Sommario : 1. Necessarie premesse: la corretta esecuzione penale ai sensi del dettato costituzionale – 2. La nascita del modello del “carcere duro”: un breve excursus– 3.Le preclusioni ostative: tra norma e giurisprudenza – 3.1 Le prospettive esterne: la Corte EDU e il carattere ambivalente della collaborazione – 4. L’approdo più recente della Corte costituzionale e le recenti modifiche legislative in materia – 5. Considerazioni finali.
Abstract
Il presente articolo si propone di analizzare i profili critici dell’esecuzione penale alla luce del dettato costituzionale. Inquadrando inizialmente il concetto di pena costituzionalmente orientata, ci si soffermerà brevemente sulla nascita e la compatibilità del sistema interno con l’art. 41-bis o.p., e successivamente sulla tematica inerente le c.d. preclusioni ostative, con uno sguardo di sistema sui caratteri dell’ergastolo ostativo, anche alla luce delle modifiche intercorse negli anni. Si analizzano in questa sede anche i più significativi interventi delle Corti nazionali e sovranazionali ed i più recenti approdi del legislatore in materia.
This paper examines the critical issues of penal enforcement in the light of the constitutional framework. After outlining the concept of punishment in a constitutional reading, it briefly considers the origins of Article 41-bis of the Italian penitentiary system and its compatibility with the legal system. It then addresses the matter of “ostative crimes” – also offering a systemic perspective on the characteristics of “ostative life sentence” – including the regulatory changes introduced over the years. Finally, it analyzes the most significant case law of national and supranational Courts and the most recent legislation in this area.
1. Necessarie premesse: la corretta esecuzione penale ai sensi del dettato costituzionale
Lo stato detentivo indubbiamente priva il soggetto della propria libertà, ma non può comportare la perdita dei suoi diritti fondamentali che sono disposti e tutelati dalla Carta costituzionale. Infatti, il soggetto, seppur in carcere, non cessa di essere cittadino e perciò rimane titolare di posizioni giuridiche soggettive[1].
Sul punto la dottrina ha fatto emergere uno dei principali paradossi che attengono alla sanzione penale riflettendo sul fatto che l’ordinamento costituzionale, che vede la rieducazione come obiettivo precipuo della pena, voglia rieducare ad esercitare la libertà attraverso la sua negazione[2].
Il paradosso viene risolto riflettendo sul fatto che, per poter far sì che la pena detentiva raggiunga il suo scopo, è necessario che essa si svolga in un carcere inteso come luogo di legalità, di rispetto della persona e dei suoi diritti. Bisogna rispettare quello che la dottrina ha denominato «volto costituzionale della pena»[3] affinché il carcere non diventi quel luogo di umiliazione o oppressione per i ristretti, ma anzi un luogo in cui le persone siano messe nella condizione di migliorarsi e di percorrere la strada della legalità per il loro reinserimento nella società civile, come statuito dall’art. 27 co.3 Cost. [4].
Il discorso muove attorno tre concetti principali, quello di libertà, di status e di personalità, ed è la stessa Corte costituzionale che, nella sentenza n. 349 del 1993, enuncia il principio del residuo, esplicitando il concetto per cui «Chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte delle sue libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale. Lo stato detentivo, dunque, riduce certamente la libertà dell’individuo, ma anche chi si trova a rivestire uno status di tal genere conserva una sua personalità ed anzi ha diritto ad espanderla nello spazio residuale di libertà concessogli»[5].
Il rispetto del residuo di cui parla la Corte consente lo sviluppo di alcuni concetti, che sono delle basi solide per un corretto trattamento penitenziario e cioè : il principio per cui in carcere sono ammesse limitazioni all’esercizio di diritti solo se giustificate da esigenze di vita detentiva[6]; la previsione per cui ogni intervento legislativo che incide su un diritto fondamentale deve tener conto dell’effetto che produce sull’intero sistema dei diritti; il minor sacrificio possibile della libertà personale, più volte sottolineato dai giudici della Corte, fa si che la pena detentiva in carcere debba essere vista come extrema ratio[7].
Il soggetto ristretto, in quanto persona, ha una dignità innata[8] che non ha carattere residuale, ma è centrale in questo contesto e non può essere soppressa. Questo è il ragionamento condiviso anche dalla giurisprudenza costituzionale che, in plurime pronunce, sottolinea come nel periodo dell’esecuzione della pena sia necessaria la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo[9].
Per far sì che le finalità rieducative, sottolineate dal dettame costituzionale all’art. 27 terzo comma, vadano di pari passo con il carattere di difesa sociale della pena, è necessario che venga prestata particolare attenzione ai diritti della persona reclusa, poiché senza il loro rispetto lo stesso ordinamento statuale si porrebbe in contrasto con la Costituzione[10].
Lo stato di reclusione deve confrontarsi, oltre che con l’articolo 27 co.3 Cost., disposizione cardine dell’istituto della pena, anche con altre previsioni costituzionali, che fungono da garanzie fondamentali per le persone ristrette, pur non essendo strictu sensu collegate al momento dell’esecuzione della pena o allo stato detentivo[11].
Proprio per tale motivo, alcuni sostengono che sia improprio parlare di un elenco di diritti dei detenuti, dal momento che questi restano titolari di posizioni giuridiche soggettive analoghe a quelle delle persone libere, in quanto la libertà personale – il cui fondamento è negli artt.2,3 e 13, primo comma, Cost. – è un bene che non può e non deve essere sacrificato dalla condizione detentiva[12].
Il problema principale che si pone in quest’ottica è capire la reale possibilità di esercizio di questi diritti ed entro quali limiti essi possano esseri compressi.
2. La nascita del modello del “carcere duro”: un breve excursus
Proprio in merito alla compressione dei diritti fondamentali del soggetto recluso, prende avvio l’annoso dibattito circa la costituzionalità del c.d. carcere duro ex art.41-bis o.p., che trattiamo nel presente paragrafo e dell’istituto connesso ma distinto dei reati ostativi, di cui parleremo successivamente.
La ratio sottesa ad entrambi gli istituti è quella di rispondere ad esigenze di allarme sociale, dovute alla qualificata pericolosità sociale dei soggetti autori di determinati reati, e quindi di modulare un trattamento penitenziario ad hoc, che a prima facie si pone in contrasto con qualsiasi disposizione costituzionale in merito.
Al fine di meglio comprendere il bilanciamento tra interessi contrapposti operato dal legislatore nella previsione di tale istituto, è necessario risalire alla sua ratio contestualizzandola anche con le esigenze storico-politiche sottese allo stesso.
La riforma penitenziaria del 1975, nell’intento di dissociarsi dall’ideologia che permeava il precedente regolamento penitenziario del 1931, introdusse una sola norma volta a disciplinare le situazioni di grave allarme sociale, l’art. 90 o.p., il quale stabiliva che «quando ricorrono gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza, il Ministro di Grazia e Giustizia ha facoltà di sospendere, in tutto o in parte l’applicazione in uno o più stabilimenti penitenziari, per un periodo di tempo determinato, strettamente necessario, delle regole di trattamento e degli istituti previsti […] dalla legge che possono porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza»[13].
La ratio legis era quella di limitare l’operatività di tale norma ai soli casi limite e il suo scopo principale era soprattutto quello di impedire le rivolte all’interno degli istituti di pena[14]. Tuttavia, questo nuovo spirito innovatore, ha dovuto scontrarsi sul piano pratico con le esigenze di ordine e sicurezza ed inoltre tale articolo divenne la base giuridica per introdurre le carceri speciali con il decreto interministeriale del 21 luglio 1977[15].
La legge Gozzini, L. n. 663/1986, abrogò l’art. 90 o.p., il quale, con il d.l. 8 giugno 1992 convertito dalla legge 7 agosto 1992 n.356 denominata “Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa”, venne poi sostituito dall’art. 41-bis o.p.. Questo regime detentivo speciale, che rappresenta per così dire una linea di confine, in quanto è il limite massimo entro cui lo Stato può spingersi per soddisfare le esigenze di difesa sociale, venne introdotto, come si evince dalla data di promulgazione della legge, in un’epoca nota per lo stragismo mafioso della famiglia dei Corleonesi, sono questi gli anni in cui lo Stato italiano è stato esposto continuamente alle minacce e agli attacchi da parte della nota associazione mafiosa “Cosa Nostra”[16].
