SOMMARIO: 1. Premessa sul “fenomeno circolatorio digitale” in ambito giudiziario; 2. Dal “mutuo riconoscimento” alla “presunzione di legittimità” degli atti compiuti all’estero: l’O.E.I.; 3. Il limite invalicabile dei diritti fondamentali, la “zona grigia” di confine coi diritti processuali e l’emersione di “nuovi diritti”; 4. L’onere di provare la violazione di un “diritto fondamentale” per le prove digitali formate all’estero; 4.1 Il difficoltoso accesso alle e-evidence ed il vaglio di attendibilità della fonte; 4.2 Un diritto fondamentale violato: la parità delle armi; 4.3 Privacy quale diritto fondamentale: il rispetto dei criteri stabiliti dalla Corte di Giustizia il 04/10/2024; 4.4 Il rispetto dei diritti della difesa e garanzia del giusto processo; 5. Conclusioni
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Abstract: Con il presente articolo si intende affrontare la questione relativa alla presunzione di legittimità degli atti compiuti all’estero, ed acquisiti in un processo interno mediante Ordine europeo di indagine (OEI), raffrontata al doveroso rispetto dei diritti fondamentali. In specie, il focus riguarda le prove digitali che, rispetto a quelle per così dire “analogiche”, presentano ulteriori profili di problematicità afferenti loro perscrutabilità ed affidabilità.
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This article intends to address the issue relating to the presumption of legitimacy of acts performed abroad, and acquired in a domestic process through a European Investigation Order (EIO), compared to the due respect for fundamental rights. In particular, the focus concerns digital evidence which, compared to so-called “analogue” evidence, presents additional problematic aspects relating to their scrutiny and reliability.
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1. PREMESSA SUL “FENOMENO CIRCOLATORIO DIGITALE” IN AMBITO GIUDIZIARIO
Il tema delle prove digitali sta assumendo sempre più uno spazio preminente nella letteratura e nelle prassi giudiziarie in ragione della continua evoluzione tecnologica che non sta mancando di interessare anche l’ambito giudiziario[1]. Se, per il recente passato ed il presente, tale constatazione di fatto è notoriamente vera[2], per il prossimo futuro non ci si può che attendere un progressivo aumento di intensità e diffusione del fenomeno digitale[3], certamente in maniera esponenziale, tenuto conto delle continue evoluzioni che interessano anche e soprattutto l’ambito della “intelligenza artificiale” applicata al settore giudiziario ed alle investigazioni in particolare, con un impatto soprattutto a livello transnazionale[4].
Una normazione di rigore, sul punto, è assolutamente indispensabile proprio tenuto conto della evidente capacità delle nuove tecnologie di invadere ogni tipo di campo dell’agire umano. Ed invero, già da svariati anni i legislatori, nazionali e non, sono intervenuti dettando discipline normative specifiche per regolamentare i vari ambiti interessati dallo sviluppo tecnologico, sì da fronteggiare le conseguenziali sfide che si ponevano sul campo, intervenendo tanto in ambito sostanziale che processuale[5].
Orbene, se è apparso subito evidente in dottrina che il tema delle e-evidence pone innanzitutto l’interprete dinanzi alla doverosa necessità di comprenderne il processo di formazione, è altrettanto chiaro come tale “necessità di comprensione” si stia traducendo in una “fisiologica preoccupazione” dovuta alla oggettiva difficoltà di scrutarne de profundis l’algoritmo fondativo, così come altri elementi ritenuti necessari ai fini della verifica della sua genuinità[6], quali ad esempio la catena di conservazione del dato. Se tale problematica riguarda però il tema della “formazione” della prova digitale, il complementare aspetto della “circolazione” della prova digitale non può che presentare un problema ulteriore. Invero, in tale ultima evenienza, siffatto elemento probatorio viene ad essere consegnato in mani di soggetti che non hanno contribuito alla sua formazione, così – in teoria – accrescendo il grado di difficoltà di ricostruzione e/o acquisizione di quelle medesime caratteristiche ritenute indispensabili a definire un dato come genuino, oltre che presentando un ulteriore passaggio nella “catena di conservazione” la quale anche necessita del relativo controllo di conformità[7].
Qualora, poi, la circolazione delle “prova digitale” avvenga travalicando i confini dello Stato in cui essa è stata formata, e dunque nell’ambito del più ampio sistema della cooperazione giudiziaria tra Stati o tra Autorità Giudiziarie o anche tra organi investigativi, alle problematicità innanzi indicate debbono aggiungersi ulteriori variabili che, volente o nolente, incidono su quella “necessità di comprensione” che deve muovere l’interprete quando si interfaccia con tale dato elettronico. Ci si riferisce, invero a: i) la salvaguardia della sovranità statuale; e soprattutto ii) il principio del mutuo riconoscimento, ed il suo corollario della «presunzione di legittimità degli atti compiuti all’estero».
E’ evidente, allora, che più la e-evidence circola, maggiori saranno le difficoltà di verifica di quei presupposti a garanzia della sua legittimità. E, tuttavia, tale sua qualità giuridica si pone quale necessario presupposto (oggettivo) per la celebrazione di un processo che si prefigga la ricostruzione della realtà storica, ma anche quale indispensabile condizione (soggettiva) di salvaguardia dei diritti dell’individuo.
In una società civile, in effetti, i diritti fondamentali dell’individuo restano gli stessi a prescindere dallo Stato o dal soggetto che abbia formato il dato digitale; ed ancora, essi non possono certo variare a seconda del livello di circolazione del dato digitale medesimo.
In altre parole, sembra che alla maggiore estensione del “fenomeno circolatorio digitale” corrisponda un – direttamente proporzionale – aumento del rischio di sacrificio del diritti fondamentali del soggetto. La globalizzazione dell’ambiente giudiziario, tuttavia, per quanto condizione necessaria a fronteggiare in maniera efficiente un crimine sempre più organizzato in forma transfrontaliera, non può realizzarsi a scapito dei diritti fondativi del soggetto privato. Le guarentigie di quest’ultimo, allora, anch’esse, meritano una tutela di prim’ordine, in linea con i diritti sanciti tanto nelle Carte dei diritti fondamentali, siglate a livello internazionale ed eurounitario, quanto nelle legislazioni dei singoli Stati interessati.
Bisogna garantire che la grandezza del “fenomeno” non si tramuti in un “simulacro” che, in quanto tale, non sarebbe più una semplice copia di qualcosa di reale ma un’immagine che ha perso ogni riferimento al reale e si alimenta di se stessa in un ciclo autoreferenziale, potendo indicare – in un’accezione più ampia – una duplicazione infedele o inautentica che sostituisce l’originale senza però coincidere con esso[8].
2. DAL “MUTUO RICONOSCIMENTO” ALLA “PRESUNZIONE DI LEGITTIMITÀ” DEGLI ATTI COMPIUTI ALL’ESTERO: L’O.E.I.
Trattando della “circolazione transnazionale delle prove digitali”, un primo fondamentale principio che merita menzione è quello del “mutuo riconoscimento in materia penale”[9], costituendo esso un pilastro nei rapporti inter-statuali fondati sulla reciproca fiducia.
