La Suprema Corte adegua il “microsistema” di consegna differenziato per il cittadino e il residente alle indicazioni della Corte di giustizia.

Cass., sez. VI, C.C. 8 settembre 2025 (dep. 12 settembre 2025), n. 30618, De Amicis, Presidente, Calvanese, Relatore, Baldi, P.m. (concl. conf.)

1. L’allineamento alle statuizioni della Corte di giustizia.

La sentenza in rassegna segue, a brevissima distanza, la decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea sulle questioni pregiudiziali sollevate dalla autorità rumena sul coordinamento della decisione quadro 583/2002/GAI, sul mandato d’arresto europeo, con la decisione quadro 2008/909/GAI, sul riconoscimento delle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale (C. giust. UE, C-305/22, in corso di pubblicazione in Cass. pen., con osservazioni di Colaiacovo; per un primo commento, Canestrini, Il consenso come veto: la Corte di Giustizia svuota il diritto al reinserimento sociale nel sistema MAE a favore della sovranità punitiva. La sentenza C-305/22 della Corte di Giustizia del 4 settembre 2025, in www.giurisprudenzapenale.com, 8 settembre 2025). In estrema sintesi, la Corte di giustizia ha stabilito che l’applicazione da parte della autorità giudiziaria dello Stato membro delle disposizioni sul “microsistema” di consegna differenziato per il cittadino e per il residente (art. 4, punto 6, e 5, punto 3, della decisione quadro 584/2002/GAI) è subordinata, in forza di quanto previsto dagli artt. 3 e 25 della decisione quadro 2008/909/GAI, all’acquisizione del consenso dello Stato membro che ha emesso l’euromandato e ha poi precisato che, ove tale consenso non sia prestato, lo Stato di emissione conserva il diritto di tener fermo il mandato d’arresto europeo ed eseguire la pena.

Il trasferimento dell’esecuzione, insomma, non può scaturire da una scelta unilaterale, non condivisa dallo Stato titolare del potere punitivo.

La Suprema Corte ha dunque delineato l’impatto di tale decisione ai fini della applicazione del motivo di rifiuto regolato dall’art. 18, comma 2-bis, e della consegna condizionata ex art. 19, comma 2, l. 22 aprile 2005, anche in considerazione del fatto che il rinvio pregiudiziale era stato sollevato dalla autorità rumena nell’ambito di una relazione di cooperazione con l’Italia. E, quindi, dal punto di vista procedurale, nel pronunciare l’annullamento della sentenza impugnata, ha stabilito che, dopo aver accertato i presupposti per l’esecuzione in Italia, la corte d’appello deve interpellare lo Stato membro di emissione per ottenere il suo consenso e la trasmissione del certificato, comunicando nel contempo le modalità di esecuzione della pena; soltanto ove la risposta sia positiva, può disporre l’espiazione della pena in Italia, in caso contrario, non potrà far altro che consegnare il ricercato. La Suprema Corte ha poi fornito ulteriori chiarimenti su questo frangente della procedura, con particolare riguardo all’inevitabile allungamento dei tempi e ai controlli da svolgere sull’eventuale misura cautelare imposta al ricercato.

Una prima lettura della sentenza induce a riflettere su tre profili, al fine di tratteggiare le ulteriori implicazioni e le criticità che potrebbero sorgere in futuro nelle dinamiche di cooperazione giudiziaria.

2. Esecuzione della pena, reinserimento del condannato e fiducia reciproca.

La sentenza della Corte di giustizia, che rimedita l’approccio sul tema rispetto ai precedenti (C. Giust. UE, 13 dicembre 2018, C-514/17, in Cass. pen., 2019, p. 1290; C. giust. UE, 21 ottobre 2010, C-306/09, ivi, 2011, p. 392), ha imposto una profonda revisione dei meccanismi del “microsistema” ed è perciò un punto di non ritorno nella gestione dei rapporti di cooperazione disciplinati dalla l. 22 aprile 2005, n. 69.

