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1. Consentitemi anzitutto di ringraziare Enzo Maiello per l’invito a partecipare a questa bellissima iniziativa dei “Lunedì del diritto penale” oggi dedicata alle forme del dolo. Si tratta di un tema centrale nella dinamica soggettiva del reato, cui peraltro, come chiarirò di qui a breve, sono molto affezionata. Dopo la relazione introduttiva di Gianluca Gentile sulle principali questioni che animano la materia – con un focus sul dolo eventuale – mi occuperò di una peculiare manifestazione della colpevolezza dolosa, quella del dolo specifico.
Ad uso degli studenti presenti, ricordo che il dolo specifico ricorre quando il legislatore, nel descrivere una determinata fattispecie criminosa, richiede l’indirizzarsi della volontà verso una specifica finalità. Nelle esemplificazioni della manualistica, per illustrare la categoria dei delitti a dolo specifico si richiama, quasi sempre, la fattispecie di furto che, come ricorderete, punisce chi si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendole a chi la detiene, “al fine di trarne profitto”.
Peraltro, proprio del dolo specifico nel delitto di furto si sono di recente occupate le Sezioni unite della Corte di Cassazione[1], che hanno aderito ad una interpretazione lata del profitto da intendersi come qualunque vantaggio, anche di natura non patrimoniale. Il rinnovato interesse giurisprudenziale per la materia rende l’invito a parlare del dolo specifico ancor più gradito anche per una ragione sentimentale; la questione decisa dalla Corte ha infatti ad oggetto un tema molto caro al mio maestro, il prof. Angelo Carmona, che alla funzione selettiva del dolo specifico aveva dedicato nel 1983 una monografia dal titolo “Il fine di profitto nel delitto di furto. Presupposti culturali e struttura normativa”. Una indicazione importante, quella evocata dal titolo, sul ruolo che il dolo specifico può svolgere all’interno della struttura normativa, divenendo in taluni casi il perno dell’incriminazione o contribuendo a illuminarne la proiezione offensiva.
Sembra allora ancora utile interrogarsi sulla posizione nel sistema di istituti come il dolo specifico che, nel dare rilievo alle intenzioni del reo, rievocano, più o meno direttamente, forme di soggettivismo punitivo. Così, nel rileggere per l’occasione alcuni recenti contributi sul dolo specifico[2], ho trovato citata una frase di Cesare Beccaria che, nel Trattato dei delitti e delle pene, osservava come “errarono coloro che credettero vera misura dei delitti l’intenzione di chi li commette». Ricordare che la misura dei delitti non può dipendere dall’intenzione di chi li commette è un monito sempre attuale per il legislatore penale, soprattutto quando si muove in quei settori in cui maggiore è la tentazione di strumentalizzare l’elemento finalistico per incentrare sulla personalità del reo il disvalore della fattispecie. Ben sappiamo che in questi casi il più delle volte si affida alla giurisprudenza il compito di riequilibrare il peso dell’incriminazione, arricchendo in via interpretativa il momento del dolo con note oggettive capaci di restituire al fatto, osservato nel suo complesso, una proiezione offensiva di tipo materiale, compatibile con il principio costituzionale, e, nel solo caso dei delitti con finalità di terrorismo, al legislatore con la definizione ‘oggettivata’ di cui all’art. 270 sexies c.p.. Ma il rischio in qualche modo opposto che può profilarsi è che nel tentativo di oggettivizzare un dato psichico – per renderlo maggiormente controllabile – si finisca per sconfinare in criteri meramente ascrittivi della responsabilità estranei perciò alla colpevolezza dolosa.
Non è un mero esercizio di stile, dunque, richiamare le coordinate essenziali di sistema dell’istituto che andrebbero sempre salvaguardate, dal legislatore, all’atto della costruzione dei tipi criminosi, e dalla giurisprudenza, in sede di applicazione.
2. Nel procedere ad una osservazione mirata dei profili costitutivi di questa forma di dolo, ricordo in premessa, ancora ad uso degli studenti, che il dolo specifico è una figura di creazione squisitamente legislativa. Il dolo non è normalmente descritto in fattispecie; è l’art. 42 c.p. a svolgere una volta per tutte questa funzione prevedendo, come ben noto, che dei delitti si risponde a titolo di dolo. Talvolta, tuttavia, il legislatore fa ricorso ad esplicitazioni del dolo, allo scopo di selezionare una specifica finalità dell’agire (come nel dolo specifico) o per individuarne livelli qualificati di intensità (come nel dolo intenzionale o diretto). Il dolo specifico è dunque riconoscibilenella costruzione del tipo e si presenta introdotto da una serie di stilemi normativi (per, allo scopo di, al fine di, con il proposito di…); in questo senso può dirsi che dipenda dalla legge, in quanto espressamente previsto nella norma incriminatrice.