Tale principio è stato sancito per la prima volta nelle conclusioni n. 33, 35 e 36 del Consiglio europeo di Tampere del 1999[10], ove si è dedicata particolare attenzione alla materia della circolazione delle prove, prevedendosi (alla Conclusione 36) che «(…) le prove legalmente raccolte dalle autorità di uno Stato membro dovrebbero essere ammissibili dinanzi ai tribunali degli altri Stati membri, tenuto conto delle norme ivi applicabili».
Il legame tra le conclusioni politico-giuridiche raggiunte all’esito di tale Consesso e la materia dei diritti fondamentali è stretto da un vincolo geneticamente inscindibile. In effetti, è proprio il Consiglio europeo di Tampere che ha istituito l’organo preposto all’elaborazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea[11], poi solennemente proclamata a Nizza il 7 dicembre del 2000, cui è stato conferito pieno valore giuridico – “lo stesso valore giuridico dei Trattati”– col trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1 dicembre 2009[12]. In effetti, che vi fosse una «stretta relazione» tra lo sviluppo di uno spazio comune di libertà sicurezza e giustizia (ovvero, in sostanza, tra l’attuazione delle concrete misure che la costruzione di tale spazio implica) e l’approvazione di un catalogo chiaro e tendenzialmente completo dei diritti fondamentali vigenti a livello dell’Unione (questo era il compito attribuito alla Carta[13]) lo si legge testualmente già nell’introduzione delle Conclusioni di Tampere[14].
Le disposizioni di cui agli artt. 67, par. 3 e 82 TFUE hanno formalmente individuato nel principio del reciproco riconoscimento delle sentenze e delle decisioni giudiziarie il “fondamento” della cooperazione giudiziaria in materia penale dell’Unione, senza porlo, tuttavia, in antitesi alla prospettiva dell’armonizzazione delle legislazioni nazionali, proprio poichè l’art. 82 par. 2 del Trattato autorizza comunque le istituzioni europee ad introdurre norme minime comuni in relazione a vari aspetti della procedura penale, quando ciò si riveli necessario per facilitare il riconoscimento reciproco delle sentenze e delle decisioni giudiziarie e la cooperazione di polizia giudiziaria nelle materie penali aventi dimensione transnazionale[15].
Che tale principio sia a pieno titolo entrato a far parte del nostro patrimonio giuridico nazionale ne sono prova, tra le altre, le modifiche apportate all’art. 696 e seguenti del codice di rito, con l’aggiunta appunto degli artt. da 696-bis a 696-decies c.p.p.[16].
Ebbene, l’O.E.I. è chiaramente espressione del principio del mutuo riconoscimento e rappresenta, nel settore della cooperazione giudiziaria penale, il corrispettivo di ciò che il mandato di arresto europeo ha rappresentato nelle consegne dei soggetti condannati o ricercati per l’esecuzione di misure cautelari, ma – stavolta – costituendo uno strumento tendenzialmente onnicomprensivo[17], da un punto di vista probatorio e procedimentale.
La necessità di ricorrere ad uno strumento di “mutuo riconoscimento” per la circolazione della prova in ambito transnazionale, che comunque non rinunciasse ad una certa flessibilità[18], è stata avvertita in ragione delle notevoli difficoltà che accompagnano tale attività di ricerca e formazione della prova, coinvolgendo il cuore del sistema processuale proprio di ciascun Paese[19]. Un risultato probatorio, in effetti, costituisce una “fattispecie processuale complessa”[20], essendo la conclusione di un lungo e complesso iter procedimentale che include una serie di fasi progressive, tra cui ricerca, ammissione, assunzione, valutazione.
Tale complessità del procedimento di formazione della prova, calato nei princìpi sovranazionali tendenti a favorire disposizioni e/o interpretazioni interne che assicurino la “mutua assistenza” transnazionale, hanno condotto alla formulazione del principio di “presunzione di legittimità degli atti compiuti all’estero”.
Siffatto indirizzo interpretativo, invero, in passato, è stato già formulato dalla giurisprudenza relativamente alle rogatorie. In tale ambito, è stato affermato che l’utilizzazione degli atti trasmessi mediante rogatoria attiva non è subordinata ad una verifica o controllo da parte dell’autorità giudiziaria italiana circa la regolarità delle modalità di acquisizione che sono state svolte dal giudice straniero, in quanto vige la «presunzione di legittimità dell’attività di indagine compiuta» ed, inoltre, appartiene all’autorità giudiziaria straniera la verifica della correttezza della procedura e l’eventuale risoluzione di ogni questione circa le irregolarità invocate nella fase delle indagini preliminari[21]. L’unico limite all’acquisizione della prova formata aliunde, invece, veniva individuato nel fatto che essa fosse stata acquisita in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano[22].
Per quanto riguarda, invece, l’O.E.I., la base normativa della presunzione di legittimità degli atti compiuti all’estero è innanzitutto rinvenibile al Considerando 19 della Direttiva 41/2014 seondo cui la creazione di uno spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia nell’Unione si fonda sulla fiducia reciproca e su una presunzione (relativa) di conformità, da parte degli ordinamenti di tutti gli Stati membri, al diritto dell’Unione e, in particolare, ai diritti fondamentali. Tale norma è stata trasposta nel decreto attuativo (d. lgs. 108/17) all’art. 10 comma 1 lett. e), relativo ai «Motivi di rifiuto e restituzione» dell’atto, secondo cui il riconoscimento dell’Ordine emesso dall’Autorità straniere può essere rifiutato qualora sussistano fondati motivi per ritenere che l’esecuzione dell’atto richiesto non sia compatibile con gli obblighi dello Stato sanciti dall’articolo 6 del Trattato dell’Unione europea e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
La relazione tra reciproci impegni statuali di “mutua assistenza” e quella della salvaguardia dei diritti fondamentali, allora, sembra essere improntata ad uno schema di obbligo-limite. La tutela di questi ultimi, in effetti, è da ritenersi il fondamento del rifiuto di collaborazione che lo Stato richiesto può opporre a quello richiedente.
Sulla scorta di tali indicazioni normative, nel noto caso giudiziario relativo ai c.d. criptofonini Sky ECC[23], le Sezioni Unite si premurano di puntualizzare che il sistema dell’O.E.I. è ispirato al principio di “presunzione relativa”di conformità ai diritti fondamentali delle attività istruttorie svolte dalle autorità giudiziarie degli altri Stati dell’Unione[24]. Se n’è ricavato che «l’onere di allegare e provare i fatti da cui inferire la violazione di diritti fondamentali grava sulla difesa, quando è questa a dedurre l’inutilizzabilità o l’invalidità di atti istruttori acquisiti dall’autorità giudiziaria italiana mediante O.E.I.»[25]. Ciò, si è detto, conformemente a quanto già operante nel settore delle rogatorie e, comunque, in linea con quanto avviene a livello nazionale, laddove spetta a chi afferma l’esistenza di un’invalidità processuale addurre i fatti che ne sono a fondamento[26]. Considerazioni non molto diverse sono, del resto, rinvenibili nella sentenza Encrochat della Corte di giustizia U.E.[27], laddove si legge che l’autorità di emissione, quando intenda ottenere la trasmissione di prove già in possesso delle competenti autorità dello Stato di esecuzione, “nonè autorizzata a controllare la regolarità del distinto procedimento con il quale lo Stato membro di esecuzione ha raccolto le prove di cui essa chiede la trasmissione”. Diversamente, si correrebbe il rischio di condurre ad un “sistema più complesso e meno efficace”, in violazione dei principi del mutuo riconoscimento e della fiducia reciproca che connotano il sistema della cooperazione giudiziaria nell’ambito dell’Unione Europea[28]. Rivive, in questo modo, la vecchia logica del criterio di “no inquiry” nei confronti delle attività istruttorie compiute negli altri Stati, tradizionalmente operante in tema di rogatorie, col pericolo però che ne derivino prassi eccessivamente lassiste e, dunque, si consolidi l’idea per cui le prove già autonomamente raccolte all’estero sulla base della lex loci potrebbero essere automaticamente ed acriticamente recepite nel nostro sistema, per il fatto di fidarsi ciecamente dell’operato delle autorità straniere[29].
