Il delitto di femminicidio: il “fatto è commesso come atto” e altre amenità nel disegno di legge all’esame della Camera dei Deputati

  Abstract

Si tratta del testo dell’Audizione svolta presso la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati nell’ambito dell’esame del disegno di legge C. 2528, approvato dal Senato e recante l’introduzione del delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime (Roma, 14 ottobre 2025).

This is the text of the hearing held at the Justice Committee of the Chamber of Deputies as part of the examination of Bill C. 2528, approved by the Senate and introducing the crime of femicide and other regulatory measures to combat violence against women and protect its victims (Rome, 14 October 2025).

Sommario: 1. Premessa: i dubbi di costituzionalità e la chiara volontà politica di introdurre il femminicidio come autonomo delitto. – 2. Le questioni intertemporali e la clausola di riserva. – 3. La disposizione definitoria della nozione “sociale e psicologica” di donna. – 4. La sostituzione dell’elemento del “rifiuto” della donna. La soppressione dell’ultima sottofattispecie. – 5. L’ambigua tipizzazione: «il fatto è commesso come atto». – 6. La formulazione di alcune proposte di modifica del delitto di femminicidio.

1. Premessa: i dubbi di costituzionalità e la chiara volontà politica di introdurre il femminicidio come autonomo delitto

Ringrazio il Presidente della Commissione Giustizia e gli Onorevoli componenti per l’invito all’audizione sul disegno di legge di iniziativa del Governo (n. C. 2528, approvato dal Senato il 23 luglio 2025), che introduce il delitto di femminicidio nonché ulteriori misure per contrastare la violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime.

Il mio breve intervento è circoscritto all’inserimento nel codice penale – nell’inedito e di nuovo conio art. 577-bis – dell’autonomo (anche come nomen iuris) delitto di “femminicidio”, punito con la pena fissa dell’ergastolo. Pena detentiva perpetua che rende inapplicabile il giudizio abbreviato per il delitto in esame (art. 438, comma 1-bis, c.p.p.).

Sotto il profilo del trattamento sanzionatorio, va inoltre segnalato che il divieto, previsto al comma 3 dell’art. 577-bis c.p., di diminuire la pena sotto i ventiquattro anni di reclusione quando ricorre una sola circostanza aggravante sembrerebbe contrastare con la regola generale dell’art. 65 n. 2 c.p. e con la giurisprudenza costituzionale sugli automatismi sanzionatori (ex multis Corte cost. n. 83 del 2025, n. 195 del 2023, n. 266 del 2022 e n. 222 del 2018); comminando peraltro una incostituzionale pena fissa di ventiquattro anni ex artt. 23 e 577-bis c.p.

Alcune indispensabili premesse: tanto sulla necessità e la costituzionalità del reato di femminicidio, quanto sulla struttura della fattispecie legale.

Anzitutto, non possono essere sottaciuti i dubbi – da più parti segnalati in dottrina – che il nuovo delitto poggi su una “base criminologica” non adeguata alla nostra realtà; e ciò diversamente dai Paesi latino-americani nei quali vi è un numero nettamente più alto di uccisione di donne, che giustifica l’introduzione di questa fattispecie. Inoltre, pare che siano le nazioni africane ad avere il numero più elevato di femminicidi (cfr. https://unric.org/it/cinque-fatti-essenziali-da-sapere-sul-femminicidio/).

Dubbi che portano quindi a ritenere sufficiente, secondo molti giuristi, l’introduzione nel nostro sistema di una circostanza aggravante ad effetto speciale, la quale valorizzi i motivi a delinquere fondati sul “genere”, e respingendo altresì come scarsamente determinata la fattispecie di nuovo conio. Cosicché, il delitto di femminicidio come proposto nel disegno di legge n. C. 2528 sembrerebbe espressione – per tale autorevole dottrina – di una legislazione penale simbolica e populista.

  Ulteriori dubbi riguardano il rispetto da parte del novello reato del principio costituzionale di eguaglianza (art. 3 Cost.), poiché – ad opinione di una cospicua fetta della dottrina – esso sembrerebbe comportare una ingiustificata disparità di trattamento sanzionatorio per situazioni simili. Si pensi, ad esempio, al caso di una donna che uccida una persona di sesso maschile come atto di odio verso la persona offesa “in quanto uomo”. Non si giustificherebbe perciò sul piano valoriale la differenziazione della tutela del bene vita in ragione del genere femminile della vittima.