Una seconda caratteristica dei delitti a dolo specifico è la consumazione anticipata: ai fini della integrazione del reato non si richiede che lo scopo avuto di mira dall’agente sia stato effettivamente raggiunto, o meglio che l’oggetto del dolo specifico si sia in concreto realizzato. Utilizzando quale esemplificazione sempre il reato di furto, è necessario che il soggetto abbia agito al fine di trarne profitto, ma non anche che il profitto sia stato poi conseguito (ciò che occorre accertare, ai fini della responsabilità penale, è che la condotta incriminata sia stata posta in essere a quello specifico scopo). Il dolo specifico, pertanto, “non costituisce il riflesso psicologico di un elemento materiale del reato, ma rileva di per sé, nella sua mera consistenza soggettiva”[3]. Ed è proprio questa nota di essenza del dolo specifico a segnarne in qualche misura l’intrinseca pericolosità[4]; l’incriminazione di specifiche finalità, indipendentemente dalla loro realizzazione, può prestarsi ad asservire logiche punitive o ad assecondare ragioni pratiche di semplificazione dell’accertamento processuale. Da qui le possibili tensioni tra dolo specifico e principio di offensività, potenzialmente “accentuate dall’atteggiamento del legislatore emotivo che, nell’ambito dei settori nei quali la sicurezza ha acquisito un autonomo status di bene giuridicamente rilevante”[5] potrebbe essere tentato dall’idea di servirsi dell’istituto come mero strumento di anticipazionedella tutela, smarrendo in chiave repressiva quel confine garantistico tra il non offendere e il non volere.
3. Proseguendo nell’opera identificativa del tipo, altra caratteristica del dolo specifico è la sua connotazione poliedrica, che lo rende un istituto funzionalmente polimorfo[6]: così assecondando un trend già invalso nel campo della colpa, è lecito domandarsi se non sia preferibileabbandonare l’idea di ricondurre ad unicità la categoria. In una logica classificatoria, peraltro, la complessità del dolo specifico è già emersa chiaramente dalla sua disarticolazione in più categorie tipologiche in ragione della varietà delle funzioni rivestite nell’ambito della fattispecie incriminatrice
3.1. Più nel dettaglio, la prima tipologia da considerare è quella dei reati a dolo specifico c.d. di ulteriore offesa.
In queste previsioni la condotta, a cui la accede la specifica finalità, è già pregna di un autonomo significato di disvalore: l’offesa rappresentata dal dolo specifico è proprio in tal senso ulteriore. L’elemento finalistico svolge perciò una funzione selettiva del tipo e limitativa della punibilità; un fatto già dotato di autonomo disvalore si caratterizza in senso ulteriormente offensivo in virtù della finalità perseguita dall’agente.
Nell’ambito dei delitti contro il patrimonio, tale è la funzione del “fine di trarre profitto” previsto in molte fattispecie, in alcune delle quali si connota altresì per una nota di illiceità costituita dal carattere di ingiustizia. In tali casi, come ricordavo, la presenza dell’elemento finalistico vincola l’interprete che, in sede di accertamento della responsabilità, sarà tenuto a verificare che la condotta sia stata diretta proprio a quello scopo selezionato come rilevante dal legislatore.
3.2. La seconda tipologia è quella dei reati a dolo specifico c.d. “differenziale”. Qui il dolo specifico è funzionale a mutare il titolo di reato, serve cioè a distinguere tra loro più tipi criminosi che hanno una matrice fattuale comune.Emblematica è la disciplina in materia di sequestro. Dal nucleo punitivo base di cui all’art. 605 c.p. “Chiunque priva taluno della libertà personale” si differenziano ipotesi specifiche, in ragione della peculiare finalità perseguita dal reo. Così, se il sequestro è compiuto a scopo di estorsione, (ossia allo scopo di conseguire un ingiusto profitto come prezzo della liberazione) troverà applicazione l’art. 630 c.p.; se è eseguito a scopo di terrorismo o eversione, ricorrerà l’art. 289 bis c.p. Si tratta di fattispecie nelle quali – a fronte di una identica condotta – è lo scopo perseguito a colorare il fatto di una offesa differenziata (persona, patrimonio, personalità dello Stato) e a giustificare una pena più grave, la cui conformità costituzionale si fonda sulla ritenuta proporzionalità del diverso trattamento sanzionatorio derivante dalla presenza della specifica finalità. In questi ambiti regolatori, profili di frizione tra dolo specifico differenzialee principio di offensività possono sorgere rispetto a fattispecie nelle quali appare più evidente la stigmatizzazione del fine quale indice di pericolosità dell’autore.