Conviene, tuttavia, mettere a fuoco la portata di tale innovazione, che, a ben vedere, riguarda esclusivamente il profilo processuale: in effetti, nulla è mutato ai fini dell’accertamento dei presupposti e, quindi, nel vaglio sul possesso della cittadinanza italiana o sul radicamento del ricercato; piuttosto, è ora necessario che l’esito positivo di tale valutazione sia seguito da un’interlocuzione volta ad acquisire il consenso dello Stato che ha emesso il mandato d’arresto europeo.

Si tratta allora di stabilire se da questa nuova impostazione possano discendere conseguenze negative per il reinserimento del condannato, finalità precipua delle disposizioni contenute nei citati artt. 18, comma 2-bis, e 19, comma 2.

È indubbio che il tenore della sentenza della Corte di giustizia, in più passaggi, esprime una predilezione per il perseguimento di scopi repressivi rispetto alle istanze di matrice rieducativa. Inoltre, come rimarca la Suprema Corte, lo Stato che emette l’euromandato rimane l’unico attore che dispone della competenza sovrana sulla potestà punitiva ed è così titolare del potere discrezionale di stabilire se sia utile trasferire l’esecuzione ai fini del reinserimento del condannato. Ne consegue che, parallelamente, sono ridotti i poteri dello Stato di esecuzione che, dinanzi a una risposta di segno negativo, non può far altro che procedere alla consegna. Persistere nel diniego, infatti, integrerebbe una violazione degli obblighi imposti dal diritto dell’Unione ed esporrebbe il condannato al rischio di una nuova esecuzione della medesima sentenza, ove sia successivamente catturato dallo Stato che lo ricerca per punirlo.

Non si può tuttavia concludere che, in questo diverso ordine concettuale, la funzione rieducativa della pena non possa essere efficacemente perseguita. 

Si può rammentare, innanzitutto, che tale funzione non è esclusiva, nè “tiranna” rispetto alle altre e che, pertanto, è sempre necessario un corretto bilanciamento tra tutte le componenti della pena (sul necessario bilanciamento delle funzioni della pena, più di recente, C. cost., 29 luglio 2025, n. 139). E tanto vale, conseguentemente, anche nella proiezione della pena nelle relazioni di cooperazione.

Ciò posto, nessun argomento consente di presumere che soltanto il rifiuto della consegna e il trasferimento dell’esecuzione in Italia permettono di intraprendere positivamente un percorso di reinserimento e di affermare, viceversa, che la consegna allo Stato di emissione sia il preludio a una espiazione dai contenuti puramente afflittivi e retributivi. 

In questa ottica, si deve innanzitutto rilevare che la funzione rieducativa è – o, almeno, dovrebbe essere – elemento comune del patrimonio giuridico di tutti gli Stati membri e che, pertanto, il reinserimento del condannato costituisce obiettivo perseguito nei singoli ordinamenti penitenziari nazionali. Allo stesso modo, tali ordinamenti, sebbene con formule legislative differenti, contemplano istituti assimilabili alle misure alternative alla detenzione dell’ordinamento italiano. 

Pertanto, il principio della fiducia reciproca impone di ritenere che lo Stato membro di emissione, anche qualora non presti il consenso al riconoscimento della sentenza, tutelerà adeguatamente la funzione rieducativa, allestendo un efficace percorso di reinserimento durante l’esecuzione della pena. 

Questa convinzione è poi rafforzata da una considerazione di carattere empirico che origina dall’endemica condizione di sovraffollamento delle carceri italiane (stigmatizzata, di recente, anche dal Giudice delle leggi, C. cost., 29 luglio 2025, cit.). Dinanzi a una situazione simile, il diniego dello Stato membro potrebbe essere ispirato dalla volontà di impedire che l’esecuzione della pena avvenga in condizioni inumane e degradanti (il richiamo, qui, è alla nota vicenda affrontata dalla Corte di giustizia nel caso Aranyosi e Caldararu, C. giust. UE, 5 aprile 2016, C-404/15 e C-659/15, Aranyosi e Caldararu, in Dir. pen. e proc., 2016, con nota di Martufi, La Corte di giustizia al crocevia tra effettività del mandato d’arresto e inviolabilità dei diritti fondamentali).

Adottando questa chiave di lettura, le preoccupazioni per le ripercussioni della sentenza della Corte di giustizia possono senz’altro essere ridimensionate.