Quanto alla tecnica legislativa adoperata per configurare l’inedita ipotesi delittuosa, si è messa in evidenza sia l’indeterminatezza (e vaghezza) talvolta degli elementi di tipicità, sia la mancanza di “precisione” nella descrizione degli stessi. Senza dimenticare che, come si dirà più avanti, l’espressione «il fatto è commesso come atto» pare contrastare, per la sua oscurità e illogicità, con il principio di prevedibilità.

Senonché, dal disegno di legge emerge una chiara volontà politica di introdurre nel nostro ordinamento penale il femminicidio come autonoma figura criminosa, sanzionata con la pena detentiva più afflittiva: l’ergastolo.

Si tratta di una proposta legislativa d’iniziativa del Governo, che trova il consenso di una netta maggioranza parlamentare e che assegna un maggior disvalore alla condotta omicidiaria per rispondere alle sempre più attuali e in crescita esigenze di tutela contro il fenomeno della violenza nei confronti delle donne.

La disparità di trattamento sanzionatorio tra uomo e donna s’incentra qui non sull’autore del reato, bensì sulla qualità soggettiva della persona offesa. Al riguardo, si rinviene un precedente all’interno del codice penale con riferimento alle pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili (art. 583-bis c.p.).

L’autonomia giuridica del fenomeno del femminicidio d’altronde si ritrova altresì nelle fonti sovranazionali: nella Convenzione di Istanbul del Consiglio di Europa stipulata nel 2011; nella direttiva UE 2024/1385, in cui si nomina tra i delitti di violenza contro la donna il “femminicidio”; nel rapporto sull’Italia del 2024 da parte del Comitato per l’eliminazione delle discriminazioni contro le donne (istituito dalla Convenzione delle Nazioni Unite del 2007, CEDAW), in cui si osserva che in Italia il femminicidio non è previsto come reato distinto dall’omicidio e si raccomanda di modificare il codice penale per criminalizzare specificamente il “femminicidio”.

Tutto ciò senza nulla togliere alla riflessione di fondo che non si può attribuire una decisiva efficacia preventiva alla configurazione – quale autonomo delitto – dell’omicidio di una donna per motivi di genere; né è risolutivo far entrare il termine femminicidio nel codice penale, e nemmeno l’aumento di pena (rispetto all’omicidio comune) stabilito nell’art. 577-bis c.p. (l’ergastolo quale sanzione base). Occorre, soprattutto, come da più parti osservato e scritto, investire risorse finanziarie e umane nel campo educativo, sociale, culturale e dei corretti rapporti interpersonali.

2. Le questioni intertemporali e la clausola di riserva  

Dopo queste brevi premesse, svolgerò alcune considerazioni sul testo dell’art. 577-bis c.p., come approvato dal Senato nel luglio di quest’anno. Si tenterà di formulare, all’esito delle stesse, qualche suggerimento oppure si proverà a mettere in risalto le perplessità e le incertezze riscontrate.

Muoviamo subito dalla configurazione legislativa del delitto de quo. Ebbene, possono isolarsi al suo interno una pluralità di sottofattispecie, tutte punite con la pena dell’ergastolo:

  • Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di odio/discriminazione/prevaricazione in quanto donna;
  • Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di controllo/possesso/dominio in quanto donna;
  • Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso in relazione al rifiuto della medesima di instaurare/mantenere un rapporto affettivo;
  • Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di limitazione delle sue libertà individuali.

  Per quanto concerne poi le questioni intertemporali, il nuovo delitto ex art. 577-bis c.p. si applica soltanto per le condotte umane tenute dopo la sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività sfavorevole impedisce anche l’operatività della incriminazione per i procedimenti penali in corso. Essa risulta inoltre ininfluente sui giudicati di condanna.

Si tratta di una vicenda sul piano normativo riconducibile al fenomeno della “relazione di specialità sincronica sopravvenuta” tra figure criminose (artt. 575/577-bis c.p.). L’inedita e autonoma norma incriminatrice va a presidiare un’area già penalmente rilevante (tramite l’omicidio comune), non libera perciò dallo strumento penale.