Pertanto, nel caso in cui una parte deduca il verificarsi di cause di nullità o inutilizzabilità collegate ad atti non rinvenibili nel fascicolo processuale (perché appartenenti ad altro procedimento o anche – qualora si proceda con le forme del dibattimento – al fascicolo del pubblico ministero), al generale onere di precisa indicazione che incombe su chi solleva l’eccezione si accompagna l’ulteriore onere di formale produzione delle risultanze documentali – positive o negative – addotte a fondamento del vizio processuale[30]. A sostegno di ciò si assume che per i fatti processuali, a differenza di quanto avviene per i fatti di diritto sostanziale penale, ciascuna parte ha l’onere di provare quelli che adduce, quando essi non risultino documentati nel fascicolo degli atti di cui il giudice dispone[31]. L’osservazione troverebbe conforto nell’art. 187, comma 2, cod. proc. pen., il quale prevede che i fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali sono oggetto di prova, sicchè chi invoca un determinato vizio processuale è investito del relativo onere di provarlo. Sulla scorta di tali argomentazioni, in giurisprudenza, si è pertanto ritenuto che l’onere di allegare e provare i fatti da cui inferire la violazione di diritti fondamentali grava sulla difesa, quando è questa a dedurre l’inutilizzabilità o l’invalidità di atti istruttori acquisiti dall’autorità giudiziaria italiana mediante O.E.I.[32].
L’argomento deve essere completato mediante l’analisi congiunta della norma dettata all’art. 36 del d. lgs. 108/17[33] con quella di cui all’art. 14 della direttiva 41/2014, le quali attengono all’utilizzabilità processuale dei dati raccolti all’estero. Le disposizioni, invero, pur facendo parte di due testi normativi distinti, devono essere lette in combinato disposto tra loro, prevedendosi ivi la discipina sulla valutazione della prova raccolta in punto di utilizzabilità. In specie, alla lett. b) del comma 1 dell’art. 36 suddetto, nel prevedere che sono acquisiti nel fascicolo per il dibattimento «i verbali degli atti, diversi da quelli previsti dalla lettera a), assunti all’estero a seguito di ordine di indagine ai quali i difensori sono stati posti in grado di assistere e di esercitare le facoltà loro consentite dalla legge italiana», sembra vietare l’acquisibilità al fascicolo del dibattimento dei soli atti acquisiti senza il rispetto delle garanzie difensive nella loro formazione. D’altro canto, l’art. 14 par. 7 della direttiva[34] prevede che gli Stati membri assicurano che nei procedimenti penali nello Stato di emissione siano rispettati i diritti della difesa e sia garantito un giusto processo nel valutare le prove acquisite tramite l’O.E.I., fatte salve però le norme procedurali nazionali dello Stato di esecuzione.
In altre parole, affinchè un atto di indagine acquisito dall’estero mediante O.E.I. possa essere acquisito al fascicolo del dibattimento è necessario che sussistano le condizioni di cui all’art. 36 del d. lgs. 108/17 (irripetibilità dell’atto o partecipazione alla formazione dell’atto da parte della difesa) e, di poi, in punto di valutazione della prova da parte del giudice, soccorrono le norme di cui all’art. 14, par. 7, secondo periodo, della direttiva ove si sancisce la salvaguardia del diritto di difesa e del giusto processo proprio nel momento valutativo delle prove medesime. Epperò, a monte di ciò, e dunque ben prima della formazione dell’atto che poi sarà trasmesso allo Stato di emissione, è bene ricordare come tale contesto normativo sia permeato dall’assoluta necessità di rispettare i diritti fondamentali e i principi giuridici sanciti dall’art. 6 TUE. Tale condizione funge da presupposto all’intera disciplina della materia qui in esame.
Pertanto, la cornice valoriale entro cui si muovono le direttrici più prettamente processuali (diritto di difesa, giusto processo, patologie dell’atto, etc.) è intrisa dell’esigenza di garanzia di conformità dell’intero sistema ai diritti fondamentali. Invero, come già riferito supra, la direttiva, al Considerando 19[35], nel prevedere che la creazione di uno spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia nell’Unione si fonda sulla fiducia reciproca e su una presunzione di conformità, da parte di tutti gli Stati membri, al diritto dell’Unione e, in particolare, ai diritti fondamentali, impone a tali Stati un “obbligo di fare”, consistente proprio nell’adeguare le proprie normative (qualora non lo fossero) ai diritti fondamentali.
Ed, ancora, la previsione di apertura contenuta all’art. 1, par. 4, della direttiva[36], secondo cui tale fonte normativa non ha l’effetto di modificare l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali e i principi giuridici sanciti dall’articolo 6 TUE, compresi i diritti di difesa delle persone sottoposte a procedimento penale, e lascia impregiudicati gli obblighi spettanti a tale riguardo alle autorità giudiziarie, compone il mosaico giuridico in punto di ius positum e diritto vivente in modo tale da imporre degli incastri che siano inconciliabili con attività violative delle libertà fondamentali. L’importanza di tale norma va individuata nell’aver indicato l’art. 6 TUE, norma che al suo interno richiama tanto la Carta dei diritti fondamentali U.E. quanto la Convenzione E.D.U.: l’adesione ai diritti fondamentali è, dunque, davvero onnicomprensiva.
A cascata, merita menzione l’art. 11, par. 1, lett. f) della direttiva, sui “Motivi di non riconoscimento o di non esecuzione” dell’atto richiesto da parte dello Stato di esecuzione, norma posta in funzione applicativa del disposto di cui all’art. 1, la quale consente che l’autorità di esecuzione possa rifiutare il riconoscimento o l’esecuzione di un O.E.I. qualora sussistano seri motivi per ritenere che l’esecuzione di esso sia incompatibile con gli obblighi dello Stato di esecuzione ai sensi dell’articolo 6 TUE e della Carta. In siffatti casi, tra l’altro, scatta la procedura di cui al paragrafo 4 della stessa norma, in tema di interlocuzioni chiarificatorie tra Stato di esecuzione e quello di emissione. Tale disposizione normativa è stata trasposta nell’art. 10 d. lgs. 108/17 (rubricato ” Motivi di rifiuto e di restituzione”), ove al comma 1, lett. e) anche si prevede che l’O.E.I. può essere rifiutato qualora sussistono fondati motivi per ritenere che l’esecuzione dell’atto richiesto non sia compatibile con gli obblighi dello Stato sanciti dall’articolo 6 del TUE e dalla Carta dei diritti fondamentali U.E.