L’inquadramento storico temporale della nascita di tale istituto fa comprendere come questo rappresentò sia una risposta alle stragi di quel periodo, ma anche una rivoluzione per il sistema detentivo. Infatti, la detenzione ordinaria attuata fino a quel momento per i boss mafiosi si era dimostrata inadeguata, in quanto quest’ultimi, continuando a mantenere i contatti con l’ambiente esterno, dirigevano le operazioni da dentro le carceri e in tal modo le problematiche inerenti alle infiltrazioni mafiose continuavano a persistere, per cui lo strumento normativo che era stato pensato, precedentemente al 41-bis, per combattere tale fenomeno criminale, si rivelò totalmente inadeguato[17].
Pertanto, al fine di rispondere all’esigenza di prevenzione speciale e di neutralizzare il pericolo, spezzando il vincolo associativo tra il detenuto e l’organizzazione criminale di appartenenza, la nuova previsione legislativa si pone l’obiettivo di rafforzare la custodia in carcere dei soggetti detenuti ritenuti particolarmente pericolosi[18].
Con l’art. 41-bis o.p. si è attribuito il potere al Ministro della Giustizia, anche su richiesta del Ministro dell’Interno, di sottoporre i detenuti (imputati, condannati e internati) per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell’articolo 4-bis o comunque per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso al c.d. carcere duro, un regime penitenziario più severo che riduce notevolmente i contatti tra detenuti e mondo esterno. Tale misura nella sua originale formulazione aveva la connotazione di misura emergenziale, destinata a rimanere in vigore per un breve periodo temporale, tanto che il decreto-legge n. 306/1992 stabiliva un periodo di soli tre anni per la sua vigenza, ma così non fu perché nel dicembre 2002 questa misura si inserì stabilmente nel sistema penitenziario italiano[19].
I presupposti per la sua applicazione erano sempre molto vaghi e i destinatari vennero individuati sulla base dell’art. 4-bis o.p., il cui contenuto era caratterizzato da forte genericità e rimesso alle determinazioni dell’Amministrazione Penitenziaria, ed inoltre contro i decreti del Ministro della Giustizia, che disponevano l’applicazione della misura, non poteva essere esperito alcun rimedio giurisdizionale[20]. Pertanto, la prima formulazione dell’art. 41-bis o.p. aveva introdotto una norma decisamente contrastante con i principi costituzionali sia in merito ai presupposti applicativi, dal momento che la norma selezionava i detenuti sulla base del titolo di reato, quanto alla durata, in quanto non essendo previsto un termine massimo di applicazione la misura poteva essere illimitatamente prorogabile, ed anche il contenuto della misura connotato da una spiccata indeterminatezza faceva sì che si attribuisse una discrezionalità rilevante al Ministro della Giustizia[21].
Sulla base di ciò, le prime applicazioni di questo nuovo regime detentivo, che si ebbero nelle carceri di Pianosa e dell’Asinara, si tradussero in abusi e maltrattamenti che costituiscono tutt’oggi una pagina buia della storia italiana[22], suscitando in alcuni il pensiero che si trattasse di una «vendetta dello Stato, che attaccato da continue minacce, in quel momento, doveva dimostrare la sua forza»[23].
Il regime speciale ha inasprito notevolmente il trattamento penitenziario privandolo oltremodo della finalità rieducativa per far fronte ad esigenze di difesa sociale, in quanto ha inserito una presunzione di pericolosità sociale massima nei confronti dei soggetti destinatari della misura, criminali collegati con ambienti mafiosi[24].
L’efficacia sistemica che raggiunse la norma fece sì che nel 2002 questa si inserì in modo definitivo nel sistema penitenziario italiano e la legge 23 dicembre 2022 n.279, nello stabilizzare la nuova misura, ne ridisegnò i tratti peculiari, cercando di inserirla negli «argini di costituzionalità» che la Corte costituzionale in più pronunce interpretative aveva individuato[25].
In realtà, in merito ai presupposti applicativi non cambiò molto, mentre quanto al contenuto si stabilì, ex art. 41-bis comma 2-quater : 1) la riduzione dei colloqui con i familiari, uno al mese dietro apposito vetro divisorio; 2) la riduzione delle telefonate, una al mese, alternativa al colloquio di massimo dieci minuti; 3) la sottoposizione della corrispondenza al visto di controllo; 4) la limitazione delle somme di denaro e dei beni; 5) la limitazione delle ore di permanenza all’esterno, due ore al giorno, e dei gruppi con cui poter parlare, massimo quattro persone[26]. Inoltre, all’Amministrazione penitenziaria venne data la facoltà di adottare misure di elevata sicurezza interna ed esterna con «la necessità di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate»[27].
È bene notare che con la riforma del 2002 venne anche introdotto un controllo giurisdizionale sui decreti di applicazione della misura da parte dei tribunali di sorveglianza, che dal 2009 è stata attribuita al solo Tribunale di sorveglianza di Roma[28]. Tuttavia, già in una pronuncia del 1996, la n. 351 la Corte costituzionale aveva affermato che «non vi è oggi discussione sul controllo dell’autorità̀ giudiziaria sotto ogni profilo di legittimità di detta determinazione, compreso dunque l’eccesso di potere nelle sue varie manifestazioni suscettibili di rivelare un non corretto uso del potere amministrativo»[29].
La Corte costituzionale sin dall’introduzione del nuovo art. 41-bis o.p. è intervenuta rimodulandone i parametri al fine di rendere la disciplina conforme alla Costituzione, anche se non si è mai espressa totalmente contro la nuova previsione, ma è intervenuta per lo più con sentenze interpretative di rigetto[30].
In merito a ciò, la giurisprudenza costituzionale affonda le sue radici nella pronuncia n.349 del 1993, in cui nonostante non sancisca l’incostituzionalità dell’istituto, ne delinea dei limiti oggettivi e assicura una garanzia giurisdizionale per cui stabilisce come le limitazioni ex art. 41-bis possano incidere solo sulle modalità di svolgimento della detenzione, ma non anche sulla quantità e qualità della pena che viene determinata dalla sentenza penale di condanna[31]. Infatti, «a ciò consegue che l’adozione di eventuali provvedimenti suscettibili di introdurre ulteriori restrizioni in tale ambito, o che, comunque, comportino una sostanziale modificazione nel grado di privazione della libertà personale, può avvenire soltanto con le garanzie (riserva di legge e riserva di giurisdizione) espressamente previste dall’art. 13, secondo comma, della Costituzione»[32].
Il principio della congruità della misura inflitta rispetto alle esigenze per cui la legge ne stabilisce l’applicazione viene enunciato con la pronuncia n.351 del 1996, ma meglio specificato l’anno successivo in cui, nella sentenza n. 376 del 1997, si ribadisce che « il regime differenziato si fonda non già astrattamente sul titolo di reato oggetto della condanna o dell’imputazione, ma sull’effettivo pericolo della permanenza di collegamenti, di cui i fatti di reato concretamente contestati costituiscono solo una logica premessa; dall’altro lato, le restrizioni apportate rispetto all’ordinario regime carcerario non possono essere liberamente determinate, ma possono essere – sempre nel limite del divieto di incidenza sulla qualità e quantità della pena e di trattamenti contrari al senso di umanità – solo quelle congrue rispetto alle predette specifiche finalità di ordine e di sicurezza; e anche di tale congruità al fine è garanzia ex post il controllo giurisdizionale attivabile sui provvedimenti ministeriali»[33].
L’art. 41-bis o.p. nel corso degli anni, almeno fino al 2009, è stato calibrato soprattutto grazie all’intervento del Giudice delle leggi, il quale ha cercato di rimodularne la portata nel tentativo di renderlo compatibile con quanto previsto dalla Carta costituzionale.
È bene notare però che con la legge n. 94 del 2009 il legislatore torna a pronunciarsi sulla normativa in oggetto, con delle conseguenze che disattendono completamente le varie pronunce giurisprudenziali le quali, fino a quel momento, si erano fatte portavoce dei principi costituzionali più garantisti[34]. Pertanto, si registra un notevole aggravamento del regime penitenziario destinato ai condannati di tale specie, simbolo della stretta normativa del legislatore sul punto.
