Il presente contributo intende esaminare le diposizioni del cd. Decreto Sicurezza nella prospettiva della repressione del dissenso e della progressiva erosione delle garanzie penalistiche in favore di una logica di “sicurezza pubblica” intensa in senso prevalentemente simbolico. In questo contesto, sarà dedicata particolare attenzione alle disposizioni inerenti all’impedimento alla circolazione su strade e ferrovie e alle nuove fattispecie delittuose di “rivolta in carcare” e “rivolta nei CPR”, quali paradigmatiche manifestazioni di un diritto penale orientato alla neutralizzazione del conflitto sociale e alla criminalizzazione di condotte riconducibili a forme di protesta collettiva. Il saggio si propone di mettere in luce come tali interventi normativi siano riconducibili alla logica del “diritto penale del nemico”, rappresentando un passo ulteriore verso la costruzione di una legislazione penale selettiva, emergenziale e fortemente identitaria orientata verso forme di repressione soggettivizzanti.
This paper aims to examine the provisions of the so-called “Security Decree” from the perspective of the repression of dissent and the progressive erosion of criminal guarantees in favor of a logic of “public security” that is intense in a predominantly symbolic sense. In this context, particular attention will be paid to the provisions concerning the obstruction of traffic on roads and railways and the new offences of ‘prison riot’ and ‘CPR riot’, as paradigmatic manifestations of a criminal law aimed at neutralising social conflict and criminalising conduct attributable to forms of collective protest. The essay aims to highlight how these regulatory interventions can be traced back to the logic of ‘enemy criminal law’, representing a further step towards the construction of selective, emergency-based criminal legislation with a strong identity focus, oriented towards forms of subjectivising repression.
Sommario: 1. Una breve ricostruzione del contesto politico-criminale e “l’urgenza di sicurezza”. – 2. Il dissenso nel DL Sicurezza: uno sguardo sulle novità introdotte. – 3. La rivolta in carcere e nei centri di trattenimento per i migranti. – 4. La questione della resistenza passiva. – 5. Il blocco stradale e ferroviario. – 6. Ombre (tante) e luci (poche) del DL Sicurezza: considerazioni finali sul diritto penale del nemico.
- Una breve ricostruzione del contesto politico-criminale e “l’urgenza” di sicurezza.
L’adozione del decreto-legge 11 aprile 2025, n. 48, convertito nella legge 9 giugno 2025, n. 80, definito più mediaticamente come “Decreto Sicurezza”[1], si colloca in un quadro politico per l’Italia segnato da sporadiche tensioni in materia di ordine pubblico, gestione dei flussi migratori e disciplina delle manifestazioni politiche[2]. Soltanto più recentemente le piazze italiane sono tornate a riempirsi a seguito dei fatti che stanno avvenendo in Medioriente.
Non si tratta del primo provvedimento di questa natura: già negli anni precedenti si erano succeduti interventi analoghi, indicati nel dibattito pubblico come “decreti sicurezza” o “pacchetti sicurezza”, ossia testi legislativi omnicomprensivi che contenevano le più svariate disposizioni penali e processuali finalizzate alla mitigazione di pericoli per la collettività.
Infatti, il decreto n. 48 si inserisce nel solco di una progressiva, seppur lenta, tendenza del legislatore nazionale a rimodellare i confini tra dissenso politico, manifestazione del pensiero e condotte che si prestano a essere qualificate come minacce alla sicurezza dei cittadini.
Tuttavia, il provvedimento del 2025 si caratterizza per una forte accelerazione repressiva – con la creazione di ben 11 nuovi reati e l’aggiunta di 11 nuove circostanze aggravanti – e per un’accentuata centralità del ruolo delle forze dell’ordine, confermando la sicurezza come terreno identitario e strategico dell’azione governativa[3].
Si tratta di una tendenza, quella di brandire saltuariamente l’arma del penale per rispondere ad esigenze e pressioni emotive della società[4], che è comune – da molti anni – alle più variegate forme di maggioranza parlamentare e che spesso si traduce proprio nell’adozione di “pacchetti” di norme eterogenee tra di loro – accorpate sotto il cappello larghissimo del concetto di sicurezza – dirette ad incidere su vari settori dell’ordinamento penale ed accumunate soltanto dall’idea di placare le aspettative elettorali di riferimento, con buona pace per il rigore che dovrebbe accompagnare le scelte di politica criminale in uno Stato sociale di diritto, liberale e solidaristico[5].
L’iniziativa normativa, pur contenendo un calderone di disposizioni[6], nasce dall’esigenza dichiarata dall’esecutivo di fronteggiare tre emergenze percepite: l’ordine pubblico ed il dissenso sociale, le criticità del sistema penitenziario, e il controllo sull’immigrazione e sulla sicurezza urbana. In questo contesto, l’aumento delle manifestazioni di piazza, in particolare quelle legate a tematiche ambientali, universitarie e sindacali, spesso caratterizzate da blocchi stradali e ferroviari, il ripetersi di rivolte e proteste all’interno degli istituti di pena e dei centri di permanenza per i rimpatri, che avevano suscitato allarme nell’opinione pubblica e la necessità, secondo il Governo, di rafforzare i controlli su migranti e stranieri anche attraverso nuove disposizioni in materia di documentazione e utilizzo di servizi, hanno indotto l’esecutivo a tornare nuovamente ad intervenire attraverso l’utilizzo dello strumento penalistico per tentare di arginare fenomeni sociali e politici.
Un tentativo del genere, quindi, si è espresso in concreto seguendo tre direttrici politico-criminali: la repressione del dissenso, di cui ci occuperemo, l’iper-tutela delle forze dell’ordine e la criminalizzazione di “forme di disagio, povertà e marginalità sociale” espressione dello scivolamento del diritto penale del fatto “a favore di un diritto penale d’autore”[7].
Va ricordato che il “DL Sicurezza”, nella sua veste attuale (è composto da 39 articoli e suddiviso in 6 Capi), trova la sua origine nel testo del d.d.l. n. 1160[8] – rubricato “Disposizione in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario” firmato dai Ministri Nordio, Piantedosi e Crosetto – il cui iter di approvazione si era interrotto, o comunque rallentato, al Senato della Repubblica, dopo una prima approvazione alla Camera dei Deputati il 18 settembre 2024.
Il Governo, per superare una impasse dovuta anche a frammentazioni politiche interne della maggioranza parlamentare, ne ha riprodotto essenzialmente lo stesso testo normativo nel decreto legge in esame[9], poi convertito come si è detto poc’anzi, forzando la mano del legislatore attraverso la cd. tecnica del canguro che ha consentito di saltare la discussione parlamentare, anche attraverso il ricorso, eccessivo e paralizzante del dibattito democratico, allo strumento della fiducia.
Si è trattato di un’operazione politico-normativa decisamente sui generis, che ha provocato nell’opposizione parlamentare e in larga parte del dibattito accademico di settore, e non[10], una forte ondata di critiche, sia per la procedura utilizzata – che ha denotato scarsa considerazione per il ruolo del Parlamento come sede primaria di produzione e discussione delle leggi – sia per l’utilizzo costante della decretazione d’urgenza in materia penale attuata dall’esecutivo in carica, pratica oramai divenuta costante con qualsiasi tipo di maggioranza politica momentaneamente al potere.
Se le norme introdotte per decreto fossero state così urgenti e necessarie, come richiede l’art. 77 della Costituzione, perché la loro discussione era sostanzialmente ferma in Parlamento nonostante l’approvazione del testo da parte di uno dei due rami dello stesso organo? Era così necessario trasformare in poche ore il testo in un decreto-legge sul quale apporre anche la fiducia senza attendere che il disegno di legge facesse il suo corso al Senato che pure avrebbe potuto intervenire per sanare alcune criticità della normativa in corso di approvazione?
Le manifestazioni di disapprovazione in seno al dibattito scientifico, riguardo al testo in esame, però, non si limitano soltanto agli aspetti procedurali e di forma[11] rispetto alle modalità di approvazione del decreto. Larga parte della dottrina penalistica[12] si è espressa in senso contrario specialmente con particolare attenzione agli aspetti sostanziali del DL Sicurezza, ritenendo che esso si ponga nettamente in contrasto con la Costituzione e con i principi della materia penalistica. Nel corso del lavoro, ripercorreremo – in relazione ad alcuni reati introdotti dal DL Sicurezza – le caratteristiche delle criticità segnalate e ne verificheremo la ragionevolezza.
- Il dissenso nel DL Sicurezza: uno sguardo sulle novità introdotte.
