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La Corte di cassazione inizia a pronunciarsi in merito al nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza

Con la sentenza che si commenta, la Corte di cassazione si pronuncia per la prima volta sul cruciale tema dei rapporti tra la Legge fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267) e il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d. lgs. 12 gennaio 2019, n. 14).

Nella fattispecie, al ricorrente veniva applicata la pena concordata dalle parti, per il reato di bancarotta impropria da reato societario ex art. 223, co. 2, n. 1, l. fall., aggravato ai sensi dell’art. 219 l. fall.

In particolare, all’imputato è stata ascritta la violazione dell’art. 223, comma 2 n. 1, l. fall., in relazione all’art. 2621 cod. civ., avendo riportato, nei bilanci di esercizio della fallita (dichiarata tale con sentenza del 3 ottobre 2013) srl Italy Open Tour del 2009, 2010 e 2011, fatti non corrispondenti al vero, occultando perdite tali da annullare il patrimonio netto e così cagionando il dissesto della stessa.

Tuttavia, per mezzo del proprio difensore, l’imputato ha ricorso in cassazione, adducendo un motivo unico in ordine alla violazione di legge ed al vizio di motivazione in relazione alla omessa applicazione del disposto dell’art. 129 cod. proc. pen. in quanto, a seguito dell’entrata in vigore degli artt. 389 e 390 del d.lgs. n. 14/2019, di riforma della legge fallimentare, si era verificata l’ipotesi di “abolitio criminis”, essendo mutata la legge extrapenale posta a fondamento delle norme penali incriminatrici.

La Corte di cassazione ha ritenuto inammissibile il ricorso per un duplice ordine di ragioni.

In primo luogo, la giurisprudenza di legittimità ha posto in evidenza come, a ben vedere, l’art. 389 del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza abbia imposto l’entrata in vigore delle nuove norme incriminatrici solo decorsi diciotto mesi dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, avvenuta il 14 febbraio 2019, e, conseguentemente, il 15 agosto 2020.

In secondo luogo, la Corte sottolinea come le nuove norme appaiano in perfetta continuità rispetto a quelle contenute nella legge fallimentare.

La modifiche che si sono attuate, nel passaggio dall’art. 223 della legge fallimentare all’art. 329 del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, sono da reputarsi di ordine meramente lessicale: si passa dal termine “fallimento” all’espressione “liquidazione giudiziale”, dall’espressione “imprenditore dichiarato fallito” a quella “imprenditore dichiarato in liquidazione giudiziale” e, infine, dall’espressione “agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori di società dichiarate fallite” a quella “agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori di società in liquidazione giudiziale”.

Inoltre, la Corte, nella sentenza in analisi, si è soffermata anche a chiarire come non si debbano ravvisare cambiamenti sostanziali nemmeno con riferimento alle norme civilistiche che disciplinano la nuova procedura di liquidazione giudiziale rispetto alla precedente procedura di fallimento, le quali, infatti, rappresentano elementi che concorrono ad eterointegrare il precetto penale.

Precisazione che, da questo punto di vista, si mostra come fondamentale nell’ottica di stabilire come le norme penali si pongano in una situazione di continuità normativa, escludendo in tal modo qualsivoglia intervento di natura abolitiva.

Cass., Sez. V, 10 dicembre 2019, n. 4772

 

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