Il tema è emerso in giurisprudenza riguardo alla fattispecie di pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili, punita in via autonoma all’art. 583 bis c.p., in quanto le lesioni personali si connotano per un più elevato livello di disapprovazione sul piano etico-morale. Nell’ipotesi prevista al secondo comma della richiamata fattispecie, si incriminano le lesioni degli organi genitali femminili, diverse dalla mutilazione punita al primo comma, se compiute “al fine di menomare le funzioni sessuali”. Ebbene, in alcune pronunce di merito si è ritenuto sufficiente, ai fini della integrazione del reato, fornire la prova della finalità con cui l’agente ha compiuto l’azione a prescindere dall’idoneità delle lesioni procurate, molto superficiali, a menomare le funzioni sessuali della vittima. Nello specifico, la questione si è posta in relazione alla pratica della c.d. aruè, tipica dalla popolazione nigeriana degli Edo-Bini, consistente in un’incisione molto superficiale del clitoride che ha la finalità di riconoscere il nuovo nato come appartenente al proprio gruppo, rispetto alla quale «non vi è prova di un indebolimento della funzione clitoridea». Ebbene in tale evenienza si è affermato che «il fatto che in concreto quell’incisione non conduca ad una limitazione della sessualità della donna non rileva perché ai fini della punibilità è sufficiente il dolo specifico e non l’effettiva limitazione sessuale»[7]. Non vi è chi non veda la pericolosità della descritta torsione interpretativa derivante dall’eccessiva enfasi riservata al carattere anticipato della consumazione in ragione della presenza del dolo specifico. La circostanza che, ai fini della consumazione del reato, non sia necessario che si verifichi l’oggetto del dolo specifico non significa tuttavia che la mera intenzione di perseguire quel fine possa fondare la punibilità se manca la prova, o addirittura vi sia la prova contraria, che la condotta tenuta sia idonea, per le sue caratteristiche, a determinare l’evento; così ragionando, si finirebbe per punire il soggetto per un’intenzione non suscettibile – per l’inidoneità della condotta – di tradursi in un fatto offensivo.
3.2.1. La funzione differenziale del dolo specifico conduce infine ad un vero e proprio rebus sul piano applicativo dinnanzi a forme di dolo c.d. subspecifico.
Il consigliere Perrotti – nel suo interessante intervento – ricordava l’esistenza di questa ulteriore tipologia, che ricorre quando il dolo specifico connota una fattispecie che nella descrizione del fatto tipico rimanda ad un’altra fattispecie pure a dolo specifico. Tale è il rapporto che intercorre, ad esempio, tra il reato di strage politica di cui all’art. 285 del c.p. (collocato tra i delitti contro la personalità dello Stato) e quello di strage comune di cui all’art. 422 c.p. (collocato nei delitti contro l’incolumità pubblica). La strage comune consiste “nel compiere atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità al fine di uccidere”; l’art. 285 punisce chi realizza un fatto diretto a compiere una strage, già connotata dal fine di uccidere, “al fine di attentare alla sicurezza dello Stato”.
La relazione tra le due fattispecie è stata oggetto di una recente pronuncia della Corte di Cassazione (della quale il cons. Perrotta è stato co-estensore) riguardante il noto caso Cospito,[8] che ha riqualificato il fatto da delitto di strage comune a quello di strage politica. La vicenda concreta consisteva nell’aver collocato alcuni micidiali ordigni esplosivi vicino alla Scuola degli Allievi Carabinieri di Fossano (Cuneo) programmandone la deflagrazione in successione (si era utilizzata la c.d. tecnica del richiamo, consistente nel fare esplodere dapprima un ordigno a ridotta potenzialità lesiva e poi a distanza di poco tempo un secondo ordigno assai più potente con lo scopo di colpire le persone accorse sui luoghi a seguito della prima esplosione). Come si è osservato, “ciò che differenzia il delitto di strage politica da quello di strage comune è la presenza, nel primo reato, dell’elemento psicologico subspecifico (fine motivo) di attentare alla sicurezza dello Stato, essendo nel resto le due figure delittuose perfettamente identiche nell’elemento obiettivo e nell’elemento subiettivo proprio del reato (dolo).” In altri termini, “la strage che consiste nel compiere atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità è reato comune (contro la pubblica incolumità) se sorretto dal fine di uccidere o meglio se non abbia avuto altro fine che quello di uccidere private persone; diventa reato speciale politico (contro la personalità dello Stato) se il delitto di strage già orientato finalisticamente allo scopo di uccidere sia compiuto allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato, dunque sia finalizzato a ripercuotersi sulla compagine statale come lesione alla persona giuridica dello Stato”[9].
