Abstract: La regola di valutazione prevista dall’art. 192, comma 3 c.p.p. al fine di orientare il libero convincimento dell’organo giurisdizionale, risulta una previsione generica e priva di rigore tassativizzante. La giurisprudenza di legittimità intervenuta per colmare il dettato normativo ha, tuttavia, elaborato criteri logici che si rivelano intrinsecamente reversibili e dipendenti dalla discrezionalità interpretativa. Si auspica, pertanto, un intervento legislativo che, nel chiarire la portata e i limiti dei riscontri, riaffermi conseguentemente il principio di legalità processuale.
The evaluation rule provided by Article 192, paragraph 3 of the Criminal Procedure Code, intended to guide the free conviction of the judge, is a generic provision that lacks strictness. Jurisprudential development, which has intervened to fill the legislative gap, has developed logical criteria that are inherently reversible and dependent on arbitrary interpretation. It is desirable to have a legislative intervention that, by clarifying the scope and limits of corroborating evidence, consequently reaffirms the principle of procedural legality.
Sommario: 1. Considerazioni introduttive – 2. L’art. 192, comma 3 c.p.p.: una norma priva di rigore tassativizzante. – 3. Il tentativo di razionalizzazione attuato dalla giurisprudenza: l’eterogenesi dei fini del metodo a tre tempi. – 4. L’ultimo momento: i necessari «altri elementi di prova».
1. Considerazioni introduttive.
La valutazione[1] della prova costituisce la fase conclusiva del procedimento probatorio, il cd. «momento soggettivo»[2] che si svolge necessariamente a «ritroso»[3] e sotto il segno del libero convincimento[4] dell’organo giurisdizionale. Tale principio, consistente nel libero apprezzamento degli elementi di prova acquisiti sulla base di criteri razionali che devono essere disposti nella motivazione[5] (art. 546, comma 1, lett. e) c.p.p.)[6], presuppone «il divieto di utilizzare quella che oggi viene definita “scienza privata” del giudice»[7]. Il libero convincimento deve, dunque, essere giustificato[8], a differenza del cd. intime convinction[9], tipico dei verdetti, che può sfociare nell’arbitrio e nell’assenza di razionalizzazioni[10].
Il principio del libero convincimento, scaturente dal pensiero illuministico[11], costituisce una «completa reazione al vecchio metodo, basato sulla tortura e sulle prove legali»[12]. Tale sovvertimento, tuttavia, risulta parzialmente mitigato dalle previsioni di cui all’art. 192[13], commi 2 e 3 c.p.p.[14] norme che «non impongono, ma vietano al giudice di trarre un certo tipo di convincimento da alcune prove, e quindi stabiliscono una “valutazione negativa” anziché positiva»[15].
Il comma 3, in particolar modo, sancisce che le dichiarazioni dei coimputati nel medesimo reato e dei soggetti imputati in un procedimento connesso, a norma dell’articolo 12 c.p.p.[16], siano valutate congiuntamente ad «altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità».
La chiamata in correità[17], definibile come «l’indicazione da parte di chi è imputato, di altra persona come responsabile, o corresponsabile, del reato a lui ascritto o di altro reato connesso»[18], è da sempre controversa[19], essendo dibattute tanto la sua natura, quanto le modalità di valutazione. In particolar modo, i primi dubbi hanno riguardato l’individuazione di un genus tipico cui ascrivere il narrato: da un lato, privilegiando la natura del dichiarante, gli interpreti hanno inizialmente qualificato la chiamata in correità come equiparabile alla confessione[20] o all’interrogatorio[21]; successivamente, invece, valorizzando l’elemento contenutistico concernente la responsabilità altrui, si è tentato di ricondurre l’istituto all’interno dell’alveo della testimonianza[22]. Il dibattito è stato solo in parte superato dall’introduzione del codice di rito vigente che, pur smentendo la possibilità di inquadrare la chiamata in correità nell’orbita degli indizi[23] e affermandone la valenza di prova dimostrativa[24], non ha impedito che essa rimanesse «imprigionata in un limbo indefinito di differenze e intersezioni con altri istituti e, perciò, ancora aperto a interpretazioni talvolta fortemente discordanti»[25].
2. L’art. 192, comma 3 c.p.p.: una norma priva di rigore tassativizzante.
Al cuore del problema, al di là del difetto di tipicità in merito all’individuazione e alla definizione di questa particolare forma di narrazione, rimane la regola di valutazione delle dichiarazioni fornite dal correo[26].
Come anticipato, l’art. 192, terzo comma c.p.p. sancisce la necessità che il narrato del coimputato sia confermato da fattori esterni. Il bisogno di un vaglio maggiormente accurato nasce dalla stessa natura del dichiarante che spezza «la simmetria tra diritto e processo penale»[27]: il reo da soggetto in contrasto con l’ordinamento, diviene strumento cognitivo per la ricerca della verità sulla base di un calcolo opportunistico[28]; l’imputato si trasforma in un utile mezzo di acquisizione delle informazioni che, tuttavia, appare privo della stessa affidabilità[29] che contraddistingue i contributi testimoniali[30] in ragione dell’assenza dell’obbligo di verità. Da qui, dunque, l’introduzione da parte del legislatore, come contrappeso all’assenza di fides[31] e per soddisfare l’esigenza di irrinunciabilità cognitiva[32], di un criterio di valutazione[33], un metodo legale[34] che, in assenza di ulteriori elementi di prova, impedisce che la dichiarazione del correo, sebbene plausibile, possa essere posta a fondamento della decisione del giudice[35].
La regola di valutazione introdotta dal legislatore per orientare il libero convincimento dell’organo giurisdizionale è apparsa, tuttavia, fin da subito come una previsione «generica e priva di indicazioni limitatrici»[36]; la disposizione, invero, non stabilisce «quanti e quali elementi conoscitivi siano necessari ai fini di tale corroborazione»[37], limitandosi a prevedere che essi confermino l’attendibilità delle dichiarazioni. Il legislatore ha, dunque, abdicato alla sua funzione di tassativizzazione del processo in quanto l’auspicato scopo di stabilire ex lege i limiti e i presupposti per l’apprezzamento del giudice «è miseramente fallito»[38] ed è stato conseguentemente rimesso a quel libero convincimento del giudice che si voleva dirigere. È in tale cortocircuito, invero, che si è inserita la giurisprudenza di legittimità per assolvere alla finalità di delineare il metodo di valutazione della chiamata portando a compimento, tramite l’esperienza pratica, l’intervento di razionalizzazione avviato dal legislatore.
Tale finalità chiarificatrice, tuttavia, ha parimenti condotto a un’anarchia valutativa, alla creazione di un recinto aperto tramite il ricorso a criteri fortemente reversibili.
3. Il tentativo di razionalizzazione attuato dalla giurisprudenza: l’eterogenesi dei fini del metodo a tre tempi.
In merito alla valutazione della chiamata in correità, la Corte di cassazione si è espressa nella nota sentenza Marino[39], delineando il cd. «metodo trifasico»[40] il cui iter si compone notoriamente di tre momenti.
Il giudice, innanzitutto, è chiamato a valutare la credibilità del dichiarante[41]; successivamente deve esaminare la solidità e le caratteristiche intrinseche delle dichiarazioni, ossia l’attendibilità del narrato in sé considerato, e, infine, effettuare un’analisi dell’attendibilità estrinseca di quanto affermato, mediante l’esame di elementi di riscontro a condizione che siano indipendenti e abbiano valenza individualizzante. I suddetti criteri costituiscono, tuttavia, «canoni logici»[42] connotati conseguentemente da relatività operativa che si aggiungono, anzi precedono, l’unica regola normativa dettata dal legislatore: la presenza di riscontri.
Per sciogliere il nodo concernente la credibilità del dichiarante le Sezioni Unite rinviano «alla sua personalità, alle sue condizioni socio-economiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati in correità, etc., e alla genesi remota e prossima della sua risoluzione alla confessione e all’accusa dei coautori e complici». Si afferma così la necessità di risolvere il problema concernente l’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni del correo mediante un’analisi critica diretta «a stabilire, con riguardo ai singoli contesti, la rilevanza e la significatività delle lacune e delle contraddizioni per saggiare l’attendibilità dell’insieme; e la schiettezza dei successivi adattamenti e delle correzioni, onde stabilire se si tratt[asse]i di genuini ripensamenti, espressione di uno sforzo di chiarezza nell’approfondimento mnemonico, ovvero dell’adeguamento puro e semplice della propria versione a fronte dell’emergere di contestazioni e di risultanze processuali da far quadrare con essa»[43]. Nel vaglio dell’attendibilità, dunque, la giurisprudenza ha ritenuto pregnante il carattere di precisione, coerenza, costanza, disinteresse e spontaneità della dichiarazione[44].
