno portato alla spoliazione dell’intero patrimonio di persone innocenti, ponendole in una situazione economica e sociale molto peggiore di quella in cui si trovavano prima di commettere presunte condotte criminali. Se questo sistema altamente repressivo di confisca non basata sulla condanna è stato introdotto con la retorica populista di voler colpire un fenomeno particolarmente pericoloso della criminalità organizzata nel Sud Italia, che di per sé è una scelta di politica criminale discutibile, la sua successiva espansione indiscriminata ai reati di lucro nell’ambito del diritto penale comune mette a repentaglio le fondamenta costituzionali stesse dello Stato italiano. Qual è lo scopo di avere un diritto e una procedura penale liberali e rispettosi dei diritti umani per affrontare la criminalità comune, come in Italia, se accanto a un diritto sulle misure preventive di stampo medievale, ostile ai diritti umani, e ogni volta che il primo non riesce a punire l’indagato, lo Stato italiano si rivolge al secondo per finire il lavoro?
459. Sottolineo rispettosamente, in qualità di esperto legale indipendente, che questa riflessione è anche giustificata dagli obblighi internazionali dell’Italia ai sensi degli articoli 6 § 2 e 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dell’articolo 1 del Protocollo n. 1, che sono stati violati nel caso dei fratelli Cavallotti e delle loro famiglie, veri martiri dello Stato.
Non occorrono altre parole, per dimostrare il contrasto del vigente “Codice antimafia” con le fondamentali disposizioni della Conv. e.d.u. e, aggiungo, con quelle della nostra Costituzione : in particolare, la indeterminatezza dell’addebito, l’irrilevanza di un giudicato penale di assoluzione sullo stesso fatto, un procedimento inquisitorio, che limita i diritti della difesa, un ruolo attivo del giudice quale supplente dell’accusa, i provvedimenti di sequestro e vendita inappellabili che privano i soggetti di un “giusto processo”, le presunzioni che rendono impossibile la prova contraria.
In conclusione, le misure di prevenzione, personali e patrimoniali, hanno senza dubbio un contenuto sostanzialmente sanzionatorio e, ciononostante, sono irrogate con minimali garanzie da una giurisdizione solo apparente che trasforma il giudice in poliziotto, dopo che la prova è già stata assunta in segreto e senza contraddittorio dalla polizia o dal pubblico ministero. Anche il giudizio, che si limita a confermare il sospetto di polizia, è caratterizzato da bulimia probatoria, vaghi indizi e irragionevoli presunzioni, inversione dell’onere della prova con pretese di “prova diabolica” a carico del proposto, scorciatoie procedurali e mutilazioni della difesa. La realtà è che il processo di prevenzione sta ormai scalzando il processo penale perché lo sostituisce con la funzione di surrogare una prova insufficiente per condannare e confiscare. E quando esiste la prova sufficiente per il processo penale il soggetto è sanzionato due volte per lo stesso fatto, cioè sia con la pena detentiva per il reato, sia con la misura di prevenzione.
Si può concludere constatando che il “diritto di polizia”, nato con natura amministrativa e che perciò non dovrebbe mai incidere sui diritti fondamentali dell’uomo, ha usurpato il nome di “diritto della prevenzione”, ammantando formalmente dei caratteri giurisdizionale e processuale ciò che non è altro che un potere di polizia, ma con pesanti e inammissibili intrusioni nella libertà personale e di circolazione e nel diritto di proprietà.
In definitiva, il sistema di prevenzione criminale, che dovrebbe mirare a tutelare la sicurezza pubblica, tenta di raggiungere tale risultato applicando ad un semplice indiziato, sulla base di presunzioni difficilmente superabili, una “sanzione senza colpa e senza processo” e quindi si tratta di un vero e proprio corpo estraneo al nostro ordinamento giuridico, che, speriamo quanto prima, soltanto una salutare crisi di rigetto potrà espellere.
[1] L’inversione dell’onere della prova sull’origine legittima di presunti proventi o altri beni confiscabili non è applicata in modo efficace negli Stati parti alla Convenzione n. 198 del Consiglio d’Europa del 16.5.2005, in vigore sul piano internazionale dal 1.5.2008 (che ha aggiornato quella dell’8.10. 1990) sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato e sul finanziamento del terrorismo, nota come Convenzione di Varsavia. È quanto ha scritto il Comitato della Convenzione nel rapporto sull’applicazione tematica orizzontale, presentato il 30.6.2021 nel corso della Conferenza degli Stati parti, dedicato all’art. 3, par. 4 del Trattato. La norma indicata prevede che ogni stato Parte adotti le misure legislative o di altro tipo necessarie per esigere che, nel caso di una o più infrazioni gravi, come definite nel diritto interno, il presunto autore dell’illecito dimostri l’origine dei suoi beni che potrebbero essere i proventi del reato. Malgrado la presenza della norma, come risulta sulla base dei questionari raccolti dal Comitato, diversi Stati non hanno introdotto una regola ad hoc o hanno dichiarato di non volerla applicare. L’Italia, ad esempio, che ha ratificato la Convenzione il 21.2.2017, ha posto una riserva con la quale dichiara di non applicare l’art. 3, par. 4. Tuttavia, nelle risposte presentate le autorità nazionali hanno dichiarato che in Italia esistono già, nella legislazione antimafia, specifiche forme di inversione dell’onere della prova con le misure di prevenzione patrimoniali. Il Comitato ha perciò chiesto alle autorità italiane di ritirare la riserva posta.
[2] La giurisprudenza esige che il proposto non si limiti ad indicare l’esistenza di una provvista sufficiente per concludere il negozio di acquisto dei beni, ma dimostri pure gli elementi fattuali dai quali il giudice possa dedurre che i beni non sono stati acquistati con i proventi di attività illecita ovvero ricorrendo a esborsi non sproporzionati rispetto alla sua capacità reddituale.