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In dubio pro reo: la prova d’accusa che lascia residuare un ragionevole dubbio è equiparata alla mancata prova

 

Corte di Cassazione, Sez. V, sentenza 14.10.2020, n. 28559, Pezzullo Presidente – Riccardi Relatore – Cennicola P.M.

Cass., Sez. V, 14 settembre 2020, n. 28559

La Corte di Cassazione, con la sentenza annotata, annullando con rinvio la sentenza impugnata in accoglimento della tesi difensiva secondo cui la condanna era fondata sull’unico indizio dell’aggancio del cellulare dell’imputato alle celle prossime al luogo ove era stato commesso il furto, di per sé insufficiente a fondare la responsabilità del ricorrente, ha rimarcato la distinzione concettuale tra gli indizi, suscettibili di valutazione ai sensi dell’art. 192, comma 2, c.p.p., e i sospetti: i primi sono elementi probatori raggiunti attraverso un ragionamento inferenziale, che partendo da un fatto noto (l’indizio) conduce ad un fatto ignoto (il fatto da provare), in virtù dell’applicazione di regole scientifiche ovvero di massime di esperienza; il sospetto, invece, è una nozione che oscilla tra due estremi semantici, ovvero tra il significato di fenomeno soggettivo, congettura, quindi di ipotesi senza prove, o meglio, alla ricerca di prove, ed il significato di indizio equivoco, e quindi debole. Tale ultimo concetto connota gli elementi suscettibili di assecondare distinte ed alternative ipotesi, anche contrapposte, nella spiegazione dei fatti oggetto di prova.

The Court of Cassation, with the sentence noted, annuling with postponement the contested sentence in acceptance of the defensive thesis according to which the conviction was based on the only indication of the connection of the cell phone of the accused to the cell phone tower near the place where the theft had been committed, insufficient in itself to establish the responsibility of the appellant, stressed the conceptual distinction between the evidence, susceptible of evaluation pursuant to art. 192, paragraph 2, c.p.p., and suspicions: the former are evidence obtained through an inferential reasoning, which starting from a known fact (the clue) leads to an unknown fact (the fact to prove), by virtue of the application of scientific rules or maxims of experience; suspicion, on the other hand, is a notion that oscillates between two semantic extremes, that is, between the meaning of a subjective phenomenon, conjecture, therefore of hypothesis without proof, or rather, in search of proofs, and the meaning of an equivocal and therefore weak clue. This last concept connotes the elements capable of supporting distinct and alternative hypotheses, even opposing ones, in the explanation of the facts being tested.

Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. Il ricorso dell’imputato. – 3. La sentenza del giudice di legittimità. – 3.1. Il parziale accoglimento del ricorso. – 4. L’indizio. – 5. Il sindacato del giudice di legittimità sulla correttezza del procedimento indiziario. – 6. La specificità del motivo di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p.  – 7. Considerazioni conclusive.

 

  1. Il caso di specie. 

Con la pronuncia in commento i giudici della Quinta Sezione della Corte di Cassazione hanno in parte annullato la sentenza impugnata, accogliendo il secondo motivo di ricorso dell’imputato, con il quale si deduceva la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione all’affermazione di responsabilità per taluni reati in contestazione, ritenendo la condanna unicamente fondata sulla circostanza dell’aggancio dell’utenza in uso all’imputato delle celle prossime al luogo ove era stato commesso il furto.

La Corte di Appello di Milano, precedentemente, con sentenza emessa il 25 maggio 2018, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Milano in data 4 maggio 2011, aveva ritenuto responsabile l’imputato in relazione ai reati di furto pluriaggravato di materiale elettronico posti in essere all’interno di due distinti centri commerciali, commessi sfondando una porta antipanico utilizzando come ariete una vettura precedentemente rubata, ed in relazione ai reati di tentato furto: applicando la diminuente del rito, aveva rideterminato la pena in anni 2, mesi 9 e giorni 4 di reclusione ed euro 613,00 di multa.

 

  1. Il ricorso dell’imputato.

Avverso tale decisione proponeva ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, deducendo tre motivi.

Con il primo motivo deduceva la violazione di legge processuale ed il vizio di motivazione in relazione all’affermazione di responsabilità per taluni reati in contestazione, denunciando l’inutilizzabilità patologica della prova costituita dal rilevamento dell’impronta palmare, poiché non era stato chiarito su quale superficie fosse stata rinvenuta la stessa.

Con il secondo motivo deduceva la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione all’affermazione di responsabilità per taluni reati in contestazione, ritenendo la condanna fondata sulla circostanza dell’aggancio dell’utenza in uso all’imputato delle celle prossime al luogo ove era stato commesso il furto. Ebbene, secondo il ricorrente l’aggancio delle celle costituiva una prova indiretta, indiziaria e insufficiente, ai sensi dell’art. 192, comma 2, c.p.p., a fondare un’affermazione di responsabilità. Si riteneva, peraltro, come la commissione di un precedente reato di furto con le medesime modalità dell’“ariete” fosse di per sé inidoneo a costituire un elemento indiziario su cui fondare una sentenza di condanna, anche alla luce della diversità dei complici nelle due distinte ipotesi criminose, nonché del fatto che il ricorrente fosse imputato anche di furti tentati commessi senza l’utilizzo dell’ariete.

