ABSTRACT: Il contributo si propone di analizzare in modo sistematico le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla giurisprudenza sull’abrogazione dell’abuso d’ufficio, con particolare riguardo alla recente ordinanza di rimessione della Corte di Cassazione, ultima in ordine di tempo. Oltre ai profili di diritto interno, i dubbi hanno riguardato l’inosservanza degli obblighi internazionali in materia di contrasto alla corruzione, in relazione alla violazione dell’art. 117 Cost. Dopo aver affrontato i profili di ammissibilità e fondatezza delle questioni, il lavoro si sofferma sulle possibili conseguenze in malam partem di un’eventuale pronuncia di accoglimento.
This contribution aims to systematically analyze the constitutional legitimacy issues raised by jurisprudence on the abolition of abuse of office, with particular reference to the recent referral order of the Court of Cassation, the most recent in chronological order. In addition to domestic law profiles, doubts have also concerned non-compliance with international obligations in the field of anti-corruption, in relation to the violation of Article 117 of the Constitution. After addressing the profiles of admissibility and merits of the questions, the work focuses on the possible in malam partem consequences of a potential ruling of acceptance.
sommario: 1. Introduzione – 2. Le alterne vicende dell’art. 323 c.p.: dal codice Rocco alla recente abrogazione – 3. L’ammissibilità di un intervento della Corte costituzionale in malam partem sulla legge penale – 4. Profili di contrasto con la Costituzione della disposizione abrogativa dell’art. 323 c.p.: gli artt. 11 e 117, primo comma Cost. – 4.1. Ulteriori profili di contrasto con la Costituzione: la violazione degli artt. 97, 28 e 3 Cost. – 5. Profili di diritto intertemporale. Conclusioni
- Introduzione
L’abrogazione secca dell’articolo 323 del codice penale, come preconizzato da alcuni Autori[1], non ha definitivamente posto fine alle vicende dell’abuso d’ufficio nel nostro ordinamento. La recente ordinanza con cui la Corte di Cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale[2] è solo l’ultima in ordine di tempo, avendo fatto seguito ad una serie di analoghe ordinanze da parte dei giudici di merito, con il Tribunale di Firenze che ha fatto da apripista nel settembre del 2024[3], per giungere all’ordinanza del G.I.P. del Tribunale di Roma del 5 febbraio 2025[4].
La disposizione che ha destato nella giurisprudenza dubbi di costituzionalità è l’art. 1, comma 1, lett. b) della legge 9 agosto 2024, n. 114, c.d. “Legge Nordio”, con la quale si è disposta l’abolizione del reato di abuso d’ufficio. Tale disposizione si inserisce nel novero di un più ampio intervento nel settore dei delitti contro la Pubblica Amministrazione, comprensivo dell’introduzione – ad opera della legge 8 agosto 2024, n. 112 – del nuovo art. 314-bis, rubricato “Indebita destinazione di denaro o cose mobili”; nella relazione al disegno di legge poi sfociato nella L. 114/2024[5], peraltro, si lascia aperta la «possibilità di valutare in prospettiva futura specifici interventi additivi volti a sanzionare, con formulazioni circoscritte e precise, condotte meritevoli di pena in forza di eventuali indicazioni di matrice euro-unitaria».
Quanto invece alla norma-parametro violata dalla suddetta disposizione, le diverse ordinanze di rimessione convergono sull’individuazione degli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, in riferimento ad una serie di disposizioni della Convenzione dell’ONU contro la corruzione, adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003 con risoluzione n. 58/4, firmata dallo Stato italiano il 9 dicembre 2003 e ratificata con legge 3 agosto 2009, n. 116. Talune ordinanze, invece, ritengono che l’abrogazione dell’art. 323 c.p. si ponga anche in contrasto con l’art. 97 Cost., nella misura in cui eleva a principi costituzionali l’imparzialità e il buon andamento della Pubblica Amministrazione.
Prima di esaminare i profili di maggior rilievo delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, tuttavia, si rende necessario ripercorrere brevemente la storia del reato di abuso d’ufficio per meglio comprendere le motivazioni che hanno portato alla scelta dell’abrogazione, nonché il ruolo svolto da tale fattispecie all’interno del settore dei delitti contro la Pubblica Amministrazione.
L’art. 323 c.p., presente fin dall’inizio nel codice del 1930 con la rubrica di “Abuso di ufficio in casi non preveduti specificamente dalla legge”, ha avuto una storia travagliata, sfociata da ultimo nell’abrogazione secca della disposizione. Nel periodo della sua vigenza, infatti, si sono susseguite diverse formulazioni, che hanno avuto perlopiù l’intento di conferire maggiore determinatezza ad una fattispecie che ha sollevato dubbi di costituzionalità nella dottrina e nella giurisprudenza fin dai primi anni successivi all’entrata in vigore della Carta costituzionale[6]. Il giudice delle leggi, tuttavia, aveva respinto la questione, in virtù dello stretto legame tra il carattere abusivo della condotta e l’illegittimità dell’atto e della previsione del dolo specifico[7]. Ad ogni modo, in virtù della clausola di sussidiarietà, si trattava di una disposizione destinata ad operare in via residuale e con funzione di chiusura del sistema dei delitti contro la Pubblica Amministrazione.
Il primo intervento sulla fattispecie originaria avvenne ad opera del legislatore del ’90, che tuttavia non pose rimedio alla indeterminatezza che già caratterizzava il testo originario dell’art. 323 c.p., ma ne ampliò l’ambito di operatività facendovi di fatto confluire le abrogate fattispecie altrettanto generiche di “interesse privato in atti d’ufficio” (art. 324 c.p.) e di “peculato per distrazione” (art. 314, c. 2 c.p.), consentendo al giudice penale di operare un sindacato incisivo sull’attività dei pubblici funzionari.
Proprio al fine di contenere le incursioni dell’autorità giudiziaria penale, il legislatore, mediando tra le soluzioni che propugnavano l’abrogazione e quelle volte a sostituire la disposizione vigente con nuove e specifiche fattispecie, optò, intervenendo con la legge n. 234 del 16 luglio 1997, per una rimodulazione dell’art. 323 c.p., introducendovi elementi di tipicità. La nuova formulazione prevedeva espressamente che la condotta dovesse estrinsecarsi in una violazione di legge o di regolamento (ciò al fine anche di lasciar fuori il vizio di eccesso di potere, non menzionato); per altro verso, la disposizione veniva costruita come reato di evento – di dolo o di vantaggio – caratterizzato dalla ingiustizia e, aspetto non meno importante, veniva richiesto il dolo intenzionale. Era stata poi introdotta una condotta alternativa di abuso, volta a sanzionare l’inosservanza dell’obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio o dei prossimi congiunti o negli altri casi prescritti.
Per dovere di completezza si segnala un ulteriore intervento sul reato di abuso d’ufficio nel 2012, all’interno di una più ampia riforma dei delitti contro la Pubblica Amministrazione. Questa volta, tuttavia, la modifica ha riguardato solamente la cornice edittale, ritoccata verso l’alto nell’ambito di un generale inasprimento delle pene per i delitti dello stesso genere.
Il testo in vigore al momento dell’abrogazione dell’art. 323 c.p., infine, era il risultato dell’ennesima riformulazione della fattispecie, operata con l’art. 23 del D. L. 16 luglio 2020 n. 76, c.d. “decreto semplificazioni”, emanato allo scopo di contribuire alla “semplificazione dei procedimenti amministrativi, all’eliminazione e alla velocizzazione di adempimenti burocratici”. La ragione che ha indotto il Governo a intervenire attraverso un provvedimento emergenziale è stata dichiaratamente quella di superare la c.d. “sindrome della firma”, in un momento in cui occorreva far ripartire il Paese dopo la stasi cagionata dalla nota pandemia di COVID-19; a ben vedere, tuttavia, è stata colta l’occasione per rispondere alla mai sopita esigenza di determinatezza.
Con l’intervento del 2020, in primo luogo, si prevedeva che la condotta “abusiva” dovesse porsi in contrasto con regole di condotta specifiche ed espresse, dettate dalla legge e da altre fonti primarie, nell’intento del legislatore di impedire la rilevanza penale della violazione dei regolamenti e al contempo delle condotte contrastanti con meri principi generali. Inoltre, la rilevanza penale della condotta è stata, nell’intento del legislatore, circoscritta alla sola attività c.d. “vincolata” del pubblico amministratore, con esclusione espressa della rilevanza dell’attività c.d. “discrezionale”. Per il resto era stato mantenuto fermo sia il profilo soggettivo (dolo intenzionale), sia quello concernente l’evento (ingiusto danno o ingiusto vantaggio patrimoniale). Rimaneva analogamente inalterata la seconda parte della disposizione concernente l’inosservanza dell’obbligo di astensione[8].
Neanche quest’ultimo intervento, a giudizio della politica e degli amministratori pubblici – principali “destinatari” delle incriminazioni per abuso d’ufficio – era riuscito nell’intento di superare la c.d. paura della firma, riconosciuta anche dalla Corte costituzionale come fenomeno che indurrebbe i pubblici funzionari «ad astenersi dall’assumere decisioni che pur riterrebbero utili per il perseguimento dell’interesse pubblico, preferendo assumerne altre meno impegnative (in quanto appiattite su prassi consolidate e anelastiche), o più spesso restare inerti, per il timore di esporsi a possibili addebiti penali»[9]. In tal senso non ha aiutato l’interpretazione che la giurisprudenza ha dato del testo novellato dell’art. 323 c.p., sterilizzando in buona parte l’effetto restrittivo della riforma: le prime decisioni di legittimità, infatti, avevano ricondotto all’area della rilevanza penale da una parte l’attività discrezionale, dall’altra la violazione di norme regolamentari, mentre ribadivano la sottrazione al giudice penale dell’apprezzamento dell’osservanza di principi generali, quali l’imparzialità e il buon andamento della Pubblica Amministrazione[10].