Appare chiaro che i parametri utilizzati in entrambi i suddetti momenti siano connotati da una forte reversibilità, una flessibilità che disvela l’inefficacia delle buone intenzioni con cui sono stati elaborati. La giurisprudenza si è fatta, invero, carico dell’impegno di “colorare” la vaga previsione legislativa, elaborando, tuttavia, strumenti “grigi” altrettanto generici ed evanescenti che difettano di rigore tassativizzante[45] in quanto scontano il peso di un eccessivo soggettivismo. Sono criteri approssimativi che non consentono un’analisi obiettiva della realtà e un risultato interpretativo incontrovertibile, nonché non opinabile. La verità e, conseguentemente, la menzogna non presentano, invero, manifestazioni palesi ed individuabili mediante una semplice diagnosi, bensì tutti i comportamenti che potrebbero essere ricondotti a un propalante sincero e ad un dictum attendibile (si pensi all’assenza di contraddizioni, alla precisione, alla presenza di un alto numero di dettagli nel racconto, ecc.), sono peculiarità che, equivalentemente, potrebbero caratterizzare altresì un abile ingannatore. Parimenti, una dichiarazione vaga con imprecisioni e inesattezze potrebbe derivare tanto da un imputato sincero, quanto menzognero[46] smentendo, così, l’insegnamento tratto dell’esperienza pratica in base al quale la minuziosità della dichiarazione è inversamente proporzionale alla sua falsità e che la menzogna è generalmente contraddittoria e lacunosa. In ciò è insita la reversibilità[47] e la conseguente debolezza dei criteri logici elaborati dalla giurisprudenza.
Il risultato, dunque, è stato anche da parte della giurisprudenza di legittimità un’innegabile eterogenesi dei fini poiché il meritevole scopo volto a raggiungere maggiore concretezza è risultato, nei fatti, svuotato a causa del ricorso, come base della suddetta regola di valutazione negativa, alle massime d’esperienza[48] che sono per loro natura opinabili. In questo caso specifico, le diverse massime d’esperienza possono essere addirittura antitetiche ed equiprobabili.
Secondo la definizione tradizionale riconducibile a Stein[49], le massime d’esperienza consistono in generalizzazioni[50] basate sull’id quod plerumque accidit ottenute attraverso un ragionamento induttivo dall’esperienza e dal senso comune, vale a dire «quell’insieme di nozioni che costituiscono il patrimonio culturale diffuso in un certo luogo ed in un certo momento storico»[51]. Essendo basate su ciò che accade ordinariamente e su assunti meramente probabilistici sono per loro natura controvertibili e facilmente falsificabili sostanziandosi, così, in parametri intarsiati di deroghe. Collocandosi nell’alveo del verosimile ed essendo filtrate dalla prospettiva personale del giudice, sono dotate di una forza euristica relativa e priva di cogenza. Il risultato, dunque, è uno scenario tutt’altro che solido e inconfutabile che si sgretola in frammenti elastici e incapaci di giungere alla tassativizzazione della valutazione del dichiarante, facendo riemergere la componente libera dell’apprezzamento del giudice. Sono criteri, invero, derivanti dalla logica quotidiana dell’uomo medio, «una caotica sommatoria di elementi inidonea a dissipare il vero dal falso»[52], conducendo ad un’autoconfutazione in quanto incapaci di escludere definitivamente il loro contrario. I suddetti limiti intrinseci delle massime d’esperienza sono stati evidenziati anche dalla giurisprudenza di legittimità che afferma: «con la massima d’esperienza si opera una generalizzazione di un determinato comportamento attraverso l’individuazione di caratteri “comuni” presupposti come presenti in fatti già accaduti, cui si fa riferimento come punto di partenza, con l’esclusione di quei casi che potrebbero smentire tale generalizzazione. La conseguenza è che, mancando un accordo, di natura oggettiva, sulla scelta dei dati iniziali, non è possibile evitare il rischio che quella massima d’esperienza sia confutata da almeno un’altra massima d’esperienza»[53]. Soprattutto, le massime d’esperienza possono avere una plausibilità per un’astratta generalità dei casi, ma non dicono nulla sul caso singolo che potrebbe sfuggire proprio alla generalizzazione dei comportamenti.
L’intento reattivo della giurisprudenza è, dunque, risultato vano poiché si è cercato di conferire affidabilità a ciò che ex lege è privo di tale caratteristica, in quanto considerato “macchiato” dal peccato originale di provenire da un correo[54], avvalendosi di criteri altrettanto incerti e inaffidabili. Parametri che, inoltre, in quanto generalizzati, non risultano confacenti alla complessità della chiamata in correità quale istituto connotato da una forte matrice psicologica e individuale[55] di cui è necessario tener conto.
Si addiviene, così, a un’inefficace tautologia: il dichiarante sarà credibile quando ritenuto tale dall’organo giudicante che «acconsente facilmente a ritenere esistente ciò che desidera esista»[56].
Al di là del difetto di univocità delle massime d’esperienza, il metodo a tre tempi elaborato dalla giurisprudenza subisce il contraccolpo derivante dalla sua applicazione pratica. Invero, successivamente alla pronuncia Marino si è consolidato un orientamento interpretativo[57] secondo cui la sequenza trifasica non deve necessariamente svilupparsi rigidamente poiché la valutazione della credibilità soggettiva del dichiarante e quella dell’attendibilità oggettiva del suo dictum, si afferma, si influenzano reciprocamente e, seppur logicamente scomponibili, non si muovono lungo linee separate imponendo, così, un vaglio globale e unitario. Il primo tempo consiste in una valutazione che appare incentrata in astratto su una caratteristica innata del propalante, quella di generare affidabilità, ma nei fatti giunge a configurare una qualità derivante dall’attendibilità della dichiarazione, oggetto di analisi più propriamente nel secondo momento, in quanto «un dichiarante è credibile, perché è attendibile la sua dichiarazione»[58]. Il primo passaggio valutativo si sovrappone, così, al secondo: la credibilità soggettiva ripiega sull’attendibilità oggettiva.
Un’effettiva applicazione del metodo a tre stadi, dunque, richiede il recupero dell’autonoma funzione dei singoli momenti smentita, invece, dalla successiva giurisprudenza di legittimità che sostiene: «la chiara distinzione dei tre livelli della valutazione di questa particolare prova dichiarativa non significa la formulazione di tre autonomi e distinti giudizi»[59]. Ai fini della riacquisizione di una sua perfetta autosufficienza, la valutazione della credibilità del dichiarante dovrebbe consistere in un’indagine di carattere personologico[60], slegata dal narrato, tramite l’apprezzamento della persona del propalante, dei suoi rapporti con l’imputato, degli eventuali precedenti, ad esempio, per calunnia o falsa testimonianza che potrebbero indicare una propensione al mendacio. Il primo momento in tale ottica si sostanzierebbe in un’indagine incentrata sulla persona e sulle sue proprietà ai fini di delineare il ritratto di un dichiarante potenzialmente più o meno credibile. Il sistema valutativo a tre tempi nasce, invero, come contrappeso alla natura del propalante che non è un soggetto esterno, ma inevitabilmente interessato; tale peculiare profilo individuale, dunque, dovrebbe avere un suo distinto e specifico rilievo evitando che si venga a confondere e sovrapporre con la successiva valutazione del dictum che sarà realizzata solo qualora si sia superato il primo vaglio personalistico.
Per far fronte alla volatilità dei criteri che connotano attualmente anche il secondo momento, la strada percorribile potrebbe consistere nell’adozione di strumenti che razionalizzino le massime d’esperienza, creando dei veri e propri modelli stabili, una sorta di massimario che guidi l’inferenza induttiva del giudice nell’ottica di una maggiore trasparenza e consapevolezza[61]. Nella ricostruzione di tale griglia ermeneutica risulta essenziale riferirsi agli insegnamenti sociologici e psicologici[62] anche al fine di comprendere quale sia l’aspettativa scientificamente coltivabile ed esigibile da un testimone in termini di precisione, completezza e sicurezza per raffrontare, poi, tale previsione astratta con la realtà, in ragione delle condizioni psico-soggettive e della tipologia del fatto in merito al quale l’individuo è chiamato a fornire dichiarazioni. Dovrebbero essere sviluppati parametri standardizzati per valutare il grado di attendibilità, tenendo conto degli inevitabili limiti della memoria umana[63]. Anche l’analisi del profilo psicologico, nonché della storia personale e relazionale propria del primo momento, richiede un approccio necessariamente multidisciplinare che coinvolga, quindi, in una sinergia di saperi anche gli irrinunciabili apporti forniti dagli studi psicologici. A tal proposito si è, invero, parlato della testimonianza come un actus humanus[64], ossia un’azione che origina dalla persona, dal suo essere e dalla sua psicologia; per distinguerla dall’actus hominis,cioè un atto compiuto dal soggetto senza che esso sia filtrato dalla sua coscienza soggettiva e privata. Dunque, solo tramite un approfondito apprezzamento della sfera personale da cui origina il narrato sarà possibile una corretta valutazione di quest’ultimo.
4. L’ultimo momento: i necessari «altri elementi di prova»
I riscontri costituiscono quegli «altri elementi di prova» che devono necessariamente sussistere affinché il giudice possa considerare le dichiarazioni del correo, a loro volta, alla stregua di elementi di prova. Gli elementi di riscontro, nonostante rappresentino l’unica condicio sine qua non normativa per l’utilizzo della chiamata in correità, non conoscono alcuna definizione codicistica[65].