Questo lavoro si prefigge, in particolare, di analizzare quegli interventi che si collocano più specificatamente nell’ambito del cd. diritto penale del dissenso[13], ossia quel microsistema di norme del codice Rocco che incriminano, limitando l’esercizio delle libertà costituzionali, le forme di dissenso non specificatamente politico in senso stretto. Si tratta di un settore dell’ordinamento penale, che si pone a cavallo tra i delitti contro la personalità dello Stato e i delitti contro l’ordine pubblico, estremamente delicato per il necessario bilanciamento di interessi costituzionali in gioco che il legislatore, memore del passato, dovrebbe gestire sempre con estrema cura e soltanto dopo un ampio confronto parlamentare.
In particolare, ci si soffermerà con maggiore attenzione sulle novità relative ai reati di “rivolta in carcere” e nei CPR ed al cd. “blocco stradale o ferroviario”, che pongono agli interpreti della materia maggiori criticità, non solo sul piano tecnico-giuridico ma anche sul versante della marcata compressione delle forme di manifestazione del dissenso.
Il DL Sicurezza, in particolare, com’è stato ricordato, “introduce alcune disposizioni che intervengono in modo specifico a criminalizzare condotte che si realizzano in contesti di manifestazione del dissenso e si caratterizzano per tre tipologie di intervento: i) il potenziamento del tradizionale arsenale dei reati di opinione; ii) la soggettivizzazione della fattispecie; iii) la criminalizzazione da contesto”[14].
Le norme introdotte per decreto, quindi, tendono a colpire – attraverso la creazione di nuove fattispecie o l’aggravamento di quelle esistenti – diverse forme di dissenso, dalle manifestazioni di piazza, ai sit in o blocchi stradale in difesa dei diritti umani, alle manifestazioni in tema di cambiamento climatico, sino a quelle messe in atto all’interno degli istituti penitenziari che spesso hanno l’obiettivo di segnalare le gravi carenze del sistema rieducativo e carcerario che da troppi anni vive in una perenne emergenza.
La torsione “autoritaria”, di cui si dirà diffusamente, è rafforzata inoltre da un’impalcatura di disposizioni riformatrici che mirano a tutelare con maggiore efficacia il lavoro delle forze di polizia e delle forze dell’ordine, sia attraverso l’aggravamento delle forme di violenza e resistenza a pubblici ufficiali, sia attraverso l’adozione di nuove regole di sicurezza e di comportamento per gli agenti stessi. Si pensi alla norma (art. 28) che consente un utilizzo liberalizzato, senza licenza, delle armi private per gli agenti di pubblica sicurezza quando non sono in servizio.
Tornando alle novità del DL Sicurezza in materia di repressione del dissenso e potenziamento dei reati di opinione, si ricorda, per adesso brevemente, l’introduzione (art. 26 c.1 del DL n. 48/2025) dell’aggravante speciale ad efficacia comune del delitto di istigazione a disobbedire alle leggi di ordine pubblico, previsto dall’art. 415 c.p., quando “il fatto è commesso all’interno di un istituto penitenziario ovvero a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute”. Essa svolge una funzione di tutela anticipata rispetto a condotte criminose che possono verificarsi nelle carceri sussumibili sotto la nuova fattispecie di rivolta in carcere ex art. 415-bis introdotto dallo stesso decreto Sicurezza.
Sull’introduzione di tale delitto, così come sulle novità in materia di rafforzamento della sicurezza nei CPR e sulle norme relative all’impedimento della libera circolazione, come si è già detto, ci si soffermerà successivamente.
Invece, come è stato lucidamente segnalato, sul fronte dello spostamento del focus punitivo dal fatto allo scopo, di natura ideologica, perseguito dall’autore[15], si riscontrano due diversi interventi normativi.
Il primo riguarda l’inserimento (art. 19 comma c) del DL n. 48/2025) di una nuova circostanza aggravante all’art. 339 c.p. ultimo comma in relazione ai delitti ex artt. 336, 337 e 338 c.p., laddove questi ultimi vengano perpetrati con violenza e minaccia “al fine di impedire la realizzazione di infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici”. Si tratta di una circostanza che si inserisce nel capo relativo ai delitti dei privati contro la PA ed in particolare serve a fornire una maggiore tutela alle forze dell’ordine in teatri operativi come quelli delle proteste NoTav in Val di Susa.
Il secondo intervento riguarda l’aumento di pena per il delitto di deturpamento previsto dall’639 c.2 c.p. che – come modificato dall’art. 24 del DL n.48/2025 – prevede adesso una pena più severa quando l’oggetto materiale della condotta sono i beni adibiti a funzioni pubbliche ed il fatto è commesso con l’obiettivo di ledere prestigio, onore e decoro dell’istituzione i cui beni stessi appartengono. Tale finalità sembrerebbe modificare il bene giuridico oggetto di tutela della norma.
La fattispecie in esame da delitto contro il patrimonio, sembrerebbe configurare maggiormente una fattispecie di vilipendio, riportando in auge e riassegnando centralità alla tutela del prestigio della PA e dello Stato, elementi che, con l’avvento della Costituzione repubblicana, avevano progressivamente perso il loro peso.
Infatti, la torsione imposta al delitto, oggi orientato verso la tutela del prestigio, più che il deturpamento o imbrattamento dell’oggetto materiale della condotta, sembrerebbe aver imposto come assolutamente predominante il fine che la sacralità dell’istituzione non venga messa in discussione. Anche in questo caso la modifica normativa sembra essere rivolta verso azioni di protesta e di manifestazione del dissenso – come l’imbrattamento di edifici pubblici o di luoghi di cultura – poste in essere da giovani gruppi di attivisti e quindi costruita sulla necessità di soggettivizzare la fattispecie.
Le ultime due norme che incidono sulle manifestazioni di dissenso riguardano il delitto di danneggiamento in occasioni pubbliche ex art. 635 c.p. così come modificato dal DL Sicurezza[16] e la nuova fattispecie ex art. 270-quinquies.3 relativa alla detenzione di materiale con finalità di terrorismo.
Quest’ultima, inserita con l’art. 1 del decreto, punisce con la reclusione da due a sei anni “chiunque, fuori dei casi di cui agli articoli 270-bis e 270-quinquies, consapevolmente si procura o detiene materiale contenente istruzioni sulla preparazione o sull’uso di congegni bellici micidiali di cui all’articolo 1, primo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110, di armi da fuoco o di altre armi o di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, nonché su ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale”.
Tale norma, che secondo la Relazione illustrativa si spiega per la necessità di “colmare un vuoto normativo sulla detenzione di documentazione propedeutica al compimento di attentati e sabotaggi con finalità di terrorismo”, introduce una sorta di clausola di chiusura del sistema[17] di disposizioni contro la realizzazione di atti concreti di terrorismo, ma presenta alcune criticità. Il legislatore, memore dell’evoluzione delle tecniche di terrorismo che oggi presentano sempre più casi di soggetti autonomi da gruppi organizzati (i cd. lupi solitari) e talvolta auto-addestrati le cui condotte sono già punite dall’art. 270-quinquies c.p., ha inteso anticipare la tutela del bene giuridico configurando quello che è stato definito come un nuovo reato di sospetto, mirando a colpire colori i quali, non facenti parte di organizzazioni terroristiche si adoperino per procurarsi in forma individuale conoscenze utili finalizzate al compimento di atti di terrorismo[18].
Idealmente il nuovo reato si colloca, in una sorta di progressione criminosa, in un momento temporalmente precedente rispetto alle condotte di auto-addestramento descritte dall’art. 270-sexies, in cui il “futuro terrorista” passa dalla teoria alla azione.
Tale anticipazione sembrerebbe, però, decisamente in contrasto con i principi di materialità e offensività della materia penale, rendendo punibili in astratto anche condotte come la semplice detenzione, a scopo ad esempio di ricerca o studio, di materiale contenente istruzione sulla preparazione di esplosivi.
Inoltre, l’endiadi “si procura o detiene materiale” sembrerebbe avallare un’interpretazione letterale del testo che determini una rilevanza incriminatrice autonoma anche alla condotta di chi semplicemente si procura, per conto di altri, il materiale informativo descritto dalla fattispecie. Si tratterebbe, insomma, di un’attività preparatoria che si pone decisamente lontana rispetto all’esposizione al pericolo del bene protetto e che finirebbe inevitabilmente attratta nell’alveo della rilevanza penale da una norma dotata di maglie eccessivamente larghe.