L’interpretazione estensiva operata dalla giurisprudenza del testo riformato nel 2020 ha dato origine a una immediata reazione in sede parlamentare, dove si è assistito a nuove iniziative, a nuovi disegni di legge diretti a intervenire ancora una volta sulla fattispecie dell’art. 323 c.p., presentati nella XVIII e XIX legislatura[11]. A prevalere, infine, è stata la proposta di iniziativa governativa, condensata nel c.d. d.d.l. Nordio, in seguito divenuto la legge n. 114 del 2024, che ha optato per l’abrogazione secca dell’art. 323 c.p. La relazione introduttiva del predetto disegno di legge ha sottolineato che «nonostante i plurimi interventi normativi volti a dare maggiore determinatezza alla disposizione (effettuati nel 1990, nel 1997, nel 2012 e nel 2020)», si constatava ancora un rilevante squilibrio tra iscrizioni della notizia di reato e decisioni di merito, «rimasto costante anche dopo le modifiche volte a ricondurre la fattispecie entro più rigorosi criteri descrittivi». È questa “anomalia” che «ha portato alla scelta proposta con il presente disegno di legge». Sempre nella relazione, peraltro, come rilevato in apertura del presente lavoro, si fa cenno alla possibilità di valutare l’introduzione in futuro di nuove fattispecie di reato, con formulazioni più circoscritte e precise rispetto all’abrogato abuso d’ufficio, in osservanza di «eventuali indicazioni di matrice euro-unitaria che dovessero sopravvenire»: il riferimento è, con ogni probabilità, alla proposta di Direttiva europea in sulla lotta contro la di corruzione, il cui iter di approvazione non è ancora concluso[12].
Nel momento in cui si scrive, tuttavia, nessuna nuova fattispecie di reato ha sostituito l’abuso d’ufficio, mentre sono state sollevate numerose questioni di legittimità costituzionale, prima dai giudici di merito e da ultimo anche dalla sesta sezione della Suprema Corte di Cassazione. Nei prossimi paragrafi si analizzeranno le principali argomentazioni affrontate dalle ordinanze di rimessione in punto di ammissibilità e non manifesta infondatezza delle questioni portate all’attenzione della Consulta.
Il primo profilo che emerge, anche dal punto di vista logico, dalle ordinanze di rimessione attiene all’ammissibilità della questione. Il problema principale che si pone in tema di ammissibilità è costituito dalla frizione tra il principio di legalità in materia penale e i suoi corollari e la possibilità per la Corte costituzionale di dichiarare incostituzionali norme penali che hanno effetti favorevoli per il reo.
La recente ordinanza della Cassazione – che ben compendia la posizione espressa anche dai giudici di merito nei rispettivi provvedimenti – al punto 3 del considerato in diritto, affronta e risolve affermativamente la questione inerente all’ammissibilità del sindacato di legittimità costituzionale in materia penale, allorché ne possano conseguire effetti in malam partem, delineandone gli ambiti di operatività.
La Corte richiama e sostanzialmente riproduce il testo della sentenza della Corte costituzionale n. 37 del 2019. Con la predetta decisione il giudice delle leggi, muovendo dal tradizionale principio di inammissibilità delle questioni concernenti disposizioni abrogative di preesistenti incriminazioni e volte al ripristino delle norme incriminatrici abrogate – in ossequio all’art. 25 Cost., che riserva al solo legislatore la creazione di nuove norme penali – individuava tuttavia una serie di eccezioni, di fattispecie nelle quali il divieto non operava e il sindacato di legittimità da parte del giudice delle leggi era ammissibile[13].
In realtà, una prima apertura verso la promovibilità della questione si era avuta già con la sentenza n. 148 del 1983, allorché la Corte costituzionale era pervenuta a superare il primo sbarramento, costituito dalla “irrilevanza”, affermando che anche le decisioni in malam partem potrebbero comunque incidere sulla formula di proscioglimento o quanto meno sulla ratio decidendi del giudizio penale a quo[14].
Una svolta si ha con la sentenza n. 394 del 2006 (che aveva ad oggetto la legittimità di una disposizione legislativa concernente l’abrogazione di reati elettorali), allorché la Corte giunge ad affermare, oltre alla rilevanza, anche l’ammissibilità della questione e quindi il sindacato di legittimità delle c.d. “norme penali di favore”, vale a dire quelle disposizioni che «stabiliscano, per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione di norme generali o comuni», sottraendo «una certa classe di soggetti o di condotte all’ambito di applicazione di altra norma, maggiormente comprensiva», «ove l’anzidetta sottrazione si risolva nella configurazione di un trattamento privilegiato». Ciò, diversamente dalle previsioni normative che “delimitano” l’area di intervento di una norma incriminatrice, concorrendo alla definizione della fattispecie di reato (norme genericamente “favorevoli”). Nella prima ipotesi, l’intervento della Corte non intacca la riserva al legislatore sulle scelte di criminalizzazione, atteso che l’effetto in malam partem rappresenta una conseguenza dell’automatica riespansione della norma generale o comune, in precedenza dettata dallo stesso legislatore, al caso già oggetto della disciplina derogatoria dichiarata incostituzionale. Tale riespansione costituisce una reazione naturale dell’ordinamento – conseguente alla sua unitarietà – alla scomparsa della norma incostituzionale e non discende dall’introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti da parte della Corte, la quale si limita a rimuovere la disposizione giudicata lesiva dei parametri costituzionali.
Nel caso di specie non verrebbe in rilievo il principio di legalità e il conseguente divieto di irretroattività della norma penale sfavorevole, sancito dall’art. 25 Cost., ma il distinto principio della retroattività della disposizione penale più mite, che ha una valenza ben diversa, involgendo il principio costituzionalizzato nell’art. 3. Lo scrutinio di costituzionalità, anche in malam partem, delle c.d. norme penali di favore si connette, in tale ipotesi, alla fondamentale esigenza di evitare zone «sottratte al controllo di costituzionalità, entro le quali il legislatore potrebbe di fatto operare svincolato da ogni regola, stante l’assenza di uno strumento che permetta alla Corte di riaffermare il primato della Costituzione sulla legislazione ordinaria. Qualora alla preclusione dello scrutinio di costituzionalità in “malam partem” fosse attribuito carattere assoluto, si determinerebbe, in effetti, una situazione palesemente incongrua: venendosi a riconoscere, in sostanza, che il legislatore è tenuto a rispettare i precetti costituzionali se effettua scelte di aggravamento del trattamento penale, mentre può violarli senza conseguenze, quando dalle sue opzioni derivi un trattamento favorevole». Di conseguenza, «il principio di legalità certamente impedisce alla Corte di configurare norme penali; ma non le preclude decisioni ablative di norme che sottraggano determinati gruppi di soggetti o di condotte alla sfera applicativa di una norma comune o comunque più generale, accordando loro un trattamento più benevolo»[15].
Un’altra ipotesi di controllo di legittimità costituzionale con potenziali effetti in malam partem è stata individuata dalla sentenza n. 28 del 2010, con la quale la Consulta ha dichiarato l’illegittimità di una lex mitior intermedia contrastante con una direttiva comunitaria per violazione degli articoli 11 e 117 Cost. La Corte ha qui ritenuto che «se si stabilisse che il possibile effetto in malam partem della sentenza di questa Corte inibisce la verifica di conformità delle norme legislative interne rispetto alle norme comunitarie – che sono cogenti e sovraordinate alle leggi ordinarie nell’ordinamento italiano per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – non si arriverebbe soltanto alla conclusione del carattere non autoapplicativo delle direttive comunitarie […], ma si toglierebbe a queste ultime ogni efficacia vincolante per il legislatore italiano»[16].
In questo percorso viene quindi in rilievo la decisione n. 5 del 2014, con la quale il giudice delle leggi ammette il sindacato di legittimità costituzionale per le norme penali “più favorevoli”, se dettate in violazione dei principi che sovrintendono alla competenza legislativa del Parlamento: nel caso di specie, il Governo aveva operato in difetto di delega. La Corte è lapidaria nel risolvere la questione: «quando, deducendo la violazione dell’art. 76 Cost., si propone una questione di legittimità costituzionale di una norma di rango legislativo adottata dal Governo su delega del Parlamento, il sindacato di questa Corte non può essere precluso invocando il principio della riserva di legge in materia penale»[17].
Sulla stessa linea si collocano le decisioni n. 46 del 2014 e n. 32 del 2014. Nella prima, la questione concerneva disposizioni dettate dal Consiglio regionale volte a neutralizzare le scelte di criminalizzazione operate dal legislatore statale[18]; nel secondo caso, a essere sindacata era la disposizione “più favorevole” emanata dallo stesso Parlamento che, in sede di conversione di un decreto legge, non aveva operato nei limiti – di contenuto – imposti dallo specifico procedimento, così come individuati dalla giurisprudenza costituzionale[19].