Nell’oscurità legislativa su cosa possa essere riscontro «non rimane che affidarsi alla semantica dell’espressione: elemento di prova è qualsiasi elemento[66] in grado di provare. Dunque, qualsiasi informazione rilevante è elemento di prova»[67]. Si giunge, così, nuovamente all’anarchia valutativa della giurisprudenza che ha portato all’elaborazione di un ampio serbatoio ove ogni elemento è accolto e ogni informazione può confluire apparentemente senza vincoli.
I riscontri, dunque, ideati dal legislatore come un meccanismo di filtro si trasformano in un «setaccio senza rete»[68] che abdica alla sua funzione delimitatrice. L’art. 192, comma 3 c.p.p. in quest’ottica non sembra più costituire una mitigazione al principio del libero convincimento, bensì una sua conferma in quanto il concetto di “riscontri” viene ad essere colmato dall’elaborazione interpretativa e rimesso all’apprezzamento del giudice.
I riscontri rappresentano, ai sensi del metodo giurisprudenziale a tre tempi, l’ultimo gradino del percorso valutativo delle dichiarazioni del correo, la fase finale che segue la verifica intrinseca della credibilità e dell’attendibilità. Tuttavia, tali accertamenti seppur preventivi ed eventualmente conclusi con un esito positivo, possono cadere sotto il peso dell’assenza incolmabile di altri elementi di prova. Il dictum preciso e coerente scaturente dal più sincero e affidabile propalante non potrà, in assenza di riscontri, essere in alcun modo preso in considerazione dal giudice. Ugualmente, sempre nell’ottica di un libero apprezzamento dagli ampi margini, il giudice potrà valutare negativamente un narrato supportato da riscontri, qualora ritenga che non sia stato raggiunto il necessario livello di certezza probatoria. La disposizione di cui all’art. 192, comma 3 c.p.p., invero, non costituisce una tradizionale prova legale[69] che impone al giudice un certo esito determinando l’efficacia ex ante, bensì una regola di valutazione negativa che necessita di una componente inferenziale.
Nell’ottica di un rispetto rigoroso del metodo a tre stadi elaborato dalla giurisprudenza, in assenza di una risposta positiva in uno o in entrambi i primi gradi preliminari, non dovrebbe essere possibile accedere al terzo. Tuttavia, l’elaborazione giurisprudenziale[70] ha spesso rinvenuto nella valutazione della credibilità e dell’attendibilità «un passaggio necessario quanto precario della dialettica probatoria del giudice»[71], superabile da riscontri idonei a rilegittimare il narrato. Si giunge, così, ad affermare che «un profilo soggettivo non del tutto positivo non preclude un complessivo giudizio positivo, laddove gli aspetti inerenti al contenuto dichiarativo, e le conferme che lo stesso riceve aliunde, siano tali da fondarlo adeguatamente»[72]. I riscontri, dunque, in tale ottica rischiano di trasformarsi facilmente in un antidoto e in un nulla osta che permette di ottenere da un dichiarante poco credibile e da un narrato non attendibile dichiarazioni considerate verosimili e plausibili poiché sostenute da quel terzo momento che, tuttavia, tanto nella visione codicistica, quanto in quella originaria della giurisprudenza, costituisce un momento finale e accessibile solo in seguito al pieno superamento dei primi due stadi. Tale soluzione è stata chiaramente facilitata dalla labile previsione legislativa che ha fornito, così, alla prassi applicativa uno strumento elastico e malleabile.
Proprio in riferimento alla natura oscura sebbene prescrittiva dei riscontri si stanzia la strategia interpretativa delle parti, nonché la libera valutazione giudiziale, dando vita a una sorta di ramo processuale incidentale volto a verificare cosa possa essere qualificato come riscontro. Da questa dimensione di vacuità normativa che impone semplicemente che gli elementi siano esterni, la giurisprudenza ha tratto il principio di libertà dei riscontri[73]. Ai sensi di tale assunto «qualsiasi altro elemento di prova, di qualsivoglia tipo e natura»[74], purché estrinseco rispetto al dictum, risulta idoneo a fungere da riscontro e ad espiare il peccato originario che connota le dichiarazioni del correo. Il giudice, dunque, dovrà accertare se sussistono elementi estrinseci rispetto al narrato e se li ritiene idonei a supportare il medesimo. Tale ampia lettura della disposizione che si limita a prevedere la necessità di elementi «altri» senza operare alcuna distinzione, si è osservato[75], azzera l’utilità e la portata delimitatrice dell’art. 192, terzo comma c.p.p. che diviene un recinto aperto.
Nella suddetta prospettiva liberale l’elaborazione giurisprudenziale ha, così, colmato il dettato normativo prevedendo che i riscontri possano costituire elementi di qualsivoglia specie e categoria acquisiti nel rispetto delle regole probatorie. A tal fine, la Corte di cassazione ha individuato tre requisiti fondamentali che li caratterizzano: l’estraneità, la valenza individualizzante e l’assenza di capacità di fondare autonomamente il thema probandum.
Per quanto concerne il primo requisito, la giurisprudenza di legittimità ormai consolidata rileva come l’unico dato ricavabile dalla disposizione codicistica risulti essere l’esigenza che i riscontri siano caratterizzati dalla necessaria estraneità dovendo, cioè, provenire ab externo rispetto alla dichiarazione stessa così «da scongiurare una verifica tautologica, autoreferenziale ed affetta dal vizio della circolarità»[76]. Per valenza individualizzante si intende che il riscontro debba riguardare non solo la conferma del fatto nella sua oggettività, ma essere connotato anche dalla riferibilità soggettiva dello stesso alla persona dell’incolpato[77]. Il riscontro, infine, non deve essere dotato di una capacità dimostrativa autonoma dovendo operare soltanto quale conferma delle dichiarazioni accusatorie. Se, infatti, avesse la forza dimostrativa tale da integrare autonomamente la prova del fatto farebbe venir meno la necessità della stessa chiamata che, invero, da sola non è sufficiente a fondare ex se il convincimento del giudice[78]. Il riscontro non può coincidere, inoltre, con le dichiarazioni del narrante o consistere in circostanze del tutto note poiché, se così fosse, tali strumenti rischierebbero di trasformarsi in meri mezzi superflui e privi di efficacia nel fornire supporto all’inferenza del giudice[79]. In questo senso occorre precisare che l’elemento di prova a stretto rigore definitorio ha una sua, seppur limitata, forza dimostrativa e capacità rappresentativa[80] costituendo l’elemento posto a fondamento del procedimento inferenziale all’esito del quale il giudice trarrà il risultato di prova.
Sostenuti dall’incertezza normativa gli interpreti[81] hanno ammesso altresì i cd. riscontri incrociati[82]. La chiamata in correità, dunque, ai sensi di un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, può essere riscontrata anche unicamente da dichiarazioni di analoga natura, purché siano rispettati una serie di requisiti cumulativi[83]. È necessario, si afferma, una volta accertata la credibilità soggettiva e l’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni, valutare più approfonditamente i rapporti personali fra il dichiarante e la fonte diretta, nonché l’autonomia e l’indipendenza delle dichiarazioni. Tale requisito consiste nel fatto che esse devono derivare da fonti di informazione differenti al fine di evitare il rischio della circolarità della notizia. Le dichiarazioni, inoltre, non devono essere il risultato di pregresse intese fraudolente o condizionamenti. Infine, è richiesta la concordanza su fatti rilevanti del thema probandum. Deve, cioè, sussistere la c.d. convergenza del molteplice che consiste nella «concordanza sul nucleo centrale e significativo della questione fattuale da decidere»[84], non è, dunque, necessaria la sovrapponibilità perfetta delle dichiarazioni.
Nella prassi applicativa, tuttavia, si rinviene nuovamente lo sviluppo sempre più flessibile di tali criteri. L’elaborazione dei cd. riscontri incrociati, nata nell’assenza di rigore legislativo e corredata dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite di requisiti cumulativi prospettati come rigidi e irrinunciabili, è stata, tuttavia, progressivamente erosa. Le pronunce più recenti, invero, pur mantenendo formalmente le condizioni tradizionali, hanno sviluppato un’interpretazione sempre più flessibile trasformandole, di fatto, in linee guida indicative dipendenti dalla discrezionalità interpretativa. In tal senso è possibile rilevare una tendenziale attenuazione, ad esempio, del requisito dell’autonomia e distinzione delle fonti informative ammettendo che dichiarazioni provenienti dal medesimo contesto criminale possano reciprocamente riscontrarsi[85] smantellando, così, l’esigenza di evitare la circolarità della notizia e i conseguenti rischi. Invero, quanto affermato da soggetti provenienti dal medesimo gruppo, ad esempio, può essere frutto non di dichiarazioni fra loro indipendenti, bensì di una cultura condivisa e comune sussistente nell’organizzazione che chiaramente confluisce in narrazioni non autonome.
Lo stesso requisito della convergenza del molteplice risulta essere particolarmente rischioso in quanto rimette alla libera valutazione del giudice l’individuazione di cosa possa considerarsi marginale, e cosa, invece, centrale e rilevante. L’esito, dunque, ancora una volta è un sistema che, seppur formalmente rigoroso, si presta a varie deviazioni a causa degli ampi margini di discrezionalità sussistenti.