Leggendo la motivazione della riqualificazione giuridica del fatto di strage, ciò che in questa sede preme sottolineare, è l’indubbio peso che il dolo c.d. subspecifico assume nell’ambito della fattispecie di strage politica; un peso che conduce, in assenza di morti (come nel caso Cospito), alla pena dell’ergastolo a fronte della reclusione non inferiore a quindici anni prevista per la strage comune.
Ebbene, è di tutta evidenza la centralità offensiva che l’intenzione del reo riveste nella costruzione del tipo; centralità che esige un particolare rigore in sede di accertamento del dolo e delle regole che lo sorreggono.
3.2.2. Infine, sempre all’interno della funzione del dolo differenziale va inclusa anche l’ipotesi in cui il dolo specifico prende forma come circostanza aggravante.
In questo ambito, un contributo significativo in chiave di chiarificazione del tipo proviene dalle Sezioni Unite Chioccini[10], che hanno deciso della qualificazione dell’aggravante speciale dell’agevolazione mafiosa, oggi contenuta all’art. 416 bis. 1 c.p. rispetto all’ipotesi in cui il delitto sia commesso al fine di agevolare l’attività dell’associazione. Ai nostri fini, si riconosce alla circostanza di natura “soggettiva”, in quanto inerente ai motivi a delinquere, concludendo che «[q]uel che innegabilmente la disposizione richiede, per consentire l’applicazione dell’aggravante, è la presenza del dolo specifico o intenzionale in uno dei partecipi».
La soluzione – questo è il passaggio di maggiore interesse – si fonda, oltre che sul dato letterale, sulla pericolosità degli effetti che deriverebbero in questo particolare contesto da una ricostruzione in chiave meramente oggettiva “che consentirebbe di ravvisare l’agevolazione tutte le volte in cui una condotta illecita abbia di fatto prodotto, o abbia le potenzialità per produrre, vantaggi alla compagine”. In sostanza, considerato che nell’ambito delle condotte iscrivibili al gruppo mafioso rientrano anche ordinarie attività economiche, si correrebbe il rischio di ritenere integrata l’aggravante in tutti i casi in cui si accerti ex post una concreta utilità per l’associazione, anche a fronte di un totale difetto di rappresentazione e volizione di tali conseguenze da parte dell’imputato.
Nell’occasione, generalizzando i principi affermati nel caso in esame, le Sezioni unite delineano altresì lo statuto applicativo dei delitti a dolo specifico sia a livello monosoggettivo, chiarendo che non è necessario vi sia l’esclusività della finalità perseguita, di talché potrà rispondere penalmente anche l’agente che persegua contemporaneamente altri scopi, oltre a quello specificamente richiesto dalla legge; sia a livello concorsuale,configurando la responsabilità del partecipe che, pur non perseguendo la specifica finalità richiesta dalla legge, abbia consapevolezza che l’autore agisca a quel fine.
3.3. Una terza veste del dolo specifico è legata agli effetti di consumazione anticipata della fattispecie in cui si prevede tale finalità.
Sul piano strutturale, tale forma di dolo riproduce la sequenza logico-cronologica tra tentativo e consumazione:il legislatore punisce in via autonoma come delitto consumato un fatto che potrebbe rilevare, comunque, ex art. 56 c.p. rispetto a un’altra fattispecie di reato. Qui il possibile effetto distorsivo sul piano dell’offensività riguarda le ipotesi in cui lo scopo estremizza l’anticipazione della soglia di rilevanza penale del fatto, al fine di incriminare zone “grigie”, rispetto alle quali potrebbe dubitarsi dell’astratta configurabilità del tentativo per il carattere meramente preparatorio degli atti.