La descrizione della fattispecie di pericolo presunto in esame inoltre è poco tassativita, specialmente nella parte in cui incrimina il possesso di “istruzioni sulla preparazione o sull’uso di (…) armi da fuoco o di altre armi o di sostanze (…)” affidando la capacità di selezione delle condotte penalmente rilevanti “alla finalità di terrorismo” rendendo punibili in astratto condotte anche molto lontano dall’essere prodromiche al compimento di atti di terrorismo. D’altronde, ancorare la punibilità alla “finalità di terrorismo”, laddove non emergano segnali e condotte concrete di tale obiettivo materializzate in atti veri e propri, significherebbe orientare l’indagine investigativa verso la ricerca delle intenzioni dell’autore. Un risultato decisamente non accettabile per un diritto penale del fatto che sia liberale. Finalità che, in altri tempi, avrebbe potuto essere certamente interpretata per colpire intenzionalmente oppositori politici e che tutt’oggi gode di una componente innata di indeterminatezza.
Il rischio che si cela dietro l’angolo è che, quindi, questa norma possa anche involontariamente essere utilizzata per reprimere forme di dissenso politico o di adesione a movimenti politici o sociali di protesta verso chi di volta in volta è al potere, dando rilevanza a tipologie di autore piuttosto che a fatti ben determinati[19]. Spetterà alla giurisprudenza disegnare dei confini applicativi che possano mantenere in equilibrio il rispetto del carattere di offensività dei delitti e la tutela della collettività da atti di terrorismo, e ciò pone problemi nel pieno rispetto della legalità.
- La rivolta in carcere e nei centri di trattenimento dei migranti.
L’art. 26 lett. b) del DL n.48/2025 ha introdotto, come si è anticipato, una nuova fattispecie di reato all’art. 415-bis sotto la rubrica “Rivolta all’interno di un istituto penitenziario”[20]. Allo stesso modo, l’art. 27 comma 1 inserisce all’art. 14 del Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286) il comma 7.1[21]. che prevede – replicando l’art. 415-bis – il nuovo delitto di rivolta nei centri di trattenimento dei migranti[22].
Queste due disposizioni – che nelle intenzioni del legislatore mirano ad aumentare i livelli di sicurezza negli istituti penitenziari, nei CPR e nei cd. hotspot ma anche a dare una risposta al disagio che gli agenti delle forze dell’ordine provano sempre più nel gestire le difficoltà della situazione detentiva – sono quelle che più creano maggiori attriti con la natura fattuale del nostro ordinamento penalistico e con i principi della materia, e per questo motivo meritano un’attenzione particolare in questa sede, anche in virtù dell’inserimento operato dalla lett. a) dell’art. 34 del decreto legge del nuovo delitto di rivolta in carcere e della fattispecie circostanziale prevista dall’art. 415 c.p. nell’elenco dei reati ostativi previsti dall’art. 4-bis comma 1-ter dell’ordinamento penitenziario.
Il primo elemento da segnalare riguarda la dimensione spaziale delle due fattispecie che ne delimita, quindi, anche l’operatività e le differenzia sotto il profilo soggettivo. Se la prima, ex art. 415-bis, opera in relazione a condotte che devono svolgersi all’interno di un istituto penitenziario, quindi realizzate da detenuti o internati, la seconda opera nell’ambito dei centri di trattenimento di migranti o nei cd. hotspot e quindi è applicabile nei confronti di migranti appena giunti nel Paese o in attesa di espulsione. Nonostante la qualità intrinseca dei soggetti attivi – coloro i quali si trovano nei luoghi sopraindicati prevalentemente in qualità di detenuti o di migranti trattenuti – si tratta ad ogni modo di due fattispecie di reato comune, essendo realizzabili da “chiunque”, paradossalmente da coloro che si trovino a lavorare all’interno di un istituto di pena o in un centro di trattenimento[23].
Sempre sotto il profilo soggettivo siamo in presenza di delitti necessariamente plurisoggettivi. Non è un caso che la norma sia stata inserita, nel codice, prima dei reati associativi, di cui emula la struttura. La disposizione richiede che i fatti siamo commessi da tre o più persone riunite richiedendo quindi una partecipazione collettiva, come avviene nei delitti di associazione per delinquere, anche di stampo mafioso. Tale forma di concorso è differenziata, prevendo la norma due possibili modalità di coinvolgimento: la partecipazione semplice (primo comma) o la promozione, organizzazione e direzione della rivolta (secondo comma)[24].
La differenziazione è acuita, non soltanto da un compasso edittale punitivo eterogeneo a seconda del grado di coinvolgimento, ma anche dalla disciplina delle circostanze speciali previste nei commi 3, 4 e 5. Infatti, per entrambe le tipologie di rivolte, sono previste tre circostanze aggravanti – relative all’utilizzo di armi, alla causazione di lesioni gravi o gravissime e all’evento morte – che differenziano gli aumenti di pena a seconda del ruolo rivestito dal soggetto all’interno della rivolta[25].
Sul versante oggettivo, la condotta, per essere punita, deve manifestarsi attraverso atti di violenza, minaccia o resistenza all’esecuzione di ordini impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza.
Se già l’impianto complessivo di una norma che reprime le manifestazioni rivoltose soffre di vaghezza, dato il concetto indeterminato di “rivolta”[26], le modalità descritte nel testo normativo di realizzazione dei fatti costituenti reato acuiscono tale sofferenza.
La determinazione del precetto, in particolare come vedremo in relazione al concetto di resistenza, non è di facile precisazione e rischia di abbracciare condotte che attengono a forme di protesta o non collaborazione non violente e quasi per nulla offensive, come l’astensione dal lavoro o persino uno sciopero collettivo dalla fame realizzato in carcere.
L’aver ancorato la realizzazione degli atti di violenza, minaccia e resistenza all’esecuzione degli ordini tenta proprio di limitare l’area di operatività della fattispecie, fornendo un primo recinto applicativo che va apprezzato. Infatti, come chiarito anche dalla Relazione governativa, “gli ordini che vengono in rilievo ai fini del delitto di rivolta sono solo quelli impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica e non invece qualsiasi tipo di ordine impartito (quale per esempio quelli attinenti alla pulizia e all’igiene della persona o della camera, che rilevano invece sul piano disciplinare)”.
Va segnalato, sul punto, che rispetto a quanto previsto dall’art. 26 per gli ordini impartiti nelle carceri rilevanti ai fini di applicazione del delitto di rivolta, la norma afferente ai CPR e agli hotspot prevede un’ulteriore specificazione: gli ordini devono essere impartiti da pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, in quanto in tali strutture spesso operano anche soggetti privi di un autonomo potere di ordine.
Nonostante ciò, il riferimento agli ordini solleva alcuni profili problematici, segnalati anche in sede di audizione dal CSM[27] e da autorevole dottrina[28], in relazione al fatto che il precetto non contenga alcun riferimento alla legittimità dell’ordine impartito. Tale omissione determina un’asimmetria suscettibile di generare rilevanti difficoltà interpretative ed applicative rispetto all’art. 51 cod. pen., che esclude la punibilità di una condotta tenuta in adempimento di un dovere derivante da “un ordine legittimo della pubblica Autorità”. In termini analoghi, la dottrina ha osservato come l’assenza di un espresso riferimento all’“ordine legittimo” sollevi delicati interrogativi in merito al rapporto tra tipicità e antigiuridicità della condotta inosservante, con ricadute particolarmente complesse sul piano dell’esercizio di un eventuale diritto di resistenza all’oppressione, ove l’ordine risulti illegittimo o addirittura illegale.
- La questione della resistenza passiva.
Uno dei nodi centrali dei delitti in questione riguarda l’incriminazione della cd. resistenza passiva che, secondo larga parte della dottrina, comporterebbe profili di incostituzionalità della norma[29]. Essa appare per la prima volta nel nostro ordinamento penale. Infatti, il codice Rocco del 1930, pur prevedendo un delitto contro forme di resistenza a pubblici ufficiali (art. 337 c.p.)[30] si limitava a contemplarne quella di tipo attivo che richiedeva e richiede l’uso della violenza e della minaccia verso l’agente che compie un atto d’ufficio o di servizio.
Si tratta, innanzitutto, di un concetto normativamente indeterminato[31] – sul quale la dottrina da tempo richiede un surplus di attenzione[32] – che non viene chiarito nemmeno dall’art. 41 dell’ordinamento penitenziario richiamato dalla Relazione governativa il quale giustifica l’impiego della forza fisica sui detenuti per vincere la resistenza “anche passiva” all’esecuzione di ordini impartiti.
La norma prevede, ad ogni modo, che vengano puniti, tra gli atti di resistenza, anche quelli passivi “che, avuto a riguardo al numero di persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti di ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza”.
Ad una prima lettura risulta decisamente critico l’accostamento tra un atto di violenza o minaccia a quello di resistenza passiva, così come descritto nel testo normativo, nonostante il tentativo apprezzabile di limitare l’ambito di operatività della fattispecie alle condotte limitative di atti indirizzati alla gestione dell’ordine e della sicurezza.