Un esempio di ciò è la previsione legislativa che stabilisce come, nel caso di cumulo di pene per i vari reati, tra cui anche fattispecie previste ex art. 4-bis o.p., il regime detentivo speciale può continuare ad essere applicato anche se la pena per i reati non ostativi sia stata espiata. Tale scelta si pone in un clima di totale avversione rispetto alla ratio sottesa all’ 41-bis, in quanto fonda la pericolosità sul titolo di reato, e con il finalismo rieducativo che, per la prosecuzione di un regime di tal specie, richiederebbe una valutazione di pericolosità sociale concreta e attuale[35].
3. Le preclusioni ostative: tra norma e giurisprudenza
Sempre in reazione allo stragismo dei primi anni 90 si inserisce nel sistema penitenziario italiano l’istituto dell’ergastolo ostativo che, nell’ottica di repressione di quei crimini che fecero vacillare l’Italia in quegli anni, è stato da sempre caratterizzato da uno stringente regime preclusivo in merito all’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative[36]. Nel nostro ordinamento si trovarono così a convivere due tipologie di ergastolo, in quanto, oltre a quello ostativo, che inizialmente si qualificava come il c.d. “fine pena mai”, si rinviene anche quello “ordinario”. Quest’ultimo, per quanto sia sempre inserito nel novero delle pene esemplari, durante la sua esecuzione è suscettibile di essere attenuato, in quanto, dopo un determinato arco temporale trascorso in esecuzione della pena si concede la possibilità ai destinatari di tale sanzione di accedere ai benefici premiali e alle misure alternative alla detenzione[37]. Di contro, quando si parla di ergastolo ostativo e quindi di soggetti autori di quei reati ex art. 4-bis o.p. che abbiano ricevuto con sentenza definitiva di condanna la pena dell’ergastolo, l’accesso ai benefici penitenziari dipende da fattori ben diversi dal semplice decorso della pena.
Tali interventi legislativi hanno condotto alla previsione per cui per un soggetto condannato, alla pena dell’ergastolo o altra pena per taluno dei delitti ex art. 4-bis o.p., l’accesso alle misure alternative e ad altri benefici penitenziari è condizionato dalla collaborazione con la giustizia ex art. 58-ter o.p.. Infatti, per i soggetti condannati ai reati c.d. assolutamente ostativi, ex art. 4-bis co.1 o.p., la collaborazione con la giustizia si pone come condizione di ammissibilità dell’istanza volta ad ottenere l’applicazione di una misura alternativa diversa dalla liberazione anticipata, mentre per i soggetti condannati per i delitti c.d. parzialmente ostativi, ex art. 4-bis comma 1-ter ed 1-quater, la collaborazione ripristina il regime detentivo ordinario, quello previsto per i soggetti condannati per i delitti comuni[38].
Dalla L.7 agosto 1992 n.356 sino ad oggi la consistenza dei reati ostativi si è andata via via modificando e tale regime differenziato ha perseguito anche obiettivi differenti da quello di prevenzione speciale, come ad esempio quello di produrre una pressione psicologica nel soggetto ristretto al fine di fargli assumere un atteggiamento collaborativo con la giustizia, e di tranquillizzare l’opinione pubblica, mostrando una risposta dello Stato di contrasto ai fenomeni criminali, questo è il motivo per cui il novero dei reati ex art. 4-bis o.p. verrà esteso, inglobando anche fattispecie penali che hanno poco o nulla in comune con la criminalità organizzata[39].
È necessario, per meglio comprendere la portata dei nuovi interventi legislativi, analizzare la tipizzazione che l’organo legislativo ha fatto in merito ai delitti ostativi, nei quali si inseriscono: i delitti con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico con atti di violenza, il delitto ex art. 416-bis e 416-ter c.p., i delitti commessi con le condizioni ex art. 416-bis c.p. o al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, il delitto ex art. 291-quater d.P.R. 43/1943, il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, ex art. 630 c.p., il delitto associativo ex art. 74 d.P.R. n. 309/90, i delitti di riduzione in schiavitù, prostituzione minorile, pornografia minorile, tratta di persone, acquisto o alienazione di schiavi, violenza sessuale di gruppo[40]. Al di là della classificazione dei singoli reati, si nota come, ricomprendendo tra le fattispecie quella dei delitti commessi con le condizioni ex art. 416-bis c.p., il legislatore abbia creato de iure e de facto una fattispecie aperta, che indica in modo generico i presupposti applicativi in quanto riferibile a tutti quei delitti volti ad agevolare comunque le associazioni di stampo mafioso, senza discernere tra i vari gradi di gravità delle condotte di favore.
Per quanto concerne i crimini di tale specie questi vengono inseriti nei c.d. delitti di prima fascia, mentre per i detenuti che abbiano commesso reati gravi, ma non direttamente connessi con la criminalità organizzata, si parla di delitti appartenenti alla c.d. seconda fascia. I reati sopra elencati costituiscono la condicio sine qua non per l’accesso al regime detentivo speciale, e in tal senso i condannati all’ergastolo per uno di questi delitti subiscono, ciò che la dottrina ha definito come “fenomeno del triplo schiacciamento”, poiché privati della libertà personale, in quanto ergastolani, privati della possibilità di accedere a misure extra moenia, in quanto ostativi, e sottoposti al regime del carcere duro[41].
Come precedentemente detto, l’art. 4-bis viene introdotto dal decreto-legge n. 152 del 1992, subito modificato l’8 giugno 1992 con il decreto-legge n.306, a causa della strage mafiosa che avvenne il 23 maggio dello stesso anno. È con tale decreto che viene stabilita la necessaria condicio della collaborazione con la giustizia ex art. 58-ter o.p., per i soggetti autori dei reati presupposto, affinché sia data la possibilità a quest’ultimi di poter accedere alle misure alternative o ai benefici penitenziari. Dividendo i delitti tra pima e seconda fascia, la norma compie una differenziazione sulla base della pericolosità sociale dei vari soggetti, che più è elevata e più fa desumere che il soggetto mantenga i rapporti con la criminalità organizzata di provenienza e sulla base di tale presunzione iuris et iure l’acceso alle misure alternative e più in generale ai benefici penitenziari, viene concesso esclusivamente dietro una collaborazione qualificata[42].
La Corte costituzionale nel 1995 collega la collaborazione al finalismo rieducativo sancendo che «essendo la funzione rieducativa della pena valore insopprimibile che permea l’intero trattamento penitenziario, in tanto è possibile subordinare ad una determinata condotta l’applicazione di istituti che di quel trattamento sono parte integrante, in quanto la condotta che si individua come presupposto normativo risulti oggettivamente esigibile, giacché, altrimenti, residuerebbe nel sistema null’altro che una preclusione assoluta, del tutto priva di bilanciamento proprio sul piano dei valori costituzionali coinvolti»[43].
Secondo l’art. 58-ter o.p., la collaborazione è evidente quando il soggetto reo, anche successivamente alla condanna, si sia attivato per impedire all’attività delittuosa di raggiungere conseguenze ulteriori ovvero abbia coadiuvato l’autorità giudiziaria a raccogliere elementi utili per la ricostruzione dei fatti o per l’individuazione dei soggetti colpevoli[44]. Pertanto, stando alla lettera della norma, si prevedono due tipologie di condotte, il ravvedimento attivo, configurabile quando il condannato si sia adoperato attivamente per evitare le conseguenze ulteriori dell’attività delittuosa, e la fattiva collaborazione, quando i condannati «hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati»[45]. L’accertamento di tale condotta è rimesso al Tribunale di sorveglianza che, sentito il pubblico ministero e raccolte le necessarie informazioni, valuta l’utilità della collaborazione. Insistendo su un’interpretazione meramente letterale il riconoscimento della condotta collaborativa postula che questa debba essere concreta e significativa al fine di dare un contributo reale e utile alle indagini. Pertanto, ne consegue che un contributo dato quando il quadro probatorio è già completo oppure quando gli elementi forniti sono già a disposizione degli organi inquirenti, configura una condotta collaborativa inidonea a consentire l’accesso ai benefici penitenziari[46].
Si precisa, inoltre, che per superare la preclusione di elevata pericolosità sociale, è necessario che gli elementi forniti siano attinenti al caso di specie e non generici, altrimenti si consentirebbe, in modo privilegiato, a chi ha collaborato nell’ambito di un solo procedimento penale di accedere irragionevolmente ai benefici penitenziari per qualsiasi tipo di delitto[47].