Appare chiaro, dunque, come in questa libertà sconfinata sia smentito lo stesso assunto che aveva condotto il legislatore a introdurre la regola di valutazione negativa di cui all’art. 192, comma 3 c.p.p.[86] Si ammette che gli «altri elementi» che dovrebbero compensare l’intrinseca fragilità euristica del narrato, sostenendone l’attendibilità, siano strumenti che rimangono connotati dalla medesima debolezza[87], seppur la giurisprudenza individui i già richiamati requisiti applicativi ai fini dell’operatività del riscontro incrociato. Come è possibile che una dichiarazione che sconta lo stesso deficit originario di persuasività funga da riscontro? Tale ormai pacifico orientamento giurisprudenziale giunge, nei fatti, a sconfessare l’assunto matematico per cui l’addizione di zero a zero non possa mai condurre al valore unitario di uno.
Un ulteriore dubbio concerne l’ampiezza dell’elemento del riscontro se, cioè, quest’ultimo, una volta ritenuto sussistente, riguardi l’intera dichiarazione, oppure una singola circostanza. Di conseguenza, può essere valutato come prova il narrato solo nella parte riscontrata, oppure anche nella parte non corroborata riconoscendo, così, al riscontro un effetto avvalorante degli altri segmenti? Un orientamento ermeneutico consolidato[88] ha introdotto il concetto di un frazionamento valutativo delle propalazioni acquisite. Invero, una volta individuato un riscontro, si conferisce a quest’ultimo una forza espansiva che coinvolge l’intero narrato anche nelle parti non riscontrate. Un limite è stato individuato nell’ipotesi in cui sussista un rapporto di causalità inscindibile fra le parti del narrato[89] e nella necessità che sia fornita una spiegazione in merito alla parte della narrazione risultata smentita o non riscontrata, ad esempio, motivando in ragione della complessità dei fatti o del tempo trascorso, in modo che possa, comunque, formularsi un complessivo giudizio positivo[90]. Questo strumento, elaborato con la finalità di evitare che lacune o errori marginali pregiudichino l’intero dictum, rischia di piegarsi sotto il peso di un’estrema flessibilità che consente di frammentare arbitrariamente le dichiarazioni, ad esempio, individuando nuovamente in modo del tutto arbitrario, poiché privo di regole tassative, i casi in cui non vi sia un nesso inscindibile tra le parti del narrato. La dichiarazione, invero, per potere essere frazionabile «deve avere ad oggetto episodi storici autonomi e distinti, non intimamente correlati»[91], tuttavia, si rischia che tale limite labile conduca a separazioni chirurgiche e selettive di elementi in realtà tra loro strettamente correlati. Tale metodo realizza una chiara deviazione tanto rispetto alla scarna previsione codicistica, quanto al metodo a tre tempi accogliendo, così, parti di dichiarazioni non sostenute dai riscontri che, invece, dovrebbero essere imprescindibili. La logica del frazionamento, dunque, per essere pienamente coerente con le intenzioni iniziali dovrebbe essere ribaltata ammettendo, cioè, solo i segmenti riscontrati privando di forza contagiosa i riscontri.
Anche nel terzo stadio del metodo a tre tempi, dunque, si inseriscono fortemente le massime d’esperienza in quanto i riscontri definibili non autoevidenti, vale a dire elementi che non risultano immediatamente manifesti e inopinabili, necessitano di un intervento di analisi e discernimento inserendosi, dunque, nel processo logico inferenziale del giudice. L’ulteriore elemento a sostegno del narrato costituirà, cioè, un riscontro solo qualora il giudice all’esito del suo apprezzamento lo qualificherà come tale.
Si genera, così, nel vuoto normativo che connota l’art. 192, comma 3 c.p.p. finalizzato a disciplinare la formazione del convincimento del giudice, un’anafora del suo libero apprezzamento che ritorna, cioè, in più tempi nelle forme delle massime d’esperienza incapaci di assicurare correttezza e certezza razionale disvelando la loro inevitabile natura antiepistemica. La massima d’esperienza, anche più salda e diffusa, rimane pur sempre una massima d’esperienza che, costituendo una pseudo-regola filtrata dalla soggettività del giudice, non può assurgere a rango di criterio attendibile.
È possibile, in tal senso, auspicare un intervento del legislatore in termini di restrizione applicativa e definitoria della norma al fine di attenuare i «rischi di errore che l’uso incauto del senso comune e dell’esperienza implica»[92] e superare la debolezza[93] che connota le dichiarazioni del correo, abbandonando il clima confuso di “emergenza normativa” che aveva segnato la regolamentazione dell’istituto. L’inserimento di rigore tassativizzante, fino ad ora assente, permetterebbe, dunque, di superare le suddette applicazioni pratiche disomogenee e i rischi ad esse connesse. È necessario fornire una formalizzazione di cosa possa essere riscontro e cosa tale elemento possa riscontrare tramite l’apposizione di regole chiare e precise. Il legislatore dovrebbe, inoltre, stabilire i limiti e il funzionamento della valutazione frazionata, nonché se sia ammissibile il reciproco riscontro tra dichiarazioni della stessa natura. L’introduzione di una regolamentazione rigorosa risulterebbe conforme al principio, spesso ignorato, di legalità processuale[94] di cui all’art. 111, comma 1 Cost., nonché ai suoi corollari di tassatività e determinatezza. La disposizione, invero, «parla di giusto processo regolato dalla legge: vuol dire che distingue tra il momento della legalità e quello della giustizia (…) Quelle del processo sono regole che deve stabilire la legge, quella forma più alta di normazione che noi conosciamo»[95]. Tale principio è strettamente connesso a sua volta agli artt. 101, secondo comma Cost. e 1 c.p.p. Un riferimento alla legalità processuale è, inoltre, rinvenibile nell’art. 117, lett. l) Cost., norma ricognitiva delle materie rimesse alla legislazione esclusiva dello Stato. La piena attuazione del principio di legalità processuale, riconosciuto anche dalla Corte EDU[96], dunque, costituirebbe un importante argine allo straripamento dell’elaborazione giurisprudenziale che, nel contesto delle dichiarazioni dei correi, ha realizzato, seppur con intento «riempitivo»[97], una sostanziale deviazione, poco rigorosa e confusa, rispetto alla volontà del legislatore finalizzata a introdurre un valido contrappeso all’assenza di fidesderivante dalla stessa natura dei dichiaranti. Un siffatto intervento non pregiudicherebbe quell’ineliminabile dimensione umana e discrezionale che connota ogni attività interpretativa, bensì porrebbe un recinto entro il quale essa debba muoversi abbandonando, così, regole apparenti e conseguentemente facilmente sovvertibili. La riaffermazione della legalità processuale non condurrebbe, dunque, alla negazione del libero convincimento del giudice, ma a un suo corretto orientamento eliminando zone grige e indeterminate che risultano essere il terreno fertile per elaborazioni creative che conducono al progressivo spostamento del baricentro del potere normativo dall’organo legislativo all’ordine giudiziario[98].
[1] Baudi, Riflessioni sulla valutazione di credibilità dichiarativa, in Dir. pen. proc., 2003, 9, 1155 specifica che «valutare significa esprimere un giudizio attributivo di valore, nella specie consistente nella inferenza di realtà dei significati probatori da utilizzare come verifica della fondatezza dell’enunciato fattuale imputativo».
[2] Ubertis, Fatto e valore nel sistema probatorio penale, Milano, 1979, p. 120.
[3] In questo senso, Canzio, La valutazione della prova scientifica fra verità processuale e ragionevole dubbio, in Arch. pen., 2011, 3, 3.
[4] Sul tema fra tutti, Amodio, Libero convincimento e tassatività dei mezzi di prova: un approccio comparativo, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, 1, 3 ss.; Betocchi, Libero convincimento, prova, indizio: verifica giurisprudenziale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1978, 2, 709 ss.; Della Monica, La parabola del principio del libero convincimento, in Aa. Vv., La prova penale, diretto da Gaito, vol. III, La valutazione della prova, Torino, 2008, 271 ss.; Dosi, Sul principio del libero convincimento del giudice nel processo penale, Milano, 1957; Giuliani, Il problema del libero convincimento del giudice. Riflessioni storiche e metodologiche, in Raccolta di scritti in memoria di Agostino Curti Giardino, II, Napoli, 1990; Marotta, La sentenza penale, Torino, 1997, 21 ss.; Monteleone, Alle origini del principio del libero convincimento del giudice, in Riv. dir. proc., 2008, 1, 123 ss.; Nappi, Libero convincimento, regole di esclusione, regole di assunzione, in Cass. pen., 1991, 8-9, 1515 ss.; Nobili, Il principio del libero convincimento del giudice, Milano, 1974; Nobili, Storie d’una illustre formula: il “libero convincimento” negli ultimi trent’anni, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, 71 ss.; Pansini, Le prove deboli nel processo penale italiano, 2 ed., Torino, 2018, 1 ss.; Taruffo, voce Libero convincimento del giudice (dir. proc. civ.), in Enc. giur. Treccani, XVIII, Roma, 1990, 1 ss. V. anche, Cass. Sez. Un., 29 novembre 2012, n. 20804 punto 5 del Considerato in diritto.