Tal essendo la cornice valoriale entro cui si muovono le coordinate prettamente processuali inerenti l’acquisizione ed alla valutazione probatoria, è di tutta evidenza che anche l’an ed il quomodo del rispetto dei diritti fondamentali concorrono al giudizio valutativo in punto di prova raccolta all’estero.
Pertanto, la tutela di tutti gli interessi extraprocessuali nel processo penale – cui si riannodano i diritti fondamentali tutti, tra cui a titolo esemplificativo i divieti in tema di riservatezza, segreto e rapporti familiari, ragion di Stato, etc – non possono, anch’essi, non trovare posto nel giudizio valutativo riservato al Giudice nel processo dello Stato di emissione.
Il punto è decisivo, in quanto la nostra Corte di legittimità, partendo da tale base normativa, ha affermato che ai fini dell’utilizzabilità di atti acquisiti mediante O.E.I. dall’autorità giudiziaria italiana, è necessario garantire il rispetto dei diritti fondamentali previsti dalla Costituzione e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’U.E. e, tra questi, del diritto di difesa e della garanzia di un giusto processo, ma non anche l’osservanza, da parte dello Stato di esecuzione, di tutte le disposizioni previste dall’ordinamento giuridico italiano in tema di formazione ed acquisizione di tali atti[37].
Al di là di verificare se la Difesa possa essere in grado di poter ottemperare a tale onere probatorio, sembra potersi scorgere un’ulteriore, quanto preliminare questione, ovvero stabilire il confine tra diritti processuali, per così dire, “semplici” e diritti processuali che, invece, costituiscono “diritti fondamentali”.
3. IL LIMITE INVALICABILE DEI DIRITTI FONDAMENTALI, LA “ZONA GRIGIA” DI CONFINE COI DIRITTI PROCESSUALI E L’EMERSIONE DI “NUOVI DIRITTI”
Di tutta evidenza che la categoria dei “diritti fondamentali” sia ben più ampia e comprenda al suo interno quelli aventi rilievo “processuale”, tra cui – come nelle sopra evidenziate norme – il diritto di difesa ed il diritto ad un giusto processo.
Quanto all’individuazione dei testi normativi in cui tali “diritti inviolabili”[38] sono indicati, è chiaro che ad oggi la Costituzione non detiene più, così come invece un tempo, il monopolio del riconoscimento dei diritti fondamentali, che dunque condivide con altre Carte di origine esterna, tra cui in specie la CEDU e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea[39]. Di qui, allora, la formulazione del principio del conseguimento della “massima tutela possibile”, che sollecita a far luogo – perlomeno fin dove possibile – alla mutua integrazione delle Carte nei fatti interpretativi[40].
Ciò a cui si assiste, tuttavia, come rilevato dalla dottrina costituzionalistica, è che allo stesso tempo in cui si registra un consenso diffuso circa la emersione di sempre nuovi diritti fondamentali, parimenti diffuse siano le incertezze su cosa essi siano nella loro stessa essenza[41]. La spiegazione di tale apparente contraddizione sarebbe da rinvenire proprio laddove si radicano le cause che hanno portato, e senza sosta portano, a rivendicare protezione per taluni bisogni profondamente diffusi ed avvertiti in seno al corpo sociale, ovvero: lo sviluppo scientifico e tecnologico e la complessità della struttura del tessuto sociale, sempre più “multiculturale”. Di qui, tuttavia, il rischio che tra di essi si mimetizzino e confondano anche diritti non propriamente etichettabili come “fondamentali”[42].
Per il giurista, ed in particolare, per il processualpenalista, dunque, si pongono nuove “sfide”. E’ innegabile, a tal proposito, che già da tempo il dibattito dottrinale e giurisprudenziale (anche italiano) si sia misurato con il difficile compito di coniugare evoluzione scientifica e “staticità” processuale, rendendo il tema dell’ingresso di nuove tecnologie e saperi scientifici nel procedimento probatorio un argomento ormai paradossalmente classico[43]. Il tema della e-evidence, a tal riguardo, detiene il monopolio. Sul fronte proprio dell’incedere di nuovi diritti fondamentali strettamente legati allo sviluppo tecnologico, in effetti, accorta dottrina[44] fa rilevare come, nell’ambiente virtuale si verifichi una naturale espansione ed una ulteriore esplicazione della libertà personale, con una intensità molto simile al bene tutelato dall’art. 13 Cost. e forse addirittura maggiore di altri ambiti pure fondamentali (artt. 14, 15, 21 Cost., ad esempio). E’ indubbio, infatti, che la crescita e lo sviluppo tecnico come quello sociale ed economico o politico inevitabilmente crea – o rende solo riconoscibili – nuovi diritti e nuove garanzie che arricchiscono il corredo dei diritti dell’individuo, ma consente anche letture più ampie dei diritti e delle libertà già ampiamente disciplinate. Così come i nuovi versanti di garanzia, attraverso il meccanismo previsto dall’art. 2 Cost.[45], devono essere accolti nell’ordinamento giuridico e tutelati al massimo livello, se ovviamente esprimono diritti fondamentali acquisiti dalla coscienza sociale e dalla collettività, ed in questo senso si deve riconoscere la naturale capacità espansiva dei versanti di garanzia già ampiamente consolidati. In questa prospettiva, è pienamente condivisibile l’idea secondo cui bisognerebbe spingere oltre la riflessione e costruire in modo compiuto una libertà digitale/informatica le cui caratteristiche sono del tutto peculiari, sotto il profilo dell’incidenza sul corredo dei diritti dell’individuo (anche se possono variare per quanto riguarda la dimensione qualitativa e/o quantitativa), alla libertà personale e alla libertà di manifestazione del pensiero, o alla libertà del domicilio e della riservatezza delle comunicazioni. Naturalmente, tutto passa per il riconoscimento dell’ambiente virtuale come luogo di espressione di diritti e di estrinsecazione di libertà. Questi nuovi profili vanno letti col prisma dei diritti fondamentali inviolabili dell’individuo e valutati con la stessa ampiezza e latitudine. La libertà personale, infatti, non può essere intesa solo come libertà fisica, ma ha una proiezione morale ed anche virtuale nella misura in cui essa si esprime pienamente nella nuova dimensione che occupa gran parte della vita.
Il tema delle e-evidence, e correlativamente degli strumenti di indagine tesi all’acquisizione di tali informazioni digitali, si incrocia con quello delle garanzie soggettive frutto dell’emersione ed affermazione di nuovi diritti fondamentali, finora in penombra o ritenuti alla stregua di meri interessi o comunque diritti processualmente protetti solo a livello di legislazione ordinaria.
