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E’ costituzionalmente illegittimo il termine di 24 ore per impugnare il provvedimento relativo ai permessi premio.

 

Massima: È costituzionalmente illegittimo l’art. 30-ter, comma 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui prevede, mediante rinvio al precedente art. 30-bis, che il provvedimento relativo ai permessi premio è soggetto a reclamo al tribunale di sorveglianza entro ventiquattro ore dalla sua comunicazione, anziché prevedere a tal fine il termine di quindici giorni.

Sommario: 1) Premessa su natura e funzione dei permessi premio. 2) Il caso di specie e le censure sollevate. 3) La decisione della Corte. 4) Brevi riflessioni conclusive.

  • Premessa su natura e funzione del permesso premio.

L’istituto del permesso premio ha fatto il suo ingresso nel nostro ordinamento grazie all’art. 9 della L. n. 633 del 1986 (cd. legge Gozzini) che ha introdotto l’art. 30-ter della legge sull’ordinamento penitenziario.

I permessi premio si distinguono nettamente, al di là delle similitudini nella rubrica e della collocazione delle norme, dai permessi di necessità. Mentre i secondi si rivolgono a tutti i detenuti ed hanno una funzione di umanizzazione, essendo legati non al comportamento del soggetto ma ad eventi di particolare gravità (imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente, per eventi familiari di particolare gravità), i primi si rivolgono al solo condannato, sono legati al comportamento da esso tenuto e sono concessi per consentirgli di coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro che aveva dovuto interrompere[1].

La dottrina si è divisa circa la natura dei permessi premio: alcuni autori hanno sottolineato la finalità premiale dell’istituto[2], altri, invece, la funzione special-preventiva e rieducativa[3].

Da subito si è colta l’importanza del permesso premio quale primo passo, all’interno del percorso di gradualità e progressività trattamentale, verso la concessione delle misure alternative introdotte dalla riforma del 1975 in quanto strumento utile al fine di saggiare l’affidabilità del detenuto[4].

Il principio di “progressività trattamentale e flessibilità della pena” è un corollario del mandato costituzionale secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato[5]. Ne deriva, all’interno della disciplina dell’ordinamento penitenziario, l’esplicarsi di <<un percorso ideale le cui prime tappe sono rappresentate dall’ammissione al lavoro all’esterno e dalla concessione di permessi premio>>[6].

La giurisprudenza costituzionale ha ribadito che i permessi premio sonno parte integrante del trattamento[7] e rappresentano un <<incentivo alla collaborazione del detenuto con l’istituzione carceraria, appunto in funzione del premio previsto, in assenza di particolare pericolosità sociale quale conseguenza di regolare condotta, tanto da venir considerato esso stesso strumento di rieducazione in quanto consente un iniziale reinserimento del condannato nella società, così da potersene trarre elementi utili per l’eventuale concessione di misure alternative alla detenzione>>[8].

Inoltre, sempre dalla Consulta è giunta la conferma circa la compatibilità degli istituti premiali, quali i permessi premio, con la funzione rieducativa delle pene <<così ribadendo, fra l’altro, quel che, da tempo, è ben noto alla pedagogia generale e cioè la potente molla rieducativa che ogni premio, qualsiasi sanzione <positiva>, ha sull’educando almeno alla pari delle sanzioni <negative>.>>[9]

  • Il caso di specie e le censure sollevate.

Il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha dichiarato l’inammissibilità del reclamo proposto da un detenuto avverso il provvedimento con cui il Magistrato di sorveglianza aveva rigettato la sua richiesta di permesso premio.

Il Tribunale ha rilevato la tardività del reclamo perché proposto oltre le ventiquattro ore, termine stabilito dall’art. 30-bis, comma 3, o.p. (il provvedimento di rigetto era stato comunicato il 13 novembre 2018 alle ore 8:16 mentre il reclamo era stato depositato il 14 novembre alle ore 8:44).

La Corte di Cassazione[10] è stata investita del ricorso avverso l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Bologna e, nonostante abbia ribadito la tardività del reclamo, ha accolto i dubbi di legittimità costituzionale di un termine così breve sollevati dal ricorrente.