La legge n. 279 del 2002, tuttavia, inserisce nell’art. 58-ter anche ulteriori forme di collaborazione, che erano già state menzionate dalla Corte costituzionale in diverse pronunce, al fine di mitigare l’operatività della preclusione[48].
La pronuncia cardine della giurisprudenza della Corte in materia è senza dubbio la sentenza n. 306 del 1993, con cui il Giudice delle leggi riconosce l’utilità di tale previsione nel contrastare l’allarmante fenomeno della criminalità organizzata, quindi dà rilevanza alla logica di prevenzione generale su cui si permea la disciplina, ma al contempo ritiene che un restringimento così forte dell’accesso ai benefici penitenziari rischia di compromettere la finalità rieducativa della pena, ex art. 27 comma terzo Cost[49].
Dunque, la Corte conclude ammettendo la non incostituzionalità della previsione in esame, ma sottolinea come « […] inibire l’accesso alle misure alternative alla detenzione ai condannati per determinati gravi reati, abbia comportato una rilevante compressione della finalità̀ rieducativa della pena. Ed infatti la tipizzazione per titoli di reato non appare consona ai principi di proporzione e di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario, mentre appare preoccupante la tendenza alla configurazione normativa di “tipi di autore”, per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita. Inoltre, non può̀ non destare serie perplessità̀, pur in una strategia di incentivazione della collaborazione, la vanificazione dei programmi e percorsi rieducativi»[50].
Pertanto, viene confermata l’idoneità della collaborazione a far cessare la presunzione di pericolosità sociale, in quanto è l’unico elemento in grado di far desumere un’interruzione del rapporto tra il soggetto e la criminalità organizzata, ma viene ritenuta irragionevole la revoca automatica del beneficio sulla base della mancata collaborazione[51].
Al fine di contenere le discriminazioni ingiustificate, derivanti da un’applicazione troppo stringente della disciplina, la Corte in successivi interventi dichiarò incostituzionale l’art. 4-bis nelle ipotesi in cui escludeva l’applicazione dei benefici penitenziari a causa di una collaborazione assente, senza considerare l’ipotesi in cui tale mancanza fosse indipendente dalla volontà del soggetto[52]. Il primo intervento fu quello del 27 luglio 1994 n. 357, in cui la Corte precisa l’illegittimità dell’art. 4-bis nella parte in cui non prevede che l’accesso ai benefici penitenziari possa essere concesso nel caso in cui la sentenza di condanna abbia accertato la partecipazione limitata del soggetto al fatto criminoso e perciò sia impossibile un’utile collaborazione con la giustizia[53], per cui in questo modo la Corte estese l’ambito di operatività della collaborazione irrilevante anche ai casi di collaborazione inesigibile dovuta alla scarsa partecipazione del soggetto al fatto di reato[54].
Con la sentenza del 1 marzo 1995 n.68, la Corte dichiara l’illegittimità dell’art. 4-bis o.p. nella parte in cui non prevede che i benefici possano essere concessi anche laddove l’accertamento completo e integrale del fatto, operato con la sentenza di condanna, renda impossibile un’utile collaborazione con la giustizia, estendendo la disciplina della collaborazione irrilevante ai casi di collaborazione impossibile per cui stabilisce che i benefici penitenziari «possano essere concessi anche nel caso in cui l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità operato con sentenza irrevocabile renda impossibile un’utile collaborazione con la giustizia, sempre che siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata»[55].
Tali pronunce resero possibile aprire la strada dell’applicazione dei benefici penitenziari anche nei casi di collaborazione assente, ma solo nelle fattispecie in cui la sua mancanza era da attribuirsi ad un fatto non imputabile al condannato, cioè prescindeva dalla volontà dello stesso[56].
Il legislatore nel 2002 recepisce tali orientamenti giurisprudenziali e definisce, nell’attuale comma 1-bis dell’art. 4-bis, i casi in cui l’assenza di collegamento con la criminalità organizzata possa essere desunta anche senza la collaborazione, specificando però che l’accesso ai benefici è possibile solo successivamente all’acquisizione di elementi che facciano escludere qualsiasi collegamento attuale con associazioni mafiose, terroristiche o eversive[57].
Con il decreto legge 11 febbraio 2009, n. 11, convertito in legge 23 aprile 2009 n. 38, si sono previste all’interno dell’art. 4-bis o.p., due tipologie di collaborazione inesigibile, che devono essere sempre sottoposte all’accertamento del Tribunale di sorveglianza, ossia la collaborazione impossibile, quando l’accertamento dei fatti e delle responsabilità è stato esaurito dalla sentenza di condanna, ed anche la collaborazione irrilevante, quando il soggetto ha partecipato in modo limitato al compimento del fatto criminoso, pertanto a causa della sua posizione secondaria non è a conoscenza di elementi rilevanti ai fini delle indagini[58].
Tuttavia, è necessario ricordare la precisazione fatta dalla giurisprudenza costituzionale per cui, nell’istanza volta ad ottenere l’accertamento della collaborazione impossibile o inesigibile, il richiedente ha l’onere di fornire elementi specifici e comprovanti la cessazione dei suoi contatti con la criminalità organizzata, e qualora tale onere di allegazione non venga soddisfatto, l’istanza viene dichiarata ab origine inammissibile[59].
Dunque, ai fini di poter beneficiare di un trattamento penitenziario più mite rispetto a quello previsto ex art. 4-bis o.p., è necessaria la compresenza di tali elementi che si risolvono nella collaborazione con la giustizia e nell’accertata inesistenza di legami con la criminalità organizzata. La dottrina, in merito all’imposizione di tale onere della prova in capo al condannato, in quanto spetta a quest’ultimo produrre elementi utili volti a far desumere la sua non appartenenza al vincolo associativo, si è mostrata poco favorevole, ritenendo che si sia stabilito un’inversione dell’onere della prova che è evidentemente contrario ai principi del nostro ordinamento[60]. D’altronde, in tal senso emerge la configurazione di una vera e propria probatio diabolica, in quanto si richiede al soggetto istante di dimostrare in via affermativa l’inesistenza di un fatto impeditivo, con tutte le difficoltà che ciò comporta e che producono un notevole aggravamento della situazione già ab initio di svantaggio del reo[61]. I giudici di legittimità ribadiscono che non basta provare l’assenza dell’inserimento del soggetto reo all’interno di un’associazione criminale per soddisfare il requisito, in quanto la preclusione ex art. 4-bis opera nel momento in cui ci sia qualsiasi tipo di contatto con l’ambiente o con persone connesse alla criminalità organizzata, anche laddove non sia stato riconosciuto il delitto ex art. 416-bis o.p.[62].
3.1 Le prospettive esterne: la Corte EDU e il carattere ambivalente della collaborazione
L’ergastolo ostativo, che discende dal combinato disposto degli artt. 22 c.p., 4-bis e 58-ter o.p., rappresenta all’interno del sistema sanzionatorio italiano la pena più estrema, in quanto i condannati all’ergastolo che abbiano commesso un delitto ostativo non vedono riconosciuta alcuna possibilità di accesso ai benefici penitenziari se non dietro collaborazione con la giustizia, pertanto, questo può configurarsi come una pena immutabile e priva di qualsiasi prospettiva volta a riacquistare la libertà[63].
Con la sentenza Viola c. Italia, il 13 giugno 2019, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dichiara che l’ergastolo ostativo si pone contro i principi sanciti dall’art. 3 CEDU, secondo cui nessuno può essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti, ed è la prima volta che i giudici di Strasburgo censurano l’ergastolo ostativo così come delineato dall’ordinamento italiano[64].