Un esempio di questa tecnica normativa di anticipazione della punibilità la si rinviene nel reato di adescamento dei minori, di cui all’art. 609- undecies c.p., fortemente caratterizzato sul piano simbolismo repressivo. Si incrimina l’adescamento di un minore di sedici anni, definito come “qualsiasi atto volto a carpire la fiducia del minore attraverso artifici, lusinghe o minacce posti in essere anche mediante l’utilizzo della rete internet o di altre reti o mezzi di comunicazione“. Sul piano soggettivo si richiede, oltre al dolo generico, il dolo specifico, consistente nello scopo di commettere i reati di prostituzioneminorile, pornografia minorile, detenzione di materiale pornografico. Si prevede inoltre una espressa clausola di riserva a favore di reati più gravi. La fattispecie di adescamento di minori, così perimetrata, si configura dunque soltanto quando la condotta non integra gli estremi del reato-fine, neanche nella forma tentata[11]. La giurisprudenza di legittimità ritiene che, pur non essendo necessario che l’adescamento vada a buon fine, la sussistenza del dolo specifico – adescamento realizzato allo scopo di commettere il reato di detenzione di materiale pornografico – va desunta facendo ricorso a parametri oggettivi, dai quali possa ricavarsi il movente sessuale della condotta[12].
4.L’ultima e più problematica tipologia è quella relativa ai reati a dolo specifico di offesa, i quali presentano caratteristiche che, a ben vedere, difficilmente consentono di poterli ricondurre ad una autonoma categoria sul piano concettuale. In questo caso, il dolo specifico accede ad una condotta a base neutra, potendo perciò determinare effetti distorsivi rispetto al diritto penale del fatto. Nella manualistica si ritiene ne sia un “classico” esempio il delitto di associazione a delinquere di cui all’art. 416 c.p. Si sostiene che, in tale ipotesi, la condotta, lungi dal rappresentare in sé un’offesa penalmente rilevante, costituisca finanche una manifestazione di diritti riconosciuti a livello costituzionale: la rilevanza penale sarebbe perciò determinata in via esclusiva dal fine perseguito dall’agente.
Vi confesso che ho sempre avuto qualche perplessità ad immaginare un’associazione disgiunta dai suoi fini, anche perché l’art. 18 Cost. garantisce, come noto, il diritto di associarsi liberamente per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale; dunque, rispetto al reato di cui all’art. 416 c.p., non mi pare sia possibile scindere la condotta (per definirla neutra o addirittura espressione di una libertà riconosciuta) dai suoi fini (illeciti). Le perplessità manifestate sulla costruzione del tipo criminoso sono tuttavia espressive di una condivisibile esigenza di garanzia, imponendone una lettura restrittiva che mantenga saldo il nesso esistente tra dolo specifico, tipicità e offensività. Così, tornando all’associazione per delinquere, assumerà rilievo penale solo una condotta associativa che implichi l’esistenza di un’organizzazione stabile di mezzi e di uomini per l’attuazione del programma criminoso generico e sia perciò idonea a creare un pericolo per l’ordine pubblico. Se allora non si ignora che la pregnanza dei beni giuridici in determinati settori (mafia, terrorismo) possa giustificare il ricorso al paradigma anticipatorio della tutela, al contempo non sono da sottovalutare i rischi insiti nella normalizzazione dell’emergenza e degli strumenti ad essa correlati, che non possono essere sterilizzati confidando nel correttivo di offensività dell’interpretazione costituzionalmente orientata. Il diffondersi di modelli di delitti a dolo specifico rivolti ad intercettare un tipo di agente pericoloso può anzi sedurre l’interprete verso semplificazioni probatorie, portandolo ad accantonare il dogma dell’offesa.
5. La possibilità di attribuire sistematicamente al potere giudiziario un onere salvifico delle fattispecie sbilanciate soggettivamente nel baricentro offensivo trova peraltro un limite, fisiologico, nella discrezionalità giudiziale; la soluzione maggiormente garantista, in linea con la funzione selettiva del dolo specifico, passa di necessità attraverso una serie di passaggi interpretativi che possono di fatto condurre ad epiloghi decisori differenti.
A conferma dell’assunto, possono richiamarsi due recenti sentenze delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione in tema di delitti contro il patrimonio, che hanno diversamente valorizzato i contenuti e la funzione del dolo specifico, giungendo, in un caso, ad estendere le maglie repressive della fattispecie e, nell’altro, a ritagliarne una specifica area di incriminazione, restringendo il perimetro applicativo.