Con il terzo motivo, infine, deduceva la violazione di legge in relazione all’affermazione di responsabilità per taluni reati in contestazione, poiché la sentenza di condanna, emessa all’esito di un provvedimento di restituzione nel termine per impugnare la sentenza contumaciale di primo grado, non aveva considerato le doglianze proposte dal difensore d’ufficio nel precedente atto di appello proposto, che tra l’altro aveva portato ad una pronuncia di secondo grado nel gennaio 2012, poi revocata. In particolare, il difensore lamentava la mancata valutazione della richiesta di riconoscimento della disciplina della continuazione con fatti già giudicati, riconosciuta invece dalla prima sentenza di appello del 2012.

 

  1. La sentenza del giudice di legittimità.

La Suprema Corte, con la sentenza che si commenta, riteneva il ricorso fondato limitatamente al secondo motivo ed inammissibile nel resto.

In particolare, i giudici di legittimità ritenevano il primo motivo di doglianza manifestamente infondato, oltre che generico, per due ordini di motivi. Innanzitutto il ricorso non menzionava affatto, ne produceva, il verbale del rilievo dell’impronta, che, riguardando atti irripetibili, era stato acquisito al fascicolo del dibattimento[1]. In secondo luogo, l’obbligo di redazione degli atti indicati dall’art. 357, comma 2, c.p.p., tra i quali rientrano le operazioni e gli accertamenti urgenti, nelle forme previste dall’art. 373 c.p.p., non è previsto a pena di nullità o inutilizzabilità, in quanto per le attività di polizia giudiziaria è sufficiente la loro documentazione, anche in un momento successivo al compimento dell’atto; qualora peraltro le predette attività siano irripetibili, è necessaria la certezza dell’individuazione dei dati essenziali, quali le fonti di provenienza, le persone intervenute all’atto e le circostanze di tempo e di luogo della constatazione dei fatti[2].

Sempre a proposito del primo motivo, la Suprema Corte sottolineava come il risultato delle indagini dattiloscopiche “offre piena garanzia di attendibilità e può costituire fonte di prova senza elementi sussidiari di conferma anche nel caso in cui sia relativo all’impronta di un solo dito, purché evidenzi almeno sedici o diciassette punti caratteristici uguali per forma e posizione, in quanto fornisce la certezza che la persona con riguardo alla quale detta verifica è effettuata si è trovata sul luogo in cui è stato commesso il reato; ne consegue che il risultato è legittimamente utilizzato dal giudice ai fini del giudizio di colpevolezza, in assenza di giustificazioni o prova contraria su detta presenza”[3].

La Corte riteneva poi inammissibile anche il terzo motivo di ricorso, poiché lo stesso concerneva una questione nuova e non devoluta con l’atto di appello proposto in seguito alla restituzione nel termine per impugnare, bensì con un diverso atto di appello proposto dal difensore d’ufficio avverso la sentenza contumaciale (ed oggetto di una distinta sentenza della Corte di Appello, successivamente revocata).

 

      4. Il parziale accoglimento del ricorso.

La Corte di Cassazione, invece, riteneva fondato il secondo motivo, col quale si denunciava l’aver radicato l’affermazione di responsabilità dell’imputato sull’elemento probatorio dell’aggancio dell’utenza in uso allo stesso alle celle prossime al luogo in cui era stato commesso il furto.

Orbene, i giudici della Quinta Sezione ritenevano in primo luogo utile sottolineare la distinzione concettuale tra “sospetti” ed “indizi”: il sospetto “è una nozione che oscilla tra due estremi semantici, ovvero tra il significato di fenomeno soggettivo, congettura, quindi di ipotesi senza prove, o meglio, alla ricerca di prove, ed il significato di indizio equivoco, e quindi debole; comunque, il concetto connota gli elementi suscettibili di assecondare distinte ed alternative ipotesi, anche contrapposte, nella spiegazione dei fatti oggetto di prova”; gli indizi, al contrario, “sono gli elementi probatori raggiunti attraverso un ragionamento inferenziale, che partendo da un fatto noto (indizio) conduce ad un fatto ignoto (il fatto da provare – in tal caso, la partecipazione dell’imputato al furto –), in virtù dell’applicazione di regole scientifiche ovvero di massime di esperienza”.

D’altro canto, la giurisprudenza ha costantemente ammesso il ricorso a massime di esperienza, precisando più volte la differenza tra queste e le mere congetture: nel primo caso il dato è stato già, o comunque viene, sottoposto a verifica empirica e quindi la massima può essere formulata nella scorta dell’id quod plerumque accidit; nel secondo caso, invece, tale verifica non vi è stata, ne può esservi, e dunque la congettura rimarrà insuscettibile di verifica empirica e di conseguente dimostrazione. Pertanto, poiché il giudizio che viene formulato a conclusione del processo penale non può mai essere di probabilità, ma di certezza, potranno trovare ingresso, nella concatenazione logica dei vari sillogismi in cui si sostanzia la motivazione, anche le massime di esperienza, ma non certo le mere congetture[4].