Un tentativo, ancora insufficiente, che – recuperando un minimo di offensività – prova ad evitare che venga represso qualsiasi atto di resistenza passiva ma che tradisce, in partenza, la difficoltà di contenere i limiti esterni della fattispecie. Infatti, seppur vengono esclusi dal terreno gli ordini relativi all’igiene personale o alla pulizia, certamente possono rientrare nella categoria di atti indirizzati alla gestione dell’ordine quelli relativi al contenimento di forme di disobbedienza civile, anche non violenta, attraverso cui il detenuto lamenta condizioni detentive degradanti. Le esigenze sottese alla gestione dell’ordine e della sicurezza restano comunque espressione di un concetto fin troppo manipolabile ed indeterminato. Insomma, seppure il disvalore del fatto di resistenza passiva non si traduca nell’atto in sé ma nell’aver ostacolato il compimento di atti d’ufficio necessari all’ordine e alla sicurezza, l’ampiezza di tali concetti potrebbe consentire, in tempi bui, abusi dello strumento penalistico.
D’altronde incriminare atti di mera resistenza passiva, pur collettiva, a prescindere dalla presenza o meno di un ordine dell’autorità relativo alla gestione della sicurezza, contrasta con la funzione del diritto penale di reprimere condotte offensive e materiali. Infatti, è estremamente complicato immaginare che un atto di disobbedienza, pur concretizzatosi nella mancata esecuzione di un ordine legittimo, possa dar luogo ad una rivolta, anche se messo in pratica da più persone.
Sarebbe diverso, invece, com’è stato notato, limitare la punibilità della resistenza passiva di un partecipe allorquando essa sia inserita all’interno di un contesto di rivolta violento ed organizzato già operativo ed attivo. In questo caso la rivolta sarebbe un presupposto della resistenza passiva, comportamento che – laddove si verificasse in autonomia – non avrebbe rilevanza penale. L’interpretazione letterale del testo, al momento, non lascia intendere come corretta un’interpretazione siffatta.
A ben vedere, pare quasi che l’obiettivo di tale norma non risieda nell’interesse a salvaguardare la sicurezza della popolazione carceraria o la sicurezza degli agenti penitenziari, e nemmeno a garantire una gestione degli istituti penitenziari in linea con l’ordine pubblico, ma sia, evitare forme di disobbedienza civile verso l’autorità precostituita e verso il potere[33].
L’uso del diritto penale come strumento di gestione dell’ordine carcerario solleva problemi di proporzionalità[34]: criminalizzare eventi collettivi dovuti a condizioni detentive degradate può risultare unicamente repressivo, senza incidere minimamente sulle cause strutturali del disagio. L’introduzione di un delitto come quello in esame rischia di generare una risposta punitiva “carcero-centrica” a fenomeni sociali già di per sé carcerari che meriterebbero soluzioni alternative e riforme strutturali.
La soluzione alle criticità della situazione penitenziaria italiana non può risiedere in “più carcere”, così come aprire le porte degli istituti penitenziari a stranieri in stato di fermo per esigenze amministrative non potrà contribuire ad una gestione rigorosa ed efficiente dei flussi migratori e ad una corretta integrazione di coloro che potranno fare il loro ingresso in Italia.
In conclusione, tale disposizione – espressione di una politica criminale fin troppo muscolare – illude e si illude rispetto alle finalità che dichiara. L’aumento di marginalità in un contesto così già fortemente isolato, come quello carcerario o dei CPR in cui vi è una quasi totale limitazione della libertà personale, non potrà contribuire al miglioramento della sicurezza collettiva reale né tantomeno a tutelare il lavoro dei lavoratori delle forze dell’ordine, ulteriore scopo dell’introduzione dei delitti in esame, ma soddisferà in modo simbolico e poco lungimirante la passione punitiva.
L’art. 415-bis c.p. solleva nodi applicativi e sistematici tali da rendere prematura ogni valutazione definitiva, in assenza di riscontri giurisprudenziali. Sarà solo la prassi a chiarirne i confini e l’impatto sulla popolazione carceraria, già in crescita allarmante. Le frizioni con principi e libertà costituzionali, unite a imperfezioni redazionali non marginali, rivelano una tecnica legislativa orientata più al risultato immediato che alla coerenza degli strumenti impiegati.
- Il blocco stradale e ferroviario.
Si colloca in tutt’altro contesto, invece, il delitto di blocco stradale o ferroviario previsto dall’art. 1 del decreto legislativo 22 gennaio 1948 n. 66 (cd. decreto Scelba) che intende punire forme illecite di impedimento alla libera circolazione su strada. Anch’esso è stato oggetto di una revisione da parte del DL Sicurezza che, con l’art. 14, lo ha riformulato in questi termini: “Chiunque impedisce la libera circolazione su strada ordinaria o ferrata, ostruendo la stessa con il proprio corpo, è punito con la reclusione fino a un mese o la multa fino a 300 euro. La pena è della reclusione da sei mesi a due anni se il fatto è commesso da più persone riunite”.
Esso risulta interessante, ai fini dell’analisi in corso, perché si interessa di repressione di forme di manifestazione del dissenso e, come per il precedente delitto di rivolta, ha a che vedere con il rafforzamento di forme punitive per la resistenza passiva, stavolta attuata nelle forme del blocco stradale con il corpo.
Infatti se sino all’entrata in vigore del DL Sicurezza il blocco stradale attuato mediante l’interposizione del corpo su strada veniva trattato alla stregua di un illecito amministrativo punitivo con l’erogazione di una sanzione pecuniaria da mille a quattromila euro, oggi tale comportamento – praticato indistintamente su strada ordinata o ferrata – ha assunto rilevanza penale.
Prima dell’entrata in vigore del DL Sicurezza, infatti, costituiva reato soltanto il blocco realizzato con cose, ossia il cd. blocco reale. Mentre il cd. blocco personale, quello realizzato con l’interposizione del corpo – vista l’attenuata capacità offensiva – godeva di un legame almeno parziale con forme di manifestazione del libero pensiero tutelate dalla Costituzione e dalle norme convenzionali.
La ratio dell’intervento, quindi, si spiega nella volontà del Governo di arginare forme di protesta e disobbedienza civile molto in auge negli ultimi anni, praticate perlopiù da giovanissime generazioni nelle forme dei cd. blocchi stradali pacifici.
La lett. b) dell’art. 14 introduce, inoltre, una circostanza aggravante nel caso in cui il fatto di reato venga commesso da più persone riunite, prevedendo la reclusione da sei mesi a due anni. Il rapporto tra la condotta commessa da un singolo e quella realizzata in gruppo è decisamente squilibrato ed irragionevole[35].
Se appare condivisibile l’estensione anche alla strada “ferrata” prevista dalla lett. a) dell’art. 14, non sembra una scelta corretta la trasformazione dell’illecito amministrativo in illecito penale, stante la possibilità che larga parte delle manifestazioni in cui si esprimerà la condotta descritta spesso non risultano cariche del peso specifico di offensività necessario per giustificare il rimprovero penale.
D’altronde il blocco della circolazione ferroviaria e stradale è il principale mezzo con cui si manifesta il disagio sociale, tanto nel mondo del lavoro quanto in quello studentesco. Esso rappresenta forme di protesta legate indissolubilmente all’esercizio di diritti garantiti dalla Costituzione, che talvolta non sono neanche percepite come lesiva da chi il blocco stradale lo sta materialmente subendo.
Tale aggravio della forma di tutela è sintomatico, ancora una volta della necessità di (ri)stabilire l’ordine e l’autorità e non per approntare una tutela collettiva da pericoli imminenti[36].
- Ombre (tante) e luci (poche) del DL Sicurezza: considerazioni finali sul diritto penale del nemico.
L’analisi del DL Sicurezza consente di rilevare come il provvedimento si caratterizzi, nel suo complesso, per un approccio prevalentemente repressivo, che tende ad ampliare l’area del penalmente rilevante nei confronti delle forme di dissenso politico e sociale.
L’inasprimento delle sanzioni per condotte legate alle manifestazioni pubbliche e la previsione di nuove ipotesi incriminatrici rischiano, infatti, di collocarsi in una prospettiva in cui il diritto penale non è più solo strumento di tutela dei beni giuridici, ma diventa anche – e soprattutto – strumento di contenimento di comportamenti percepiti come “pericolosi” per l’ordine costituito, anche virtù del divario – più volte segnalato da autorevole dottrina – tra la sicurezza reale e quella percepita in Italia.