5.1 Nella prima direzione, si inquadra la decisione delle Sezioni Unite sulla portata esegetica da assegnare alla nozione di “profitto”, quale oggetto del dolo specifico nel delitto di furto. Le Sezioni Unite, al termine di un articolato percorso motivazionale, aderiscono all’orientamento più estensivo di profitto, ritenendo che possa consistere in qualunque utilità anche non patrimoniale.
Per quanto è utile richiamare in questa sede, va osservato che nella pronuncia si afferma che, pur a fronte di una lettura estensiva del profitto, venga comunque salvaguardata la funzione selettiva della punibilità tipica del dolo specifico, in quanto il profitto è (esclusivamente) quello che, «indipendentemente dalla sua idoneità ad essere apprezzato in termini monetari, viene tratto immediatamente dalla costituzione dell’autonoma signoria sulla res e non quello che può derivare attraverso ulteriori passaggi dall’illecito»[13].
Ebbene, senza entrare nel merito della soluzione proposta (sulla quale residua qualche perplessità), è indubitabile che l’interpretazione lata offerta dalle Sezioni unite conduca ad una semplificazione nell’accertamento del dolo specifico. L’avere svincolato il profitto da qualunque contenuto di patrimonialità ne agevola la dimostrazione, in quanto il “fine di trarne profitto”, così inteso, sarà quasi immancabilmente presente nel fatto di chi si impossessi della cosa mobile altrui sottraendola a chi la detiene. La ricerca di un profitto, inteso come qualunque soddisfazione morale, finisce così per coincidere con il contenuto psicologico della stessa condotta di sottrazione e impossessamento e, dunque, in sostanza con l’oggetto del dolo generico.
In questa prospettiva, preso atto dell’ampiezza semantica riconosciuta al profitto dalla giurisprudenza, e della conseguente perdita di selettività del dolo specifico come criterio di ulteriore tipizzazione del fatto, si proponeva più di quarant’anni fa di riqualificarlo come dolo generico esplicitato. Si considerava infatti che “mentre i motivi hanno un contenuto di estrema genericità che abbraccia tutta la situazione del soggetto nella fase pre-volitiva tanto da coincidere con la spinta verso qualsiasi soddisfazione, il dolo specifico presuppone il passaggio alla fase volitiva e la precisa determinazione della volontà in un affinamento della spinta iniziale, costituita dal generale bisogno di soddisfazione, verso un particolare e specifico risultato ritenuto vantaggioso dal soggetto agente[14]”. Ciò che viene appunto a mancare nel profitto così latamente interpretato.
5.2. E giungo al secondo esempio, anch’esso tratto da una sentenza delle Sezioni Unite[15], che questa volta, allo scopo di preservare la funzione selettiva del dolo specifico, interpretano restrittivamente i contenuti punitivi della fattispecie in coerenza con il principio di offensività. La fattispecie oggetto di osservazione è quella prevista all’art. 7, comma 1, del d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, che ricorre allorquando, «al fine di ottenere indebitamente» il reddito di cittadinanza, si rendano o utilizzino dichiarazioni o documenti falsi, o attestanti cose non vere, ovvero si omettano le informazioni dovute. Si punisce nella sostanza un’ipotesi di falso, anche per omissione, finalizzata all’ottenimento del sussidio. La questione rimessa alle Sezioni Unite riguardava la possibilità di ritenere integrato il delitto anche nelle ipotesi in cui, pur a fronte di dichiarazioni mendaci, il richiedente fosse comunque nelle condizioni (reddituali) per accedere al beneficio[16].
La pronuncia risolve il contrasto giurisprudenziale aderendo all’orientamento restrittivo – ancorché minoritario – favorevole a riconoscere rilevanza alle sole falsità o omissioni strumentali al conseguimento del sussidio cui l’agente non avrebbe altrimenti avuto diritto. In questa prospettiva, si valorizza il dolo specifico nel suo rapporto con il principio di offensività, ritenendo non rilevante la violazione di un generico “dovere di lealtà”, ma necessario che il mendacio «possa ledere (o effettivamente leda) gli interessi pubblici alla cui tutela il beneficio economico è finalizzato». L’avverbio «indebitamente» che completa la descrizione del dolo specifico impone di differenziare l’elemento soggettivo rispetto alla mera consapevolezza del mendacio, così da richiedere un quid pluris, costituito appunto dalla volontà di accedere ad un beneficio che il soggetto sa essere non dovuto.