In secondo luogo, veniva rammentato che il sindacato di legittimità sulla gravità, precisione e concordanza della prova indiziaria è limitato alla verifica della correttezza del ragionamento probatorio del giudice di merito, che deve fornire una ricostruzione non inficiata da manifeste illogicità e non fondata su base meramente congetturale in assenza di riferimenti individualizzanti, o sostenuta da riferimenti palesemente inadeguati[5]. In altre parole, il giudice di legittimità deve verificare se il giudice di merito abbia fatto ricorso a mere congetture consistenti in ipotesi non fondate sullo “id quod plerumque accidit” ed insuscettibile di verifica empirica, come pure se abbia fatto ricorso ad una regola generale priva di una pur minima plausibilità[6].

La Suprema Corte ribadiva, inoltre, come gli indizi ai fini della prova differiscano dalle mere congetture, consistendo in fatti ontologicamente certi che, collegati tra loro, sono suscettibili di una ben determinata interpretazione[7].

Gli indizi, inoltre, devono possedere in maniera concorrente i tre requisiti dettati dall’art. 192, comma 2, c.p.p., nel senso che la mancanza di anche uno solo di essi rende l’indizio inidoneo a fondare la responsabilità penale. In particolare, gli indizi devono essere gravi, ovverosia in grado di esprimere un’elevata probabilità di derivazione del fatto ignoto da quello noto, precisi, cioè non equivoci, e concordanti, cioè convergenti verso l’identico risultato.

Di conseguenza, una particolare attenzione è posta al procedimento con cui si valuta l’idoneità o meno degli indizi a radicare detta responsabilità. Tale procedimento si articola in due distinti momenti: il primo diretto ad accertare il livello di gravità e di precisione di ciascun indizio isolatamente considerato; il secondo costituito dall’esame globale ed unitario dei diversi indizi al fine di dissolvere le diverse ambiguità.

Alla luce delle considerazioni effettuate, il giudice di legittimità dovrà pertanto verificare l’esatta applicazione dei criteri legali dettati dall’art. 192, comma 2, c.p.p. e la corretta applicazione delle regole della logica nell’interpretazione dei risultati probatori[8].

 

Ordunque, applicando al caso di specie i criteri ermeneutici pedissequamente richiamati, la Corte di Cassazione riteneva che la Corte di Appello di Milano non avesse fatto buon governo delle regole interpretative e valutative dettate dall’art. 192, comma 2, c.p.p., avendo fondato la responsabilità dell’imputato sull’unico indizio rappresentato dalla localizzazione dell’utenza dello stesso nei pressi del luogo di commissione del reato, in assenza di ulteriori elementi gravi, precisi e concordanti su cui basare tale affermazione di colpevolezza. La Suprema Corte riteneva, peraltro, che l’aver in precedenza commesso un furto con le medesime modalità non costituisse un vero e proprio indizio, ovverosia un fatto noto e certo dal quale desumere un fatto ignoto, bensì una mera congettura, nella sua dimensione più debole di mero sospetto, inidonea a fondare di per sé la responsabilità dell’imputato.

 

La sentenza impugnata veniva dunque annullata nei confronti dell’appellante limitatamente al secondo motivo di ricorso, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Milano per un nuovo esame.

 

       5. L’indizio.

In via preliminare, è opportuno rimarcare la distinzione tra prova rappresentativa (o storica o diretta) e prova critica (o indiretta).

Con il termine “prova rappresentativa” si fa riferimento a quel ragionamento che dal fatto noto, ricava, per rappresentazione, l’esistenza del fatto da provare. Tra il fatto noto (la rappresentazione effettuata ad esempio dal testimone) e il fatto ignoto (il fatto storico da provare) vi è di mezzo la valutazione di credibilità della fonte e di attendibilità della rappresentazione.

Una volta ritenuta credibile la fonte ed attendibile la narrazione, il giudice ottiene il seguente risultato probatorio: è ragionevole ritenere che, ad esempio, il racconto del testimone corrisponda allo svolgimento del fatto al quale il testimone ha assistito.

La prova critica (o indiretta), fondata sull’utilizzazione degli indizi, consiste essenzialmente nella deduzione di un fatto ignoto (c.d. fatto da provare) da un fatto noto (c.d. circostanza indiziante) tramite un procedimento gnoseologico che poggia su massime di esperienza ricavate dall’osservazione del normale ordine di svolgimento delle vicende naturali e umane.

La massima di esperienza, dunque, esprime ciò che avviene nella maggior parte dei casi (id quod plerumque accidit), tramite il ragionamento basato sul principio “in casi simili vi è un identico comportamento”.