[5] In argomento, Amodio, voce Motivazione della sentenza penale, in Enc. Dir., XXVII, Milano, 1977, 181 ss.; Iacoviello, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in cassazione, Milano, 1997, 65, il quale afferma: «libero convincimento e motivazione vanno visti in un’interazione reciproca. Altrimenti il libero convincimento diviene un’entità indecifrabile e la motivazione un orpello inutile».
[6] Nella Relazione al Progetto preliminare del codice di procedura penale, 1988, si legge: «la libertà di apprezzamento della prova trov[a] un limite in principi razionali che devono trovar risalto nella motivazione». Sul punto, Capone, La motivazione della sentenza, in Giuliani – Orlandi (a cura di) Indagini preliminari e giudizio di primo grado. Commento alla legge 14 giugno 2017, n. 103, Torino, 2018, 297 ss.; Di Paolo, L’art. 546 comma 1 lett. e: verso un nuovo modello normativo di motivazione in fatto della sentenza penale? in Baccari – Bonzano – La Regina – Mancuso (a cura di), Le recenti riforme in materia penale. Dai decreti di depenalizzazione (d.lgs. n. 7 e n. 8/2016) alla legge “Orlando” (l. n. 103/2017) e relativi decreti attuativi (3 ottobre 2017), Milano, 2017, 241 ss.; Iacoviello, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in cassazione, cit.; Marotta, La sentenza penale, cit., 37 ss.; Menna, La motivazione del giudizio penale, Napoli, 2000.
[7] Così, Nobili, Il principio del libero convincimento del giudice, cit., 100.
[8] Sul punto v., fra le numerose, Cass. Sez. IV, 7 luglio 2021, n. 36149, in cui si legge: «valutazione discrezionale – si è detto – che non è sinonimo, però, di valutazione capricciosa. Occorre, infatti, tenere conto che la S.C. ha in più occasioni evidenziato che prudente apprezzamento e libero convincimento del giudice non equivalgono certo ad arbitrium merum».
[9] Cfr. Amodio, Dalla intime conviction alla legalità della prova, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, 1, 32, il quale afferma: «forse la norma più emblematica del distacco dalla cultura formatasi in oltre un secolo di prassi permeata da una gnoseologia giudiziaria affrancata da ogni limite logico e normativo, è quella racchiusa nell’art. 526 c.p.p.: “il giudice non può utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento”. Questa norma segna il rigetto della verità materiale e dell’intimo convincimento come assi portanti dell’accertamento del fatto». Barrocu, Chiamata in correità de relato: il libero convincimento del giudice come “cavallo di troia” per il recupero del sapere investigativo, Dir. pen. proc., 2013, 12, 1437 ss.; Daniele, Le regole di valutazione della prova nei principali sistemi penali europei, in Riv. dir. proc., 2008, 6, 1535 ss.; Ruggieri, La circolazione di “Libero convincimento e giuria” all’epoca del primo codice unitario: gli equivoci di un trapianto sbagliato, in Criminalia, 2012, 229 ss.; Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Roma, 2009, 160 ss.; Ubertis, voce Prova (in generale), in Dig. disc. pen., vol. X, Torino, 1995, 333 ss.
[10] Si v., Nappi, Libero convincimento, regole di esclusione, regole di assunzione, cit., 1515 ss.; Ubertis, Il giudice, la scienza e la prova, in Cass. pen., 2011, 11, 4115.
[11] Cfr. Ferrajoli, Diritto e ragione: teoria del garantismo penale, 7 ed., Bari, 2002, 115 ss.
[12] Nobili, Il principio del libero convincimento del giudice, cit., 113. Sul punto, v. Sanna, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato nei procedimenti connessi. Alla luce del giusto processo, in Trattato di procedura penale, VII.2,diretto da Ubertis – Voena, Milano, 2000, 259 ss.; Cass. Sez.VI, 14 ottobre 2022, n. 1599, in cui si legge: «sia il legislatore del 1930, sia il legislatore repubblicano hanno dedicato scarsissima attenzione alla definizione del valore processuale delle singole fonti di prova, rifiutando il sistema della prova legale a favore di un sistema fondato sul c.d. libero convincimento del giudice, principio che ha trovato esplicita formulazione negli artt. 192, comma 1, 189 e 193 c.p.p.».
[13] Si v., Cecchi, sub art. 192 c.p.p., in Giarda – Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, Tomo I, Milano, 2023, 2657 ss.
[14] Il quarto comma estende, poi, le previsioni del comma precedente «anche alle dichiarazioni rese da persona imputata di un reato collegato a quello per cui si procede, nel caso previsto dall’articolo 371 comma 2 lettera b)». L’art. 192, comma 3, c.p.p. è richiamato dall’art. 197-bis, comma 6, c.p.p., dall’art. 238-bis c.p.p., nonché in ambito cautelare dall’art. 273, comma 1-bis c.p.p.
[15] Daniele, Regole di esclusione e regole di valutazione della prova, Torino, 2009, p. 119. In argomento v., Dinacci, L’inutilizzabilità nel processo penale: struttura e funzione del vizio, Milano, 2008, 25 ss.; Dinacci, Regole di giudizio (Dir. proc. pen.), in Arch. pen., 2013, 3, 5 ss.
[16] Per una ricostruzione sul dibattito dottrinale e giurisprudenziale sulla natura del sapere del correo, Deganello, I criteri di valutazione della prova penale. Scenari di diritto giurisprudenziale, Torino, 2005, 131 ss.
[17] Sulla chiamata in correità, ex plurimis, Barone, Il riscontro della chiamata di correo: un’analisi giurisprudenziale, in Cass. pen., 1986, p. 1043 ss.; Barrocu., Chiamata in correità de relato: il libero convincimento del giudice come “cavallo di troia” per il recupero del sapere investigativo, cit., 1437 ss.; Bevere, La chiamata di correo. Itinerario del sapere dell’imputato nel processo penale, Milano, 2001; Buzzelli, Il contributo dell’imputato alla ricostruzione del fatto, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, 885 ss.; Casiraghi, La chiamata di correo: riflessioni in merito alla mutual corroboration, in Dir. pen. cont., 2012, 11, 1 ss.; Cecchi, sub art. 192 c.p.p., cit., 2692 ss.; De Cataldo Neuburger (a cura di), Chiamata in correità e psicologia del pentitismo nel nuovo processo penale, Padova, 1992; Dell’Anna, L’esame del coimputato in reato connesso e la chiamata di correo, in Gaito (a cura di), La prova penale, II, Le dinamiche probatorie e gli strumenti per l’accertamento giudiziale, Torino, 2008, 557 ss.; Di Chiara, Chiamata di correo, garantismo collettivo e diritto di difesa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, 217 ss.; Di Martino -Procaccianti, La chiamata di correo, Padova, 2007; Fiandaca, La chiamata di correo fra tradizione, emergenza e nuovo garantismo, in Foro it., 1986, II, 530 ss.; Maggio, Corsi e ricorsi storici della prova penale: la chiamata di correo, in Cass. pen.,1998, 3480 ss.; Melchionda, La chiamata di correo, in Riv. it. dir. proc. pen., 1967, 148 ss.; Pansini, Le prove deboli nel processo penale italiano, cit., 31 ss.; Tranchina, I canoni di valutazione probatoria della chiamata in correità, in Dir. pen. proc., 1995, 644 ss.; Verrina, Valutazione probatoria e chiamata di correo, Torino, 2000.
[18] Così, Melchionda, La chiamata di correo, cit., 148.
[19] Cfr. De Felice, Inquadramento strutturale e rilievi introduttivi della chiamata di correo, in Arch. pen., 2014, 1 ss.; Ruggiero, L’attendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia nella chiamata in correità, Torino, 2012, 1 ss.; v., inoltre, la Relazione al Progetto preliminare del codice di procedura penale, 1988, in cui si legge: «è ben noto il dibattito che attorno a questo tema si è sviluppato negli ultimi anni tra operatori e studiosi del processo che hanno insistito sulla necessità di circondare di maggiori cautele il ricorso ad una prova, come quella proveniente da chi è coinvolto negli stessi fatti addebitati all’imputato o ha comunque legami con lui, alla luce della sua attitudine ad ingenerare un erroneo convincimento giudiziale».
[20] Sul punto, Foschini, Sistema del diritto processuale penale, I, Milano, 1965, 384 ss.; Melchionda, La chiamata di correo, cit., 169 ss.
[21] Cfr. De Felice, Inquadramento strutturale e rilievi introduttivi della chiamata di correo, cit., 3 ss.
[22] Fassone, La valutazione delle dichiarazioni del coimputato, in Cass. pen., 1986, 1895 ss.; Ruggiero, L’attendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia nella chiamata in correità, cit., 1, afferma che l’istituto presenta un «carattere ibrido».
[23] Sul punto, Grevi, Le “dichiarazioni rese dal coimputato” nel nuovo codice di procedura penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, 4, 1151; Ruggiero, L’attendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia nella chiamata in correità, cit., 53 ss.
[24] Ubertis, voce Prova (in generale), cit., 296 ss.