La richiamata ordinanza della Cassazione che solleva la questione di legittimità, evocando nello specifico la decisione n. 5 del 2014 e in parte anche la n. 32 del 2014, precisa che attraverso il sindacato di ammissibilità la Corte costituzionale non mira a surrogarsi al Parlamento nella introduzione di una nuova incriminazione, ma interviene su un caso di sopravvenuta inattuazione dei vincoli sovranazionali. Un eventuale accoglimento della questione da parte del giudice delle leggi si limiterebbe a rimuovere la norma incostituzionale, e la conseguente riespansione della norma incriminatrice illegittimamente abrogata sarebbe un effetto consentito. Sugli effetti di una tal pronuncia avremo modo di soffermarci più avanti.
- Profili di contrasto con la Costituzione della disposizione abrogativa dell’art. 323 c.p.: gli artt. 11 e 117, primo comma Cost.
Nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione della Corte di Cassazione – che, si ricordi, è l’ultima pervenuta in ordine di tempo – si rinviene un unico profilo di illegittimità costituzionale della legge abrogativa dell’art. 323 c.p., consistente nella violazione degli artt. 11 e 117, primo comma Cost., in relazione ad una serie di disposizioni della Convenzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione del 2003 (anche conosciuta come “Convenzione di Merida”). Alcune ordinanze di rimessione dei giudici di merito, invece, oltre ad affrontare in via principale il medesimo profilo, ritengono che l’art. 1 della L. 114/2004 possa violare anche l’art. 97 Cost., in quanto espressione dei principi di buon andamento e imparzialità della Pubblica Amministrazione. In primo luogo, tuttavia, è necessario soffermarsi sul profilo di incostituzionalità concernente la violazione di obblighi internazionali.
Com’è noto, l’art. 117, primo comma Cost., così come riformato dalla legge cost. n. 3/2001, impone al legislatore di rispettare i «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali», venendo gli stessi a operare come “parametri interposti” di costituzionalità delle leggi nazionali e regionali; i predetti obblighi internazionali possono derivare da norme consuetudinarie o da norme pattizie. Nel caso di specie, le norme parametro che si intendono violate appartengono alla Convenzione di Merida, adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003 con risoluzione n. 58/4, firmata dallo Stato italiano il 9 dicembre 2003 e ratificata con L. 116/2009. Tale convenzione si propone di fissare a livello sovranazionale alcuni punti fermi della lotta alla corruzione, da una parte con l’introduzione di misure preventive, dall’altra con obblighi – più o meno intensi – di criminalizzazione di alcune condotte correlate ad atti di corruzione, qualora esse non siano già nel diritto interno definite come illeciti penali.
Ciò premesso, occorre a questo punto analizzare le disposizioni della Convenzione che la Suprema Corte ha ritenuto violate: si tratta degli artt. 1, 7, quarto comma, 19 e 65, primo comma.
Procedendo con ordine, l’art. 1 individua gli obiettivi della Convenzione contro la corruzione in tre punti principali: «a) la promozione ed il rafforzamento delle misure volte a prevenire e combattere la corruzione in modo più efficace; b) la promozione, l’agevolazione ed il sostegno della cooperazione internazionale e dell’assistenza tecnica ai fini della prevenzione della corruzione e della lotta a quest’ultima, compreso il recupero di beni; c) La promozione dell’integrità, della responsabilità e della buona fede nella gestione degli affari pubblici e dei beni pubblici». A proposito di questa disposizione, la Cassazione sottolinea l’importanza della previsione di misure non solo repressive, ma anche preventive, volte a istituire un articolato sistema anti-corruzione che comprende, tra l’altro, anche disposizioni dedicate alla cooperazione internazionale, al recupero di beni oggetto della corruzione, allo scambio di informazioni e ai meccanismi di attuazione. Sotto il profilo del rafforzamento delle misure repressive, peraltro, la Convenzione non si limita a considerare solamente le principali forme di corruzione, ma anche la criminalizzazione di illeciti prodromici, connessi o comunque strumentali alla corruzione, tra i quali, per quanto qui interessa, l’abuso d’ufficio (all’art. 19).
In un’ottica sistematica, la Corte passa poi ad analizzare l’art. 65, rubricato “Attuazione della Convenzione”, che specifica la portata giuridicamente vincolante del trattato per gli Stati contraenti. In particolare, la suddetta disposizione prevede al primo comma che «Ciascuno Stato Parte adotta le misure necessarie, comprese misure legislative ed amministrative, in conformità con i principi fondamentali del suo diritto interno, per assicurare l’esecuzione dei suoi obblighi ai sensi della presente Convenzione». Tale disposizione, pertanto, non lascia spazio a dubbi sulla reale vincolatività della Convenzione, il cui mancato rispetto comporterebbe la violazione del diritto internazionale pattizio.
Dopo aver messo a fuoco le disposizioni più generali, la Suprema Corte prende in considerazione l’art. 19, dedicato all’incriminazione dell’abuso d’ufficio. Si tratta della disposizione che ha maggiormente destato l’attenzione dei primi commentatori dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio, nonché dei Tribunali che per primi hanno rimesso la questione di legittimità costituzionale alla Consulta[20]. Ciò in quanto la figura criminosa individuata dall’art. 19 sembra proprio ricalcare il reato contemplato dall’abrogato art. 323 c.p., disponendo che «Ciascuno Stato Parte esamina l’adozione delle misure legislative e delle altre misure necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quando l’atto è stato commesso intenzionalmente, al fatto per un pubblico ufficiale di abusare delle proprie funzioni o della sua posizione, ossia di compiere o di astenersi dal compiere, nell’esercizio delle proprie funzioni, un atto in violazione delle leggi al fine di ottenere un indebito vantaggio per se o per un’altra persona o entità»[21].
Sulla vincolatività dell’art. 19 non vi è unanimità tra chi ritiene che questo comporti per lo Stato parte una mera raccomandazione non vincolante e chi, invece, ritiene che la Convenzione imponga l’introduzione o il mantenimento di una norma penale che incrimini le condotte riconducibili all’abuso d’ufficio; su questa seconda posizione si è attestata la giurisprudenza, che ha infatti sollevato le numerose questioni di legittimità costituzionale di cui si è accennato nei paragrafi precedenti[22]. Per individuare lo specifico contenuto dell’obbligo di cui all’art. 19, tuttavia, come suggerito dalla Corte, è necessario considerare la “Legislative guide for the implementation of the United Nations Convention against Corruption”, redatta dallo United Nations Office on Drugs and Crime, che assume il valore di interpretazione autentica della Convenzione.
Tale “Guida per l’implementazione della Convenzione”, ai paragrafi 11 e 12, chiarisce che le disposizioni della stessa non hanno tutte lo stesso livello di vincolatività («do not have all the same level of obligation»), potendo essere divise in tre categorie:
- nel primo gruppo rientrano le «mandatory provisions», ossia quelle disposizioni che impongono un obbligo di adottare previsioni legislative, in termini assoluti o al ricorrere di determinate condizioni; queste disposizioni sono contraddistinte dall’espressione “each State Party shall adopt”;
- un secondo gruppo contiene misure che gli Stati parte devono prendere in considerazione di applicare o cercare di adottare, compiendo un reale sforzo per verificare se sarebbero compatibili con il loro sistema giuridico; sono contraddistinte dalla formula “shall consider adopting” o “shall endeavour to”;
- l’ultima categoria è costituita dalle «optional measures», ossia delle misure facoltative, che ogni Stato parte può considerare di adottare, individuate dall’espressione “may adopt”[23].
Orbene, l’art. 19 sull’abuso d’ufficio rientra pacificamente nel secondo gruppo di disposizioni; nel testo originale, infatti, l’espressione utilizzata è “shall consider adopting”. Ciò significa – come abbiamo visto sopra – che non si tratta di una previsione facoltativa o di una mera raccomandazione, né di un obbligo di penalizzazione, ma di un «vero e proprio obbligo per gli Stati membri di fare un ragionevole sforzo per verificare se l’introduzione di una determinata ipotesi di reato sia compatibile con il proprio ordinamento»[24].
Individuato pertanto il grado di vincolatività dell’art. 19, non si può non constatare come esso sembri diretto, apparentemente, agli Stati contraenti che non contemplavano già, al momento dell’adesione alla Convenzione di Merida, una fattispecie di abuso d’ufficio. Il contenuto dell’obbligo giuridico dell’art. 19, tuttavia, deve essere interpretato alla luce di un’altra disposizione della Convenzione, l’art. 7, comma 4, che recita: «Ciascuno stato si adopera, conformemente ai principi fondamentali del proprio diritto interno, al fine di adottare, mantenere e rafforzare i sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse»[25]. Sulle conseguenze che il combinato disposto degli art. 7, comma 4 e 19 produce sull’ordinamento italiano si registrano due posizioni, non necessariamente in contrasto.
Secondo l’orientamento consolidato nelle ordinanze dei tribunali di merito, l’art. 7, comma 4 consentirebbe di declinare diversamente gli obblighi discendenti dalla Convenzione – e, per quanto qui interessa, dall’art. 19 – a seconda del fatto che lo Stato parte abbia o meno già adottato nel proprio ordinamento la fattispecie di abuso d’ufficio. Occorrerebbe allora distinguere:
- Qualora lo Stato parte non contemplasse la fattispecie di cui all’art. 19 nel proprio ordinamento al momento dell’adesione alla Convenzione, esso dovrebbe considerare seriamente la sua introduzione, compiendo uno “sforzo reale” per valutarne la compatibilità con il proprio ordinamento interno; laddove questa sussistesse, lo Stato sarebbe tenuto a introdurla;
- Nel caso in cui, invece, al momento dell’adesione alla Convenzione lo Stato parte abbia già introdotto una fattispecie omologa a quella dell’art. 19 – ed è questo il caso dell’Italia – si dovrebbe ritenere già valutata positivamente la compatibilità della fattispecie con l’ordinamento interno; con la conseguenza che, dovendo “mantenere” e “rafforzare” – ai sensi dell’art. 7, comma 4 – i sistemi anti-corruzione, per adeguarsi all’obbligo di cui all’art. 19, lo Stato parte sarebbe tenuto a non abrogare la fattispecie già vigente, a maggior ragione senza l’introduzione di nuove misure preventive e/o repressive. In altre parole, se uno Stato che non contemplava già l’abuso d’ufficio dovrebbe “sforzarsi” di introdurlo compatibilmente con il proprio ordinamento, uno Stato che già lo prevedesse (in conformità al proprio ordinamento!) a fortiori non potrebbe eliminarlo. L’obbligo di incriminazione, in questo caso, si convertirebbe pertanto in quello che è stato definito come “obbligo di standstill”[26].