In tale senso, le categorie del cosiddetto “diritto penale del nemico”[37] appaiono un utile riferimento interpretativo per comprendere l’impianto e la ratio di alcune scelte legislative, che tendono a distinguere tra cittadini pienamente titolari di diritti e soggetti da neutralizzare in ragione della loro potenziale conflittualità. I tratti distintivi del cosiddetto diritto penale del nemico si manifestano, non a caso, nella prevalenza attribuita ai profili soggettivi rispetto al tradizionale diritto penale del fatto e, in via consequenziale, in un indiscriminato aggravamento del trattamento sanzionatorio.
L’utilizzo a ritmi serrati della decretazione d’urgenza in materia penale e le scelte di iper-criminalizzazione continua di fenomeni sociali, non fanno altro che incidere negativamente sullo stato di salute del diritto penale e dello Stato di diritto, contribuendo al rafforzamento di un diritto mediatico meramente utile a placare le istanze emotive della società e generare un consenso spesso effimero[38].
Nonostante ciò, non mancano alcuni, isolati, elementi di segno diverso. Certamente è da valutare positivamente l’obiettivo di approntare maggiori tutele alle forze dell’ordine, in Italia ed all’estero, con misure sostanziali, procedurali e organizzative che consentano loro di operare in modo più efficiente.
D’altronde, in questa sede, non può essere messa in discussione la centralità e l’essenzialità del valore della sicurezza nella società da un punto di vista ideologico, specialmente nel rendere sicuro l’esercizio dei diritti fondamentali di ogni consociato[39]. Pur nella difficoltà evidente di calarla e “gestirla” nell’ambito penale, essa rappresenta un’aspirazione legittima della società che merita risposte anche sul piano punitivo.
L’ideale sarebbe giungere ad una dimensione securitaria corretta impiegando prima altri strumenti normativi e organizzativi per poi ricorrere, come extrema ratio, al diritto penale che non deve essere sempre la prima risposta del legislatore. La pena, in un ordinamento che rispetti le libertà fondamentali, non intende perseguire una finalità prevalentemente intimidatoria ma, attraverso le funzioni di prevenzione generale e speciale positive, punta a rafforzare il precetto normativo.
L’obiettivo summenzionato andrebbe raggiunto senza incidere sul rapporto tra autorità e cittadini, ma attenuando il potere nelle mani dell’autorità e degli apparati di sicurezza. Infatti, si assiste da alcuni anni, anche in Europa, ad una spirale in cui fioriscono sempre più politiche securitarie eccessivamente limitanti delle libertà personale. È un trend, va ricordato, non soltanto italiano che viene alimentato da politiche criminali che soffiano sulle paure dei cittadini[40], i quali tendono via via ad affidarsi a misure repressive sempre più stringenti.
In questo senso, ad esempio, il reato di rivolta, lungi dall’essere volto unicamente a prevenire e reprimere episodi di insubordinazione collettiva, incidendo in realtà in maniera più profonda sulla vita carceraria, tradisce la volontà di concepire l’istituzione penitenziaria come terreno di rapporti di forza, piuttosto che come spazio di dialogo, crescita, riabilitazione e risocializzazione.
In conclusione, il DL Sicurezza si presenta come una normativa ambivalente: da un lato, esso accentua il ricorso al diritto penale quale strumento di gestione del dissenso, piegandosi a esigenze “emergenziali” e a strategie di contrasto al “nemico” interno, con implicazioni delicate in termini di proporzionalità e rispetto delle libertà costituzionali; dall’altro, introduce alcune innovazioni – non sul piano del diritto penale sostanziale – funzionali alla tutela delle forze dell’ordine e armate che, pur marginali rispetto alla portata complessiva del provvedimento, rappresentano un elemento di rafforzamento del sistema, come l’introduzione del sistema delle cd. bodycam e le disposizioni relative alla protezione legale degli agenti, così come sono state segnalate, da accorta dottrina, novità rilevanti in materia di misure di prevenzione antimafia (art. 3 lett.b)[41].
Rimane, tuttavia, l’impressione che il bilanciamento tra esigenze di ordine pubblico e garanzie dei diritti fondamentali sia ancora fortemente sbilanciato a favore delle prime, con conseguenze significative sul piano della tenuta complessiva dello Stato di diritto, sotto un profilo generale, e sul piano delle condizioni carcerarie – ad esempio – sotto un profilo più concreto.
Insomma, poche ed isolate luci, mentre le ombre rischiano di proiettarsi a lungo sul terreno dei diritti.
[1] Per un esame completo ed articolato del testo normativo si segnala il commentario dei profili penalistici di V. Plantamura (a cura di), Il decreto sicurezza, Pisa, 2025, nonché Corte Suprema di cassazione – Ufficio del Massimario, Relazione su novità normativa, del 23 giugno 2025.
[2] I dati dell’Istat sulla criminalità in Italia e sulla percezione della sicurezza restano complessivamente confortanti, eccetto quelli relativi alle violenze sessuali, alle truffe ed alle estorsioni che sono in aumento rispetto agli ultimi anni. Si vedano, diffusamente, nell’approfondimento di R. Cornelli, La difesa dell’autorità come urgenza politico criminale, in Dir. pen. proc., 7, 2025, p. 899 ss.; ID, Verso democrazie autoritarie? Paradossi, presupposti e tendenze delle politiche di sicurezza contemporanee, in Riv. it. dir. proc. pen., 1, 2025, p. 207 ss.
[3] Sul concetto di sicurezza nel diritto penale, si veda, recentemente, V. Mongillo, Ordine pubblico e sicurezza nel diritto penale, per un’ecologia concettuale quale viatico di razionalizzazione, in Arch. pen., 1, 2025. Tra gli altri, a livello monografico, F. Forzati, La sicurezza fra diritto penale e potere punitivo, Napoli, 2020; L. Risicato, Diritto alla sicurezza e sicurezza dei diritti: un ossimoro invincibile? Torino, 2019; A. Gamberini, R. Orlandi (a cura di), Delitto politico e diritto penale del nemico. Nuovo Revisionismo penale, Bologna, 2007; S. Moccia, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, Napoli, 2000; G. De Vero, Tutela penale dell’ordine pubblico, Milano, 1988; si veda anche D. Pulitanò, Sicurezza e diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, p. 556.
[4] Tale ratio “emotiva” è confermata anche dalla Relazione di accompagnamento al decreto ove si legge come si è reso necessario il ricorso ad un decreto legge per “una immeditata e più incisiva risposta sanzionatoria e dissuasiva nei confronti di gravi fenomeni delinquenziali che rappresentano una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubblica, determinano una crescente percezione di insicurezza tra i cittadini ed espongono, inevitabilmente, a grave pericolo l’incolumità fisica delle Forze di polizia”.
[5] “Dietro l’etichetta, in realtà, il rimedio-panacea è sempre lo stesso, ed anch’esso fa leva sul marketing delle emozioni: introdurre nuovi reati e/o elevare la severità delle sanzioni penali o della coercizione processuale, secondo la consueta logica del “more of the same”, che richiede di aumentare il dosaggio ad ogni ondata securitaria. Non importa se l’allarme sia smentito dalle statistiche e dai dati reali, come già evidenziato, né che la pressione coercitiva sia già al suo apice, e neppure interessa il fatto che il pharmakon punitivo si sia già rivelato assolutamente incapace di contrastare – non diciamo estirpare – la patologia sociale che si vorrebbe colpire: contribuendo anzi subdolamente ad aumentare – in un circolo vizioso – i tassi di insicurezza percepita”, in questi termini descrive tale trend V. Manes, L’ossessione securitaria, in Dir. dif., 1-2, 2014, p. 2. Decisamente più severo R. Bartoli, Di sicuro c’è solo questo: si è tornati a incriminare l’esercizio di libertà. Breve introduzione al cd. Decreto Sicurezza, in Dir. pen. proc., 7, 2025, p. 847 ss., per il quale esso rappresenta “un autentico calderone, uno zibaldone, con interventi negli ambiti più disparati (…) Tutto a dimostrazione che all’interno del concetto manipolabile di sicurezza pubblica può rientrare tutto e nulla. Ma in penale o la sicurezza e l’ordine pubblico si traducono nell’offesa o comunque nella messa in pericolo di beni giuridici concreti oppure si ha a che fare con un’idealizzazione della tutela che non può che comportare incriminazioni indeterminate, anticipate e sproporzionate o norme di favore (…) in tutte queste ipotesi si determinano scivolamenti verso norme illiberali, se non addirittura liberticide”.
[6] Tra i temi trattati: misure di prevenzione e contrasto al terrorismo e criminalità organizzata, beni sequestrati e confiscati e controlli di polizia (capo I); sicurezza urbana (capo II); tutela personale delle Forze di Polizia, Forze Armate, Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, organismi dei servizi di informazione (capo III); vittime dell’usura (capo IV); ordinamento penitenziario (capo V) dall’altro.