Orbene, se dunque possiamo pacificamente affermare che «i diritti fondamentali diventano tali proprio in virtù della disciplina costituzionale»[46], unita alla tutela multilivello di cui godono gli stessi ad opera delle varie Carte sovranazionali, un punto problematico risiede nella individuazione della linea di confine tra “diritto processuale fondamentale” e “mero diritto processuale”. Ciò in quanto, come detto, nell’ambito del fenomeno circolatorio delle prove ad opera dell’O.E.I. che qui ci interessa, tenuto conto della linea interpretativo-giurisprudenziale sulla presunzione di legittimità degli atti, e per garantire la tenuta in equilibrio della simbiosi tra lex fori e lex loci, i “meri diritti processuali” non godrebbero di tutela sanzionatoria nello Stato di emissione per la sua violazione.
Altrimenti detto, se non v’è dubbio che l’elemento di prova formato all’estero possa essere sanzionato da inutilizzabilità dal Giudice che procede nello Stato di emissione qualora rilevi – durante l’operazione di raccolta della prova – la violazione di un diritto fondamentale del soggetto (quale ad es., diritto all’uguaglianza, alla libertà personale, al domicilio, al trattamento inumano o degradante, etc.), ivi compresi i suoi “diritti processuali fondamentali” (quali ad es., il contraddittorio, il diritto di difesa, il giusto processo), il problema però sembra sussistere nella individuazione di una esatta linea di demarcazione con quelli che abbiamo definito “meri diritti processuali”, proprio in quanto sforniti di tutela. Sul punto, in effetti, autorevole dottrina ha già avuto modo di affermare la stretta relazione che lega il diritto processuale penale con i diritti fondamentali rilevando l’importanza che sia il contenuto di garanzia che le procedure (e l’esatto rispetto delle medesime) assumono con riguardo alla tutela dei diritti fondamentali[47].
Di poi, quanto alla disciplina delle convenzioni internazionali, è facile constatare come nel testo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo figurino previsioni che fanno della conformità di una condotta al diritto processuale penale vigente nello Stato uno specifico elemento determinante per la valutazione circa la lesività o meno, nei confronti della Convenzione, di condotte addebitate allo Stato medesimo. Così è, ad esempio, per la “legale costituzione” del giudice di cui all’art. 6 § 1 Cedu, ma una nutrita serie di esempi ne dà soprattutto l’art. 5 Cedu, a cominciare dal suo incipit, che condiziona in via generale alla conformità ad « a procedure prescribed by law » l’ammissibilità di qualsiasi provvedimento che incida sulla libertà personale di un individuo, ripetendosi poi l’esigenza che siano « lawful » le singole specie di interventi astrattamente ammissibili, compresi quelli inseriti in una vicenda processuale penale, come è per l’ipotesi di detenzione inflitta con una condanna a pena detentiva (lett. a) e per quella di arresto o detenzione in vista di un deferimento all’autorità competente sulla base del sospetto di commissione di un reato (lett. c). Qui, dunque, a configurare la lesione di un diritto fondamentale è di per sé sufficiente proprio la constatazione di un’inosservanza, nel procedimento penale su cui deve appuntarsi il loro esame, del diritto processuale penale statale[48]. Nei riportati esempi, allora, alla violazione della “mera legge processuale penale interna” consegue inevitabilmente la lesione di un “diritto fondamentale”.
Sotto altro profilo, viene in rilievo la nozione stessa di “giusto processo”, per come risultante dalla codificazione nelle Carte sovranazionali la cui salvaguardia è tutelata dalla disciplina dell’O.E.I. tanto a livello unionale con la direttiva, quanto a livello interno con la sua legge di attuazione. Tale concetto, invero, pone in crisi una logica della schematizzazione e netta differenziazione tra principi fondamentali (cui il fair trial appartiene) e, per così dire, principi processuali “inferiori”[49]. Ed, invero, è stata la stessa Corte E.D.U. a riconosere nel concetto di “fair trial” un principio chiave che regola l’applicazione dell’articolo 6 della Convenzione[50]. Tuttavia, ciò che costituisce un equo processo non può essere oggetto di un’unica regola invariabile, ma deve dipendere dalle circostanze del caso particolare[51], in ragione del fatto che ciò che va in ogni caso salvaguardata (e dunque valutata) è l’equità complessiva del procedimento penale. Ai fini della valutazione sulla giustezza del processo, allora, deve essere tenuta in considerazione l’evoluzione dell’iter procedimentale nel suo insieme e non isolando un singolo aspetto o una questione particolare. Tuttavia, non si può escludere che un fattore specifico possa essere così determinante da inficiarne l’equità sin dallo stadio preliminare del procedimento[52]. Orbene, in ragione della natura giuridica di principio-guida del concetto di “fair trial“, liddove sia stato individuato un singolo vizio procedurale, occorre innanzitutto verificare se esso sia stato o meno sanato dai giudici nazionali nel corso del procedimento in quanto, in mancanza, si realizza prima facie una incompatibilità con i requisiti di un equo processo ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione[53]. Per la medesima ragione, nel caso in cui si siano verificati vari vizi procedurali la violazione dell’articolo 6 può discendere anche dal cumulo di essi, nonostante che ogni vizio, singolarmente inteso, non avrebbe condotto ad una valutazione di iniquità del procedimento[54].
Da quanto sopra esposto, dunque, è chiaro che taluni “meri diritti processuali”, ovvero norme contenute nella disciplina codicistica non direttamente agganciate a precetti costituzionali, potrebbero essere fonte di violazione di un “diritto fondamentale”, così come la violazione di più norme anche se non singolarmente sanzionabili con taluna delle invalidità processuali potrebbe condurre ad una conclusione sulla “ingiustizia” processuale.
Appare evidente da ciò come l’impossibilità di determinare una linea netta di demarcazione tra tali tipologie di diritti configura l’ipotesi di una “zona grigia” in cui non può che operarsi una valutazione caso per caso ed ove, probabilmente, l’uso del criterio della “proporzionalità” trova nuova linfa applicativa.
4. L’ONERE DI PROVARE LA VIOLAZIONE DI UN “DIRITTO FONDAMENTALE” PER LE PROVE DIGITALI FORMATE ALL’ESTERO
4.1 Il difficoltoso accesso alle e-evidence ed il vaglio di attendibilità della fonte
Considerando che solitamente è il Pubblico ministero – che sta svolgendo indagini in un procedimento interno – a richiedere all’autorità estera la raccolta di prove mediante O.E.I., le quali con tutta probabilità saranno prove a carico del soggetto indagato, ne consegue che l’onere di provare la violazione di un diritto fondamentale avvenuta nello stato estero ricadrà in capo alla difesa. Se allora, come detto, risulta sfumata – in una gran parte delle ipotesi – la differenza tra (macro)violazione di un diritto fondamentale rispetto alla (micro)violazione di una mera regola procedurale, quantomeno sotto l’aspetto dell’incidenza che quest’ultima possa avere sulla prima, non può disconoscersi che tale onere difensivo diventi, nei fatti concreti, un gravame insormontabile. Ciò tenuto conto del fatto che alle, oggettive, minori risorse e mezzi in capo alla difesa v’è da aggiungere la macroscopica difficoltà di accedere agli atti di un procedimento condotto all’estero.