La seconda posizione sulla portata dell’art. 7, comma 4 della Convenzione è quella sostenuta dalla Corte di Cassazione nella citata ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale. Secondo la Suprema Corte, il comma 4, nel punto in cui richiede a ciascuno Stato contraente di adoperarsi per «adottare, mantenere e rafforzare i sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse» non fa riferimento a singoli obblighi di incriminazione ma ad un più ampio obbligo di adottare, mantenere e rafforzare determinati standard di attuazione della Convenzione nel suo complesso, in relazione sia all’ambito della prevenzione, sia a quello della repressione; dirimente sarebbe, in questo senso, l’uso della parola “sistemi”.
Venendo allo specifico contenuto del verbo «mantain», esso obbligherebbe gli Stati parte a preservare gli standard di tutela raggiunti e, pertanto, ad astenersi dall’adottare misure che comportino il regresso rispetto al livello di attuazione degli scopi della Convenzione che i contraenti possono già vantare. Tale obbligo vale non solo per le misure – legislative o amministrative – adottate in attuazione della Convenzione, ma anche per le misure che gli Stati parte avevano già adottato al momento dell’adesione e che risultavano conformi agli obblighi e, più in generale, agli scopi della Convenzione stessa. L’elemento di novità rispetto alle ordinanze di rimessione dei giudici di merito si coglie, in particolare, nel passaggio in cui la Suprema Corte ritiene che «questo obbligo non comporta che le norme penali interne necessarie a garantire l’obiettivo debbano rimanere cristallizzate al livello più rigoroso che hanno attinto (e non esclude in radice la riduzione delle aree di illiceità penale o, persino, l’esclusione della sanzione penale), ma attribuisce alle norme attuative una particolare “forza di resistenza” all’abrogazione, che le sottrae a novazioni legislative non conformi al vincolo posto dalla Convenzione». Prosegue quindi affermando che «l’abrogazione dell’abuso di ufficio ha, dunque, violato questo specifico obbligo, in quanto non è stata “compensata” dall’adozione di meccanismi, preventivi o repressivi, penali o amministrativi volti a mantenere il medesimo standard di efficacia ed effettività nella prevenzione degli abusi funzionali intenzionalmente posti in essere dagli agenti pubblici ai danni dei cittadini»[27].
Seguendo il ragionamento della Corte, pertanto, la violazione dell’obbligo internazionale rilevante ai sensi degli artt. 11 e 117, primo comma Cost. non consisterebbe nella mera inosservanza dell’obbligo di incriminazione dell’abuso d’ufficio – scelta, anzi, ritenuta non strettamente necessaria dalla Corte – ma nell’inadempimento dell’obbligo di mantenere un determinato standard di tutela nella lotta preventiva e successiva alla corruzione in tutte le sue forme. L’abrogazione dell’art. 323 c.p., infatti, non comporterebbe solamente un arretramento della tutela penale, ma inciderebbe anche sul complessivo sistema di prevenzione e contrasto degli abusi di potere all’interno della Pubblica Amministrazione.
Conferendo rilevanza penale alla violazione di regole extrapenali in materia di gestione del potere e conflitti di interessi, infatti, l’art. 323 c.p. garantiva effettività alle stesse, incidendo non solo dal punto di vista repressivo ma anche sul piano della prevenzione. Né, del resto – osserva ancora la Corte – dopo l’abrogazione sono state inserite nuove fattispecie penali più circoscritte che incriminino gli abusi commessi in violazione di specifiche norme di legge o del dovere di astensione – che non presentino anche gli elementi dei più gravi delitti di corruzione o concussione – come pure si ipotizzava nella relazione introduttiva al disegno di legge n. S. 808.
All’insufficienza del sistema anti-corruzione successivamente all’abrogazione dell’abuso d’ufficio non può neanche porre rimedio il nuovo art. 314-bis c.p., dedicato alla repressione della “Indebita destinazione di denaro o cose mobili” e introdotto con dall’art. 9, comma 1 del decreto legge 4 luglio 2024, n. 92, convertito con modificazioni dalla legge 8 agosto 2024, n. 112[28]. Tale nuova figura delittuosa, infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità si porrebbe sì in continuità con la disposizione di cui all’abrogato art. 323 c.p., ma solo riguardo ad una parte delle condotte punibili sotto la sua vigenza, ossia quelle meramente distrattive. Di conseguenza, è difficile ritenere che l’art. 314-bis c.p. possa rientrare nel perimetro applicativo dell’art. 19 della Convenzione di Merida, potendo sovrapporsi piuttosto all’art. 17 della stessa, rubricato «Sottrazione, appropriazione indebita, od altro uso illecito di beni da parte di un pubblico ufficiale»[29]. Del resto, peraltro, nel preambolo al decreto legge n. 92/2024 il Governo non nascondeva che l’introduzione dell’art. 314-bis c.p. faceva seguito ad obblighi di carattere euro-unitario[30] piuttosto che a quelli derivanti dalla Convenzione di Merida.
Il percorso argomentativo dell’ordinanza di rimessione della Corte di Cassazione si chiude con alcune considerazioni sistematiche. Si rileva, infatti, che il deficit rispetto agli standard di tutela previsti dalla Convenzione di Merida avrebbe potuto essere colmato anche attraverso rimedi diversi dalla sanzione penale, ad esempio con il rafforzamento dei rimedi preventivi contro le condotte abusive già sul piano amministrativo. Il legislatore, tuttavia, nel determinarsi ad abrogare l’art. 323 c.p., ha ritenuto sufficiente la disciplina già esistente in materia di prevenzione della “malpractice” nel settore pubblico. In particolare, nella relazione al disegno di legge si afferma che «l’insieme organico dei rimedi preventivi, approntati anche in sede di controllo amministrativo, e repressivi, di natura penalistica, disciplinare, contabile ed erariale, consente di assicurare una completa tutela degli interessi pubblici, senza arretramenti»[31].
Le predette considerazioni non sono state condivise dalla Suprema Corte, che ha ritenuto i rimedi di carattere diverso dalla tutela penale attualmente esistenti non idonei, quanto meno rispetto alla dimensione individuale del singolo cittadino portatore di un interesse a non essere danneggiato da abusi di potere in suo danno o dalla mancata astensione in presenza di conflitti di interesse. La disciplina amministrativa in materia si presenterebbe, infatti, frammentaria, mentre i rimedi preventivi anti-corruzione si concentrano sull’organizzazione complessiva dell’azione amministrativa più che sui singoli episodi di illeciti; allo stesso modo, i rimedi giurisdizionali non sarebbero sempre attivabili dal cittadino, così come i sistemi disciplinari di carattere amministrativo, oltre ad essere settoriali, non consentirebbero l’intervento della persona offesa e un’istruttoria incisiva come quella del processo penale; infine, anche la responsabilità contabile ed erariale avrebbe ad oggetto il danno arrecato dallo Stato, piuttosto che quello subito dal privato.
In definitiva, insomma, l’abrogazione dell’art. 323 c.p., seppur non direttamente in contrasto con gli obblighi internazionali scaturenti dalla Convenzione di Merida, aprirebbe un vulnus non sanato nel complessivo sistema di contrasto preventivo e repressivo alla corruzione, violando le disposizioni della Convenzione che richiedono il mantenimento di determinati standard in tale ambito.
- Ulteriori profili di contrasto con la Costituzione: la violazione degli artt. 97, 28 e 3 Cost.
Sebbene l’ordinanza di rimessione della Corte di Cassazione abbia limitato la censura di legittimità costituzionale ai soli artt. 11 e 117, primo comma Cost., in relazione alle disposizioni della Convenzione di Merida, le ordinanze dei Tribunali di merito che l’hanno preceduta hanno talvolta allargato l’ambito del sindacato di legittimità costituzionale ad altre disposizioni, cui si farà brevemente cenno per completezza.
In primo luogo, alcune ordinanze di rimessione fanno riferimento alla presunta violazione dell’art. 97 della Costituzione, nella parte in cui eleva a principi costituzionali l’imparzialità e il buon andamento della Pubblica Amministrazione[32].
Il Tribunale di Firenze fonda le sue argomentazioni a riguardo partendo dalle basi poste dalla sentenza n. 8/2022 della Corte costituzionale, che aveva ad oggetto proprio un’altra presunta violazione dell’art. 97 Cost., in quell’occasione asseritamente perpetrata dalla parziale abolitio criminis a seguito dell’intervento del legislatore del 2020 sull’art. 323 c.p., che aveva ristretto l’area delle condotte penalmente rilevanti[33]. Nella citata pronuncia la Consulta osservava «come una censura di illegittimità costituzionale non possa basarsi sul pregiudizio che la formulazione, in assunto troppo restrittiva, di una norma incriminatrice, recherebbe a valori di rilievo costituzionale, quali, nella specie, l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione. Le esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono, infatti, nella tutela penale, ben potendo essere soddisfatte con altri precetti e sanzioni: l’incriminazione costituisce anzi un’extrema ratio, cui il legislatore ricorre quando, nel suo discrezionale apprezzamento, lo ritenga necessario per l’assenza o l’inadeguatezza di altri mezzi di tutela»[34].