Tale pronuncia risponde al ricorso presentato nel 2016 dal detenuto Marcello Viola, il quale dal 1992 è ristretto nelle carceri italiane per fatti di criminalità organizzata e dal 1999 si trova in regime di ergastolo ostativo a causa del suo diniego a collaborare, dovuto a scelte personali e alla sua costante dichiarazione di innocenza. Il signor Viola, successivamente a due rigetti delle richieste di permessi premio e liberazione condizionale da parte della magistratura di sorveglianza, ricorre alla Corte EDU ritenendo che la disciplina in esame fosse in contrasto con: a) l’ art. 3 CEDU in quanto l’ergastolo ostativo non essendo comprimibile viola il principio della proporzionalità della pena; b) l’art. 3 CEDU sotto il profilo procedurale in quanto la dichiarazione di inammissibilità dell’istanza aveva impedito una valutazione nel merito della stessa; c) l’art. 5 par. 4 CEDU perché l’ordinamento italiano non consente un ricorso volto ad esaminare le condizioni sostanziali e procedurali che hanno comportato l’applicazione della misura; d) l’art. 6 par. 2 in merito alla presunzione di innocenza; e) l’art. 8 CEDU per la costrizione che provoca la mancata collaborazione su chi si proclama innocente e sui suoi familiari[65]. I giudici di Strasburgo ritengono il reclamo ammissibile solo per violazione degli artt. 3 e 8 CEDU, sub a) e sub e), quindi per la violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti e per l’incompatibilità del regime ostativo con la finalità rieducativa e il reinserimento sociale del reo[66].
Nell’orientare la decisione dei Giudici di Strasburgo notevole rilievo venne assunto da una pronuncia precedente, un vero e proprio leading case, la sentenza Vinter e altri c. Regno Unito, in cui la stessa aveva elaborato l’assunto per cui un ergastolo non riducibile e non riesaminabile viola il diritto del detenuto alla speranza e contrasta con l’art. 3 CEDU ledendo la dignità umana del soggetto[67].
La Corte EDU nella sua argomentazione logica constata in via preliminare come lo Stato italiano si sia trovato costretto ad inserire tale istituto nell’ordinamento penitenziario agendo in risposta ad alcuni degli episodi più allarmanti della sua compagine storica e dunque, riconosce la gravità dei reati commessi dal ricorrente, ma mette altresì in evidenza come la lotta alla mafia non possa tradursi in una deroga alla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo[68].
Al centro della sentenza venne posta proprio la questione della riducibilità o meno dell’ergastolo ostativo, in particolare la Corte si domanda se il meccanismo della collaborazione, ex art. 58-ter o.p., sia sufficiente a soddisfare il requisito della modulabilità della pena e se sia compatibile con l’art. 3 CEDU, ed inoltre sottolinea come anche il sistema penitenziario italiano sia imperniato sul principio di progressione trattamentale e finalità rieducativa della pena, che mal si concilia con la previsione in esame, potrebbe dunque configurarsi un’antinomia di sistema[69].
La giurisprudenza di Strasburgo arriva alla conclusione per cui una pena perpetua, senza speranza di liberazione, frustra l’ideale rieducativo e contrasta con il rispetto della dignità umana, quindi viola sotto molteplici punti di vista l’art. 3 della Convenzione.
In merito alla collaborazione, i Giudici di Strasburgo ritengono che questa sia sicuramente un elemento fondamentale per svolgere delle valutazioni in merito alla concessione della liberazione condizionale, ma al contempo questa non può costituire l’unico requisito per poter accedere al beneficio[70]. Inoltre, aggiungono che nonostante sia assodato che la scelta di cooperare sia rimessa alla libera autodeterminazione del condannato, rimane tuttavia possibile dubitare che questa dipenda effettivamente da una libera scelta, in quanto potrebbe anche dipendere da questioni di pura convenienza del reo[71]. Richiamando anche una sentenza della Corte costituzionale italiana, la n.306 del 1993, viene così, anche in questa sede, messa in discussione l’equivalenza tra assenza di collaborazione e pericolosità sociale. D’altronde, è del tutto possibile che un condannato, pur non distaccandosi dall’ambiente criminale cui appartiene e non essendo rieducabile, sia spinto a collaborare per ragioni di mera utilità connesse alla semplice e pura finalità di godere del regime ordinario, e argomento a contrario, può accadere che il soggetto scelga di non collaborare, ma sia inserito in un percorso rieducativo efficace e funzionale desumibile da indicatori diversi dalla collaborazione con la giustizia[72].
La Corte EDU si pone contro la «presunzione inconfutabile di pericolosità»[73] che grava su questi soggetti, in quanto cristallizza la situazione detentiva e priva quest’ultimi di qualsiasi possibilità di riscatto, e ribadisce, inoltre, il valore assoluto dell’art. 3 della Convenzione, non sottoponibile a deroghe, il quale non rende possibile «privare una persona della sua libertà in maniera coercitiva senza operare nel contempo per il suo reinserimento e senza fornirgli una possibilità di recuperare un giorno tale libertà»[74].
In realtà, precedentemente a tale sentenza, erano emersi all’interno dell’ordinamento italiano dei segnali in grado di far presumere un superamento del carattere dell’ostatività, attribuibili ai lavori della Commissione Palazzo che nel 2013 fu incaricata di redigere un progetto di riforma del sistema penale[75]. La proposta formulata dalla Commissione vedeva l’inserimento di un’alternativa alla collaborazione utile e alla collaborazione inesigibile, in particolar modo si voleva inserire il comma 1-bis all’art. 4-bis o.p. per cui « [..] e altresì nei casi in cui risulti che la mancata collaborazione non escluda il sussistere dei presupposti, diversi dalla collaborazione medesime, che permettono la concessione dei benefici penitenziari», così che qualsiasi elemento idoneo a fornire la prova del distacco dall’ambiente criminale sarebbe stato sufficiente a superare la presunzione di pericolosità e la condotta collaborativa[76]. Tuttavia, tale progetto non venne attuato e nonostante il lavoro del tavolo XVI degli Stati generali dell’Esecuzione Penale, volto ad eliminare automatismi e preclusioni, la stesura finale della L. 23 giugno 2017 n.103 non attuò alcuna modifica in merito[77].
La pronuncia dei Giudici di Strasburgo, pur non costituendo una sentenza pilota, sollecitò il potere legislativo italiano a revisionare la disciplina e a trovare un rimedio alla violazione contestata, fornendo delle indicazioni soprattutto in merito al superamento dell’automatismo preclusivo con cui operano gli artt. 4-bis e 58-ter o.p.[78]. Al paragrafo 141 di tale provvedimento si evidenzia come la situazione degli ergastolani ostativi sia un problema strutturale, tutt’oggi presente, del sistema italiano, vista la molteplicità dei ricorsi pendenti davanti la Corte EDU[79]. Tuttavia, è in questa sede che quest’ultima indica allo Stato alcune misure da attuare per tentare di risolvere il problema come una riforma necessaria della pena perpetua, che consenta il riesame della stessa e la possibilità delle autorità giudiziali di compiere delle valutazioni in merito al percorso risocializzante del condannato, precisando che il distacco dall’ambito criminale possa desumersi anche da elementi diversi dalla collaborazione[80].
Il problema dell’ergastolo ostativo può trovare una possibile soluzione solo nell’attenuazione della sanzione penale, che permetta di configurarla come una pena de iure e de facto riducibile, attraverso l’introduzione nel sistema normativo di previsioni che rendano possibili il rilascio dell’interessato, senza eccessive preclusioni, e gli diano l’opportunità di richiedere il riesame della pena[81].
3.3 L’approdo più recente della Corte costituzionale e le modifiche legislative più recenti in materia
Successivamente alla pronuncia della Corte EDU, nel 2019 la Corte costituzionale si pronuncia per la prima volta con una sentenza di accoglimento in merito all’art. 4-bis o.p..
Per effetto di tale pronuncia, la n.253 del 2019, il beneficio penitenziario dei permessi premio può ora essere concesso anche ai condannati non collaboranti, a condizione che siano stati acquisiti degli elementi tali da non far desumere un contatto con la criminalità organizzata o l’eventuale rispristino di un collegamento[82]. Una sentenza di questo tipo avrebbe potuto costituire una svolta in quanto avrebbe potuto suscitare la revisione della disciplina nel sistema legislativo italiano, soprattutto perché intervenne alcuni mesi dopo la pronuncia della Corte EDU[83]. Tuttavia, la spinta riformatrice data dai Giudici delle leggi fu arrestata, nonostante la stessa Corte costituzionale con l’ordinanza 97 del 11 maggio 2021 diede al parlamento un «congruo tempo per affrontare la materia»[84], rinviando la trattazione di un anno.