E tuttavia, secondo l’orientamento dominante della Corte di cassazione spetta al ricorrente indicare specificamente quale atto sia viziato, da quale vizio sia colpito e la rilevanza probatoria di questo nel ragionamento giudiziale ai fini della prova di resistenza. Ma se – come nella citata vicenda sui criptofonini Sky-Ecc – gli atti investigativi compiuti in Francia non sono ostesi né al giudice italiano, né alla difesa, tale onere di allegazione diventa oggettivamente impossibile[55].
Tutto quanto sopra, allora, deve portare a riflettere sulla concreta – e dunque non solo teorica – possibilità di assolvimento a tale onere e se tale impossibilità, essa stessa, si possa risolvere o meno in una deminutio in termini di diritto di difesa, che – è bene ricordarlo – è salvaguardata espressamente agli artt. 1 e 14 della direttiva 41/2014, nonchè dall’art. 1 del d. lgs. 108/17. Come già avuto modo di accennare supra, in tema di prova digitale formata all’esterno si riscontrano ulteriori problemi rispetto alle prove – per così dire – “analogiche”, in ragione del fatto che ai “classici” problemi che caratterizzano queste ultime (riguardanti sostanzialmente il rispetto delle diverse normative nazionali che vengono in contatto e la dislocazione estera del procedimento di raccolta) vanno sommati quelli che riguardano più prettamente questa tipologia di nuovi modelli probatori. Si fa riferimento, più nello specifico, alla difficoltà di accedere alla procedura genetica della prova medesima e/o al suo algoritmo, potendo venire in rilievo aspetti come il “segreto industriale” o il “know-how” o la stessa difficoltà di decpriptazione del dato; o, ancora, alla stessa ipotetica difficoltà di attribuire paternità al generatore del dato digitale.
A ciò aggiungasi che, come già evidenziato, la comprensione del processo di formazione del dato digitale è una problematica che la dottrina ha a più voci già segnalato, in ragione della oggettiva difficoltà di scrutarne de profundis l’algoritmo fondativo, così come altri elementi ritenuti necessari ai fini della verifica della sua genuinità[56]. Non v’è chi non veda che la natura stessa dei dati e delle informazioni conservati in formato elettronico li rende più facili da manipolare rispetto ai dati tradizionali. Una volta acquisiti e scambiati, l’integrità dei dati deve essere mantenuta e dimostrata, ovvero deve essere dimostrato che la prova elettronica non sia stata alterata sin dal momento della sua creazione, archiviazione o trasmissione[57].
Per la Difesa, tale onere probatorio protrebbe rivelarsi una “probatio diabolica” nella misura in cui essa non gode di apparati strumentali e funzionali tali da poterle consentire di raggiungere tale scopo. Quantomeno, essa dovrebbe riuscire a raccogliere elementi tali da poter inferire con un certo grado di probabilità che la lesione di un diritto fondamentale si sia consumata nella fase – condotta all’estero – di raccolta e/o formazione della prova. La difficoltà, allora, è chiaramente evincibile liddove – come noto – una serie di apparechiature informatico-investigative in uso alla polizia giudiziaria sono tuttavia costruite ed ideate da società private, anche extra-U.E., le quali uniche detengono i codici sorgente dei software, nonchè dei relativi algoritmi[58]. In siffatta occasione, dunque, se anche la Difesa riuscisse ad accedere agli atti del procedimento (estero) in seno al quale si sia data esecuzione all’O.E.I. e, dunque, ricercata, raccolta o formata la prova, non è detto che essa riesca comunque a saggiare l’attendibilità della fonte meccanizzata generativa della prova medesima. Invero, la Difesa dovrebbe, di poi, rivolgersi ai suddetti Enti i quali potrebbero opporre il proprio rifiuto argomentandolo sulla necessità di garantire la segretezza del Know-how o, per esempio, tra gli altri aspetti, relativamente ad aziende nazionalizzate, un “segreto di Stato”.
«Accessibilità» e «trasparenza», allora, devono essere diritti minimi da garantire alla parte che intenda scrutare l’affidabilità del procedimento automatizzato di raccolta e/o selezione del materiale probatorio, in assenza dei quali viene meno in nuce la garanzia di attendibilità della fonte di prova. L’esigenza di accessibilità, invero, è la caratteristica fondamentale nel dibattito sull’uso degli algoritmi nei processi decisionali, sia in un contesto privato che pubblico. Il termine “trasparenza”, poi, deve essere messo in relazione con “spiegabilità” e “giustificabilità”[59]. In questo senso, una trasparenza effettiva dipende, in primo luogo, dalla precisione della teoria scientifica che la sostiene e, in secondo luogo, dalla chiarezza del linguaggio utilizzato per tradurla in una formula matematica[60].
Proprio per tali ragioni si è giustappunto affermato che tali dovrebbero essere “diritti minimi” da garantire alla parte, considerando da un lato che la “trasparenza” non può non essere considerata un requisito fondamentale per l’equità delle decisioni algoritmiche[61] e, dall’altro, che la trasparenza medesima, essa sola, non possa garantire l’accessibilità del dato. Invero, una notevole quantità di letteratura si è concentrata sul problema della “opacità degli algoritmi”, ovvero quella situazione in cui la procedura codificata non possa essere convalidata ex post e, quindi, i suoi risultati non possano essere (o addirittura non sono) spiegati e, di conseguenza, non sono giustificati[62]. Pertanto, e di conseguenza, la trasparenza deve essere distinta dall’accessibilità, poiché un codice divulgato può rimanere completamente inaccessibile a coloro che subiscono le conseguenze di una decisione algoritmica.
Pertanto, in primis, «garanzia di trasparenza» e, di poi, «diritto all’accesso» al dato.
E, tuttavia, ad impossibilia nemo tenetur.
Qualora l’Ente detentore del codice sorgente e/o dell’algoritmo opponga il rifiuto all’accesso, pur trattandosi di rifiuto considerato legittimo sulla scorta ad es. del diritto al segreto industriale, ma ancor più in caso di rifiuto ingiustificato, la questione non può che spostarsi sulla valultazione giurisdizionale di attendibilità del dato probatorio del quale non sia stato possibile vagliare la fonte di produzione.
In altri termini, qualora la Difesa abbia fatto richiesta – ad esempio – dei codici sorgente e algoritmi che hanno generato l’elemento di prova (raccolto all’estero mediante O.E.I.) che il PM intende far acquisire al fascicolo del dibattimento, ma la Casa costruttrice abbia opposto il rifiuto in tale senso, l’attendibilità dello stesso deve essere messa in discussione. In tale evenienza, allora, graverà sulla parte che ne ha chiesto l’ammissione (come detto, il PM) l’onere di provarne invece l’attendibilità.
4.2 Un diritto fondamentale violato: la parità delle armi
Come già esposto, in mancanza di possibilità di accedere alla fonte generativa della prova digitale (come detto, algoritmo o altro strumento dal quale essa sia stata formata) si pone un problema di possibilità di contestazione dell’accuratezza della prova a carico. L’impossibilità –variamente declinata– di accedere al codice sorgente o di poter effettivamente comprendere il funzionamento dell’algoritmo che le ha generate determina, essa stessa, un rischio implicito che si potrebbe riverberare su un diritto fondamentale della parte privata, ovvero: la parità delle armi[63].