Il tribunale rimettente, insomma, prende atto che la tutela del buon andamento e dell’imparzialità dell’azione amministrativa non debba essere rimessa necessariamente alla scure penale, ma constata anche che il quadro normativo in cui interviene l’abrogazione dell’art. 323 c.p. è mutato rispetto a quello su cui si fondavano le ragioni della sentenza n. 8/2022 della Corte costituzionale. L’abrogazione dell’abuso d’ufficio, infatti, secondo il Tribunale di Firenze, interviene nel contesto di una generale contrazione dell’area penalmente rilevante nel settore dei delitti contro la P.A., considerando che le uniche condotte “abusive” che rimangono incriminate sono quelle individuate dall’art. 314-bis c.p., introdotto quasi contestualmente, e che l’art.1, comma 1, lettera e) della stessa L. 114/2024 sostituiva l’art. 346-bis c.p., restringendone fortemente l’ambito applicativo. In questo contesto, si aggiunga che – come sostenuto successivamente anche nell’ordinanza della Corte di Cassazione – l’abrogazione dell’abuso d’ufficio «non è stata in alcun modo “compensata” dalla introduzione di appositi illeciti amministrativi o dal potenziamento delle misure di prevenzione di condotte gravemente lesive del buon andamento e della imparzialità della pubblica amministrazione», e che l’art. 323 c.p. poteva ritenersi una “norma fondativa” dell’obbligo di astensione, in particolare nei settori ove non era oggetto di una specifica disciplina. Infine, dal punto di vista sistematico, andrebbe anche considerata la maggior forza deterrente offerta dalla tutela penale, anche per i riflessi sull’accertamento dell’illecito, e il ruolo di norma di chiusura del sistema dei delitti contro la P.A., che «evitava il dilagare di condotte dolosamente arbitrarie e lasciava ai cittadini uno strumento attraverso cui ricorrere alla magistratura».
Venendo invece alla presunta violazione dell’art. 28 Cost., bisogna fare riferimento all’ordinanza del Tribunale di Teramo, che in verità affronta il tema in punto di ammissibilità della questione di legittimità costituzionale.
A giudizio del suddetto Tribunale, nella nostra Costituzione esisterebbero obblighi impliciti di criminalizzazione di condotte lesive di beni giuridici di particolare rilievo, e ciò – oltre ad emergere da alcune disposizioni, come l’art. 13, quarto comma Cost.[35] – sarebbe stato anche confermato in diverse occasioni dalla Corte costituzionale, come nel caso della valutazione sull’ammissibilità del quesito referendario sull’abrogazione dell’art. 579 c.p.[36].
Uno dei predetti obblighi di incriminazione parrebbe potersi riscontrare nell’art. 28 Cost., nella parte in cui dispone che «i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti». In particolare, l’assoggettamento dei pubblici ufficiali alle leggi penali non farebbe semplicemente riferimento alla loro responsabilità personale, già fondata sull’art. 27 Cost., ma sarebbe piuttosto «espressione della necessità di una soglia di tutela penale minima di fatti realizzati da dipendenti pubblici che ledono o espongono a pericolo i diritti dei cittadini»[37]. L’abrogazione dell’art. 323 c.p., allora, privando di una tutela penale minima una rilevante serie di fatti che ledono il i diritti fondamentali del cittadino, si porrebbe in contrasto con quanto disposto dall’art. 28 Cost.
Tale contrasto, peraltro, inciderebbe anche in punto di ammissibilità di una pronuncia da cui derivino effetti penali in malam partem: non si potrebbe, infatti, postulare l’esclusione tout court del sindacato di costituzionalità sull’abrogazione di una fattispecie di reato che realizza a livello primario i principi di cui all’art. 28 Cost., o di altra disposizione che prevede obblighi di criminalizzazione per la tutela di beni giuridici di particolare rilievo, senza riconoscere all’art. 25, secondo comma Cost., che esprime la riserva di legge in materia penale, «una posizione egemone e “tiranna” rispetto agli altri principi costituzionali». Del resto, l’insegnamento della costante giurisprudenza costituzionale in tema di bilanciamento tra valori costituzionali è nel senso della proporzionalità e ragionevolezza dell’operazione, in modo da evitare l’assoluta prevalenza o il totale sacrificio di alcuno degli interessi in gioco[38].
In definitiva, l’art. 28 Cost. rappresenterebbe una delle eccezioni al divieto di intervento in malam partem in ambito penale da parte della Consulta, in quanto espressivo di un obbligo costituzionale di tutela penale dell’imparzialità e del buon andamento della Pubblica Amministrazione, codificato però dall’art. 97 Cost., l’unico infine richiamato a norma-parametro di costituzionalità – insieme all’art. 117 Cost. – dal dispositivo dell’ordinanza del Tribunale di Teramo.
Va infine sottolineato il riferimento al parametro di cui all’art. 3 della Costituzione, invocato dal GIP del Tribunale di Roma che, nell’ambito della specifica questione sottoposta al suo giudizio (concernente il tentativo di alterare i risultati del concorso per l’accesso alla magistratura ordinaria), reputa irragionevole – oltre che in contrasto con le norme e lo spirito della Convenzione di Merida – «il fatto che sia rimasto privo di tutela penale l’accesso corretto, e paritario, al pubblico impiego, e in particolare alla magistratura, ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere (art. 104 della Costituzione)».
Per stigmatizzare l’irragionevolezza della scelta del legislatore nazionale, operata con l’abrogazione dell’art. 323 c.p., il giudice evoca la «persistente e rafforzata tutela penale, nell’ordinamento nazionale, delle condotte che violano la correttezza delle procedure che conducono alla scelta del contraente e allo svolgimento della gara nelle procedure di appalto pubblico». Il riferimento è all’art. 353 c.p., che sanziona la “turbativa d’asta”, fattispecie alla quale non sono riconducibili, per consolidata giurisprudenza della Cassazione, le condotte illecite relative a procedure di assunzione o di concorsi per titoli nel pubblico impiego[39]. Il giudice romano, per evidenziare la grave e ingiustificata sperequazione venutasi a creare nella tutela dei cittadini, evidenzia come «il soggetto che venga nominato membro di una commissione tesa alla valutazione delle offerte per una gara pubblica ove agisca in violazione della disciplina prevista dal codice degli appalti, risponderà dell’ipotesi di cui all’art. 353, comma 2 del codice penale, mentre lo stesso soggetto nominato nella commissione per un concorso pubblico sarà esente da responsabilità penale». Il sistema venutosi a creare ha determinato, per il rimettente, «un deciso arretramento nel perseguimento degli scopi del Trattato», apparendo il potere legislativo «esercitato in contrasto con gli obblighi internazionali assunti».
Le medesime osservazioni vengono dal giudice valorizzate non solo per comprovare l’inadempimento della Convezione di Merida, ma anche in prospettiva interna, per «rappresentare i dubbi circa il contrasto con l’art. 3 della Costituzione», che l’ordinanza di rimessione eleva ad autonomo parametro. Il raffronto tra la persistente fattispecie di cui all’art. 353 c.p. e la norma abrogativa dell’abuso d’ufficio inducono il rimettente a ritenere quest’ultima come una «norma penale di favore, suscettibile del giudizio di legittimità costituzionale», venendo a sottrarre senza alcuna ragione giustificatrice una categoria di soggetti dall’attuazione della norma penale generale. La “sperequazione normativa” emergerebbe anche dal lato del soggetto agente che riveste la qualifica di pubblico ufficiale, che si vedrebbe contestare il delitto di cui all’art. 353 c.p. per condotte collusive che, allorché poste in essere all’interno di una commissione esaminatrice per l’assunzione degli impiegati dello Stato, sarebbero invece penalmente irrilevanti.
La trattazione della questione di legittimità costituzionale concernente l’abrogazione dell’abuso d’ufficio è stata calendarizzata per il 7 maggio, in udienza pubblica. Se, per quanto esposto supra, ci si può spingere a prevedere il superamento del vaglio di ammissibilità, più incerto appare l’esito della valutazione sulla fondatezza della questione. Ci si può qui limitare ad osservare che la rimessione della questione, da ultimo, anche da parte della Suprema Corte, conferisce autorità alle invero già solide argomentazioni propugnate dalla giurisprudenza di merito nelle precedenti ordinanze.
Volendosi in questa sede porre, con una sorta di esercizio didattico, nella prospettiva dell’eventuale accoglimento della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lett. b) della L. 114/2024 ci si può interrogare sulle possibili conseguenze di una decisione in tal senso.
Sulla scorta della giurisprudenza costituzionale sopra richiamata, si può ritenere che la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma abrogativa dell’art. 323 c.p. comporterebbe, in primo luogo, la reviviscenza della fattispecie penale da esso contemplata, rendendo nuovamente punibili le condotte descritte. Trattandosi di una norma penale, tuttavia, emergono delicati profili di diritto intertemporale da affrontare. Gli artt. 136 Cost. e 30, c. 3 L. 87/1953, che regolano gli effetti delle sentenze della Corte costituzionale, devono infatti essere letti alla luce dei principi di irretroattività della norma penale sfavorevole e di retroattività della norma penale favorevole, fondati rispettivamente sugli artt. 25, comma secondo e 3 Cost. nonché, a livello ordinario, sull’art. 2 c.p.