Ebbene, dagli esempi giurisprudenziali appena riportati, emerge da un lato la centralità della funzione attribuita al dolo specifico, quale parametro di ulteriore tipizzazione del fatto, dall’altro il peso che riveste il dato interpretativo in merito all’individuazione dei confini del fatto punibile. La latitudine da assegnare all’oggetto del dolo specifico chiama necessariamente in causa un giudizio sull’offesa di rilievo penale, consegnando all’interprete uno strumento di straordinaria potenzialità selettiva in ordine alle scelte di politica criminale meritevoli di essere accolte.
6.Il cammino tematico che ho provato a ripercorrere, seppure mi scuserete procedendo di sintesi in sintesi, mi porta a due brevi considerazioni conclusive.
La prima, rivolgendo lo sguardo al legislatore, attiene all’importanza di recuperare in sede di normazione le caratteristiche fisiologiche della categoria. Si è visto che quanto più ci si allontana dal modello virtuoso di dolo specifico, quale criterio di ulteriore tipizzazione del fatto, tanto più si consegna alla magistratura uno strumento di straordinaria duttilità sul piano applicativo che puòcondurre a semplificazioni probatorie o prestarsi ad assecondare contingenti esigenze repressive.
La seconda, osservando l’operato della giurisprudenza, riguarda gli effetti, talvolta distorsivi, che derivano dal combinarsi sul piano applicativo delle diverse forme di dolo, soprattutto laddove la combinazione riguardi categorie mobili (di creazione giurisprudenziale), come il dolo eventuale, e categorie fisse (di creazione legislativa), come il dolo specifico.A questo proposito,riflettevo su come quest’ultimo sia stato progressivamente svuotato della sua componente di intenzionalità, quale proiezione finalistica verso uno specifico risultato, attraverso l’espansione del dolo eventuale.
Un primo passo in questa direzione si deve alla pronuncia delle Sezioni Unite “Nocera” in tema di ricettazione che ha stabilito la compatibilità del dolo eventuale nei reati a dolo specifico. Ne ricordo la ben nota statuizione secondo la quale la ricettazione (ove si richiede che il soggetto abbia agito al fine di procurare a sé o ad altri un profitto) è configurabile anche a titolo di dolo eventuale se l’agente si è rappresentato la concreta possibilità (non un semplice sospetto) della provenienza delittuosa del bene e, nonostante questo, lo ha acquistato o ricevuto. La responsabilità penale regge comunque al metro della colpevolezza dolosa purché possa affermarsi che l’agente non avrebbe desistito dall’acquisto anche ove avesse avuto la certezza dell’illecita provenienza.La possibile coesistenza tra dolo eventuale e dolo specifico si giustifica perciò in ragione del diverso oggetto: il dolo eventuale riguarda il presupposto della condotta (la provenienza illecita) e dunque un elemento diverso dall’oggetto del dolo specifico (il profitto) che deve essere perseguito intenzionalmente.
Tuttavia, da questo schema, ancora rassicurante, ci si allontana, giungendo ad una ulteriore estensione dell’area di punibilità, quando si ritiene possibile configurare il dolo eventuale non soltanto rispetto ad elementi del fatto di pertinenza del dolo generico, ma anche rispetto alla specifica finalità in cui si esprime il dolo specifico, privato in tal modo del necessario carattere di intenzionalità. Di tale orientamento giurisprudenziale ho trovato più di un riscontro nell’ambito dei reati tributari. Così, con riguardo al delitto di dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti, si è affermato che il dolo specifico di evasione possa essere sorretto anche dal dolo eventuale qualora la condotta di indicazione nella dichiarazione di elementi passivi fittizi sia attuata nella consapevolezza che, per tale via, si potrà realizzare la specifica finalità richiesta dalla legge, ossia l’evasione[17].
La tendenza a smarrire, attraverso questo scambio simbiotico tra elementi diversi, i tratti identitari delle forme di dolo, motivata da ragioni di semplificazione probatoria in ordine all’accertamento del dolo specifico, finisce in realtà per tradirne la funzione di selettività che dovrebbe contraddistinguerlo, divenendo sufficiente, ai fini dell’affermazione della responsabilità penale, che il precipuo “fine”, rivolto a imprimere una specifica intensità alla direzione finalistica dell’agire criminoso, si sostanzi nella semplice consapevolezza della possibilità di realizzarlo.