Nell’art. 575 c.p. rimangono non solo i casi di omicidio di un uomo (persona di sesso maschile), ma anche quelli di una donna non rientranti tuttavia nella nuova disposizione relativa al delitto di femminicidio.

A tale riguardo, può osservarsi come proprio nell’ultima parte del comma 1 dell’art. 577-bis c.p. sia stata prevista una clausola di riserva: «Fuori dei casi di cui al primo periodo si applica l’art. 575 c.p.».

La formulazione della clausola di riserva – al netto di quanto si osserverà nel prosieguo – si presenta paradossale, giacché configura una relazione di sussidiarietà in cui la norma principale è il femminicidio e quella subordinata l’omicidio.

La questione che immediatamente si pone è se essa sia superflua. Invero, se tra la fattispecie incriminatrice dell’art. 575 c.p. e quella dell’art. 577-bis c.p. vi fosse una relazione normativa di “genere a specie” unilaterale (art. 575 c.p. → art. 577 c.p.), la clausola in questione sarebbe del tutto irrilevante, operando già il principio di specialità ex art. 15 c.p., con l’esclusione dunque dell’esito concorsuale a favore della sola norma speciale.

Se invece non possiamo ritenere con certezza che tra le due norme incriminatrici vi sia una relazione di specialità unilaterale, bensì potrebbe trattarsi di un rapporto di c.d. specialità bilaterale (non riconducibile, perciò, alla disciplina dell’art. 15 c.p.), per evitare il possibile esito concorsuale (concorso formale eterogeneo), occorrerebbe spostare la clausola di riserva nell’art. 575 c.p.

Costruendo, peraltro, tale clausola quale clausola di sussidiarietà, l’effetto dovrebbe essere quello di stabilire in modo indiscusso che il femminicidio è fattispecie sussidiaria, mentre l’omicidio è figura principale.

Si potrebbe formulare la clausola di sussidiarietà, inserendola all’inizio dell’art. 575 c.p., nel modo seguente:

«Salvo che il fatto non costituisca il reato previsto dall’art. 577-bis […]».

3. La disposizione definitoria della nozione “sociale e psicologica” di donna

Nell’enunciato dell’art. 577-bis c.p. il termine “donna” ricorre tre volte.

(a) La parola “donna” designa l’evento naturalistico descritto nella fattispecie tipica: cagionare la morte di una “donna”.

(b) La parola “donna” designa una delle modalità che concorrono a descrivere il primo gruppo di condotte tipiche: l’odio, la discriminazione, la prevaricazione, il dominio … in quanto “donna”.

A tale ultimo riguardo, va nondimeno osservato che la locuzione “in quanto donna” è affetta da “ambiguità sintattica”. Ossia non è chiaro sul piano sintattico – ossia della struttura logica dell’enunciato – se essa sia riferibile unicamente alla condotta tipica (atto di controllo/possesso/dominio) che precede immediatamente tale sintagma, ovvero anche alle restanti condotte tipiche che l’anticipano sul piano topografico (atto di odio/discriminazione/prevaricazione).

Appare opportuno risolvere questa ambiguità sintattica, che genera incertezze e imprevedibilità applicative.

Occorre poi estendere la medesima soluzione alle circostanze aggravanti inserite in relazione agli altri reati modificati dal disegno di legge.

(c) La parola “donna” designa la qualificazione soggettiva della vittima di una delle condotte tipiche: il rifiuto della “donna” del rapporto affettivo.

Ebbene, al termine “donna” in tutti e tre i casi andrebbe necessariamente assegnato il medesimo significato. Il vocabolo de quo dovrebbe denotare lo stesso concetto.

Il punto di partenza potrebbe essere – come tracciato anche nella recente giurisprudenza costituzionale – la c.d. nozione “sociale e psicologica” di donna (cfr. Corte cost. n. 221 del 2015 e Corte cost. n. 143 del 2024); e non già mutuare qui – come sembra sottintendere il disegno di legge in esame – la nozione biologica e formale di donna, fondata sulle caratteristiche morfologiche-anatomiche della persona offesa, nonché giuridiche collegate a quanto riportato nell’atto di nascita.