Procedendo con ordine, si può rilevare come nessun problema particolare osterebbe all’applicazione dell’art. 323 c.p. alle condotte commesse dopo la sua reviviscenza, così come pacifica sarebbe la non punibilità delle condotte abusive poste in essere nel lasso di tempo intercorso tra l’abrogazione e la pronuncia dichiarativa dell’incostituzionalità della norma abrogativa. Ciò in quanto l’applicazione della norma meno favorevole, tornata in vigore a seguito della sentenza della Corte costituzionale, si risolverebbe in sostanza nell’applicazione retroattiva di una legge penale non più in vigore al momento della condotta[40].
La questione più spinosa riguarda, invece, la regolamentazione dei casi in cui la condotta punibile ex art. 323 c.p. sia stata commessa anteriormente alla sua momentanea abrogazione. A tale riguardo, è opportuno distinguere:
- i casi in cui, tra l’abrogazione e la reviviscenza della fattispecie, sia intervenuta una sentenza di proscioglimento passata in giudicato: in questa circostanza, la declaratoria di incostituzionalità della norma abrogativa non verrebbe a influire sulla pronuncia;
- i casi in cui, invece, nel vigore della norma poi dichiarata incostituzionale non sia intervenuto il giudicato favorevole, ad esempio nei giudizi a quibus, sospesi in attesa della pronuncia della Corte costituzionale.
Questo secondo gruppo di ipotesi, in particolare, ha posto alcuni interrogativi, mai risolti espressamente dalla Consulta, che nella sentenza n. 28 del 2010, richiamata anche dalla n. 5 del 2014[41], si è limitata ad osservare che «occorre quindi distinguere tra controllo di legittimità costituzionale, che non può soffrire limitazioni, se ritualmente attivato secondo le norme vigenti, ed effetti delle sentenze di accoglimento nel processo principale, che devono essere valutati dal giudice rimettente secondo i principi generali che reggono la successione nel tempo delle leggi penali». Svincolata dal vaglio di ammissibilità, pertanto, la valutazione degli effetti è rimessa al giudizio a quo.
Ciò che è opportuno chiedersi, allora, è se agli imputati nei giudizi a quibus, sospesi in attesa di una pronuncia di incostituzionalità la cui valutazione di fondatezza ne presuppone anche la rilevanza, si applichi la disposizione di legge indirettamente ripristinata – nel nostro caso l’art. 323 c.p. – oppure, considerando la norma abrogativa una lex mitior tra due leggi più severe, debba ritenersi operante il principio di retroattività della lex mitior intermedia.
Una prima posizione, più garantista, può essere ricostruita intorno ad una decisione della Suprema Corte[42], intervenuta peraltro nel giudizio a valle della sentenza n. 5 del 2014, secondo cui, anche per i fatti commessi prima dell’entrata in vigore della norma poi dichiarata incostituzionale, deve ritenersi operante in modo retroattivo la lex mitior, anche nel caso in cui sia successivamente venuta meno, a prescindere dalla causa. Opinando diversamente, infatti, si darebbe luogo ad una irragionevole discriminazione tra chi veda definito il proprio procedimento durante la vigenza della norma di abrogativa e chi invece sia ancora sottoposto alla potestà punitiva statale al momento della dichiarazione di illegittimità costituzionale della stessa norma. Ne deriverebbe una violazione del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. sul quale, peraltro, come visto in precedenza, si fonda il principio di retroattività della norma penale favorevole.
Di altro avviso sono, invece, la prevalente dottrina[43] e la stessa Cassazione che, nella recente ordinanza pronunciata dalla Sesta Sezione penale, di cui si è trattato nei paragrafi precedenti, ha sollevato la questione di legittimità della disposizione abrogativa dell’art. 323 c.p. In base a questo secondo orientamento, infatti, sarebbe opportuno in primo luogo distinguere tra un mutamento della disciplina applicabile di tipo “fisiologico”, liberamente valutato dal legislatore in base all’opportunità politica, e quello di carattere “patologico”, dovuto all’accertamento dell’illegittimità costituzionale della disposizione intermedia ad opera del giudice delle leggi: nel primo caso sarebbe corretto applicare retroattivamente la norma più favorevole (la lex mitior), anche se successivamente sostituita; nel caso in cui la lex mitior sia dichiarata incostituzionale, invece, non vi sarebbe ragione per derogare agli ordinari effetti delle sentenze della Corte, con la conseguenza che ai soggetti ancora sub iudice si applicherebbe la fattispecie ripristinata, con esclusione dell’operatività dell’art. 2, comma 2 c.p. In questo senso sembra orientata, peraltro, la richiamata sentenza n. 394/2006 della Consulta[44].
All’obiezione sollevata dal precedente del 2016, che ravvisava un vulnus al principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., nella discriminazione – ritenuta irragionevole – tra coloro che avessero definito la propria posizione nei confronti della potestà punitiva statale nel periodo in cui la norma abolitiva era rimasta in vigore, e coloro che fossero ancora sottoposti a processo successivamente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma abolitiva stessa, viene agevolmente replicato che ciò non è altro che un effetto inevitabile della prevalenza, nei confronti dei primi, del diritto(convenzionalmente riconosciuto dall’art. 4 prot. 7 CEDU, e dunque costituzionalmente rilevante ex art. 117 co. 1 Cost.) a non essere sottoposti a un secondo giudizio per lo stesso fatto, rispetto al principio ordinamentale dell’annullamento ex tunc della norma dichiarata incostituzionale (e della sua conseguente inidoneità, in linea di principio, a produrre qualsivoglia effetto a partire dal giorno della dichiarazione di illegittimità: art. 30 co. 3 l. 87/1953)[45].
Meritano menzione, infine, le conseguenze dell’eventuale sentenza di accoglimento sul successivo esercizio della potestà legislativa. Se in ipotesi di rigetto, infatti, non sarebbe comunque precluso al legislatore un nuovo intervento sulla materia, in caso di accoglimento della questione la potestà legislativa risulterebbe di conseguenza conformata da vincoli determinati dal contenuto della pronuncia. Nel caso di specie, deve ritenersi che l’accertamento dell’incostituzionalità della disposizione abrogativa dell’abuso d’ufficio non sia totalmente preclusiva di una nuova scelta nel senso dell’abolizione della fattispecie di cui all’art. 323 c.p. Ciò che è certo, tuttavia, è che il legislatore non potrebbe intervenire nuovamente in tal senso senza provvedere, al contempo, al rafforzamento delle misure preventive e repressive nei confronti delle condotte abusive dei pubblici amministratori, sia nel caso in cui la questione sia accolta sotto il profilo dell’art. 117, sia nel caso in cui sia invece considerata la violazione dell’art. 97 Cost. Non sarebbe neanche necessario, peraltro, che le predette misure avessero carattere penale, come ha insegnato la stessa Corte nella sentenza n. 8/2022[46].
Non resta che attendere la pronuncia della Consulta. Non è tuttavia da escludere che la Corte, ritenendo ammissibile la questione, possa anche astenersi da una immediata pronuncia di accoglimento, optando per un’ordinanza-monito e “ripassando la palla” al legislatore, atteso che l’osservanza degli obblighi imposti dalla Convenzione di Merida non sembrerebbe presupporre necessariamente il ripristino della fattispecie di cui all’art. 323 c.p.[47]. Il rispetto degli obblighi sovranazionali potrebbe infatti essere altresì conseguito con l’introduzione di nuove fattispecie penali più precise e circoscritte, anche riconsiderando i risultati del lavoro svolto dalla Commissione Morbidelli nel 1996[48].
[1] C. CUPELLI, Sulla riforma dell’abuso d’ufficio, in www.sistemapenale.it, 23 gennaio 2023. Si vedano anche le relazioni delle audizioni dei professori G.L. GATTA e M. GAMBARDELLA, svoltesi davanti alla II Commissione Giustizia della Camera dei Deputati nella seduta del 18 maggio 2023, acquisite e pubblicate sul sito web della Camera dei Deputati-Commissioni permanenti-Commissione II Giustizia.
[2] Cass. pen., sez. VI, ord. del 21 febbraio (dep. 7 marzo) 2025, n. 9442, in www.giurisprudenzapenale.com, 10 marzo 2025.
[3] Tra le ordinanze dei giudici di merito, ex multis, Trib. Firenze, ord. del 24 settembre 2024; Trib. Locri, ord. del 30 settembre 2024; Trib. Busto Arsizio, ord. del 21 ottobre 2024; Trib. Bolzano, ord. dell’11 novembre 2024; Trib. Teramo, ord. del 22 novembre 2024.
[4] L’ordinanza è stata pronunciata nel p.p. 36300/22 RG, che vedeva imputati del delitto di cui all’art. 323 c.p. – nella fattispecie del tentativo – un partecipante al concorso per esami a 500 posti di magistrato ordinario e un componente della commissione del concorso medesimo. La decisione si segnala per la peculiarità della questione giuridica, attinente alle disposizioni sull’accesso ai concorsi pubblici.
[5] Si fa riferimento al Disegno di legge n. S. 808.
[6] F. BRICOLA, In tema di legittimità costituzionale dell’art. 323 c.p., in Riv. it. dir. e proc. pen., 1966, 985 ss.; G. GRASSO, Previsioni legali di reato e formazione di massime di giurisprudenza, in Giur. cost., 1965, p. 510.