Il giudice a quo ha ritenuto la questione rilevante in quanto, ove la norma fosse stata dichiarata incostituzionale, avrebbe determinato una situazione di indubbio vantaggio per il ricorrente in quanto il reclamo sarebbe stato esaminato nel merito anziché essere dichiarato inammissibile.

Inoltre, il giudice ha considerato non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 30-bis, comma 3, in relazione al successivo art. 30-ter, comma 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354 sulla scorta delle seguenti argomentazioni.

Innanzitutto, è stata rilevata una violazione dell’art. 3 Cost. perché la norma equipara, con riferimento al termine concesso per il reclamo, situazioni profondamente diverse quali i permessi di necessità ed i permessi premio.

Il ragionamento della Sezione rimettente prende le mosse dalla sentenza n. 235 del 1996 della Corte Costituzionale che aveva considerato irragionevole la previsione di un identico, e particolarmente breve, termine di reclamo per le due differenti fattispecie di permesso.

Tale conclusione deriva dall’analisi delle finalità e della natura stessa dei permessi. Se, infatti, il termine di impugnazione di ventiquattro ore era stato considerato giustificato in relazione ai permessi di necessità, per <<i rigorosi presupposti cui la detta norma subordina la concessione>>[11] degli stessi, non lo era invece per i permessi premio che sono <<parte integrante del trattamento e da cui possono discendere conseguenze dirette anche al fine dell’applicazione delle misure alternative alla detenzione>>[12].

La giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente sancito che il permesso premio ha <<natura di misura premiale di incentivo alla collaborazione del detenuto con l’istituzione carceraria, e di strumento esso stesso di rieducazione, in quanto consente un iniziale inserimento del condannato nella società>>[13].

Differente, invece, è la natura del permesso di necessità che risponde esclusivamente a finalità di umanizzazione, consentendo al detenuto di stare vicino ai congiunti e di adoperarsi per loro in occasione di avverse vicende della vita familiare.

Per tali ragioni la Corte Costituzionale aveva ritenuto, già con la sentenza n. 235 del 1996, irragionevole l’identità del termine per la proposizione del reclamo avverso i provvedimenti che attengono all’una ed all’altra tipologia di permesso in quanto l’equiparazione si basa soltanto su un dato di natura meramente nominalistica, l’etichetta di permesso, ma non tiene conto della profonda eterogeneità degli istituti.

Altro profilo di illegittimità costituzionale, rilevato dal giudice a quo, riguarda il contrasto con il principio della finalità rieducativa della pena sancito dall’art. 27 Cost. <<in quanto impedisce un effettivo e serio controllo sul provvedimento adottato dal Magistrato di sorveglianza relativo ad “uno strumento cruciale ai fini del trattamento”, momento iniziale della progressività premiale in esplicazione di una importante funzione “pedagogico-propulsiva” che dà modo di saggiare, quale primo esperimento, “la risocializzazione in ambito extramurario …” – Corte cost., n. 188 del 1990 e Corte cost., n. 227 del 1995 ->>.

Infatti, il reclamo avverso i provvedimenti in materia di permessi premio è un mezzo di impugnazione[14] ed in quanto tale deve essere corredato da motivi specifici e contestuali, anche alla luce della piena giurisdizionalizzazione del procedimento[15].

Peraltro, in forza del sistema delle impugnazioni previsto dal codice di procedura vigente al momento dell’entrata in vigore della norma in questione (in base al quale l’impugnazione di proponeva con dichiarazione seguita dal deposito dei motivi di impugnazioni entro il termine di giorni 20), il termine di sole ventiquattro ore per proporre reclamo incideva in maniera minore sui diritti del proponente rispetto al sistema attuale. Con l’attuale codice di rito, infatti, i motivi di impugnazione devono essere proposti entro ventiquattro ore e si deve tener conto, inoltre, dell’ulteriore onere di specificità dei motivi introdotto dalla legge n. 103 del 2017.