[7] Così, S. Zirulia, Il “decreto sicurezza” 2025 interrompe il processo di adeguamento del codice rocco alla Costituzione. Criticità e possibili rimedi, in Riv. it. dir. proc. pen., 1, 2025, p. 217 ss. Già F. Forzati, Il nuovo Ddl sicurezza fra (poche) luci e (molte) ombre: primi spunti di riflessione, in Arch. pen., 3, 2023, p. 6-7, esprime tale preoccupazione commentando il d.d.l. Sicurezza in questi termini: “si introducono nuove ipotesi di reato, inasprimenti sanzionatori e procedure differenziate a carico di potenziali perturbatori della sicurezza pubblica e privata, già inseriti – da precedenti pacchetti di sicurezza – nel genus della pericolosità sociale: accattoni e delinquenti di strada (borseggiatori, truffatori e occupanti abusivi di abitazioni), ma anche dissidenti, disobbedienti, ribelli e sovversivi. Il minimo comun denominatore di questa molteplicità di tipi d’autore risiede nell’equazione fra pericolosità e marginalità sociale”.
[8] Già in relazione al d.d.l. sicurezza diversi Autori avevano segnalato profili di criticità e ipotesi di illegittimità costituzionale. Risultano, a tal proposito, estremamente interessanti i contributi depositati sul sito della Camera da enti e soggetti auditi dalla Commissione parlamentare durante l’attività di discussione sul d.d.l. sicurezza. Si leggano, tra gli altri, i contributi di G.M. Flick, L. Risicato, L. Della Ragione, R. Cornelli, M. Luciani, tutti reperibili sul sito www.camera.it. In letteratura, si vedano, L. Rossi, A proposito del nuovo disegno di legge in materia di sicurezza, in Sist. pen., 7 marzo 2024; C. Pasini, Il disegno di legge sicurezza e il nuovo reato di rivolta in carcere e in strutture di accoglienza e trattenimento per migranti, in Sist. pen., 5, 2024, p. 121 ss.; M. Pelissero, A proposito del disegno di legge in materia di sicurezza pubblica: i profili penalistici, in Sist. pen., 27 maggio 2024; R. Cornelli, Il ddl sicurezza alla prova della ricerca criminologica: prime annotazioni critiche, in Sist. pen., 27 maggio 2024; F. Forzati, Il nuovo Ddl sicurezza fra (poche) luci e (molte) ombre: primi spunti di riflessione, in Arch. pen., 3, 2023.
[9] Sul rispetto dei requisiti di “necessità ed urgenza” in relazione a tale atto normativo, si vedano i comunicati dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale, dell’Associazione Nazionale Magistrati e dell’Unione delle Camere Penali Italiani, che sottolineano come tale materia richiedesse necessariamente un confronto parlamentare più ampio ed un maggior rispetto dei criteri fissati dall’art. 77 c. 2 della Costituzione in materia di decretazione d’urgenza. I testi dei comunicati sono stati pubblicati sulla Rivista “Sistema Penale” in data 9 aprile e 14 aprile 2025. In particolare in un primo comunicato del 3 ottobre 2024, l’AIPDP, commentando il testo dell’allora disegno di legge, segnalava già come “le norme che intervengono sulle disposizioni penali destano forte preoccupazione, in quanto l’ampliamento del ricorso al diritto penale confligge con i principi di proporzionalità e sussidiarietà ed opera in funzione essenzialmente simbolico-comunicativa, senza che ciò significhi assicurare strumenti dotati di maggior efficacia nella tutela della sicurezza individuale e collettiva”. Più in generale sul rapporto tra legislazione penale e decretazione d’urgenza si vedano le considerazioni F. Cupelli, La legalità delegata. Crisi e attualità della riserva di legge nel diritto penale, Napoli, 2012, p. 130 ss.; V. Maiello, “Riserva di codice” e decreto-legge in materia penale: un (apparente) passo avanti ed uno indietro sulla via del recupero della centralità del codice, in A. Stile (a cura di), La riforma della parte generale. La posizione della dottrina sul progetto Grosso, Napoli, 2003, p. 173 ss. Recentemente si veda E. Dolcini, Sicurezza per decreto-legge? in Sist. pen., 30 giugno 2025.
[10] Ad esempio, sul versante del diritto pubblico, si leggano le considerazioni di A. Morrone, Rovesciare la Costituzione performativa. “Sicurezza” in cambio della libertà, in G. Losappio, A. Manna (a cura di), Profili di (in)costituzionalità del decreto-sicurezza. Atti del webinar del 30 maggio 2025, in Sist. pen., 11 luglio 2025, secondo il quale il DL Sicurezza “sfida irrimediabilmente le caratteristiche essenziali del sistema delle fonti, dell’equilibrio dei poteri del governo parlamentare, e della dialettica tra “autorità” e “libertà” disegnati dalla Costituzione”.
[11] Si vedano, ad esempio, le considerazioni sull’eterogeneità delle norme inserite nel DL Sicurezza di G. Giostra, È “necessario e urgente” rifondare il decreto sicurezza, in Sist. pen., 29 aprile 2025, che parla di “insensato assemblaggio di temi, rationes e destinatari, così eterogenei da risultare più un fenomeno di incontinenza securitaria che di un organico disegno di riforma”. Allo stesso modo, D. Pulitanò, Quale sicurezza? in Dir. pen. proc., 6, 2025, p. 689 ss., il quale, riprendendo alcune definizioni di G. Giostra, ha sostenuto come il decreto legge contenga “una lenzuolata di novità normative (…) ad alta illiberalità e a bassa efficienza” che sono state “pensate per coagulare consensi”.
[12] Cfr. E: Dolcini, Un Paese meno sicuro per effetto del decreto legge Sicurezza, in Sist. pen., 15 maggio 2025, il quale ha rilevato come sul piano sostanziale il DL Sicurezza rappresenti un “nuovo attacco ai principi fondamentali dello Stato di diritto”; S. Zirulia, Il “decreto sicurezza” 2025 interrompe il processo di adeguamento del codice rocco alla Costituzione. Criticità e possibili rimedi, cit. p. 217 e ss., secondo il quale il DL Sicurezza è connotato da “tratti illiberali, discriminatori e criminogeni”; mentre A. Cavaliere, Considerazioni generali intorno al D.L. Sicurezza n. 48/2025, convertito in L. N. 80/2025, in V. Plantamura (a cura di), Il decreto sicurezza, cit. p. 1 ss., ha sottolineato come il testo, oltre a non rispettare i caratteri della necessità e dell’urgenza previsti dalla Carta costituzionale, contenga un panorama “disordinato di norme eterogenee” con evidenti “torsioni autoritarie” in materia di tutela delle forze di polizia ed eccessive “anticipazioni della tutela penale”; si vedano anche S. Lonati, C. Melzi d’Eril, Il decreto-legge sicurezza (n. 48/2025): autoritratto involontario di una politica di oppressione, in Sist. pen., 11 giugno 2025, i quali sottolineano la marcata “visione carcerocentrica che permea l’intero decreto” e l’inversione dei ruoli nel rapporto tra cittadini e potere esecutivo che sta acquisendo “sempre maggiore centralità”. Gli Autori suddividono le norme del decreto in tre gruppi, “crudeltà inutili, eterogenesi dei fini e autoritratti involontari”, espressione del “populismo politico e penale” e che disegnano “un mondo al contrario” rispetto a quanto auspicato dai Costituenti; G. Fiandaca, La bulimia punitiva aumenterà il consenso, ma non serve a niente, in Sist. pen., 22 marzo 2025; G. Balbi, Il “decreto sicurezza” e il suo contesto. Il sistema penale nel crepuscolo della democrazia, in Leg. pen., 22 luglio 2025; si vedano anche i contributi di più autori raccolti da G. Losappio, A. Manna (a cura di), Profili di (in)costituzionalità del decreto-sicurezza. Atti del webinar del 30 maggio 2025, in Sist. pen., 11 luglio 2025. Contra, si esprime positivamente sulle novità del DL Sicurezza, pur consapevole di alcuni limiti, M. Ronco, Pacchetto sicurezza, in Centro Studi Livatino, 28 aprile 2025.
[13] Si vedano, ex plurimis, C. Fiore, I reati di opinione, Padova, 1965; C. Visconti, Aspetti penalistici del discorso pubblico, Torino, 2008; L. Alesiani, Reati di opinione. Una rilettura in chiave costituzionale, Milano, 2006; A. Galluccio, Punire la parola pericolosa? Pubblica istigazione, discorso d’odio e libertà di espressione nell’era di internet, Milano, 2020.