[7] Corte Cost., 19 febbraio 1965, n. 7, in Giur. cost., 1965, 50.
[8] L’ultima formulazione dell’art. 323 c.p. recitava: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno carattere di rilevante gravità”. Tra la vasta bibliografia sulla riforma del 2020 si rinvia, tra gli altri, a: L. DELLA RAGIONE, L’abuso d’ufficio riformato tra diritto penale ed extrema ratio di tutela, in A.R. CASTALDO, M. NADDEO (a cura di), La riforma dell’abuso d’ufficio, Torino, 2021, 105 ss.; A. MELCHIONDA, La riforma dell’“abuso d’ufficio” nel caleidoscopio del sistema penale dell’emergenza da Covid-19, in Archivio Penale, 2, 2021; A. MERLO, Quasi come Queneau: il legislatore e l’impresa inane di riformare l’abuso d’ufficio, in Foro it., II, 2021, 231 ss.; G. RUGGIERO, L’abuso d’ufficio fra potere discrezionale e legalità vincolante, in Archivio Penale, 3, 2021; E. MATTEVI, L’abuso d’ufficio. Una questione aperta. Evoluzione e prospettive di una fattispecie discussa, Trento, 2022.
[9] Corte Cost., 18 gennaio 2022, n. 8, in www.cortecostituzionale.it.
[10] Tra la giurisprudenza successiva alla riforma del 2020, v. Cass. pen, sez. VI, 9 dicembre 2020 (dep. 8 gennaio 2021), n. 442, in Cass. pen., 2021, 2, p. 490, Cass. pen, Sez. VI, 16 febbraio 2021 (dep. 8 settembre 2021), n. 33240 in Cass. pen., 2021, 12, p. 3913 e Cass. pen., Sez. VI, 11 novembre 2021 (dep. 17 gennaio 2022), n. 1606 in Guida al diritto, 2022, 7.
[11] Limitandoci in questa sede alle proposte di iniziativa parlamentare presentate nella XIX legislatura: a) il d.d.l. Rossello (AC 399), presentato il 19 ottobre 2022 e il d.d.l. Pittalis (AC 645), del 29 novembre 2022, entrambi orientati verso l’abrogazione secca della disposizione di cui all’art. 323 c.p.; b) il d.d.l Costa (AC 654), presentato il 29 novembre 2022, che mirava a depenalizzare la fattispecie, prevedendo, accanto all’abrogazione della disposizione di cui all’art. 323 c.p., la contestuale introduzione di un articolo 54-ter nel T.U. Enti Locali, volto a reintrodurre come illecito amministrativo la fattispecie contestualmente abrogata, traslando l’illecito dal penale al settore amministrativo; c) il d.d.l. Pella (AC 716), presentato il 14 dicembre 2022 che proponeva, invece, una riformulazione dell’art. 323 c.p., con espunzione dell’abuso c.d. “di vantaggio”.
[12] La proposta è stata presentata dalla Commissione il 3 maggio 2023. Si segnala che il 19 luglio 2023 la Commissione Politiche dell’Unione Europea della Camera dei Deputati italiana ha redatto un “parere motivato” sulla non conformità della proposta al principio di sussidiarietà. Con particolare riferimento all’obbligo di incriminazione delle condotte di abuso d’ufficio, il parere ritiene non interamente dimostrato il carattere transnazionale del fenomeno criminale oggetto della disciplina. Sul punto, v. E. MATTEVI, L’abuso d’ufficio: considerazioni a margine della sua abrogazione, in Leg. pen., 3/2024, p. 302 ss.
[13] La sentenza n. 37 del 2019 concerneva la legittimità della disposizione legislativa che abrogava il reato di ingiuria, convertendolo in illecito civile. In quella sentenza, tuttavia, la Corte ebbe ad escludere nel merito la sussistenza di una disciplina penale di favore e rigettò la questione, ritenendo che il pur fondamentale diritto all’onore non implicasse, sul piano costituzionale né sovranazionale, obblighi di incriminazione, riconoscendo peraltro l’adeguatezza della tutela apprestata dal d. lgs. n. 7 del 2016, che introduceva una sanzione pecuniaria di carattere civile, che veniva ad affiancarsi alla persistente tutela aquiliana.
[14] Nella decisione de qua la Corte affermava come «altro […] è la garanzia che i principi del diritto penale-costituzionale possono offrire agli imputati, circoscrivendo l’efficacia spettante alle dichiarazioni d’illegittimità delle norme penali di favore; altro è il sindacato cui le norme stesse devono pur sempre sottostare, a pena di istituire zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione, all’interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile».
[15] Precisa la Corte che il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole «ha una valenza ben diversa»: si connota come «valore assoluto, non suscettibile di bilanciamento con altri valori costituzionali», con la conseguenza che la contrarietà a Costituzione di una norma penale non può comportare «l’assoggettamento a pena, o a pena più severa, di un fatto che all’epoca della sua commissione risultava, in base alla norma rimossa, penalmente lecito o soggetto a pena più mite: derivandone, per tale aspetto, un limite al principio di privazione di efficacia della norma dichiarata costituzionalmente illegittima»; il principio di retroattività della norma penale più mite, invece, ha un fondamento nel principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), che «ne segna, peraltro, anche il limite: nel senso che, a differenza del principio della irretroattività della norma penale sfavorevole – assolutamente inderogabile – detto principio deve ritenersi suscettibile di deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli» (a questo proposito, la Corte richiama le sent. nn. 6/1978, 74/1980 e l’ord. n. 330/1995).
[16] Sul tema v. A. CELOTTO, Venisti tandem! La Corte, finalmente, ammette chele norme comunitarie sono “cogenti e sovraordinate”, in Giur. cost., 2010, p. 382 ss.
[17] La decisione è stata oggetto di un approfondito commento ad opera di M. SCOLETTA, La sentenza n. 5/2014 della Corte costituzionale: una nuova importante restrizione delle “zone franche” dal sindacato di legittimità nella materia penale, in Dir. pen. cont., 2/2014, p. 242 ss.
[18] Con la sentenza n. 46 del 2014, la Corte ha dichiarato l’illegittimità della disposizione della Regione Sardegna che, incidendo in materia di indici di edificabilità, veniva a restringere la sfera applicativa del reato previsto dall’art. 44 del dpr 380/2001.
[19] La disposizione dichiarata illegittima, in quanto inserita in sede di conversione nel testo di un decreto legge concernente altra materia, prevedeva la modifica dell’art. 73, comma 1, del dpr 309/1990 con l’introduzione di una pena minima più lieve – 6 anni di reclusione – rispetto a quella di 8 anni prevista nel testo originario. Conseguenza di questa decisione è stata la riespansione della disposizione meno favorevole anche ai fatti commessi prima della modifica in melius. Si rileva che tale disposizione verrà comunque meno ad opera della stessa Corte che, nella successiva decisione n. 40 del 2019 – preso atto dell’inerzia del legislatore – la reputerà in contrasto con i principi di proporzionalità, eguaglianza e ragionevolezza. Sul punto, si v. A. DELLA BELLA-F. VIGANO’, Sulle ricadute della sentenza n. 32/2014 della Corte costituzionale sull’articolo 73 T.U. stup., in Dir. pen. cont., 27 febbraio 2014.
[20] Per le prime reazioni della dottrina all’abrogazione dell’art. 323, cfr. G.L. GATTA, Abuso d’ufficio e traffico di influenze dopo la l. n. 114/2024: il quadro dei problemi di diritto intertemporale e le possibili questioni di legittimità costituzionale in www.sistemapenale.it, 26 agosto 2024 e A. MANNA, Sull’abolizione dell’abuso d’ufficio e gli ulteriori interventi in tema di delitti contro la P.A.: note critiche in www.sistemapenale.it, 6 agosto 2024. Quanto all’accento posto sull’art. 19 della Convenzione nelle ordinanze di rimessione, invece, cfr. per tutte Trib. Firenze, ord. del 24 settembre 2024.
[21] Nel testo originale: «Each State Party shall consider adopting such legislative and other meas ures as may be necessary to establish as a criminal offence, when committed intentionally, the abuse of functions or position, that is, the performance of or failure to perform an act, in violation of laws, by a public official in the discharge of his or her functions, for the purpose of obtaining an undue advantage for himself or herself or for another person or entity».