Attraverso questo metodo logico-deduttivo è possibile affermare, con un elevato grado di probabilità, che il fatto noto sia legato al fatto da provare. Il predetto procedimento indiziario deve tuttavia muovere da premesse certe, ovverosia da circostanze fattuali non dubbie, non potendo dunque consistere in dati fondati su mere ipotesi o congetture ovvero su indizi di verosimiglianza[9].

Ebbene, per comprendere il ragionamento posto a base della decisione della Suprema Corte di Cassazione occorre innanzitutto partire dal dato normativo.

Faro di questa nostra analisi deve essere l’art. 192 c.p.p., il quale ribadisce il principio del libero convincimento del giudice nella valutazione della prova, individuandone al contempo due limiti: da un lato, ribadisce il tradizionale obbligo motivazionale[10]; dall’altro, esclude che possa derivarne la valutabilità di prove illegittimamente acquisite[11].

Si riconosce, pertanto, che non v’è predeterminazione legale del valore persuasivo delle prove, ma si afferma, tuttavia, l’esigenza di legalità del procedimento probatorio[12].

Ai sensi del secondo comma dell’articolo in commento, gli indizi, oltre a corrispondere a dati di fatto certi, devono essere gravi, precisi e concordanti: la norma subordina pertanto alla presenza di questi tre concorrenti requisiti l’equiparazione della prova critica o indiretta alla prova rappresentativa o storica o diretta, con la conseguenza che, in mancanza anche di uno solo di essi, gli indizi non possono assurgere al rango di vera e propria prova idonea a fondare la dichiarazione di responsabilità penale[13].

Si tratta di una regola giuridica di valutazione, dalla quale si ricava, per costante giurisprudenza, che un solo indizio non è mai sufficiente[14].

È d’uopo tuttavia richiamare la tesi inversa sostenuta in dottrina, la quale, pur ritenendo che l’art. 192, comma 2, c.p.p. si riferisca all’indizio nel senso di prova critica o indiretta, contrapposta alla prova diretta o rappresentativa[15], afferma tuttavia che la regola della necessaria pluralità degli indizi non vada intesa in senso assoluto[16], in quanto non necessariamente le prove indiziarie sono più fragili o meno persuasive delle prove dirette[17].

Si è dunque sostenuto che l’art. 192 co. 2 c.p.p. recepisca la nozione di indizio come probatio minor, proveniente dalla tradizione pratica, rilevando come il riferimento alla distinzione tra prove dirette e prove indirette finirebbe per limitare irragionevolmente la libertà di convincimento del giudice, imponendogli di considerare la prova critica sempre e comunque meno persuasiva di quella rappresentativa[18].

Tale impostazione, dunque, ritiene superata la tradizionale distinzione tra prova rappresentativa e prova critica effettuata esclusivamente al fine di attribuire maggiore o minore valore processuale all’una piuttosto che all’altra, adducendo a fondamento di ciò l’appunto secondo cui esistono prove critiche o indirette a cui va riconosciuto un rilievo di attendibilità superiore rispetto a quelle rientranti nella categoria delle prove dirette o rappresentative, ed anzi, che possono addirittura valere a verificare queste ultime (si pensi ad una identificazione dattiloscopica, che di per sé può essere decisiva, e ad una testimonianza, che deve invece superare il controllo di attendibilità di colui che la rende e che può restare soccombente nel confronto con l’altra).

Come detto, ai sensi del secondo comma della disposizione in oggetto, gli indizi devono possedere determinati requisiti affinché possano assumere una valenza probatoria.

Il carattere della “gravità” degli indizi attiene alla misura della capacità dimostrativa o grado di inferenza ed esprime la elevata probabilità di derivazione dal fatto noto di quello ignoto, in cui si identifica il tema di prova[19].

In altre parole, è “grave” (la “gravitas” ci dà l’idea del peso dell’indizio) l’indizio che è resistente alle obiezioni e che pertanto ha una elevata persuasività.

La “precisione” degli indizi designa la loro idoneità a far desumere il fatto non conosciuto e varia in relazione inversa alla loro equivocità: indizi precisi sono quelli che consentono un ristretto numero di interpretazioni tra le quali è inclusa quella pertinente al fatto da provare. È chiaro che l’indizio non dotato di precisione è inconsistente in sé: la precisione di ogni circostanza indiziante emersa costituisce un “prerequisito necessario perché si possa procedere oltre nel ragionamento indiziario”[20].

A contrario, l’indizio che comporta un’unica soluzione è l’indizio “necessario”, caratterizzato dalla correlazione obbligata del fatto ignoto da quello noto, al quale, sulla base delle leggi scientifiche, il primo è legato in modo certo e inevitabile. L’indizio necessario, dunque, poiché dotato di precisione e gravità assolute, basta da solo ad integrare la prova e non postula il concorso di altri indizi né, di riflesso, il requisito della concordanza[21].

La “concordanza” degli indizi indica, poi, la loro convergenza verso l’identico risultato ed è qualificata dalle interazioni riscontrabili tra una pluralità di indizi gravi e precisi, i quali, pur essendo da soli insufficienti a giustificare una determinata conclusione, acquistano il carattere dell’univocità in ragione del reciproco collegamento e della loro simultanea convergenza in una medesima direzione, assumendo, così, il crisma della prova e l’efficacia dimostrativa che a questa inerisce[22].