Sul punto la Corte EDU ha ritenuto imprescindibile che al richiedente fosse data la possibilità di contestare l’autenticità delle prove e di opporsi al loro utilizzo; così come che a lui fosse riconosciuta la possibilità di considerare la qualità delle prove, per verificare se le circostanze in cui sono state ottenute ne mettano in dubbio l’affidabilità o l’accuratezza[64].
Se dunque l’equità processuale si misura pure in relazione alla parità delle armi, che si sostanzia (anche) nel diritto della difesa di contestare l’ammissibilità e l’accuratezza della prova, l’impossibilità di verificare a posteriori l’output di un algoritmo può costituire in nuce una violazione dell’art. 6, par. 1, Cedu[65].
In ragione, però, del principio di presunzione relativa di legittimità degli atti compiuti all’estero, dei quali è stata chiesta la consegna e/o la raccolta mediante O.E.I., spetterebbe (con tutta probabilità) alla Difesa l’onere di far rilevare tale vizio. Diversamente da quanto ritenuto dall’indirizzo interpretativo, sopra segnalato, cui la giurisprudenza ritiene di aderire, al fine di non violare i diritti fondamentali del giusto processo ed, in specie, della parità delle armi e del diritto di difesa, si dovrebbe considerare sufficiente per la difesa comprovare un’oggettiva difficoltà di accesso a tali dati ovvero, ancora, il rifiuto opposto dall’Ente generatore del meccanismo automatizzato, mediante il quale il dato probatorio informatico sia stato generato.
La prova dell’affidabilità del dato probatorio informatico, di conseguenza, mediante un “ribaltamento” dell’onere della prova, dovrebbe ricadere in capo alla parte che ne abbia richiesto l’ammissione.
4.3 Privacy quale diritto fondamentale: il rispetto dei criteri stabiliti dalla Corte di Giustizia il 04/10/2024
La direttiva 41/2014 prevede testualmente che «La protezione delle persone fisiche in relazione al trattamento dei dati personali è un diritto fondamentale»[66].
L’analisi della tutela unionale apprestata a tale diritto individuale, dunque, non può prescindere dallo studio della recente decisione della Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’U.E.[67] in tema di limiti di accesso al dispositivo informatico per gli organi inquirenti a tutela della privacy, di cui alla direttiva U.E. 680/2016, le cui ricadute certamente non mancheranno di farsi sentire presto nel nostro ordinamento processuale[68].
Orbene, non si è mancato di far rilevare in dottrina come il primo e principale problema che si profila sul piano della compatibilità degli strumenti investigativi e probatori automatizzati, con i principi fondamentali dell’ordinamento multi-livello –costituito dall’integrazione tra ordine nazionale e circuiti di giustizia europea– è rappresentato proprio dall’estrema intrusività nella sfera individuale dei soggetti sospettati e sottoposti a procedimento penale[69].
Se in ambito unionale, il contesto normativo di riferimento principale sono le direttive n. 679/2016 (GDPR) e – con riguardo specifico alle indagini in procedimenti penali – la n. 680/2016, in ambito convenzionale il riferimento è quello di cui all’art. 8 Cedu, ispirato al concetto classico di privacy, riconducibile a luoghi e a contesti oggettivamente localizzati.
Per un verso, il potere punitivo rappresenta ancora –e soprattutto oggi– il caposaldo della sovranità statuale, di fronte alla quale le istanze di riservatezza dei singoli appaiono cedevoli; per altro verso, la violazione del diritto alla riservatezza potrebbe riverberarsi in un’ulteriore inosservanza del dettato convenzionale, quando l’impiego del dato viziato da contrarietà all’art. 8 Cedu con finalità probatorie possa determinare anche una violazione del fair trial[70].
A tal riguardo, la parte che in giudizio voglia eccepire la violazione della privacy, quale garanzia fondamentale per come disciplinata nella direttiva O.E.I. e nelle altre fonti sovranazionali sopra menzionate, nella raccolta delle prove eseguita all’estero in esecuzione di un O.E.I., è necessario che dovrà fornire elementi di prova tali da poter sostenere che – da parte dello Stato di esecuzione – si siano violate le disposizioni contenute in tali atti normativi e, in particolare, per come essi sono stati interpretati dalla suddetta pronunzia della Corte di Giustizia UE.
Con tale decisione, in effetti, la Corte del Lussemburgo ha stabilito le condizioni in base alle quali la disciplina nazionale possa ritenersi conforme agli standards europei in tema di accesso ai dati del cellulare ad opera delle autorità inquirenti. In specie, in tema di accesso ai dati contenuti in un dispositivo digitale nell’ambito di un’indagine della polizia finalizzata alla repressione e/o prevenzione di reati, la Corte ha stabilito che la normativa nazionale possa essere ritenuta conforme alla direttiva 2016/680 qualora: 1) definisca in maniera precisa i reati presupposto; 2) disponga un previo controllo giurisdizionale rispetto all’accesso ai dati; e 3) garantisca l’utilizzo del criterio di “proporzionalità” da parte del Giudice deputato al controllo. Quali corollari, inoltre, si è stabilito come necessario informare la persona interessata (id est, il titolare del dispositivo nel quale viene eseguito l’accesso) dei motivi su cui si fonda l’autorizzazione ad accedere a tali dati, affinchè egli possa eventualmente esercitare il suo diritto ad un ricorso effettivo.
Pertanto, qualora la prova sia stata raccolta all’estero mediante un O.E.I., in sede di decisione sull’utilizzabilità della stessa, e dunque in sede valutativo-giurisdizionale, non potranno non scrutarsi siffatti requisiti per come indicati dalla Corte di Giustizia, al fine di verificare la violazione o meno della privacy quale diritto fondamentale.
In specie, la questione può essere rilevante liddove l’O.E.I. sia stato emesso dall’Autorità italiana ai fini della “consegna” di materiale probatorio precostituito e nella disponibilità dell’A.G. straniera. In tali casi, in effetti, il dato probatorio è stato già estratto dal dispositivo digitale mediante la sola applicazione della lex loci, nell’ambito del procedimento estero, e non anche mediante le indicazioni (conformi alla lex fori) che l’Autorità emittente abbia dato proprio perchè trattasi di prova già in possesso dell’Autorità estera.
Orbene, il problema che si pone potrebbe essere il seguente.
Immaginiamo che l’A.G. estera abbia autorizzato l’estrazione dei dati dal dispositivo facendo uso (come sancito dalla CGUE il 04/10/24) del criterio di proporzionalità tra atto intrusivo ed interesse collettivo alle indagini penali (come ad es. per la prevenzione e repressione di reati gravi). La consegna della prova precostituita mediante O.E.I. sembra, però, non presupporre un nuovo vaglio di proporzionalità tra gli elementi di prova già raccolti (ed in possesso dell’A.G. estera) ed il reato per cui si procede nello Stato di emissione, giacchè si tratta di prove precostituite. La salvaguardia del giusto contemperamento di tutti gli interessi coinvolti, ivi compresi quelli del soggetto al quale tali dati sono stati acquisiti, al contrario, dovrebbe comportare l’esecuzione di un nuovo vaglio di proporzionalità, condotto stavolta rispetto al reato per cui si sta procedendo e tenuto conto comunque del fatto che tali dati sono già disponibili e, pertanto, non si necessita di un nuovo atto intrusivo nella sfera del “domicilio digitale” del soggetto terzo, ovviamente sempre che sia esattamente individuato il dato da consegnare e non si trasmetta, invece, l’intero contenuto ablato. In quest’ultimo caso, in effetti, l’A.G. di destinazione dovrebbe ricercare all’interno della massa di dati informatici quanto ad essa di interesse, comportando, di fatto, una rinnovata intrusione in dati digitali appartenenti al soggetto terzo.