Nella fattispecie la Corte doveva rispondere ad un quesito sollevato dalla Corte di Cassazione circa la legittimità degli artt. 4-bis primo comma e 58-ter o.p. e dell’art. 2 del decreto-legge n.152 del 1991, nella parte in cui si esclude la possibilità di accedere alla liberazione condizionale, per il condannato all’ergastolo dichiarato colpevole per i reati commessi avvalendosi del metodo mafioso o per agevolare l’associazione mafiosa, che non abbia mostrato l’intento di collaborare[85]. La Corte accerta l’illegittimità, ma non la dichiara e non entra nel merito della questione e, con la tecnica dell’ “incostituzionalità prospettata”, si limita a rinviare la trattazione al maggio 2022, ritenendo che «un accoglimento immediato delle questioni proposte, in definitiva, comporterebbe effetti disarmonici sulla complessiva disciplina in esame»[86], pertanto ritiene necessario e sollecita un intervento tempestivo del legislatore, anche in un’ottica di collaborazione istituzionale[87].
Il Parlamento risponde con una proposta di legge che tuttavia non riesce ad essere approvata entro il maggio 2022 e per questo la Corte con l’ordinanza n. 122 del 2022 dispone un secondo rinvio all’8 novembre 2022. Tale processo viene però interrotto quando il 31 ottobre dello stesso anno il Governo ripropone in forma di decreto-legge il d.d.l. n. 2574, aggiungendo anche una condizione peggiorativa per il condannato, travisando così il monito della Corte[88].
Il decreto – legge n. 162 del 2022, convertito in legge n. 199, il 30 dicembre 2022, rimodula le condizioni in presenza delle quali il detenuto può essere ammesso al lavoro esterno, ai permessi premio, alla liberazione condizionale, differenziando i delitti all’interno dell’art. 4-bis o.p. in due categorie, quelli attinenti alla criminalità organizzata e i restanti come i delitti contro la pubblica amministrazione, violenza sessuale, sequestro di persona[89]. Per i primi al condannato si richiede il ricorrere di tre elementi: 1) un’idonea condotta carceraria che implichi una partecipazione attiva al programma rieducativo e una dissociazione dall’ambiente mafioso; 2) l’adempimento delle obbligazioni civili o l’assoluta impossibilità di adempiervi; 3) l’onere di allegare gli elementi specifici che consentano di escludere un legame con la criminalità organizzata[90]. Queste nuove condizioni sono inserite nel nuovo comma 1-bis dell’art. 4-bis o.p., che sostituisce il precedente, e per le altre tipologie di reati vengono previste delle condizioni analoghe.
In merito ai detenuti non collaboranti la nuova disciplina prevede che in assenza di collaborazione con la giustizia sia precluso l’accesso ai benefici penitenziari, i quali potranno essere disposti solo quando il provvedimento che prevede il regime detentivo speciale venga revocato o non prorogato[91]. Tuttavia, ciò vale a meno che questi non dimostrino di aver adempiuto al risarcimento dei danni provocati, di aver interrotto ogni tipo di legame con la criminalità organizzata, valutazione che è rimessa al giudice[92], ovvero di aver attuato delle iniziative volte a favorire le vittime, sia in senso risarcitorio che di giustizia riparativa, e tutto ciò ha reso questa preclusione relativa e non più assoluta[93].
Notiamo però un aumento del quantum di pena espiato per far sì che un condannato all’ergastolo possa accedere alla liberazione condizionale, trent’anni e non più ventisei. Quest’ultimo dato rappresenta sicuramente l’aspetto più discusso della riforma normativa, qualificabile come un’inversione di tendenza del legislatore, in quanto anni prima fu proprio la legge Gozzini a ridurre tale requisito che passò da ventott’anni a ventisei[94].
L’attività legislativa in tal senso recepisce senza dubbio i principi giurisprudenziali in merito alla relatività della preclusione e ciò rappresenta anche un notevole passo avanti per l’ordinamento penitenziario che risponde anche alle ammonizioni della Corte EDU, ma d’altro canto la rivalutazione del quantum simboleggia una retrocessione del sistema che potrebbe essere associata all’esigenza del legislatore di non allarmare la coscienza cittadina sul tema.
Inoltre, parte della dottrina ritiene che questa novella legislativa rappreseti in toto un peggioramento del regime ex art. 4-bis o.p., in quanto lo riconduce alla sua ratio originaria dal momento che estende il novero dei reati ostativi ed inoltre, seppur amplia lo spettro dei benefici penitenziari a cui i soggetti in esame hanno diritto di accedere, di contro introduce delle previsioni di accesso di difficile dimostrazione probatoria da parte del detenuto[95].
La Corte costituzionale, in merito al ricorso presentatogli, successivamente a tale modifica normativa, ha restituito gli atti alla Corte di Cassazione rimettente , che avrebbe dovuto valutare la possibilità applicativa della normativa nella fattispecie che ha portato ad interrogare il Giudice delle leggi nel 2021[96]. Quest’ultima con la pronuncia n. 15197 dell’8 marzo 2023 ha sospeso ogni tipo di valutazione circa l’innalzamento della soglia di pena per la liberazione condizionale e riguardo le nuove modifiche normative, rinviando per nuovo giudizio al Tribunale di sorveglianza[97]. Anche in successive pronunce inerenti il giudizio di legittimità costituzionale delle normative in esame, il modus operandi della Corte costituzionale è stato pressoché simile, concretizzandosi nella scelta di restituire gli atti al giudice a quo, come si nota da ultimo nell’ordinanza 18/2024.
Tuttavia, in tempi non remoti, anche la giurisprudenza di legittimità si è pronunciata in favore della nuova ratio sottesa alle riforma legislativa relativamente al superamento delle presunzioni. In accoglimento del ricorso proposto da un detenuto condannato a reati ostativi perpetrati in contesti mafiosi che, con ordinanza del 25/03/2022, si era visto negata la richiesta di un permesso premio da parte del Magistrato di sorveglianza di Roma, la stessa si mostra favorevole alla valutazione di elementi individualizzanti circa il rilascio dei benefici penitenziari verso i soggetti condannati ai reati ostativi[98].
Nella fattispecie in esame il ricorrente si era visto negare il beneficio penitenziario in quanto non aveva dato prova di un ravvedimento attivo circa le condotte criminali, precedentemente da lui attuate, e quindi non viene superata la presunzione iuris et iure di collegamento con la cosca mafiosa, nonostante il suo percorso intra moenia fino a quel momento fosse stato regolare e conforme alle regole penitenziarie. Nei motivi addotti in ricorso si censura sia la mancata valutazione da parte del Tribunale di sorveglianza dei progressi educativi che il detenuto in questione aveva avuto, sottolineando come lo stesso avesse anche conseguito durante il percorso trattamentale una Laurea in Giurisprudenza, sia la mancanza di informazioni utili ed idonee a dimostrare sul piano probatorio l’attualità dei collegamenti del soggetto con la criminalità organizzata ovvero la presumibile reviviscenza degli stessi.
Ciò premesso, in accoglimento dello stesso, i giudici di Piazza Cavour, in ordine alla condotta non collaborante del soggetto, parlano di una presunzione relativa, che come tale, è idonea di essere superata attraverso l’allegazione di elementi probatori in grado di confutarla ed inoltre ribadiscono come il provvedimento del Tribunale di sorveglianza mal si pone nei confronti del dettame legislativo di nuovo conio e dei principi ad esso sottesi[99], censurando anche la carenza di motivazioni idonee allegate al rigetto dell’istanza. È qui che i giudici di legittimità, consci della pericolosità sociale di alcune tipologie di reati, sposano quella teoria, già enucleata dai giudici costituzionali e ribadita dalla Corte di Strasburgo, che ai fini della concessione dei permessi premio o altri benefici penitenziari impone di valutare non già in via oggettiva l’assenza di collaborazione del reo, ma l’evoluzione totale della personalità del soggetto ai fini di un esame che sia prettamente individualizzato[100].
5. Considerazioni finali
Non occorre ribadire che da sempre le tematiche inerenti al 41-bis o.p. e al regime preclusivo di cui al 4-bis o.p. scuotono i teorici, gli operatori del diritto, nonché l’opinione pubblica, soprattutto alla luce delle diverse ratio che animano da un lato il sistema penitenziario in toto ex L. 354/1975, che detta le regole dell’esecuzione penale, e dall’altro gli istituti afferenti alla normativa in esame, con tutte le modifiche di sistema apportate.