Infine, la Sezione rimettente ha sollevato un fondato dubbio circa la incostituzionalità della norma per violazione degli artt. 24, in quanto compromette le concrete ed effettive possibilità di difesa, e 111 Cost., per eccentricità rispetto al modello di giusto processo costituzionale che impone condizioni di parità tra le parti di fronte al giudice.

L’eccessiva brevità del termine per impugnare, inoltre, compromette la facoltà del detenuto di ricevere assistenza tecnica da parte di un difensore, creando uno squilibrio tra le opportunità di impugnare della parte pubblica e quella del detenuto.

Il giudice a quo profila anche la possibile soluzione adottabile dalla Corte Costituzionale per superare le ragioni che avevano portato a dichiarare inammissibile la medesima questione con la sentenza n. 235 del 1996. All’epoca la Corte non aveva rintracciato nell’ordinamento una conclusione costituzionalmente obbligata così da poter rideterminare il termine, limitandosi ad auspicare un intervento in tal senso da parte del legislatore. Considerati sia l’immobilismo del legislatore sia l’introduzione nell’ordinamento di un termine di quindici giorni per la proposizione del reclamo contro la decisione del Magistrato di sorveglianza ex art. 35-bis o.p. (introdotto dal D.L. n. 146 del 2013, conv., con modif., in L. n. 10 del 2014), la Sezione remittente auspica una pronuncia additiva della Corte Costituzionale che tenga conto quale punto di riferimento proprio del termine di quindici giorni.

  • La decisione della Corte

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 113 del 2020, ha dichiarato fondate le questioni in riferimento agli artt. 3, 24 e 27, terzo comma, Cost., mentre ha ritenuto assorbita la questione formulata con riferimento all’art. 111 Cost.

La Consulta ha richiamato la sentenza n. 235 del 1996, citata anche dal giudice a quo, ribadendo la contrarietà alle norme costituzionali del termine di ventiquattro ore per proporre reclamo nei casi di permesso premio già espressa nella precedente decisione.

Innanzitutto, la Corte ha dichiarato irragionevole, in forza dell’art. 3 Cost., l’equiparazione, con riferimento al termine di ventiquattro ore per proporre reclamo contro il provvedimento che nega la concessione di un permesso, tra i permessi premio e quelli di necessità, considerate le profonde differenze sussistenti tra i due istituti, su tutte la mancanza di ragioni di urgenza che giustificano tale breve termine per quanto riguarda i permessi premio.

La brevità del termine, inoltre, mina il diritto di difesa dell’interessato, di cui all’art. 24 Cost., in quanto impedisce di articolare compiutamente i motivi alla base del reclamo e comprime la possibilità di ottenere l’assistenza tecnica di un difensore.

Infine, i limiti alla possibilità di far valere le proprie ragioni contro una decisione riguardante un istituto come il premesso premio, che la stessa giurisprudenza costituzionale ha ritenuto come <<cruciale ai fini del trattamento>>[16] riconoscendone la <<funzione “pedagogico-propulsiva” (sentenze n. 504 del 1995, poi sentenze n. 445 del 1997 e n. 257 del 2006) [che] permette l’osservazione da parte degli operatori penitenziari degli effetti sul condannato del temporaneo ritorno in libertà (sentenza n. 227 del 1995)>>[17], comportano una violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost. poiché ostacolano il pieno realizzarsi della funzione rieducativa della pena.

La Corte ha individuato all’interno dell’ordinamento una soluzione estensibile all’istituto del permesso premio ed idonea a superare il vulnus riscontrato con riferimento al termine di ventiquattro ore: il termine di quindici giorni per il reclamo innanzi al tribunale di sorveglianza nei casi di reclamo giurisdizionale avverso le decisioni delle autorità penitenziarie che riguardano il detenuto, di cui all’art. 35-bis, comma 4, o.p., termine coincidente con quello previsto in via generale dall’art. 585 c.p.p. per l’impugnazione dei provvedimenti emessi all’esito della camera di consiglio.

Pertanto, è dichiaratata <<l’illegittimità costituzionale dell’art. 30-ter, comma 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui prevede, mediante rinvio al precedente art. 30-bis, che il provvedimento relativo ai permessi premio è soggetto a reclamo al tribunale di sorveglianza entro ventiquattro ore dalla sua comunicazione, anziché prevedere a tal fine il termine di quindici giorni>>.