* Testo scritto, con l’aggiunta della bibliografia essenziale, dell’intervento tenuto in data 19 febbraio 2024 nell’ambito del ciclo di seminari “I lunedì del diritto penale”, organizzato dalla I Cattedra di diritto penale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, dedicata al tema “Le forme del dolo tra psicologia e norma”, e in corso di pubblicazione nel volume collettaneo “I lunedì del diritto penale”, Napoli, 2025, a cura di V. Maiello.
[1] Cass. Sez. Un. 25 maggio 2023 (dep. 12 ottobre 2023), n. 41570, Pres. Diotallevi, est. De Marzo. Sulla decisione vedi, per tutti, G. Amarelli, Le Sezioni Unite dilatano il dolo specifico nel delitto di furto: un caso di criptoanalogia in malam partem con effetti irragionevoli?, in RIDPP, 2024, p. 179
[2] Per una esaustiva panoramica ragionata sulle diverse funzioni del dolo specifico, di recente cfr. G. Marino, Il filo di Arianna, dolo specifico e pericolo nel diritto penale della sicurezza, in DPC, 2018 p. Sul tema, si rinvia ai contributi monografici di L. Picotti, Il dolo specifico, Milano 1993 e M. Gelardi, Il dolo specifico, Padova 1996.
[3] Così G. De Vero, Corso di diritto Penale, II ed., Torino, 2024, p. 472.
[4] Sul tema, per tutti, G. Marinucci, Soggettivismo e oggettivismo nel diritto penale. Uno schizzo dogmatico e politico-criminale, in RIDPP, 2011, p. 1 ss.
[5] G. Marino, op. cit., p. 47.
[6] Nella manualistica è diffuso il riferimento alla pluralità delle funzioni del dolo specifico: cfr., per tutti, G. Fiandaca- E. Musco, Diritto Penale, parte generale, Bologna 2024, 388.
[7] Corte d’Appello di Venezia, 23 novembre 2012 (dep. 21 febbraio 2013), n. 1485. In argomento, cfr. F. Basile, Il reato di “pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili” alla prova della giurisprudenza: un commento alla prima (e finora unica) applicazione giurisprudenziale dell’art. 583 bis c.p., in Dir. pen. cont.– Riv. trim., 4/2013, 311 ss.
[8] Cass. Sez. II, 6 luglio 2022, n. 38184.
[9] Cass. Sez. II, 6 luglio 2022, n. 38184, cit. p. 54-55.
[10] Sez. Unite, 19 dicembre 2019, n. 8545.
[11] Cass. pen., sez. III, 29 settembre 2016, n. 8691.
[12] Cass. pen. sez. III, 9 gennaio 2023, n. 6724.
[13] In realtà la funzione delimitativa del dolo specifico sarebbe preservata dalla particella pronominale “ne”, utilizzata dal legislatore nella descrizione dell’oggetto del dolo specifico, che impone la necessità che il profitto (anche non patrimoniale) sia ricavabile direttamente alla cosa sottratta e non dalla condotta di sottrazione e impossessamento.Già solo valorizzando il carattere relazionale con la cosa sottratta resterebbero dunque fuori dall’ambito applicativo della fattispecie non solo le ipotesi – riportate dalla manualistica – di chi ruba per farsi mantenere in carcere, ma anche quelle nelle quali la sottrazione della res appaia strumentale non ad arricchire il proprio patrimonio, pur inteso in senso lato, ma a procurarsi altri vantaggi, anche solo morali, non collegati in alcun modo alla cosa (penso ad una recente pronuncia il cui la Cassazione ha escluso, per mancanza del dolo specifico, il furto di cani realizzato da alcuni manifestanti per dimostrare lo sdegno per le condizioni in cui venivano costretti a vivere nel canile, in quanto gli stessi non avevano agito con l’intenzione di tenerli con sé e dunque non si ripromettevano di trarre dagli animali alcuna utilità; cfr. Cass, sez. V, 1 luglio 2019, n. 40438).
[14] A. Carmona, Il fine di profitto nel delitto di furto. Presupposti culturali e struttura normativa, Milano, 1983, p. 16.
[15] Sez. Unite, 13 luglio 2023 (dep. 13 dicembre 2023) n. 49686.
[16] Il caso, ancor più nel dettaglio, riguardava un soggetto che aveva attestato un valore del proprio patrimonio immobiliare inferiore a quello reale, omettendo di indicare alcune quote di comproprietà di terreni, ma che, in assenza di tale falsità, sarebbe stato comunque nelle condizioni per ottenere il sussidio.
[17] Emblematica, sul punto, Cass. Pen. Sez. III, 20 settembre 2022, n. 42606.