La gravità degli indizi, peraltro, “non è invalidata dalla presenza di controindizi. Gli indizi non si contano, si pesano. Nel processo non vale l’algebra degli indizi, vale la loro sintassi: cioè la loro organizzazione in una trama coerente, che consenta una ricostruzione ragionevole della vicenda”[23].

Viceversa, se l’oggetto della prova è un fatto incompatibile con la ricostruzione del fatto storico, operata nell’imputazione, allora è sufficiente anche un solo indizio. ùIntendiamo riferirci all’alibi, ovverosia a quel ragionamento attraverso il quale si evince che l’imputato non poteva essere a quell’ora sul luogo del delitto poiché nel medesimo momento si trovava altrove.

In tal caso, un solo indizio sarà idoneo a dimostrare con certezza che il fatto non si è verificato così come ricostruito dal pubblico ministero[24].

Naturalmente, l’elemento di prova sul quale si basa l’alibi come ogni altro elemento di prova deve essere sottoposto al vaglio di attendibilità da parte del giudice[25].

 

  1. Il sindacato del giudice di legittimità sulla correttezza del procedimento indiziario.

 

Ebbene, compito del giudice è quello di valutare, anche e soprattutto alla luce dei predetti requisiti, gli indizi. Tale procedimento logico di valutazione si articola in due distinti momenti:

  1. Il primo momento è diretto ad accertare il maggiore o minore livello di gravità e precisione degli indizi, ciascuno considerato isolatamente, tenendo presente che tale livello è direttamente proporzionale alla forza di necessità logica con la quale gli elementi indizianti conducono al fatto da dimostrare ed è inversamente proporzionale alla molteplicità di accadimenti che se ne possono desumere secondo le regole di esperienza.
  2. Il secondo momento del giudizio indiziario è costituito dall’esame globale e unitario tendente a dissolverne la relativa ambiguità (quae singula non probant, simul unita probant), posto che nella valutazione complessiva il limite della valenza di ognuno risulta superato e l’incidenza positiva probatoria viene esaltata, in modo da conferire al complesso indiziario pregnante e univoco significato dimostrativo, per il quale può affermarsi conseguita la prova logica del fatto[26].

Tanto premesso occorre tuttavia rilevare come nel giudizio di legittimità il sindacato sulla correttezza del procedimento indiziario non possa consistere nella rivalutazione della gravità, della precisione e della concordanza degli indizi, poiché ciò comporterebbe inevitabilmente apprezzamenti riservati al giudice di merito.

Il sindacato di legittimità deve piuttosto tradursi nel controllo logico e giuridico della struttura della motivazione, al fine di verificare se sia stata data esatta applicazione ai criteri legali dettati dall’art. 192, comma 2, c.p.p. e se siano state coerentemente applicate le regole della logica nell’interpretazione dei risultati probatori: occorre, in altre parole, verificare che il ragionamento probatorio del giudice di merito fornisca una ricostruzione non inficiata da manifeste illogicità e non fondata su mere congetture consistenti in ipotesi non fondate sullo “id quod plerumque accidit”, insuscettibili dunque di verifica empirica[27].

Ne discende che l’esame della gravità, precisione e concordanza degli indizi da parte del giudice di legittimità è semplicemente controllo sul rispetto, da parte del giudice di merito, dei criteri dettati in materia di valutazione delle prove dall’art. 192 c.p.p., controllo eseguito con il ricorso ai consueti parametri della completezza, della correttezza e della logicità del discorso motivazionale[28].

Spetta alla Corte di Cassazione sindacare l’errata configurazione come elemento indiziario, ad opera del giudice di merito, di un semplice sospetto: quest’ultimo infatti consiste in un’illazione soggettiva meramente congetturale, fonte di conclusioni in termini di mera possibilità[29]. I sospetti, in altre parole, non sono altro che intuizioni, opinioni del tutto personali che, per quanto ragionevoli, sono meramente ipotetiche e non si fondano su una concreta circostanza indiziante certa.

Ordunque, per giungere a condividere la correttezza del procedimento logico utilizzato dal giudice di merito, il giudice di legittimità deve verificare che siano stati rispettati i principi di completezza (se il giudice abbia preso in considerazione tutte le informazioni rilevanti), di correttezza e logicità (se le conclusioni siano coerenti col materiale considerato e fondate su corretti criteri di inferenza e su deduzioni logicamente ineccepibili).

Si tratta, dunque, di una zona posta al confine tra il merito e la legittimità, con il concreto rischio per la Corte di Cassazione di sconfinare nella “zona proibita” della valutazione del complesso probatorio. Ma l’esercizio di queste funzioni è reso obbligato dalla natura del controllo di legittimità sul contenuto della decisione: l’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. preclude infatti al giudice di legittimità di rivalutare prove e indizi, ma non di verificare se questa valutazione sia avvenuta secondo criteri logici.