[25] Così, De Felice, Inquadramento strutturale e rilievi introduttivi della chiamata di correo, cit., 4. In tema di persistenti incertezze v., Deganello, Le dichiarazioni accusatorie del coimputato: ancora incertezze giurisprudenziali nonostante la riforma, in Leg. pen., 1991, 649 ss.
[26] Sul tema, Barbera, La valutazione probatoria della chiamata in correità in sede cautelare: variazioni giurisprudenziali sul tema del riscontro “individualizzante”, in Giur. it., 1999, 5, 1053 ss.; Fontani, Chiamata in correità o in reità: le regole probatorie di valutazione fissate dalla Cassazione, in Dir. pen. proc., 2020, 2, 241 ss.; Iacoviello, La tela del ragno: ovvero la chiamata di correo nel giudizio di cassazione, in Cass. pen., 2004, 10, 3452 ss.; Rafaraci, Chiamata in correità, riscontri e controllo della Suprema Corte nel caso Sofri, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, 2, 670 ss.
[27] Iacoviello, La cassazione penale. Fatto, diritto e motivazione, Milano, 2023, 556.
[28] La collaborazione è, invero, incentivata dalla cd. legislazione premiale. In tema, Bricola, Funzione promozionale, tecnica premiale e diritto penale, in Aa. Vv., Diritto premiale e sistema penale, Milano, 1983, 123 ss.; Mazza, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato nel suo procedimento, in Trattato di procedura penale, VII.1,diretto da Ubertis – Voena Milano, 2004, 359 ss.; Padovani, La soave inquisizione. Osservazioni e rilievi a proposito delle nuove ipotesi di ravvedimento, in Riv. it. dir. proc. pen., 1981, 2, p. 529 ss.; Ruggiero, L’attendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia nella chiamata in correità, cit., p. 16 ss. In senso critico, icasticamente, Manzoni, Storia della colonna infame, Milano, 2014, 1186: «(…) c’era in questo caso una circostanza che rendeva l’accusa radicalmente e insanabilmente nulla: l’essere stata fatta in conseguenza d’una promessa d’impunità».
[29] Sul punto, Mazza, La testimonianza dell’imputato assolto fra verità processuale e autodifesa dell’onore, in Giur. Cost., 2017, 1, 153.
[30] In argomento, Bargis, voce Testimonianza, in Enc. dir., Annali, II, 1, Milano, 2008, p. 1097 ss.; De Cataldo Neuburger, Psicologia della testimonianza e prova testimoniale, Milano, 1988; Franceschini, La valutazione della prova testimoniale: alla ricerca di un prontuario, tra presunzione di attendibilità e presunzione di diffidenza, in Leg. pen., 2024, 1 ss.; Musatti., Elementi di psicologia della testimonianza, Milano, 1991; Triggiani, Testimonianza, in Ferrua –Marzaduri – Spangher (a cura di), La prova penale, Torino, 2013, 149 ss. Si ricordi che la non necessarietà dei riscontri anche a sostegno della persona offesa da reato è stata sancita più volte dalla giurisprudenza. In tal senso, Cass. Sez. Un., 19 luglio 2012, n. 41461, «le dichiarazioni della persona offesa – cui non si applicano le regole dettate dall’art. 192, comma 3 c.p.p., – possono da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, le quali, specie nei casi in cui la persona offesa sia anche costituita quale parte civile, devono essere valutate in maniera più penetrante e rigorosa rispetto al vaglio cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone».
[31] Iacoviello, La tela del ragno: ovvero la chiamata di correo nel giudizio di cassazione, cit., 3452.
[32] In tal senso, Maggio, Prova e valutazione dei comportamenti mafiosi i risvolti processuali, in Fiandaca – Visconti (a cura di), Scenari attuali di mafia, Torino, 2010, 507.
[33] Tale limitazione normativa del libero convincimento del giudice non è stata, tuttavia, esente da critiche da parte della dottrina. Cfr. Cordero, Codice di procedura penale commentato, Torino, 1992, 234 ss.; Ferrua, Un giardino proibito per il legislatore: la valutazione delle prove, in Quest. giust., 1998, 3, 587 ss.
[34] Si v., Iacoviello, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in cassazione, cit., 174.
[35] Cfr. Casiraghi, La chiamata di correo: riflessioni in merito alla mutual corroboration, cit., 1 ss.; Grevi, Le “dichiarazioni rese dal coimputato” nel nuovo codice di procedura penale, cit., 1175 ss.
[36] Grevi, Le dichiarazioni rese dal coimputato nel nuovo codice di procedura penale, cit., 1180.
[37] Daniele, Le regole di valutazione della prova nei principali sistemi penali europei, cit., 134.
[38] Deganello, Le dichiarazioni accusatorie del coimputato: ancora incertezze giurisprudenziali nonostante la riforma, cit., 227.
[39] Cass. Sez. Un, 21 ottobre 1992, n. 1653. In argomento, Iacoviello, La cassazione penale. Fatto, diritto e motivazione, cit., 560 ss.; Pansini, Le prove deboli nel processo penale italiano, cit., 41 ss.
[40] Così, Cass. Sez. VI, 3. dicembre 2021 n. 6599. Sul tema, fra le molte v., Cass. Sez. VI, 11 luglio 2018, n. 45733; Cass. Sez. II, 22 febbraio 2022, n. 11016. Si ricordi, poi, che al suddetto metodo a tre tempi si è affiancato quello a due tempi elaborato dalla sent. Cass. Sez. Un., 24 novembre 2003, n. 45267 in cui il primo momento consiste nella valutazione dell’attendibilità intrinseca della chiamata, il secondo nella valutazione degli elementi di riscontro di cui all’art. 192, comma 2 c.p.p. In tema, Fontani, Chiamata in correità o reità: le regole probatorie di valutazione fissate dalla Cassazione, in Dir. pen. proc., 2020, 2, 241 ss.; Gabrielli, In tema di iter valutativo della chiamata in correità, in Giur. it, 2007, 12, 2825 ss.; Ubertis, La prova penale. Profili giuridici ed epistemologici, Torino, 1995, 95 ss.
[41] Per un approfondimento sui concetti di attendibilità e credibilità v., Baudi, Riflessioni sulla valutazione di credibilità dichiarativa, cit.,1155 ss.; Tribisonna, Sull’attendibilità del pentito quale logico presupposto di una valida chiamata in correità, in Proc. pen. giust., 2015, 3, 88 ss.
[42] Così, Cass. Sez. Un, 21 ottobre 1992, n. 1653, cit.
[43] Così, Cass. Sez. Un, 21 ottobre 1992, n. 1653, cit. Sul punto, v. anche Cass. Sez. I, 23 gennaio 2024, n. 22499.
[44] Cfr. Cass. Sez. IV, 15 aprile 1994, n. 1123; Cass. Sez. VI, 3 ottobre 2012, n. 43526; Cass. Sez. VI, 30 ottobre 2013, n. 46483; Cass Sez. III, 25 giugno 2024, n. 46734.
[45] Sul punto, De Cataldo Neuburger, Chiamata in correità e psicologia del pentitismo nel nuovo processo penale, cit., 187, «la spinta di situazioni contingenti e la necessità di estendere oltre i limiti di sicurezza l’impiego di uno strumento sospetto quale la chiamata in correità hanno portato il legislatore ad adottare una normativa pericolosamente “aperta”, che dottrina e giurisprudenza hanno ulteriormente allargato».
[46] Cfr. Deganello, I criteri di valutazione della prova penale. Scenari di diritto giurisprudenziale, cit., 172 ss.; Iacoviello, La cassazione penale. Fatto, diritto e motivazione, cit., 561 ss.; Maggio, Sul valore probatorio della chiamata in correità, in Il Foro italiano, 1996, II, 307 ss.; Tuzet, La prova ragionata, Milano, 2023, 176 ss.
[47] È, invero, possibile rinvenire pronunce che sovvertono completamente la logica tradizionale, trasformando le discordanze da elemento negativo a possibile indice di genuinità, smentendo il requisito della coerenza interna. Cfr. Cass. Sez. I, 20 ottobre 2023, n. 3777, in cui si legge: «le discordanze tra alcuni segmenti della narrazione vengono ritenute da un lato indicative di genuinità della collaborazione di ciascuno (perché dimostrative della assenza di accordi fraudolenti), dall’altro il “portato ineliminabile” del decorso del tempo tra “accadimento storico” e “narrazione”, in alcuni casi superiore al decennio».