  • Brevi riflessioni conclusive.

La decisione in commento prosegue il percorso di giurisdizionalizzazione del procedimento riguardante la concessione o il diniego del permesso premio estendendo la possibilità di accesso al giudice del reclamo.

La giurisprudenza di legittimità[18], avallata da quella costituzionale[19], aveva già applicato al reclamo proposto in materia di permessi premio davanti al tribunale di sorveglianza il principio del contraddittorio tra le parti nelle forme previste dagli artt. 666 e 678 c.p.p.

La Corte Costituzionale aveva anche affermato la ricorribilità per cassazione del provvedimento del tribunale di sorveglianza che decide sul reclamo in tema di permessi premio[20], superando il risalente orientamento secondo cui tale provvedimento non era ricorribile per cassazione in quanto rientrante tra quelli rivolti a regolare la vita di relazione all’interno degli istituti carcerari e pertanto il relativo procedimento si configurava <<come un procedimento de plano con caratteristiche ben diverse da quelle delle procedure giurisdizionalizzate>>[21].

Il riconoscimento della natura non amministrativa ma giurisdizionale dei procedimenti riguardanti la concessione o il diniego dei permessi premio e della procedura del reclamo davanti al tribunale di sorveglianza aveva comportato la legittimazione in tali giudizi a sollevare questione di legittimità costituzionale[22].

Con la sentenza in commento, la Corte Costituzionale supera finalmente la tesi sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità circa la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del termine di ventiquattro ore per il reclamo avverso il diniego del permesso premio, che aveva impedito finora alla Corte di tornare a pronunciarsi sulla questione. Secondo tale indirizzo[23], la natura giurisdizionale della procedura dinanzi al Tribunale di Sorveglianza, nelle forme dell’udienza camerale, permetteva all’interessato di dispiegare la sua difesa, anche mediante l’assistenza di un difensore di fiducia, mentre la brevità del termine di reclamo sarebbe stata giustificata dalle esigenze di speditezza del procedimento e non sarebbe stata in contrasto con il carattere giurisdizionale della procedura in quanto questo non imponeva di per sè la pienezza del contraddittorio, conoscendo il sistema provvedimenti giurisdizionali emessi de plano[24].

Secondo i principi affermati dalla Consulta, <<la semplificazione delle forme, per esigenze di speditezza, non può in ogni caso andare a detrimento del diritto delle parti di rappresentare compiutamente le proprie ragioni al giudice del controllo>> e <<la possibilità di esplicarle nella fase del contraddittorio camerale è subordinata alla preliminare verifica di ammissibilità del reclamo. Se questo viene infatti dichiarato inammissibile per una affrettata articolazione dei motivi, le possibilità di recupero nel contraddittorio camerale restano del tutto vanificate>>.

Da qui la necessità di prevedere un termine più ampio per presentare il reclamo onde garantire all’interessato la possibilità di articolare al meglio le proprie ragioni e garantirne il diritto di difesa.

L’importanza di tale decisione è indubbia ma l’obiettivo di assicurare la piena giurisdizionalità del procedimento in materia di permessi è ancora da raggiungere, considerando che il reclamo assicura solo in parte le garanzie previste dall’art. 111, comma 2, Cost., tuttora fortemente compresse nel procedimento dinanzi al magistrato di sorveglianza[25].