[14] In questi termini, sintetizza gli obiettivi del DL Sicurezza, M. Pelissero, La criminalizzazione del dissenso, in Dir. pen. proc. 7, 2025, p. 881. Mentre F. Febbo, Il diritto penale del “tipo normativo del luogo”, in G. Losappio, A. Manna, Profili di (in)costituzionalità, cit. p., 17 ss., si esprime in termini di “diritto penale del tipo normativo del luogo” notando come larga parte delle misure del DL Sicurezza si riferiscano a condotte caratterizzate dalla necessaria consumazione in determinati luoghi nei quali il reo si trova: “ulteriore tensione costituzionale è lo spostamento del baricentro della riforma legislativa verso un diritto penale non più solo dell’autore, ma incentrato ora anche sul “tipo del luogo ove il reato è consumato”, assegnando un’eccentrica rilevanza penale alla geolocalizzazione del reato”.
[15] Cfr. M. Pelissero, La criminalizzazione del dissenso, cit. p. 881.
[16] Il DL n.48/2025 introduce la seguente circostanza aggravante al terzo comma dell’art. 635 c.p.: “se i fatti di cui al primo periodo sono commessi con violenza alla persona o con minaccia, la pena è della reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni e della multa fino a 15.000 euro”. Si realizzano, quindi, per effetto dell’intervento normativo introdotto dal DL Sicurezza due differenti fattispecie di danneggiamento (aggravato) in occasione di manifestazioni il luogo pubblico o aperto al pubblico: l’una, “semplice”, punita con la reclusione da uno a cinque anni; l’altra, ulteriormente aggravata se il fatto è commesso con violenza alla persona o con minaccia, punita con la reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni e con la multa fino a 15.000 euro. Come rilevato anche dalla Corte di cassazione, nella sua Relazione già citata, “l’applicazione della fattispecie di nuovo conio comporta l’assorbimento in tale nuova fattispecie aggravata di reati di minaccia (art. 612 cod. pen.) e di violenza privata (art. 610 cod. pen.), che sarebbero stati autonomamente perseguibili ed eventualmente sanzionabili ai sensi dell’art. 81 cod. pen. ove avvinte in un medesimo disegno criminoso, mentre potranno concorrervi le altre fattispecie poste a tutela dell’integrità psico-fisica della persona, come quelle di cui agli artt. 582 ss. cod. pen.”.
[17] Cfr. L. Della Ragione, Reati di terrorismo e sicurezza nazionale, in V. Plantamura (a cura di), Il decreto sicurezza, cit. p. 25 ss.; C. Leotta, Art. 270-quinquies.3 – Detenzione di materiale con finalità di terrorismo, in M. Ronco, B. Romano (a cura di), Codice penale commentato online, consultabile sulla banca dati giuridica One Legale.
[18] Si veda L. Risicato, Brevi note su A.C. 1660 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario), pubblicato sul sito www.camera.it, la quale, in rapporto al reato di detenzione di materiale con finalità di terrorismo, sottolinea come “i reati di sospetto rischiano di porsi in contrasto col principio di materialità dell’offesa”; V. Manes, L’ossessione securitaria, cit. p.3.
[19] Cfr. A. Cavaliere, Contributo alla critica del d.d.l. sicurezza, in Critica del diritto, 2, 2024, p. 241.
[20] Il testo del nuovo art. 415-bis c.p. prevede quanto segue: “Chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, partecipa ad una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza, commessi da tre o più persone riunite, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Ai fini del periodo precedente, costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza.
Coloro che promuovono, organizzano o dirigono la rivolta sono puniti con la reclusione da due a otto anni. Se il fatto è commesso con l’uso di armi, la pena è della reclusione da due a sei anni nei casi previsti dal primo comma e da tre a dieci anni nei casi previsti dal secondo comma. Se dal fatto deriva, quale conseguenza non voluta, una lesione personale grave o gravissima, la pena è della reclusione da due a sei anni nei casi previsti dal primo comma e da quattro a dodici anni nei casi previsti dal secondo comma; se, quale conseguenza non voluta, ne deriva la morte, la pena è della reclusione da sette a quindici anni nei casi previsti dal primo comma e da dieci a diciotto anni nei casi previsti dal secondo comma. Nel caso di lesioni gravi o gravissime o morte di più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave, aumentata fino al triplo, ma la pena della reclusione non può superare gli anni venti”.
[21] Il testo del comma 7.1. dell’art. 14 d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286, introdotto dall’art. 27 del DL n. 48/2025 recita: “Chiunque, durante il trattenimento in uno dei centri di cui al presente articolo o in una delle strutture di cui all’articolo 10-ter, partecipa ad una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza da pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, commessi da tre o più persone riunite, è punito con la reclusione da uno a quattro anni. Ai fini del periodo precedente, costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza. Coloro che promuovono, organizzano o dirigono la rivolta sono puniti con la reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni. Se il fatto è commesso con l’uso di armi, la pena è della reclusione da uno a cinque anni nei casi previsti dal primo periodo e da due a sette anni nei casi previsti dal terzo periodo. Se dal fatto deriva, quale conseguenza non voluta, una lesione personale grave o gravissima, la pena è della reclusione da due a sei anni nei casi previsti dal primo periodo e da quattro a dodici anni nei casi previsti dal terzo periodo; se, quale conseguenza non voluta, ne deriva la morte, la pena è della reclusione da sette a quindici anni nei casi previsti dal primo periodo e da dieci a diciotto anni nei casi previsti dal terzo periodo. Nel caso di lesioni gravi o gravissime o morte di più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave, aumentata fino al triplo, ma la pena della reclusione non può superare gli anni venti”.
[22] La Relazione governativa di accompagnamento al testo, reperibile su www.camera.it, chiarisce l’ambito territoriale di applicazione del nuovo delitto in questi termini: “L’articolo 27 introduce un nuovo reato finalizzato a reprimere gli episodi di proteste violente da parte di gruppi di stranieri irregolari trattenuti nei centri di permanenza per i rimpatri o nei punti di crisi (hotspot), limitando l’applicazione della nuova fattispecie di reato ai soli casi di trattenimento previsti dagli articoli 10-ter e 14 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, con esclusione, pertanto, in caso di permanenza dello straniero in strutture di accoglienza, la cui natura è, peraltro, del tutto incompatibile con l’assetto ordinamentale proprio non solo degli istituti penitenziari ma altresì dei centri di trattenimento.”
[23] Ritengono sia un reato comune D. Bianchi, I reati di rivolta: una novità (potenzialmente) sovversiva, in Dir. pen. proc, 7, 2025, p. 906 ss.; M. Lombardo, Art. 415-bis c.p., in M. Ronco, B. Romano (a cura di), Codice penale commentato on line, par. 1, reperibile sulla banca dati One Legale. Mentre la Corte di cassazione nella sua Relazione sulle novità normative ritiene si tratti di un reato proprio; similmente, C. Pasini, Il disegno di legge sicurezza e il nuovo reato di rivolta in carcere e in strutture di accoglienza e trattenimento per migranti, in Sist. pen., 5, 2024, p. 122.
[24] La formulazione definita per decreto è diversa da quella inizialmente proposta con il d.d.l. n. 1660 in corso di discussione in parlamento. Infatti i primi due commi apparivano come segue: “Chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, mediante atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione, commessi in tre o più persone riunite, promuove, organizza o dirige una rivolta è punito con la reclusione da due a otto anni. Per il solo fatto di partecipare alla rivolta, la pena è della reclusione da uno a cinque anni”.
[25] Come evidenziato da D. Bianchi, I reati di rivolta: una novità (potenzialmente) sovversiva, cit. par.2, il quale sottolinea anche come “la forbice edittale per i reati-base di rivolta carceraria è più severa di quella degli omologhi nei centri di trattenimento, parimenti sono diversificati gli incrementi sanzionatori per l’uso delle armi, mentre le altre due aggravanti speciali indipendenti disegnano cornici sanzionatorie identiche per entrambi i delitti”.
[26] Si interroga sul concetto di “rivolta” V. Sassi, Il nuovo reato di rivolta in carcere introdotto dal D.L. Sicurezza n. 48/2025, in Sist. pen., 7-8, 2025, p. 42 ss.
[27] Si veda il parere della VI Commissione del CSM sul cd. decreto sicurezza (d.l. 11 aprile 2025, n. 48, recante: ‘Disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonchè di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario’), relatori i Consiglieri Paolini, Cosentino, Romboli, D’Auria e Fontana, pubblicato dalla rivista Sistema Penale il 14 maggio 2025.