[48] In argomento, v. Calamandrei, Massime di esperienza in Cassazione. Rigetto del ricorso a favore del ricorrente, in Riv. dir. proc. civ., 1927, II, 126 ss.; Canzio, Le massime di esperienza e il ragionamento probatorio, in Discrimen, 2019, 1 ss.; Carnelutti, La prova civile, Roma, 1947; Carnelutti, Massime di esperienza e fatti notori (nota a Cass., 1° aprile 1958), in Riv. dir. proc., 1959, 639 ss.; Cordopatri. Inferenza probatoria e massime di esperienza, prova, presunzione, indizio, in Giur. mer., 1999, 3, 632 ss.; Dinacci, Regole di giudizio (Dir. proc. pen.), cit., 644 ss.; Fassone, La valutazione della prova nei processi di mafia, in Questione Giustizia, 2002, 3, 620 ss.; Iacoviello, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in cassazione, cit., 183 ss.; Leone, Contributo allo studio delle massime d’esperienza e dei fatti notori, in Annali dell’Università di Bari, Bari, 1954; Lombardo, La prova giudiziale. Contributo alla teoria del giudizio di fatto nel processo, Milano, 1999, 420 ss.; Mannarino, Le massime d’esperienza nel giudizio penale e il loro controllo in Cassazione, Padova, 1993; Massa, Contributo all’analisi del giudizio penale di primo grado, Milano, 1976, 101 ss.; Mazza, Il ragionevole dubbio nella teoria della decisione, in Criminalia, 2012, 357 ss.; Morisco -Saponaro, voce Regole di giudizio e massime di esperienza, in Dig. disc. pen., Agg. III, Torino, 2008, 1326 ss.; Nobili, Nuove problematiche sulle c.d. «massime d’esperienza», in Riv. it. dir. e proc. pen., 1969, 123 ss.; Palavera, Scienza e senso comune nel diritto penale. Il ricorso problematico a massime di esperienza circa la ricostruzione della fattispecie tipica, Pisa, 2017; Taruffo, Studi sulla rilevanza della prova, Padova, 1970; Taruffo, Considerazioni sulle massime d’esperienza, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2009, 2, 551 ss.; Ubertis, La prova penale. Profili giuridici ed epistemologici, cit., 29 ss.; Ubertis, Il processo indiziario e valutazione probatoria, in Diritto&questioni pubbliche, 2020, 1, 315 ss. In giurisprudenza v., Cass. Sez. II, 16 settembre 2003, n. 39985; Cass. Sez. VI, 9 ottobre 2012, n. 1775; Cass. Sez. II, 6 dicembre 2013, n. 51818; Cass. Sez. VI, 28 maggio 2014. n. 36430; Cass. Sez. I, 4 dicembre 2020, n. 16523; Cass. Sez. IV, 20 maggio 2021, n. 36524; Cass. civ. Sez. I, 28 febbraio 2023, n. 6075.
[49] Stein, Das private Wissen des Richters. Unterschungen zum Beweisrecht beider Prozesse, Leipzig, 1893, 16 ss. In argomento, Taruffo, Senso comune, esperienza e scienza nel ragionamento del giudice, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2001, 3, 682
[50] Su tale nozione, Taruffo, Considerazioni sulle massime d’esperienza, cit., 554 ss.
[51] Così, Taruffo, op. cit., 552.
[52] Deganello, I criteri di valutazione della prova penale. Scenari di diritto giurisprudenziale, cit., 177.
[53] Così, Cass. Sez. IV, 14 gennaio 2014, n. 18448.
[54] Cfr. Dominioni, La valutazione delle dichiarazioni dei pentiti, in Riv. dir. proc., 1986, 755, sottolinea che in siffatte dichiarazioni «alla generale affidabilità si sostituisc[e] la generale diffidenza, così da essere portati a ritenere che la dichiarazione probatoria del chiamante in correità riesce verificata nella sua veridicità in quanto risulti corrispondere a determinati requisiti».
[55] Cfr. Cass. Sez. VI, 2 gennaio 2004, n. 17248.
[56] Fassone, La valutazione della prova nei processi di mafia, cit., 624.
[57] Tra le molte, v. Cass. Sez. VI, 13 marzo 2007, n. 11599; Cass. Sez. Un., 29 novembre 2012, n. 20804, cit.; Cass. Sez. I, 2 dicembre 2016, n. 13844; Cass. Sez. IV, 18 giugno 2019, n. 34413; Cass. Sez. V, 12 luglio 2023, n. 41723 che afferma che la valutazione della credibilità soggettiva del dichiarante e quella della attendibilità oggettiva delle sue dichiarazioni non «possono procedere secondo compartimenti stagni»;Cass. Sez. I, 15 marzo 2024, n. 17799; Cass. Sez. I, 23 ottobre 2024, n. 753.
[58] Così, Iacoviello, La cassazione penale. Fatto, diritto e motivazione, cit., 562.
[59] Così, Cass. Sez. I, 18 aprile 2023, n. 33436.
[60] In senso favorevole alla scarsa rilevanza dell’indagine personologica del dichiarante, Rafaraci, Chiamata in correità, riscontri e controllo della Suprema Corte nel caso Sofri, cit., 679.
[61] In questo senso, v. anche Fassone, La valutazione della prova nei processi di mafia, cit.,626; Franceschini, La valutazione della prova testimoniale: alla ricerca di un prontuario, tra presunzione di attendibilità e presunzione di diffidenza, cit., 55 ss.; Franceschini, Banche dati di merito: circolarità evolutiva o conformismo giudiziario?, in Arch. pen., 2024, 1, 46 ss., Iacoviello, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in Cassazione, cit., 183 ss.; Nobili, Nuove problematiche sulle c.d. «massime d’esperienza», cit., 184.
[62] Numerosi sono gli apporti che gli studi psicologici possono fornire all’attività inferenziale del giudice, Altavilla, Psicologia giudiziaria, Torino, 1948; Aversa, La psicologia della testimonianza nel processo, in Salvis Juribus, 22 aprile 2022; De Cataldo Neuburger (a cura di), Psicologia e processo: lo scenario di nuovi equilibri, Padova 1989; Forza, La psicologia nel processo penale, 2ª ed., Milano, 2018; Gulotta (a cura di), Trattato di psicologia giudiziaria nel sistema penale, Milano, 1987.
[63] Sul tema, Sartori, La memoria del testimone: dati scientifici utili a magistrati, avvocati e consulenti, Milano, 2021; Selaya – Otgaar – Vilarino, Recommendations for the forensic evaluation of the testimony in cases of false memories, in Accion Psicologica, 2023, 20, 2, 19 ss.
[64] Tale distinzione trae origine dal pensiero di San Tommaso ed è stata ripresa De Cataldo Neuburger, Psicologia della testimonianza e prova testimoniale, cit., 40.
[65] Una definizione è rinvenibile in dottrina, v. Ubertis, La prova penale. Profili giuridici ed epistemologici, cit., 27 «l’elemento di prova, rappresentato da ciò che, introdotto nel procedimento, può essere utilizzato dal giudice come fondamento della sua successiva attività inferenziale».
[66] Cfr. Cass. Sez. II, 11 luglio 2019, n. 35923, in cui si legge: «in tema di chiamata in correità, i riscontri dei quali necessita la narrazione possono essere costituiti da qualsiasi elemento o dato probatorio, sia rappresentativo che logico, a condizione che sia indipendente e, quindi, anche da altre chiamate in correità, purché la conoscenza del fatto da provare sia autonoma e non appresa dalla fonte che occorre riscontrare, ed a condizione che abbia valenza individualizzante, dovendo cioè riguardare non soltanto il fatto-reato, ma anche la riferibilità dello stesso all’imputato, mentre non è richiesto che i riscontri abbiano lo spessore di una prova “autosufficiente” perché, in caso contrario, la chiamata non avrebbe alcun rilievo, in quanto la prova si fonderebbe su tali elementi esterni e non sulla chiamata di correità». Sul punto v. anche, Cass. Sez. III, 18 luglio 2014, n. 44882; Cass. Sez. VI, 15 settembre, n. 49320; Cass. Sez. I, 31 gennaio 2015, n. 6251
[67] Così, Iacoviello, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in cassazione, cit., 175.
[68] Così, Iacoviello, op. cit., 176.
[69] Cfr. Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, cit., 162 ss.
Ad esempio, la testimonianza del chierico deroga a quella del laico imponendo al giudice un conseguente risultato probatorio negandogli, così, qualsiasi la possibilità di esprimere un convincimento differente.
[70] Tra le pronunce più recenti in tal senso v., Cass. Sez. I, 18 ottobre 2017, n. 12289; Cass. Sez. I, 18 aprile 2023, n. 33436, cit.; Cass. Sez. V, 20 marzo 2024, n. 18817 in cui si legge un principio ormai consolidato a partire dalla sentenza Cass. Sez. Un., 29 novembre 2012, n. 20804, cit., «eventuali riserve del giudizio di attendibilità intrinseca del narrato di un chiamante in correità possono essere superate con il compiuto e positivo vaglio della sua portata probatoria alla luce di tutti gli altri elementi di informazione legittimamente acquisiti ivi inclusa, evidentemente, la solidità dei riscontri esterni». Contra, Cass. Sez. II, 7 maggio 2013, n. 21171; Cass. Sez. I, 27 aprile 2017, n. 18018 in cui si legge: «non è, dunque, giuridicamente consentito sanare o supplire le carenze strutturali del giudizio di affidabilità soggettiva e intrinseca della propalazione accusatoria mediante la valorizzazione degli (eventuali) elementi di riscontro estrinseco della stessa, i quali possono – e debbono – essere apprezzati nella loro capacità di concorrere a confermarne ab externo i contenuti dichiarativi soltanto dopo l’autonomo superamento, con esito positivo, del vaglio di credibilità soggettiva della fonte e di attendibilità intrinseca delle sue dichiarazioni».
[71] Rafaraci, Chiamata in correità, riscontri e controllo della Suprema Corte nel caso Sofri, cit., 679.