La decisione, inoltre, si inserisce nel recente indirizzo[26] della Corte che ha superato il dogma delle cd. rime obbligate che, in nome di una stringente accezione del principio di legalità, limitava l’intervento additivo dei giudici costituzionali all’unica soluzione rinvenibile direttamente dal testo della Carta fondamentale. Secondo il nuovo orientamento, <<non è necessario che esista, nel sistema, un’unica soluzione costituzionalmente vincolata in grado di sostituirsi a quella dichiarata illegittima, come quella prevista per una norma avente identica struttura e ratio, idonea a essere assunta come tertium comparationis. Essenziale, e sufficiente, a consentire il sindacato della Corte sulla congruità del trattamento sanzionatorio previsto per una determinata ipotesi di reato è che il sistema nel suo complesso offra alla Corte ‘precisi punti di riferimento’ e soluzioni ‘già esistenti’ (sentenza n. 236 del 2016) – esse stesse immuni da vizi di illegittimità, ancorché non ‘costituzionalmente obbligate’ – che possano sostituirsi alla previsione sanzionatoria dichiarata illegittima; sì da consentire a questa Corte di porre rimedio nell’immediato al vulnus riscontrato, senza creare insostenibili vuoti di tutela degli interessi di volta in volta tutelati dalla norma incriminatrice incisa dalla propria pronuncia>>.[27]

Nella sentenza in commento, la Corte ha individuato nell’ordinamento vigente un preciso punto di riferimento, idoneo a eliminare il vulnus riscontrato, ancorché non costituente l’unica soluzione costituzionalmente obbligata, nel termine di quindici giorni previsto dal comma 4 dell’art. 35-bis o.p., fatta salva la possibilità per il legislatore di introdurre altro termine purché nel rispetto dei principi costituzionali.

Giova ricordare che la Corte Costituzionale, già con la sentenza n. 235 del 1996, aveva auspicato che il legislatore provvedesse alla determinazione di un nuovo termine per il reclamo rispettoso delle indicazioni di principio fornite dalla stessa Corte. La perdurante inerzia del legislatore ha legittimato la riproposizione della questione di legittimità ed ha consentito alla Corte di intervenire onde evitare una perdurante omissione incostituzionale. L’intervento additivo trova la sua giustificazione nella necessità di porre rimedio anche alle situazioni di mancata attuazione della Costituzione in cui non vi sia stato un esercizio della funzione legislativa in contrasto con la Costituzione.[28]

Necessita di menzione la gravità dell’inoperosità del legislatore che, nonostante l’espresso invito della Corte ad intervenire <<quanto più rapidamente>>, per oltre vent’anni ha disatteso l’auspicio dei giudici costituzionali consentendo la vigenza di un termine per impugnare eccessivamente breve che non garantiva i diritti costituzionali dell’interessato.

Atteggiamento sintomatico del disinteresse del legislatore, attuale e delle ultime legislature, per i diritti dei detenuti e della sfiducia nei confronti degli istituti aventi finalità rieducativa e di reinserimento sociale del condannato. Anche i permessi premio sono stati investiti dalla distorta retorica della “certezza della pena”[29] e visti quali insopportabili privilegi concessi ai detenuti.

In quest’ottica, l’afflittività è considerata l’unica finalità della pena a detrimento della sua funzione rieducativa di cui la Corte ha, invece, recentemente sancito con forza la non sacrificabilità sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena e che va intesa come fondamentale orientamento della pena all’obiettivo ultimo del reinserimento del condannato nella società [30].

Non può non destare preoccupazione, ai fini della tenuta dell’ordinamento costituzionale, lo scollamento tra il dettato della Carta ed il comune sentire del legislatore e di gran parte dei cittadini su temi centrali del patto sociale quali la funzione della pena e la tutela dei diritti dei detenuti.

L’opera della Corte Costituzionale si staglia come uno degli ultimi baluardi in difesa di una concezione costituzionale della pena: sia con la lodevole iniziativa del Viaggio nelle carceri che ha portato fisicamente la Corte e la Carta negli Istituti sia con recenti sentenze[31], tra cui quella in commento, che hanno ampliato la tutela dei diritti dei detenuti e riaffermato la visione costituzionale della pena.

[1] Corte Costituzionale, sent. n. 403 del 1997, secondo cui i permessi premio sono <<uno strumento […] spesso insostituibile per evitare che la detenzione impedisca del tutto di coltivare “interessi affettivi, culturali o di lavoro”>>.

[2] Giunta F., Commento art. 9, Legge 10 ottobre 1986, n. 663, in Legislazione penale, 1987, p. 136.

[3] Margara A., La modifica della legge penitenziaria: una scommessa per il carcere, una scommessa contro il carcere, in “Questione giustizia”, 1986, p. 530.