[28] Si veda F. Forzati, Il nuovo Ddl sicurezza, cit., p. 20, il quale ricorda che il diritto di resistenza all’oppressore rientra fra i diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo, per la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen che all’art. 2 che lo affiancherà proprio ai diritti di sicurezza e libertà.
[29] Sul punto, R. Bartoli, Di sicuro c’è solo questo: si è tornati a incriminare l’esercizio di libertà, cit. par. 6, il quale ritiene che alcune incriminazioni previste dal DL Sicurezza – tra cui la rivolta in carcere – pongano “problemi di legittimità in ordine alla scelta di criminalizzazione, non solo sul piano dell’offensività, ma prima ancora, in termini più radicali, perché a ben vedere possono arrivare addirittura all’incriminazione dell’esercizio di libertà”. Dello stesso avviso S. Zirulia, Il “decreto sicurezza” 2025 interrompe il processo di adeguamento del codice rocco alla Costituzione, cit. par. 2, per il quale “tale norma definitoria estende a dismisura la portata applicativa del reato, sollevando serie perplessità in ordine alla sua conformità ai canoni costituzionali di sussidiarietà e proporzionalità”.
[30] Sulle revisioni apportate dal DL Sicurezza alle norme sulla violenza e resistenza a pubblici ufficiali si veda M. Autieri, Violenza e resistenza a pubblico ufficiale verso un inasprimento della sanzione penale, in V. Plantamura (a cura di), Il decreto sicurezza, cit. p. 277 ss.
[31] Per A. Manna, La resistenza passiva fra diritto penale del fatto e diritto penale d’autore ed ulteriori profili critici del cd. DL Sicurezza, ormai definitivamente approvato: conclusioni, in G. Losappio, A. Manna, Profili di (in) costituzionalità del DL Sicurezza, cit. p. 54, il nuovo delitto, nella parte in cui incrimina forme di resistenza passiva, si pone “in contrasto con il sub-principio, o corollario della stretta legalità, ovverosia la tassatività, di cui all’art. 25, comma 2, cost., giacché in effetti la condotta di resistenza passiva non risulta tipizzata potendosi esprimersi nelle più diverse modalità”. L’Autore rileva anche una possibile lesione del principio di uguaglianza/ragionevolezza, nonché il profilarsi di una questione di legittimità costituzionale con riguardo all’art. 13 Cost., laddove il decreto equipari “sotto l’ambito della resistenza passiva da un lato soggetti che hanno commesso reati e dall’altro individui che, invece non hanno commesso alcun reato, bensì sono rinchiusi nei Centri per il rimpatrio solo perché sono fuggiti dai Paesi di origine per trovare accoglienza nel territorio italiano”.
[32] E. Loi, N. Mazzacuva, Il sistema disciplinare nel nuovo ordinamento penitenziario, in F. Bricola (a cura di), Il carcere riformato, Bologna, 1977, p. 91, per i quali il concetto di resistenza passiva è talmente poco tassativo che rischia di “aprire la strada ad un uso ancora più discrezionale della violenza e della coercizione fisica, con l’aggravante che titolare di questo potere discrezionale finisce per essere il solo personale di custodia”.
[33] Si veda D. Bianchi, I reati di rivolta, cit. par. 3, al quale tale tipologia di delitti ricorda “da vicino i reati di disobbedienza collettiva previsti dai codici penali militari di pace e di guerra, e in particolare, quello di ammutinamento, nella forma dell’inottemperanza all’ordine del superiore e quello di indisciplina collettiva, nella medesima forma”. Cfr. F. Palazzo, Decreto sicurezza e questione carceraria, in Sist. pen., 1° maggio 2025, per il quale alle condizioni di disagio che spesso determinano la vita dei detenuti si reagisce “sul piano repressivo, elevando l’ordine e la sicurezza carceraria a valore preminente dell’istituzione penitenziaria”.
[34] Cfr. R. Bartoli, Di sicuro c’è solo questo: si è tornati a incriminare l’esercizio di libertà, cit. par. 6, il quale – proponendo di degradare la resistenza passiva ad illecito punitivo amministrativo – sottolinea come “minacciare una pena” – per colui che è già rinchiuso in un istituto penitenziario al fine di reprimere atti di resistenza passiva che possono essere “vinti dallo Stato impiegando una violenza proporzionata immediatamente diretta a rimuovere l’ostacolo” – significa “costituire una sorta di bis in idem nell’esercizio della violenza”.
[35] Come nota M. Pelissero, La criminalizzazione del dissenso, cit. par. 3, “considerando il criterio di ragguaglio ex art. 135 c.p., la pena per la circostanza aggravante è 900 volte più severa di quella della fattispecie base”.
[36] Decisamente più critico G. Ruggiero, Impedimento della libera circolazione su strada, in V. Plantamura (a cura di), Il decreto sicurezza, cit. p. 216, per il quale “nonostante la ri-criminalizzazione della condotta di blocco stradale possa essere ricondotta ad una risposta al terrorismo lato sensu (…) bisogna stare attenti affinché lo Stato non finisca per usare gli stessi metodi dei terroristi. Solo il mantenimento del sistema di libertà e di garanzie di uno Stato di diritto sociale e democratico eviterà che il terrorismo provochi la delegittimazione dello Stato e della sua lotta contro quello”.
[37] La marginalizzazione degli spazi di legittima espressione del conflitto politico-sociale appaiono misure coerenti con quella prospettiva di “diritto penale del nemico” che, lungi dall’essere un mero costrutto teorico, trova qui concreta attuazione. In materia si veda G. Jakobs Kriminalisierung im Vorfeld einer Rechtsgutverletzung (Referat auf der Strafrechtslehrertagung in Frankfurt a.M. im Mai 1985), in Zeitschrift für die gesamte Strafrechtwissenschaft, 97, 1985, p. 753 ss.; G. Jakobs Das Selbstverständnis der Strafrechtswissenschaft vor den Herausforderungen der Gegenwart (Kommentar), in A. Eser, W. Hassemer, B. Burkhardt (a cura di), Die Deutsche Strafrechtswissenschaft vor der Jahrtausendwende. Rückbesinnung und Ausblick, Monaco, 2000, p. 51 ss. Nella letteratura italiana, in materia, si rinvia tra gli altri a M. Donini, M. Papa (a cura di), Diritto penale del nemico: un dibattito internazionale, Milano, 2007; A. Gamberini, R. Orlandi (a cura di), Delitto politico e diritto penale del nemico, Bologna, 2007; F. Mantovani, Il diritto penale del nemico, il diritto penale dell’amico, il nemico del diritto penale e l’amico del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2, 2007, p. 472; R. Zaffaroni, Alla ricerca del nemico: da Satana al diritto penale cool, in E. Dolcini, C.E. Paliero (a cura di), Studi in onore di Giorgio Marinucci, Milano, 2006, 757 ss. Sul populismo penale e giudiziario, come conseguenza del populismo politico, vedi per tutti M. Donini, Populismo e ragione pubblica. Il post-illuminismo penale tra lex e ius, Modena, 2019, p. 11 ss.; G. Fiandaca, Populismo politico e populismo giudiziario, in Criminalia, 2013, p. 95 ss.; A. Manna, Il fumo della pipa (il c.d. populismo politico e la reazione dell’Accademia e dell’Avvocatura), in Arch. pen. web, 2018, p. 1 ss.; D. Pulitanò, Populismi e penale. Sulla attuale situazione spirituale della giustizia penale, in Criminalia, 2013, p. 123 ss.
[38] Sul punto, M. Papa, Com’è che il diritto penale è diventato una favola? in Sist. pen., 26 maggio 2025, segnala come “la massiva e logorroica produzione di norme penali finisce per essere spesso l’unica, velleitaria, risposta all’allarme sociale”.
[39] Cfr. C. Mosca, La sicurezza come diritto di libertà, Padova, 2012, per il quale la sicurezza non va concepita in contrasto con la libertà ma va immaginata come espressione del diritto di libertà.
[40] Cfr. L. Ferrajoli, Democrazia e paura, in M. Bovero, V. Pazé (a cura di), Nove lezioni per la democrazia, Roma-Bari, 2010; S. Moccia, Qualche riflessione sui rapporti tra sistema penale e democrazia, in Pen. dir. proc., 12 febbraio 2024, il quale ricorda come “il diritto è politica” perché “nell’ordinamento giuridico vengono formalizzate le scelte della politica” ed in particolare nel diritto penale “si misura con precisione millimetrica il livello qualitativo della tutela della libertà e personalità individuale in una determinata compagine statuale, in un particolare momento storico”.
[41] Si veda. G. Amarelli, Il decreto sicurezza e la riforma degli effetti delle interdittive antimafia: un fiore nel deserto in attesa di essere emendato, in Sist. pen., 5 maggio 2025.