Alla Corte di Cassazione non è dunque consentito addentrarsi in una sorta di rivisitazione degli itinerari valutativi attraverso i quali si è formato il convincimento giudiziale, allo scopo di dimostrare che, svalutando certi elementi probatori e rivalutandone altri, si sarebbe dovuti pervenire ad un diverso risultato. E ciò proprio grazie all’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., “preciso baluardo contro il rischio di invasioni arbitrarie nella sfera delle valutazioni probatorie proprie dei giudici di merito”[30].

 

  1. La specificità del motivo di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p.

Quanto precede rende opportuno richiamare la sentenza n. 29541 del 16 luglio 2020 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la quale è stato perimetrato l’ambito di utilizzabilità, e di conseguente operatività, dei motivi di ricorso di cui all’art. 606, comma 1, lett. c) ed e), c.p.p..

Il massimo Consesso ha in quella sede richiamato l’indirizzo giurisprudenziale che fa capo alla nota sentenza n. 42792/2001 delle Sezioni Unite, la quale ha stabilito che “allorché sia dedotto, mediante ricorso per cassazione, un error in procedendo ai sensi dell’art. 606 co. 1 lett. c) c.p.p., la Corte di Cassazione è giudice anche del fatto e, per risolvere la relativa questione, può accedere all’esame diretto degli atti processuali, che resta invece precluso dal riferimento al testo del provvedimento impugnato contenuto nella lett. e) del citato articolo, quando risulti denunziata la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione”.

Così statuendo, e per ciò che interessa in questa sede, le Sezioni Unite hanno inteso ribadire come non sia consentito il motivo di ricorso che deduca la violazione dell’art. 192 c.p.p., anche se in relazione agli artt. 125 e 546, comma 1, lett. e), c.p.p., per censurare l’omessa od erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti od acquisibili.

Ciò in quanto i limiti all’ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui alla lett. c) della medesima disposizione, nella parte in cui consente di dolersi dell’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità[31].

Si ribadisce, nuovamente, come l’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. precluda al giudice di legittimità di rivalutare prove e indizi, ma non di verificare se questa valutazione sia avvenuta secondo criteri logici[32].

A contrario, la specificità del motivo di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., dettato in tema di ricorso per cassazione al fine di definirne l’ammissibilità per ragioni legate alla motivazione, esclude che l’ambito di operatività della predetta disposizione possa essere dilatato per mezzo delle regole processuali concernenti la motivazione di cui agli artt. 125 e 546, comma 1, lett. e), c.p.p., utilizzando la violazione di legge di cui all’art. 606, comma 1, lett. c), c.p.p.

D’altronde, la riconduzione dei vizi di motivazione alla categoria di cui alla lett. c) stravolgerebbe l’assetto normativo delle modalità di deduzione dei predetti vizi, poiché la lett. e) limita la deduzione ai vizi risultanti “dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”. Se invece i predetti vizi motivazionali fossero deducibili quali vizi processuali ai sensi della lett. c), in relazione ad essi il giudice di legittimità sarebbe gravato da un onere non selettivo di accesso agli atti.

Immediata derivazione di tali considerazioni è che, qualora il ricorrente intenda denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., ha l’onere, sanzionato a pena di a-specificità e, dunque, di inammissibilità del ricorso, di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica.

Non è possibile, infatti, attribuire al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l’impugnazione al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dei motivi proposti quelli suscettibili di un utile scrutinio, poiché i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione sono, per espressa previsione normativa, eterogenei ed incompatibili, e dunque non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione.

Pertanto, il motivo di ricorso che deduca promiscuamente i vizi di motivazione indicati dall’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. difetta della specificità richiesta dagli artt. 581 e 591 c.p.p..

Invero, dal combinato disposto degli artt. 606, comma 1, lett. e) e 581, comma 1, lett. d), c.p.p. è possibile desumere come non sia consentita l’enunciazione perplessa ed alternativa dei motivi di ricorso, essendo onere del ricorrente specificare con la massima precisione possibile se la deduzione del vizio di motivazione sia riferita alla mancanza, alla contraddittorietà o alla manifesta illogicità della stessa, ovvero ad una pluralità di tali vizi, da indicare specificamente in relazione alle varie parti della motivazione censurata.

Per tali ragioni, dunque, la censura alternativa ed indifferenziata di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione risulta priva della necessaria specificità.

Di conseguenza, per quanto di nostro interesse, non è consentito il motivo di ricorso con cui si deduca la violazione dell’art. 192 c.p.p., anche se in relazione agli artt. 125 e 546, comma 1, lett. e), c.p.p., per censurare l’omessa od erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti od acquisibili, in quanto i limiti all’ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui all’art. 606, comma 1, lett. c), c.p.p., ed in difetto di una espressa sanzione di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza.

 

  1. Considerazioni conclusive.

Conclusivamente, le diverse considerazioni che precedono in merito all’importanza della correttezza del metodo cui il giudice di merito deve attenersi nella valutazione degli elementi indizianti non fanno altro che corroborare il ragionamento posto a fondamento della decisione della Corte di Cassazione nel caso in commento.