[72] Così, Cass. Sez. I, 21 novembre 2019, n. 10263.
[73] In argomento, Deganello, I criteri di valutazione della prova penale. Scenari di diritto giurisprudenziale, cit., 178 ss.; Grevi, Le dichiarazioni rese dal coimputato nel nuovo codice di procedura penale, cit., 1176 ss.
[74] Ex plurimis, Cass. Sez. Un., 3 febbraio 1990, 2477; Cass. Sez. Un., 6 dicembre 1991.
[75] Cfr. Deganello, Le dichiarazioni accusatorie del coimputato: ancora incertezze giurisprudenziali nonostante la riforma, cit., 650; Grevi, Le dichiarazioni rese dal coimputato nel nuovo codice di procedura penale, cit., 1174.; Sanna, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato nei procedimenti connessi. Alla luce del giusto processo, cit., 279 ss.
[76] Così, Cass. Sez. V, 21 maggio 2024, n. 33200.
[77] In questo senso fra le molte, v. Cass. Sez. III, 10 dicembre 2009, n. 3255; Cass. Sez. VI, 11 luglio 2018, n. 45733, cit.;Cass. Sez. I, 28 maggio 2024, n. 35257.
[78] Cfr. Cass. Sez. Un., 29 novembre 2012, n. 20804, cit.; Cass. Sez. III, 18 luglio 2014, n. 44882, cit.; Cass. Sez. I, 15 novembre 2024, n. 4541.
[79] Cfr. Bevere, La chiamata di correo. Itinerario del sapere dell’imputato nel processo penale, cit., 143; Casiraghi, La chiamata di correo: riflessioni in merito alla mutual corroboration, cit., 3; Deganello, I criteri di valutazione della prova penale. Scenari di diritto giurisprudenziale, cit., 180; Sanna, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato nei procedimenti connessi. Alla luce del giusto processo, cit., 279 ss.
[80] Sul punto, Ubertis, La prova penale. Profili giuridici ed epistemologici, cit., 25 ss. In giurisprudenza v. Cass. Sez. I, 25 settembre 2024, n. 1300.
[81] Un indirizzo giurisprudenziale consolidato ammette che i riscontri siano costituiti da altre chiamate in correità, ex plurimis, Cass. Sez. II, 30 aprile 1999, n. 213845; Cass. Sez. II, 17 dicembre 1999, n. 3616; Cass. Sez. VI, 10 ottobre 2013, n. 4126, Cass. Sez. I, 22 febbraio 2024, n. 26200; Cass. Sez. VI, 23 ottobre 2024, n. 47038; Cass. Sez. I, 27 novembre 2024, n. 1938.
[82] In argomento, Casiraghi, La chiamata di correo: riflessioni in merito alla mutual corroboration, cit., 8 ss.; Cassibba, Acquisizione e criteri di valutazione del riscontro incrociato fra chiamate di correo alla luce dell’art. 111, comma 4, Cost., in Riv. it. dir. proc pen., 2002, 729; Fassone, La valutazione delle dichiarazioni del coimputato, cit., 1900; Grevi, Le dichiarazioni rese dal coimputato nel nuovo codice di procedura penale, cit., 1179; Iacoviello, La cassazione penale. Fatto, diritto e motivazione, cit.,566; Sanna, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato nei procedimenti connessi. Alla luce del giusto processo, cit., 282 ss.
[83] «Si osserva che la chiamata in correità o in reità “de relato”, anche se non asseverata dalla fonte diretta, il cui esame risulti impossibile, può avere come unico riscontro, ai fini della prova della responsabilità penale dell’accusato, altra o altre chiamate di analogo tenore, purché siano rispettate le seguenti condizioni: a) risulti positivamente effettuata la valutazione della credibilità soggettiva di ciascun dichiarante e dell’attendibilità intrinseca di ogni singola dichiarazione, in base ai criteri della specificità, della coerenza, della costanza, della spontaneità; b) siano accertati i rapporti personali fra il dichiarante e la fonte diretta, per inferirne dati sintomatici della corrispondenza al vero di quanto dalla seconda confidato al primo; c) vi sia la convergenza delle varie chiamate, che devono riscontrarsi reciprocamente in maniera individualizzante, in relazione a circostanze rilevanti del “thema probandum”; d) vi sia l’indipendenza delle chiamate, nel senso che non devono rivelarsi frutto di eventuali intese fraudolente; e) sussista l’autonomia genetica delle chiamate, vale a dire la loro derivazione da fonti di informazione diverse», così Cass. Sez. Un., 29 novembre 2012, n. 20804, cit. Sul punto, v. anche Cass. Sez. II, 4 marzo 2008, n. 13473, Cass. Sez. VI, 8 ottobre 2019, n. 47108.
[84] Così, Cass. Sez. II, 5 maggio 2023, n. 33314.
[85] Cfr. Cass. Sez. I, 17 dicembre 2014, n. 14825, il ricorrente contestava essenzialmente la valutazione dell’autonomia delle due fonti. La Corte di cassazione, nel rigettare il ricorso, afferma che «in realtà i due dichiaranti riversano nel loro contributo narrativo conoscenze sostanzialmente autonome, fermo restando che sono in parte mutuate dal medesimo contesto di riferimento associativo».
[86] Cfr. Cass. Sez. VI, 20 dicembre 2011, n. 16939, «se l’ordinamento processuale ha imposto particolari e rigorose regole di giudizio (art. 192 cod. proc. pen., commi 3 e 4) per la chiamata in reità o correità “diretta”, ossia per le dichiarazioni di cui il coimputato o l’imputato di reato connesso afferma la diretta conoscenza (assumendone la relativa responsabilità), deve escludersi che, in mancanza di altri elementi di riscontro aventi le caratteristiche sopra indicate, due o più chiamate de relato possano reciprocamente ritenersi riscontrate, così da essere poste a base del giudizio di responsabilità penale».
[87] Cfr. Deganello, I criteri di valutazione della prova penale. Scenari di diritto giurisprudenziale, cit., 234; Sammarco, La chiamata di correo. Profili storici e spunti interpretativi, Padova, 1990, 85.
[88] Ex plurimis, Cass. Sez. VI, 2 novembre 1994, n. 4162, ha affermato il seguente principio di diritto: «in tema di chiamata in correità è sempre ammissibile la cosiddetta “frazionabilità”, nel senso che la attendibilità della dichiarazione accusatoria anche se denegata per una parte del racconto, non ne coinvolge necessariamente tutte le altre che reggano alla verifica giudiziale del riscontro; così come, per altro verso, la credibilità ammessa per una parte dell’accusa non può significare attendibilità per l’intera narrazione in modo automatico». In senso conforme, v. Cass. Sez. I, 21 aprile 1997, n. 4495; Cass. Sez. VI, 2 febbraio 2004, n. 17248 cit.; Cass. Sez. VI, 18 dicembre 2009, n. 6425; Cass. Sez. I, 20 giugno 2017, n. 41585; Cass. Sez. I, 15 marzo 2024, n. 17799 cit.
[89] In tal senso, Cass. Sez. VI, 18 luglio 2013, n. 35327; Cass. Sez. V, 10 ottobre 2015, n. 46471; Cass. Sez. I, 22 ottobre 2024, n. 44287.
[90] Cfr. Cass. Sez. VI, 3 aprile 2017, n. 25266; Cass. Sez. V, 5 novembre 2024, n. 2436.
[91] Così, Cass. Sez. I, 22 ottobre 2024, n. 44287, cit.
[92] Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, cit., 212.
[93] Cfr., Pansini, Le prove deboli nel processo penale italiano, cit., 31 ss.
[94] Cfr. Amodio, Crisi della legalità processuale, filosofia della rassegnazione e autorevolezza dei giuristi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, 432 ss.; Lorusso, Interpretazione, legalità processuale e convincimento del giudice, in Dir. pen. cont., 2015, 1 ss.;Mazza, Il crepuscolo della legalità processuale al tempo del giusto processo, in Criminalia, 2016, 11, 329 ss.; Negri, Splendori e miserie della legalità processuale. Genealogie culturali, èthos delle fonti, dialettica tra le Corti, in Arch. Pen., 2017, 2, 421 ss.; Nobili, Principio di legalità, processo, diritto sostanziale, in Scenari e trasformazioni del processo penale, Padova 1988, 181 ss.; Valentini, Contro l’invenzione del diritto: piccolo elogio della legalità processuale, ricordando Piero Calamandrei, in Arch. Pen., 2018, 2, 1 ss.
[95] Intervento dell’On. Pecorella negli Atti parlamentari della Camera dei Deputati, resoconto stenografico della seduta n. 573 del 21 luglio 1999, 76.
[96] Corte eur., 22 giugno 2000, Coëme e altri c. Belgio. In argomento v., Mazza, I diritti fondamentali dell’individuo come limite della prova nella fase di ricerca e in sede di assunzione, in Dir. pen. cont., 2013, 3, 4 ss.
[97] Galantini, Considerazioni sul principio di legalità processuale, in Cass. pen., 1999, 6, cit., 1994.
[98] Si v., Mazza, Legge e potere: l’irruzione delle Corti sovranazionali, in Dir. pen. cont., 2017, 16.