3. Profili processuali.

Dunque, l’autorità giudiziaria dello Stato di emissione deve essere interpellata affinchè si esprima sul trasferimento dell’esecuzione. 

La Suprema Corte ha evidenziato l’importanza della decisione sul punto e ha sottolineato la necessità che negli Stati di condanna siano approntati rimedi giurisdizionali volti a consentire alle persone condannate un controllo sulla decisione di dissenso. È interessante allora verificare se un simile meccanismo sia attivabile nelle ipotesi in cui sia l’Italia ad emettere l’euromandato e dissentire sul trasferimento dell’esecuzione in un altro Stato membro.

La disciplina contenuta nella l. 22 aprile 2005, n. 69 non sembra offrire margini di manovra, non rinvenendosi disposizioni che consentano di ricavare spazi per coinvolgere il destinatario dell’euromandato.

L’attenzione si deve rivolgere, allora, al d. lgs. 7 settembre 2010, n. 161 che ha attuato nell’ordinamento italiano la decisione quadro 2008/909/GAI e che consente di costruire un meccanismo lavorando sulle disposizioni contenute nel capo II, dedicato alla trasmissione all’estero delle sentenze di condanna italiane. Più precisamente, la richiesta di prestare il consenso al trasferimento dell’esecuzione inoltrata dallo Stato membro che ha ricevuto l’euromandato italiano può essere considerata alla stregua di un atto di impulso che apre il procedimento descritto dall’art. 6. 

Il pubblico ministero – organo che nell’ordinamento italiano cura sia l’emissione dell’euromandato esecutivo, che dell’ordine di trasmissione della sentenza di condanna – è chiamato così a esprimersi e, quindi, a verificare la concreta attitudine rieducativa del trasferimento dell’esecuzione e l’eventuale sussistenza di contrapposti interessi che, in senso contrario, impongono che l’espiazione avvenga in Italia. Il provvedimento emesso, tanto di segno positivo, che di segno negativo, potrà poi essere contestato dall’interessato attraverso l’incidente di esecuzione.

4. Effetti nel tempo.

La Suprema Corte, come si è visto, ha fornito le istruzioni per il nuovo corso del “microsistema”, ma nel contempo, ha delineato le ricadute della decisione della Corte di giustizia sui rapporti in essere ovvero sulle decisioni con le quali in passato l’autorità giudiziaria italiana ha respinto la richiesta di consegna e disposto l’espiazione della pena in Italia senza la previa acquisizione del consenso dello Stato di emissione.

Tale puntualizzazione delinea gli effetti “intertemporali” del nuovo regime ed era quanto mai necessaria. La Corte di giustizia, infatti, ha affermato che lo Stato di emissione che non presta il consenso rimane titolare dello ius puniendi e può mantenere fermo il mandato d’arresto europeo. Ciò comporta il rischio che la persona richiesta in consegna, nonostante l’avvenuta espiazione della pena in Italia, sia sottoposta a una nuova esecuzione nello Stato di emissione.

La Suprema Corte ha quindi precisato che in simili casi, ove lo Stato di emissione non abbia formalmente manifestato il proprio dissenso e l’esecuzione abbia avuto inizio in Italia, è preclusa la possibilità di invocare la consegna per l’eventuale espiazione della pena residua. É evocato, qui, il principio enunciato dall’art. 31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, secondo il quale le norme pattizie devono essere interpretate in buona fede, tenendo conto, ai fini dell’interpretazione del trattato, delle prassi osservate nel corso della sua applicazione. 

È un’impostazione coerente con quanto previsto dall’art. 22, par. 2, della decisione quadro 2008/909/GAI, in forza del quale l’avvio dell’esecuzione nello Stato di esecuzione segna “il punto di non ritorno” per un’esecuzione “domestica” nello Stato di emissione (Fiorio, L’esecuzione in Italia delle sentenze penali straniere e di quelle italiane all’estero, in Spangher – Marandola – Garuti – Kalb, Procedura penale. Teoria e pratica del processo, Utet, 2015, p. 1226). Quest’ultimo, infatti, riacquisterà il “diritto di procedere all’esecuzione della pena” solo in caso di evasione del condannato.

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