L’indizio è un fatto certo dal quale si perviene alla dimostrazione del fatto incerto da provare secondo lo schema del c.d. sillogismo giudiziario.

È possibile che da un fatto accertato sia logicamente desumibile una sola conseguenza, ma di norma il fatto indiziante è significativo di una pluralità di fatti non noti: in tal caso può pervenirsi al superamento della relativa ambiguità indicativa dei singoli indizi applicando la regola metodologica fissata nell’art. 192, comma 2, c.p.p.

Occorre in primo luogo valutare ciascun indizio singolarmente per acquisirne la relativa valenza indicativa. Dopodiché si passerà al momento metodologico successivo dell’esame globale ed unitario, attraverso il quale la relativa ambiguità indicativa di ciascun elemento probatorio potrà risolversi.

Nella valutazione complessiva, infatti, ciascun indizio si somma e si integra con gli altri: l’insieme potrà assumere quel pregnante ed univoco significato dimostrativo che consente di ritenere conseguita la prova logica del fatto. Tale prova logica non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto alla prova diretta o storica quando sia conseguita con la rigorosità metodologica che giustifica e sostanzia il principio del c.d. libero convincimento del giudice.

La correttezza del metodo, che da ultimo il giudice di legittimità ha l’onere di verificare, è dunque l’unica garanzia circa l’affidabilità del risultato ricostruttivo.

Questa forma di controllo esercitato dalla Corte di Cassazione, che si esaurisce sostanzialmente nella ricerca di quello standard probatorio minimo perché possa ritenersi legittima una sentenza di condanna, ha trovato peraltro una conferma normativa nella modifica operata dalla l. 20 febbraio 2006, n. 46 all’art. 533, comma 1, c.p.p., il quale oggi prevede che l’imputato possa essere condannato se risulta “colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio[33].

Per pervenire alla condanna il giudice non solo deve ritenere non probabile l’eventuale diversa ricostruzione del fatto che conduce all’assoluzione dell’imputato, ma deve altresì ritenere che il dubbio su questa ipotesi alternativa non sia ragionevole: deve cioè trattarsi di un’ipotesi non plausibile o comunque priva di qualsiasi conferma.

Ancora, una medesima ratio va rinvenuta nell’art. 530, comma 2, c.p.p., secondo il quale il giudice deve pronunciare sentenza di assoluzione “quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile”.

Al di sotto del predetto standard probatorio minimo il giudice deve assolvere l’imputato.

Le suesposte considerazioni, conclusivamente, sono rapportabili all’imprescindibile principio fondamentale della presunzione di non colpevolezza prevista dall’art. 27, comma 2, Cost. e valgono a significare che l’ordinamento, se tollera l’assoluzione del colpevole, non tollera però la condanna dell’innocente.

 

[1] Cass., pen. Sez. II, 23.1.2009, n. 17423/2009, secondo cui “I verbali delle operazioni di polizia giudiziaria volte al prelievo sul luogo del fatto di impronte digitali, in quanto relativi ad atti irripetibili, sono acquisiti al fascicolo per il dibattimento senza che possa rilevare in senso contrario l’assenza del previo avviso al difensore dell’indagato, che ha solo il diritto di assistere agli accertamenti irripetibili”.

[2] Cass., pen. Sez. I, 6.10.2006, n. 34022.

[3] Cass., pen. Sez. V, 28.9.2018, n. 54493.

[4] Cass., pen. Sez. I, 22.10.1990, n. 329, in Arch. n. proc. pen., 1991, p. 469.

[5] Cass., pen. Sez. IV, 12.11.2009, n. 48320.

[6] Cass., pen. Sez. I, 11.2.2014, n. 18118.

[7] Cass., pen. Sez. II, 28.10.2009, n. 43923.

[8] Cass., pen. Sez. V, 10.12.2013 n. 4663.

[9] Cass., pen. Sez. IV, 25.1.1993, n. 2967; in tal senso, Cass., pen. Sez. II, 20.10.2009 n. 43923.

[10] Siracusano, in Aa. Vv., Diritto Processuale Penale, in Di Chiara, Patanè, Siracusano (a cura di), Giuffrè, 2018; Nappi, Guida al codice di procedura penale, Giuffrè, 2007, p. 171 ss.

[11] Grevi, in Aa. Vv., Profili del nuovo codice di procedura penale, in Conso, Grevi (a cura di), Cedam, 3° ed., 1993, p. 210; Nobili, La nuova procedura penale. Lezioni agli studenti, Clueb, 1989, p. 163 ss.

[12] Nobili, in Aa. Vv., Commento al nuovo codice di procedura penale, in Chiavario (a cura di), Utet, 1990, p. 415;

[13] Cass., pen. Sez. IV, 2.4.2003, n. 22391.