[22] Per la dottrina, G.L. GATTA, Abuso d’ufficio e traffico di influenze dopo la l. n. 114/2024: il quadro dei problemi di diritto intertemporale e le possibili questioni di legittimità costituzionale, cit., ha sostenuto che l’art. 19 della Convenzione di Merida «prevede non un obbligo di incriminazione ma una raccomandazione/facoltà per gli stati aderenti di punire l’abuso d’ufficio»; nello stesso senso sembra opinare G.M. RUOTOLO, L’abrogazione del reato di abuso d’ufficio alla luce della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione. Alcune brevi considerazioni internazionalistiche, in www.sistemapenale.it, 19 dicembre 2024, per il quale la disposizione di cui all’art. 19 «non può esser considerata la fonte dalla quale discende alcun obbligo di criminalizzazione o divieto di depenalizzazione»; v. anche C. CUPELLI, Sulla riforma dell’abuso d’ufficio, cit. Quanto alla giurisprudenza, significativo è il seguente passaggio della citata ordinanza di rimessione del Tribunale di Firenze: «…la portata dell’art. 19 – diretto, anzitutto, (ma non solo, come si dirà) agli Stati contraenti che non avevano già, diversamente dall’Italia, nel
proprio ordinamento, la fattispecie di abuso d’ufficio all’atto dell’adesione alla Convenzione stessa – non può
considerarsi una mera raccomandazione priva di effetti obbligatori sul piano internazionale e convenzionale: in ragione della espressione impiegata “shall consider adopting”, l’art. 19 della Convenzione non è collocabile tra le disposizioni del tutto facoltative [lett. c) del punto 11 della Legislative guide)], bensì va annoverata tra le “Measures that States parties must consider applying or endeavour to adopt” [lett. b) del punto 11 della Legislative guide]. Categoria quest’ultima che comporta un vero e proprio obbligo in capo allo Stato contraente come emerge – non solo dalla prima parte del punto 11, laddove si afferma in modo inequivoco che le disposizioni della Convenzione prevedono un diverso livello di obblighi (“…the provisions of the Convention do not all have the same level of obligation”) e che, dunque, di obbligo, ancorché di diverso contenuto, si tratta anche in ipotesi non riconducibile a quello contemplato dalla lett. a) – ma anche dalla seconda parte del punto 11, laddove, proprio nella lett. b), si fa impiego del verbo “must” (“Measures that States parties must consider applying or endeavour to adopt”, ovvero: misure che gli Stati parti devono considerare di applicare o tentare di adottare)».
[23] Per completezza, si riportano i paragrafi 11 e 12 della Guida per l’implementazione della Convenzione nel testo originale: «11. In establishing their priorities, national legislative drafters and other policymakers should bear in mind that the provisions of the Convention do not all have the same level of obligation. In general, provisions can be grouped into the following three categories: (a) Mandatory provisions, which consist of obligations to legislate (either
absolutely or where specified conditions have been met); (b) Measures that States parties must consider applying or endeavour to adopt; (c) Measures that are optional. 12. Whenever the phrase “each State Party shall adopt” is used, the reference is to a mandatory provision. Otherwise, the language used in the guide is “shall consider adopting” or “shall endeavour to”, which means that States are urged to consider adopting a certain measure and to make a genuine effort to see whether it would be compatible with their legal system. For entirely optional provisions, the guide employs the term “may adopt”».
[24] Cass. pen., ord. 9442/2025, p. 10.
[25] Anche in questo caso ci sembra utile riportare il testo non tradotto: «Each State Party shall, in accordance with the fundamental principles of its domestic law, endeavour to adopt, maintain and strengthen systems that promote transparency and prevent conflicts of interest».
[26] Cfr. G.M. RUOTOLO, L’abrogazione del reato di abuso d’ufficio alla luce della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione. Alcune brevi considerazioni internazionalistiche, cit.
[27] Cass. pen., ord. 9442/2025, p. 12.
[28] Art. 314-bis c.p.: «Fuori dei casi previsti dall’articolo 314, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, li destina ad un uso diverso da quello previsto da specifiche disposizioni di legge o da atti aventi forza di legge dai quali non residuano margini di discrezionalità e intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.
La pena è della reclusione da sei mesi a quattro anni quando il fatto offende gli interessi finanziari dell’Unione europea e l’ingiusto vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto sono superiori ad euro 100.000».
[29] Per agevolare il confronto con l’art. 314-bis c.p., si riporta anche il testo in italiano dell’art. 17 della Convenzione di Merida: «Ciascuno Stato Parte adotta le misure legislative e le altre misure necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quando gli atti sono stati commessi intenzionalmente, alla sottrazione, all’appropriazione indebita o ad un altro uso illecito, da parte di un pubblico ufficiale, a suo vantaggio o a vantaggio di un’altra persona o entità, di qualsiasi bene, fondo o valore pubblico o privato o di ogni altra cosa di valore che sia stata a lui affidata in virtù delle sue funzioni».
[30] Si fa riferimento alla Direttiva UE 2017/1371 del 5 luglio 2017 relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale (c.d. Direttiva PIF), che richiede l’incriminazione delle condotte di «appropriazione indebita di fondi o beni, per uno scopo contrario a quello previsto» da parte del funzionario pubblico.
[31] Sempre nella relazione al d.d.l. S. n. 808, p. 3.
[32] Per tutte, si faccia riferimento all’ordinanza del Tribunale di Firenze del settembre 2024, la prima sull’art. 1, comma 1, lett. b) della L. 9 agosto 2024, n. 114. V. anche l’ordinanza del Tribunale di Teramo.
[33] Per un esame più approfondito dell’intervento del 2020, v. supra al par. 2.
[34] Corte cost., 18 gennaio 2022, n. 8, in www.cortecostituzionale.it.
[35] Con tale disposizione si prevederebbe l’obbligo di tutela penale dell’incolumità psicofisica dei detenuti.
[36] In tale occasione, la Corte costituzionale affermò che «discipline come quella dell’art. 579 cod. pen., poste a tutela della vita, non possono, pertanto, essere puramente e semplicemente abrogate, facendo così venir meno le istanze di protezione di quest’ultima a tutto vantaggio della libertà di autodeterminazione individuale» (Corte cost., 15 febbraio 2022, n. 50). L’interesse giuridico tutelato di riferimento, rispetto alla fattispecie di “omicidio del consenziente”, è chiaramente il fondamentale bene “vita”.
[37] Trib. Teramo, ord. del 22 novembre 2024, p. 8.
[38] V., tra le altre, Corte cost., 9 maggio 2013, n. 85 e Corte cost., 23 marzo 2018, n. 58 in www.cortecostituzionale.it.
[39] Ex plurimis, v. Cass. pen., Sez. VI, 24 maggio 2023 (dep. 25 luglio 2023), n. 32319, in Dir. pen. proc., 2013, 10, con riferimento al reclutamento dei docenti universitari.
[40] In tal senso v. F. VIGANO’, Sugli effetti intertemporali della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma che abroga una precedente incriminazione, in Dir. pen. cont., 10/2017, p. 298 ss.
[41] V. supra, par. 3.
[42] Cass. pen., sez. I, 22 settembre 2016 (dep. 18 maggio 2017), n. 24834, in Cass. pen., 2017, 10, p. 3579.
[43] Cfr. M. SCOLETTA, La sentenza n. 5/2014 della Corte costituzionale: una nuova importante restrizione delle “zone franche” dal sindacato di legittimità nella materia penale, cit. e F. VIGANO’, Sugli effetti intertemporali della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma che abroga una precedente incriminazione, cit.
[44] Si riporta di seguito un passaggio fondamentale: «il principio di retroattività della norma penale più favorevole in tanto è destinato a trovare applicazione, in quanto la norma sopravvenuta sia, di per sé, costituzionalmente legittima. Il nuovo apprezzamento del disvalore del fatto, successivamente operato dal legislatore, può giustificare – in chiave di tutela del principio di eguaglianza – l’estensione a ritroso del trattamento più favorevole, a chi ha commesso il fatto violando scientemente la norma penale più severa, solo a condizione che quella nuova valutazione non contrasti essa stessa con i precetti della Costituzione. La lex mitior deve risultare, in altre parole, validamente emanata: non soltanto sul piano formale della regolarità del procedimento dell’atto legislativo che l’ha introdotta e, in generale, della disciplina delle fonti (v., con riferimento alla mancata conversione di un decreto-legge, sentenza n. 51 del 1985); ma anche sul piano sostanziale del rispetto dei valori espressi dalle norme costituzionali. Altrimenti, non v’è ragione per derogare alla regola sancita dai citati art. 136, primo comma, Cost. e 30, terzo comma, della legge n. 87 del 1953, non potendosi ammettere che una norma costituzionalmente illegittima – rimasta in vigore, in ipotesi, anche per un solo giorno – determini, paradossalmente, l’impunità o l’abbattimento della risposta punitiva, non soltanto per i fatti commessi quel giorno, ma con riferimento a tutti i fatti pregressi, posti in essere nel vigore dell’incriminazione o dell’incriminazione più severa».
[45] F. VIGANO’, Sugli effetti intertemporali della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma che abroga una precedente incriminazione, cit.
[46] E. CARLONI, Conflitto di interessi e abuso di ufficio: problemi aperti tra amministrazione e costituzione, in Sist. pen., 12/2024, p. 5 ss., propone come suggestione, ad esempio, la riscoperta di “ombudsman”, figure cui il cittadino possa rivolgersi di fronte a violazioni avvertite e dotate di poteri conoscitivi e ispettivi che consentano di dare una tempestiva risposta a chi si ritenga leso da abusi di potere; ritiene, in ogni caso, necessaria la tutela penale per alcuni casi particolari e circoscritti.
[47] L’ipotesi non è esclusa A. MANNA, L’abrogazione dell’abuso d’ufficio e la reazione della giurisprudenza, in www.sistemapenale.it, 2 dicembre 2024.
[48] Si fa riferimento al c.d. Progetto Morbidelli, formulato nel corso dei lavori che condussero alla riforma del 1997 dalla omonima Commissione e in quel contesto accantonata per ragioni di opportunità politica. L’articolato prevedeva lo “spacchettamento” del delitto di abuso d’ufficio in tre fattispecie: prevaricazione (abuso di danno), favoritismo (abuso di vantaggio patrimoniale ad altri), sfruttamento privato dell’ufficio (abuso di vantaggio patrimoniale per il funzionario pubblico). Sulle vicende della Commissione governativa presieduta dal prof. Morbidelli e sulle ragioni del suo accantonamento, cfr. C. CUPELLI, La riforma del 1990, in B. ROMANO (a cura di), Il “nuovo” abuso di ufficio, Pisa, 2021, p. 26 ss.