Per raggiungere tale obiettivo, che permetterebbe di affievolire l’indeterminatezza del testo normativo e l’incertezza interpretativa delle oscillazioni giurisprudenziali, la strada maestra appare quella di inserire una “disposizione definitoria”. È il legislatore, che ascoltando anche gli altri saperi (oltre a quello giuridico), si dovrebbe fare carico di definire esattamente la nozione di donna rilevante ai nostri fini.

  La disposizione definitoria potrebbe essere dislocata all’ultimo comma dell’art. 577-bis c.p., e potrebbe avere la seguente formulazione:

«Agli effetti del presente articolo e degli altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne, si intende per “donna”, non solo la persona che tale risulta nell’atto di nascita, ma anche quella di cui sia stata accertata una transizione della identità di genere mediante trattamenti ormonali e di sostegno psicologico-comportamentale senza che sia indispensabile un intervento di adeguamento chirurgico, nonché le persone che si sentono e riconoscono come donne pur se non hanno intrapreso un percorso di transizione».

Il punto più problematico di questa definizione è senz’altro l’allargamento della nozione di donna che discende dall’ultima parte dell’enunciato: un uomo che si senta donna senza aver intenzione di effettuare in concreto il cambio di sesso. Ma ciò potrebbe esse legato all’essere tale persona meno immersa nella “modernità” oppure al rifiuto per ragioni di salute delle cure ormonali.

4. La sostituzione dell’elemento del “rifiuto” della donna. La soppressione dell’ultima sottofattispecie

Passando ad esaminare le due ultime sottofattispecie, qualche considerazione concernente la tecnica legislativa adoperata e la tenuta logica giuridica.

Quanto alla sottofattispecie che punisce chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso in relazione al rifiuto della stessa di instaurare o mantenere un rapporto affettivo, appare dissonante proprio l’elemento del “rifiuto” della donna. Quest’ultimo requisito di fattispecie andrebbe sostituito.

Il concetto di rifiuto presuppone una previa richiesta (cfr. quanto osservato in relazione al delitto di cui all’art. 328 c.p.): si restringe così irragionevolmente il campo applicativo dell’ipotesi criminosa.

Sarebbe meglio pertanto sostituire il termine “rifiuto” con l’espressione “mancato consenso” (della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo), la quale non necessita di una precedente richiesta da parte del soggetto attivo del delitto.

Per quel che concerne poi l’ultima sottofattispecie, la quale incrimina chi provochi la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di limitazione delle sue libertà individuali, può agevolmente osservarsi che si tratta di una inutile superfetazione normativa.

Vengono in rilievo classi di condotte già penalmente rilevanti alla stregua delle precedenti (sotto il profilo topografico) sottofattispecie contenute nell’art. 577-bis c.p.

Come poi già notato da altri autori, comunque dall’uccisione di una persona consegue necessariamente la limitazione delle sue libertà individuali.

Sembrerebbe, dunque, necessario “sopprimeretale sottofattispecie. Essa genera incertezze, rende ancor più difficile l’interpretazione della figura di reato e rischia di “potenziare” il diritto giurisprudenziale a scapito del primato del legislatore parlamentare e alla indispensabile “prevedibilità” delle conseguenze giuridiche per il consociato.

5. L’ambigua tipizzazione: «il fatto è commesso come atto»

Ora si tratta di affrontare l’aspetto critico più centrale, riguardante la tecnica normativa usata per coniare questa nuova figura delittuosa.

Si vuole alludere all’imprecisa, non corretta e inedita modalità impiegata dal legislatore governativo per descrivere le varie sottofattispecie contenute nella prima parte del comma 1 dell’art. 577-bis c.p.

Nella trama linguistica viene impiegata l’espressione “il fatto è commesso come atto” di odio, discriminazione, prevaricazione… come atto di controllo, possesso, dominio.

Ebbene, focalizzando la nostra attenzione sul frammento della disposizione «il fatto è commesso come atto», la domanda sorge spontanea: siamo sicuri che tale enunciato non abbia un significato oscuro? o che non sia per di più in contrasto con le regole grammaticali e logiche della nostra lingua?

In realtà, l’enunciato sembrerebbe non corretto grammaticalmente e affetto da ambiguità semantica.

Mi sembra, inoltre, forgiato da un non-penalista, preso dall’ansia di evitare di tipizzare mediante elementi di natura psicologica, per non incorrere nella violazione del principio di determinatezza-tassatività.