Il nuovo sistema di esecuzione penale, che venne introdotto negli anni ’70 dello scorso secolo, guarda ai più importanti principi costituzionali, orientandosi non solo alla punizione, ma anche alla reintegrazione dei detenuti, ha subito nel corso degli anni importanti battute d’arresto a causa di “emergenze” sociali. È qui che il legislatore, quasi costretto, devia la funzione rieducativa, restringendo le maglie dell’esecuzione penale, in risposta a pressioni sociali, e molto spesso non considerando gli effetti a lungo termine di tali scelte. Ne è un esempio paradigmatico proprio l’introduzione del 41-bis in risposta al fenomeno dello stragismo mafioso, successivamente agli accadimenti del 1992 che hanno segnato la storia italiana, introdotto con una norma temporanea che invece continua a dispiegare i suoi effetti nei nostri giorni, in quanto normativa definitivamente consolidata nel nostro ordinamento penitenziario.
Tuttavia, le recenti modifiche legislative e la recente giurisprudenza delle corti cercano costantemente di effettuare un bilanciamento tra gli interessi rieducativi e quelli di prevenzione e difesa sociale, entrambi gravanti sul concetto di pena, che si acuiscono quando parliamo di pene quali l’ergastolo. Di contro, seppur il novum legislativo – d.l. n. 162 del 2022– abbia prospettato una condizione carceraria diversa per i soggetti autori dei reati di cui al 4-bis, ha contestualmente introdotto una serie di requisiti per l’accesso ad alcune delle misure alternative che, in taluni casi, possono essere di difficile soddisfazione, quindi con un’unica varatio legis si ampliano e restringono le maglie dell’esecuzione penale in queste specifiche ipotesi.
Probabilmente, una risposta unidirezionale da parte del legislatore è sicuramente di difficile elaborazione, tenendo anche conto degli interessi che entrano in gioco in tematiche di tal genere, e della difficile ponderazione degli stessi. Quello a cui si può auspicare è una più attenta valutazione casistica da parte dei Tribunali di sorveglianza, e più in generale dalla giurisprudenza, circa le attitudini personali dei soggetti che sottoposti al c.d. regime differenziato facciano richiesta dei benefici penitenziari a cui possono ambire, così che si elimini – soprattutto nella prassi – qualsiasi tipo di automatismo circa la valutazione delle presunzioni legali, al fine di garantire un equo contemperamento delle esigenze pubbliche e private, tale da non incappare anche in nuovi ammonimenti da parte della Corte EDU.
Ciò detto occorre anche tener conto che un totale annebbiamento della funzione rieducativa produrrebbe un collasso del sistema penale, accentuandone i tratti puramente punitivi, e probabilmente generando anche una reazione contraria da parte della collettività rispetto a quella di dissuasione dal commettere l’illecito. Inoltre, ricordando quanto il mondo antico continui ad insegnarci ancora oggi «Nessuno punisce coloro che commettono ingiustizie per il semplice fatto che sono stati ingiusti, a meno che non voglia vendicarsi in modo irrazionale, come una bestia; chi, invece, vuole punire secondo ragione, non vendica l’ingiustizia commessa – dal momento che non può̀ annullare ciò̀ che è stato – ma punisce in vista del futuro, affinché́ non venga commessa ingiustizia di nuovo, né da quello né da un altro che lo veda punito»[101].
[1] Braghini S., I diritti del detenuto previsti dall’ordinamento italiano: analisi e limiti alla luce delle recenti riforme in Rivista di informazione giuridica, 2010-2013.
[2] Padovani T., Ordine e sicurezza negli istituti penitenziari: un’evasione dalla legalità, in GREVI V. (a cura di), Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, Bologna, 1981,287.
[3] Menghini A., Carcere e costituzione: garanzie, principio rieducativo e tutela dei diritti dei detenuti, Editoriale scientifica, Napoli, novembre 2022, 2 ss.
[4] Onida V., Carcere e legalità, in Dignitas, 2002, 11-12,20: «la legalità e la cultura della legalità sono una premessa perché ciò possa avvenire»
[5] Cfr. Corte cost. 29 luglio 1993, n. 349, in Giur. Cost., 1995, punto 4.2 del Considerato in diritto.
[6] Cfr. Art. 1 L. 26 luglio 1975, n. 354: «negli istituti devono essere mantenuti l’ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili ai fini giudiziari.»
[7] In tal senso, Ruotolo M., I diritti dei detenuti nella più recente giurisprudenza costituzionale italiana in Systèmes de contrôle de constitutionnalité par voie incidente et protection des personnes en situation de vulnérabilité: Approche de droit comparé, Aix-en-Provence: DICE Éditions, 2021.
[8] Ruotolo M., Dignità̀ e carcere, Editoriale, scientifica, Napoli, 2014, 12 ss.: «la dignità̀ innata vale a evitare che la persona possa mai divenire cosa, che le azioni o le mancate azioni possano mai giustificare un trattamento inumano o degradante nei suoi confronti. [..]».
[9] Talini S., La privazione della libertà personale- Metamorfosi normative, apporti giurisprudenziali, applicazioni amministrative, Editoriale scientifica, Napoli,2008, introduzione.
[10]Viola F., Diritti in carcere, in AA.VV Ruotolo M. (a cura di), Il senso della pena, Editoriale Scientifica, Napoli, 2014, 96.
[11] Ruotolo M., Dignità e carcere, II edizione, Editoriale scientifica, Napoli, 2014, 35.
[12] In tal senso, Ruotolo M., La libertà della persona in stato di detenzione in Osservatorio costituzionale, fasc. 6/2021, 2 novembre 2021, 254.
[13] Pace L., Libertà personale e pericolosità sociale, in AA.VV. Ruotolo M. Talini S. (a cura di), I diritti dei detenuti nel sistema costituzionale, Editoriale scientifica, Napoli, 2017, 394.
[14] Pace L., op.cit., 394.
[15] Pace L., op.cit., 394.
[16] Della Bella A., Il regime detentivo speciale ex art. 41-bis comma 2, o.p.: alla ricerca di un compromesso tra le esigenze di prevenzione speciale e la tutela dei diritti fondamentali della persona, in AA.VV. Gaboardi A., Gargani A., Morgante G., Presotto A., Serraino M. ( a cura di ), Libertà dal carcere. Libertà nel carcere, affermazione e tradimento della legalità nella restrizione della libertà personale, Giappichelli Editore, Torino, 2013, 117.
[17] Pace L., op.cit., 396.
[18] Della Bella A.,op.cit., 118-119.
[19] Della Bella A.,op.cit., 119.
[20] Ibidem.
[21] Pace L., op.cit., 409.
[22] Della Bella A.,op.cit., 120.
[23] Della Bella A., Il carcere duro tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali, Milano, 2016, 111-112 da Pace L., op.cit., 410.
[24] Pace L., op.cit., 396.
[25] Pace L., op.cit., 396.
[26] Della Bella A.,op.cit., 122.
[27] Cfr. Art. 41-bis o.p., comma 2-quarter lett.a), Legge 26 luglio 1975, n.354, Ordinamento penitenziario.
[28] Della Bella A., op.cit.., 123.
[29] Cfr. Corte cost.14 ottobre 1996, n. 351, in Giur. Cost., punto 4 del Considerato in diritto.
[30] Pace L., op.cit., 410.
[31] Pace L., op.cit., 411; v. anche Dolso G.P., Corte costituzionale, 41-bis OP e sindacato di ragionevolezza. Note a margine della sentenza della Corte costituzionale n.186 del 2018, in giurisprudenzapenale.com, 2020, 1-bis – “Dentro il 41-bis”, 1 ss.
[32] Cfr. Corte cost. 24 giugno 1993, n. 349, in Giur. Cost., punto 4.2 del Considerato in diritto.
[33] Cfr. Corte cost., 26 novembre 1997, n. 376, in Giur. Cost., punto 5 del Considerato in diritto.
[34] Pace L., op.cit., 414.
[35] Ibidem.
[36] Chiola G., Il sistema carcerario italiano, Profili costituzionali, G. Giappichelli Editore, Torino, 2020, 177.
[37] Salvino T., L’ergastolo “ostativo”: un reale cambiamento?, in dirittifondamentali.it , Fascicolo 3/2023, 20 settembre 2023, 112.
[38] Degl’innocenti L., Faldi F., I benefici penitenziari, Giuffrè Editore, Milano, 2014, 376.
[39] Ibidem.