[4] Zappa G., Il permesso premiale: analisi dell’istituto e profili operativi, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 1-3, 1988, p. 9.

[5] Corte Costituzionale, sentenze n. 257 del 2006, n. 255 del 2006, n. 445 del 1997, n. 504 del 1995 e n. 229 del 2019.

[6] Corte Costituzionale, sent. n. 149 del 2018.

[7] Corte Costituzionale, sent. n. 235 del 1996.

[8] Corte Costituzionale, sentenze n. 188 del 1990 e n. 504 del 1995.

[9] Corte Costituzionale, sent. n. 188 del 1990.

[10] Cass., Sez. I, ordinanza n. 45976 del 13 novembre 2019, in questa Rivista…

[11] Corte Costituzionale, sentenza n. 235 del 1996.

[12] Ibidem

[13] Corte Costituzionale, sentenze n. 188 del 1990, n. 227 e n. 504 del 1995, n. 235 del 1996, n. 296 del 1997 e n. 450 del 1998.

[14] Cass. Sez. 1, n. 2593 del 30/03/1999, Arrigo, Rv. 213488; Sez. 1, n. 648 del 28/01/2000 Sasso, Rv. 215388; Sez. 1, n. 16254 del 23/03/2006, Costantino, Rv. 234299; Sez. 1, n. 37332 del 26/09/2007, Esposito, Rv. 237505; Sez. 1, n. 15982 del 17/09/2013, dep. 2014, Greco, Rv. 261989.

[15] Corte Costituzionale, sent. n. 53 del 1993.

[16] Corte Costituzionale, sent. n. 235 del 1996.

[17] Corte costituzionale, sent. n. 253 del 2019.

[18] Cass., sez. I, 16 maggio 2014, Polimeni, in C.E.D., n. 260365.

[19] Corte costituzionale, ord. n. 289 del 2000.

[20] Corte Costituzionale, ord. n. 237 del 1996.

[21] Corte Costituzionale, ordinanze n. 436 del 1989 e n. 1163 del 1988.

[22] Corte Costituzionale, sentenza n. 227 del 1995.

[23] Cass., Sez. 1, n. 13395 del 19/02/2013, Zanda, Rv. 255645.

[24] Cass., Sez. 1, n. 244 del 13/01/2000, Forcieri, Rv. 215202.

[25] E.  Crippa, La giurisdizione “inaccessibile” in materia di permessi premio, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 6, pp. 8-9.

[26] Corte Costituzionale, sentenze n. 236/2016 e n. 222/2018.

[27] Corte Costituzionale, sent. n. 222 del 2018.

[28] Cataneo C., Insufficiente il termine di ventiquattro ore per impugnare la decisione del magistrato di sorveglianza in materia di permessi premio: la Corte dichiara il termine costituzionalmente illegittimo e lo sostituisce con quello di 15 giorni, in Sistema penale, 2 luglio 2020.

[29] intesa oramai come “certezza della pena carceraria”, in contrasto con quanto previsto della Carta fondamentale. Secondo i principi del diritto penale classico, la pena è certa quando fattispecie di reato e sua cornice edittale sono predeterminate dalla legge, così da evitare che siano il frutto, ex post, dell’arbitrio del legislatore o del giudice (è un corollario del principio di legalità). Inoltre, per garantire la personalizzazione della pena e la sua finalità rieducativa, essa non può che essere flessibile.

[30] Corte costituzionale, sent. n. 149 del 2018.

[31] Vds. la sent. n. 253 del 2019 (che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, o.p., nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis c.p. e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter o.p., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti; ed in via consequenziale anche con riferimento ai detenuti per gli altri delitti contemplati nell’art. 4-bis, comma 1, o.p.), o alcune decisioni in tema di regime carcerario differenziato di cui all’art. 41-bis o.p. (la sent. n. 186 del 2018 che ha dichiarato illegittimo il divieto di cottura dei cibi imposto ai detenuti sottoposti al regime differenziato e la sent. n. 97 del 2020 che ha dichiarato illegittimo il divieto di scambio di oggetti tra detenuti dello stesso gruppo di socialità).

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