Il risultato è l’impiego di una tecnica incriminatrice che inficia il tipo affetto in tal modo, geneticamente, dalla violazione del principio costituzionale di prevedibilità (cuore del principio di legalità penale): la persona non può conoscere anticipatamente le conseguenze sanzionatorie collegate alla sua condotta.

Si potrebbe pertanto adottare una formulazione alternativa secondo modelli penalistici consolidati (tratti anche dal codice Rocco), secondo i quali è ben possibile una configurazione legislativa imperniata su requisiti psicologici, in funzione selettiva della tipicità e/o come elemento in cui risiede il disvalore penale. Si pensi, ad esempio, all’associazione per delinquere: il disvalore è concentrato nella tipicità soggettiva, nella finalità di commettere delitti.

La formulazione delle sottofattispecie, dislocate nella prima parte del comma 1 dell’art. 577-bis c.p., potrebbe essere la seguente.

«Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è determinato da ragioni [motivazioni di genere] di odio, discriminazione, prevaricazione, controllo o dominio, le quali si fondano nel sentimento di appartenenza della vittima al genere femminile».

Si dovrebbero modificare di conseguenza anche le numerose circostanze aggravanti ad effetto speciale introdotte dal disegno di legge, descrivendole nel seguente modo.

«La pena è aumentata da […] quando il fatto è determinato da ragioni di odio, discriminazione, prevaricazione, controllo o dominio, le quali si fondano nel sentimento di appartenenza della vittima al genere femminile, o in relazione al mancato consenso della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo».

In definitiva, con la riforma si potrebbe finalmente cogliere l’occasione di ricondurre il concetto di “matriarcato” al suo autentico significato non di opposizione al concetto di “patriarcato” – quale dominio dell’uomo – basato sulla traduzione di archē dal greco come “dominio”, bensì sull’altro significato di archē come “inizio” o “origine”. In principio, dunque, le donne (cfr. H. Goettner-Abendroth).

6. La formulazione di alcune proposte di modifica del delitto di femminicidio

Alla luce delle considerazioni svolte, è possibile formulare alcune proposte alternative, a livello di tipizzazione, rispetto a quelle contenute nel disegno di legge governativo sul femminicidio.

  1. Si potrebbe formulare una “clausola di sussidiarietà”, inserendola all’inizio dell’art. 575 c.p., nel modo seguente:

«Salvo che il fatto non costituisca il reato previsto dall’art. 577-bis […]».

  1. La “disposizione definitoria” sul concetto di “donna” potrebbe essere dislocata all’ultimo comma dell’art. 577-bis c.p. ed avere la seguente formulazione:

«Agli effetti del presente articolo e degli altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne, si intende per “donna”, non solo la persona che tale risulta nell’atto di nascita, ma anche quella di cui sia stata accertata una transizione della identità di genere mediante trattamenti ormonali e di sostegno psicologico-comportamentale senza che sia indispensabile un intervento di adeguamento chirurgico, nonché le persone che si sentono e riconoscono come donne pur se non hanno intrapreso un percorso di transizione».

  1. Nella sottofattispecie che punisce chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso in relazione al rifiuto della stessa di instaurare o mantenere un rapporto affettivo, si potrebbe sostituire il termine “rifiuto” con l’espressione “mancato consenso” (della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo), la quale non necessita di una precedente richiesta da parte del soggetto attivo del delitto.
  1. Si potrebbe eliminare la sottofattispecie che incrimina «chiunque provochi la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di limitazione delle sue libertà individuali». Si tratta di classi di condotte già penalmente rilevanti alla stregua delle precedenti sottofattispecie.
  1. Si potrebbero descrivere le sottofattispecie contenute nella prima parte del comma 1 dell’art. 577-bis c.p. nel seguente modo:

«Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è determinato da ragioni di odio, discriminazione, prevaricazione, controllo o dominio, le quali si fondano nel sentimento di appartenenza della vittima al genere femminile».

  1. Si dovrebbero modificare di conseguenza anche le numerose circostanze aggravanti ad effetto speciale introdotte dal disegno di legge, descrivendole nel seguente modo:

«La pena è aumentata da […] quando il fatto è determinato da ragioni di odio, discriminazione, prevaricazione, controllo o dominio, le quali si fondano nel sentimento di appartenenza della vittima al genere femminile, o in relazione al mancato consenso della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo».

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