[40] Ibidem.
[41] Del Vecchio F., Presunzioni legali e rieducazione del condannato, in Processo penale e politica criminale, Giappichelli, Torino, Luglio 2020.
[42] Pace L., op.cit., 398.
[43] Cfr. Corte cost., 22 febbraio 1995, n. 68, in Giur. Cost., punto 4 del Considerato in diritto.
[44] Degl’innocenti L., Faldi F., op.cit., 385.
[45] Cfr. Art 58-ter comma primo, Legge 26 luglio 1975, n.354, Ordinamento penitenziario.
[46] Degl’innocenti L., Faldi F., op.cit., 386.
[47] Cfr. Corte Cass., sez. I, 23 settembre 1996, Sent. n. 205749, in C.E.D.
[48] Degl’innocenti L., Faldi F., op.cit., 391.
[49] Pace L., op.cit., 400.
[50] Cfr. Corte cost., 11 giugno 1993, n. 306, in Giur. Cost., punto 11 del Considerato in diritto.
[51] Pace L., op.cit., 401.
[52] Della Bella A.., La Cassazione dopo la sentenza 253 della Corte costituzionale : il destino della collaborazione impossibile e lo standard probatorio richiesto per il superamento della presunzione assoluta di pericolosità, in sistemapenale.it, 16 aprile 2020, 3
[53] Cfr. Corte cost., 27 luglio 1994 n. 357, in Giur. Cost., punto 4 del Considerato in diritto : « Va pertanto dichiarata, per contrasto con l’art. 3 Cost., l’illegittimità̀ costituzionale dell’art. 4-bis, primo comma, secondo periodo, della legge 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui non prevede che i benefici di cui al primo periodo del medesimo comma possano essere concessi anche nel caso in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, come accertata nella sentenza di condanna, renda impossibile un’utile collaborazione con la giustizia, sempre che siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l’attualità̀ di collegamenti con la criminalità̀ organizzata»; v. anche Degl’innocenti L., Faldi F., op.cit., 391.
[54] Della Bella A., op.ult.cit., 3.
[55] Cfr. Corte cost., 1° marzo 1995, n. 60, in Giur. Cost., massima n. 21987.
[56] Degl’innocenti L., Faldi F., op.cit., 391.
[57] Caraceni L., Sub art. 4-bis, in AA.VV. Della Casa F., Giostra G. (a cura di), Ordinamento penitenziario commentato, Cedam, Milano, 2019, 67.
[58] Degl’innocenti L., Faldi F., op.cit., 391 ss.
[59] Degl’innocenti L., Faldi F., op.cit., 392.
[60] Degl’innocenti L., Faldi F., op.cit., 395.
[61] Del Vecchio F., Presunzioni legali e rieducazione del condannato, in Processo penale e politica criminale, Giappichelli, Torino, Luglio 2020, 102.
[62] Cfr. Corte Cass. Pen., sez. I, 26 giugno 1992,. n. RV-191924, in C.E.D.
[63] Picaro G., La Corte E.D.U. dichiara l’ergastolo ostativo incompatibile con l’art. 3 della Convenzione. Brevi riflessioni a margine della sentenza “Viola” , in Archiviopenale.it, 2/2019, 2.
[64] Picaro G., op.cit., 1.
[65] Mori M.S; Alberta V., Prime osservazioni sulla sentenza Marcello Viola c. Italia (n. 2) in materia di ergastolo ostativo, in giurisprudenzapenale.com, 6/2019, 2.
[66] Picaro G., op.cit., 3.
[67] Picaro G., op.cit., 4.
[68] Cfr. Corte EDU, 13 giugno 2019, sentenza Viola c. Italia, §130 : « [..] riconosce che i reati per i quali il ricorrente è stato condannato riguardano un fenomeno particolarmente pericoloso per la società. Rileva inoltre che l’introduzione dell’articolo 4-bis è il risultato della riforma del regime penitenziario del 1992, avvenuta in un contesto di emergenza in cui il legislatore è dovuto intervenire, dopo un episodio estremamente significativo dell’Italia, in una situazione particolarmente critica. Tuttavia, la lotta contro questo flagello non può giustificare deroghe alle disposizioni dell’articolo 3 della Convenzione, che vieta in termini assoluti le pene inumani o degradanti».
[69] Picaro G., op.cit., 4.
[70] MASTRAPASQUA S. La riforma del regime ostativo ex art. 4-bis ord. penit.: prime applicazioni, implicazioni e prospettive, in sistemapenale.it
[71] Picaro G., op.cit., 5.
[72] Picaro G., op.cit., 5..
[73] Cfr. Corte EDU, 13 giugno 2019, sentenza Viola c. Italia, §127.
[74] Cfr. Corte EDU, 13 giugno 2019, sentenza Viola c. Italia, §136.
[75] Mori M.S; Alberta V., op.cit., 3.
[76] Ibidem.
[77] Mori M.S; Alberta V., op.cit.4.
[78] Picaro G., op.cit., 7-8.
[79] Mori M.S; Alberta V., op.cit., 8.
[80] Mori M.S; Alberta V., op.cit., 8.
[81] Ruotolo M., «Farsi da sé artefici di una migliore sorte». Senso e funzione della pena in Eugenio Perucatti. Presentazione alla riedizione del libro, in Ruotolo M. (a cura di), Perucatti E., Perché la pena dell’ergastolo deve essere attenuata, Editoriale scientifica, Napoli, 2021, XII.
[82] Dolcini E., L’ergastolo ostativo riformato in articulo mortis, in sistemapenale.it, 7 novembre 2022.
[83] Ibidem.
[84] Cfr. Corte cost., 11 maggio 2021, ord. n. 97, in Giur. Cost., punto 11 del Considerato in diritto.
[85] Dolcini E., L’ordinanza della Corte costituzionale n.97 del 2021: eufonie, dissonanza, prospettive inquietanti, in sistemapenale.it, 25 maggio 2021,2.
[86] Cfr. Corte cost., 11 maggio 2021, ord. n. 97, in Giur. Cost., punto 11 del Considerato in diritto.
[87] Dolcini E., L’ergastolo ostativo riformato in articulo mortis, in sistemapenale.it, 7 novembre 2022.
[88] Ibidem.
[89] Dolcini E., op.ult.cit.
[90] Dolcini E., op.ult.cit.
[91] Dolcini E., op.ult.cit.
[92] Si nota come in tal caso il legislatore abbia introdotto una fattispecie suscettibile di interpretazione integrativa, poiché non sono inseriti elementi e presupposti da cui desumere la rescissione di tale vincolo, ma ogni tipo di valutazione in merito è affidata alla discrezionalità del giudice.
[93] Capuozzo V., Il dialogo tra Corte costituzionale e legislatore sull’ergastolo ostativo, in treccani.it, 24 gennaio 2023.
[94] Mastrapasqua S. La riforma del regime ostativo ex art. 4-bis ord.penit.: prime applicazioni, implicazioni e prospettive, in sistemapenale.it
[95] Salvino T., L’ergastolo “ostativo”: un reale cambiamento?, in dirittifondamentali.it , Fascicolo 3/2023, 20 settembre 2023, 116.
[96] Ibidem.
[97] Cfr. Corte cass. Pen., sez. I, 8 marzo 2023, n.15197, in onelgale.wolterskluwer.it, punto 7 e 8 del Considerato in diritto.
[98] Cfr. Corte cass. Pen., sez. I, 30 marzo 2023, n.23556, in dejure.it.
[99] Si fa qui riferimento al nuovo testo dell’art.4-bis comma 1-bis, Ord. pen., modificato con il decreto-legge n. 162 del 2022 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 199 del 2022.
[100] «Per concludere, questo Collegio è ben conscio dell’esistenza di una sottilissima linea di demarcazione che – in presenza di condannati per reati gravissimi – divide le valutazioni attinenti alla pericolosità sociale e da quelle caratterizzate dalla mera condanna morale per i gravi fatti posti in essere. Deve essere sempre immanente al giudizio demandato al giudice di sorveglianza, però, la necessità di effettuare una completa valutazione degli elementi di fatto “individualizzanti”, che connotano il percorso carcerario del soggetto, onde verificare compiutamente se essi assumano – o meno – una univoca significazione di segno favorevole».
[101] Platone, Protagora, (a cura di) F. Adorno, Bari 1996, XXXI.