[14] Cass., pen. Sez. I, 8.3.2000, n. 7027, secondo cui “La prova indiziaria di cui al secondo comma dell’art. 192 cod. proc. pen. deve essere costituita da più indizi, e non da uno solo di essi, e i molteplici indizi, nel loro insieme, devono essere univocamente concordanti rispetto al fatto da dimostrare, nonché storicamente certi e rappresentativi di una rilevante contiguità logica con il fatto ignoto”. Per una ipotesi peculiare nella quale un solo indizio è di per sé sufficiente a condannare l’imputato si veda Cass., pen. Sez. V, 22.10.2003, n. 4565, in relazione al delitto di false generalità ex art. 495 c.p.: un imputato può essere condannato per tale delitto qualora risulti che in due occasioni ha fornito all’autorità giudiziaria generalità differenti. In tali ipotesi si è certi che almeno in un caso egli ha dichiarato il falso anche se non si conoscono le vere generalità del soggetto.

[15] Grevi, op. cit.; Nobili, op. cit.

[16] Cordero, Procedura Penale, Giuffrè, 9° ed., p. 577.

[17] Fassone, La valutazione della prova, in Aa. Vv., Manuale pratico dell’inchiesta penale, Violante (a cura di), Giuffrè, Milano, 1986, p. 111; Ferrua, Studi sul processo penale, Giappichelli, 1990, pp. 48 e 106.

[18] Nappi, op. cit.

[19] Cass., pen. Sez. VI, 4.11.2011, n. 3882.

[20] Tonini-Conti, Il processo di Perugia tra conoscenza istintuale e “scienza del dubbio”, in AP, 2012, n. 2;

[21] Cass., pen. Sez. IV, 19.3.2009, n. 19730.

[22] Cass., pen. Sez. VI, 4.11.2011, n. 3882, cit.

[23] Iacoviello, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in cassazione, Giuffrè, Milano, 2013;

[24] Tonini, Manuale di procedura penale, XXI edizione, Giuffrè, pag. 230;

[25] Un alibi addotto e non provato non potrà mai costituire elemento di colpevolezza (Cass., pen. Sez. I, 8.4.1991, Lavazza, in CP, 1992, p. 2793). Tuttavia, un alibi falso e mendace appare sintomatico del tentativo, da parte dell’incolpato, di sottrarsi all’accertamento della verità, sicché di esso il giudice dovrà tener conto, quale elemento indiziante, unitamente a tutti gli altri elementi acquisiti, valutandolo nel suo prudente apprezzamento per la formazione del giudizio finale in ordine alla penale responsabilità di colui che lo adduca (Cass., pen. Sez. II, 10.2.1995, Cavataio, in C.E.D. Cass., n. 201331). In considerazione della presunzione di non colpevolezza che accompagna ogni cittadino sino alla condanna definitiva, infatti, solo l’alibi certamente falso potrà essere valutato come indizio a carico dell’imputato, mentre la mancanza di alibi od il suo fallimento sono probatoriamente neutri (Cass., pen. Sez. IV, 18.5.1982, Modica, in Arch. n. proc. pen., 1992, p. 803). L’alibi fallito, infatti, va considerato come elemento del tutto agnostico sul piano probatorio e, dunque, non costituente neppure un indizio (Catalano, La prova d’alibi, Giuffrè, Milano, 1998, p. 115 ss.); solo nel momento in cui sia stata acquisita aliunde la prova della responsabilità, esso potrà costituire un elemento integrativo, di chiusura del costrutto probatorio. L’alibi costruito, infine, è indicativo di una maliziosa preordinazione difensiva e ha una sua valenza indiziante che, a differenza di quello fallito, lo pone tra gli elementi probatoriamente rilevanti.

[26] Cass., pen. Sez. Un., 4.2.1992, n. 6682.

[27] Cass., pen. Sez. IV, 12.11.2009, n. 48320, cit.; in tal senso, Cass., pen. Sez. I, 11.2.2014, n. 18118, cit.

[28] Cass., pen. Sez. VI, 15.11.2002, n. 20474.

[29] Cass., pen. Sez. IV, 19.3.2009, n. 19730, cit.

[30] Grevi, Nemo tenetur se detegere. Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, Giuffrè, Milano, 1972.

[31] Cass., pen. Sez. I, 26.11.1998, n. 1088; in tal senso, Cass., pen. Sez. VI, 8.11.2012, n. 45249; Cass., pen. Sez. II, 24.5.2019, n. 38676.

[32] A tal proposito, Cass., pen. Sez. V, 25.9.2007, n. 39048, secondo cui “In tema di motivi di ricorso per cassazione, a seguito delle modifiche dell’art. 606, comma primo, lett. e) ad opera dell’art. 8 della L. n. 46 del 2006, mentre non è consentito dedurre il “travisamento del fatto”, stante la preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, è, invece, consentito dedurre il vizio di “travisamento della prova”, che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabile diverso da quello reale, considerato che, in tal caso, non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare se detti elementi sussistano”.

[33] La disposizione ricalca fedelmente la formula anglosassone riassunta nel noto acronimo B.A.R.D. (Beyond Any Reasonable Doubt).

 

 

 

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