Si vuol dire che a quei dati informatici, proprio perchè estratti in una sedes meritevole di protezione (il dispositivo elettronico), deve essere attribuita una certa qualità, tale che per farli rendere utilizzabili aliunde, si necessita di un nuovo giudizio di bilanciamento tra interessi contrapposti. Se così non fosse, si potrebbe realizzare uno “sviamento dei fini” laddove nel giudizio a quo il bilanciamento predetto risulta essere eseguito, mentre nei (teoricamente innumerevoli) giudizi ad quem tale giudizio non sarà operato, e ciò indipendentemente dal reato (anche bagattellare) per cui si procede proprio nel processo ad quem.
4.4 Il rispetto dei diritti della difesa e garanzia del giusto processo
Il tema del rispetto dei “diritti della difesa” nella direttiva è previsto in plurime disposizioni.
Per quanto di nostro interesse, lo si rinviene innanzitutto al Considerando 12[71] ove, dopo aver anche richiamato l’art. 48 Carta diritti fondamentali, ed unitamente alla presunzione di innocenza, lo si eleva a <<cap[o]sald[o] dei diritti fondamentali>> nel settore della giustizia penale. Lo si ritrova, poi, all’art. 1, par. 4[72], direttiva, ove si tiene a precisare che tale atto normativo non può mai modificare l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali e i principi giuridici sanciti dall’articolo 6 TUE, compresi i diritti di difesa delle persone sottoposte a procedimento penale. E’ ulteriormente previsto all’art. 14, par. 7[73], ove stavolta viene affiancato alla garanzia ad un “giusto processo” quale diritto che gli Stati membri deve assicurare nel valutare le prove acquisite tramite l’O.E.I.
Nella legge di attuazione interna, di contro, all’art. 1, oltre al rispetto dei principi dell’ordinamento costituzionale e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in tema di diritti fondamentali, vengono richiamati i «diritti di libertà» e di «giusto processo». La salvaguardia dei diritti di difesa, poi, viene sancita all’art. 36 del medesimo testo normativo[74], riguardante l’acquisibilità nel fascicolo per il dibattimento dei documenti e dei verbali degli atti non ripetibili; così come di quei verbali di atti ai quali i difensori sono stati posti in grado di assistere e di esercitare le facoltà loro consentite dalla legge italiana.
Stando al tenore letterale di tali previsioni, i verbali degli atti non ripetibili sarebbero pienamente utilizzabili in dibattimento anche qualora, in applicazione della lex loci fossero stati acquisiti senza le garanzie difensive previste dal diritto nazionale, come per esempio in tema di perquisizioni eseguite senza la presenza del difensore[75].
Ad ogni modo, sotto tale punto di vista, taluni profili problematici sono rinvenibili tanto rispetto alla prova costituenda, allorquando comunque l’A.G. italiana emetta un O.E.I. fornendo le indicazioni specifiche alle quali l’Autorità di esecuzione debba conformarsi[76] (e tralasciando però le questioni sulla possibilità per quest’ultima di discostarsene qualora esse si pongano in violazione del proprio diritto interno), così come rispetto alla prova precostituita e già in possesso dell’A.G. straniera.
Rispetto alla prova costituenda, invero, quanto sopra detto consente di affermare che il rispetto della normativa italiana sia necessaria ai fini dell’inserimento nel fascicolo per il dibattimento non solo degli atti ripetibili, ma anche di quelli non ripetibili[77].
Quanto alla richiesta di consegna di “prove già in possesso” all’A.G. straniera, e dunque di verbali di prove già precostituiti, è importante rilevare che, oltre alle condizioni di utilizzabilità indicate all’art. 36, co. 1, lett. b) del d. lgs. 108/17, bisogna tenere conto di ulteriori disposizioni dettate dalla normativa codicistica interna.
In tema di acquisizione di atti di un procedimento penale straniero, viene in rilievo l’art. 78 disp. att. c.p.p. a mente del quale l’acquisizione della documentazione degli atti di un procedimento estero deve avvenire ai sensi dell’art. 238 c.p.p., che mira a consentire il trasferimento da un procedimento ad un altro delle sole prove formate nel rispetto delle garanzie epistemiche e difensive previste da nostro sistema[78]. Tale norma, in effetti, nella nota vicenda dei criptofonini risolta dalla Cassazione a Sezioni Unite nel 2024[79], è quella ritenuta applicabile proprio al caso di acquisizione dall’estero mediante O.E.I. di verbali di prova già in possesso dell’Autorità straniera, trattandosi in tal caso di mera circolazione di prove tra differenti procedimenti.
Senza ripercorrere le argomentazioni giuridiche che hanno caratterizzato tale vicenda, ma trattando solo del profilo di nostro interesse, ovvero di quale sia lo strumento giuridico ritenuto applicabile ai fini della circolazione della prova e di quali possano essere le relative eccezioni sollevabili, si deve subito affermare che proprio in base al combinato disposto degli artt. 238 c.p.p. e 78 disp. att. c.p.p., si devono ritenere necessari (o quantomeno possibili): a) la salvaguardia delle garanzie difensive nel procedimento a quo; b) una completa ostensione degli atti del procedimento estero. Ciò in quanto, per quest’ultimo, la giustizia e la difesa non possono avere un atteggiamento fideistico sull’investigazione straniera, anche perché l’atto straniero è utilizzabile soltanto nel rispetto dei principi fondamentali e delle norme inderogabili del sistema normativo italiano[80].
Pertanto, come già segnalato nei paragrafi precedenti, si necessita di piena trasparenza ed accessibilità degli atti compiuti nel procedimento estero in cui la prova, poi oggetto di mera consegna, è stata formata. E ciò ancor più per le e-evidence per tutte le ragioni sopra meglio evidenziate in tema di controllabilità del dato informatico.
In effetti, tale esigenza di trasparenza ed accessibilità è ancor più sentita al fine di operare un controllo più approfondito del medesimo dato probatorio raccolto. Invero, è noto come la circolazione delle prove sia fonte di inconvenienti già a livello interno in quanto risulta inevitabile che nel processo a quo l’attività istruttoria si concentri su un thema decidendum diverso da quello del processo ad quem, con la conseguenza che nè il metodo dialettico nè l’esercizio del diritto di difesa potrebbero dirsi del tutto assicurati[81].
E’ del tutto intuibile che il problema è destinato ad aggravarsi nella misura in cui le prove siano già state formate in un contesto processuale straniero, sulla base di norme che potrebbero prevedere garanzie inferiori rispetto a quelle assicurate dalla legge italiana; sicchè si è suggerito di regolamentare l’ingresso di tali prove nei procedimenti nazionali, ai sensi dell’art. 238 c.p.p., mediante un’interpretazione che faccia uso del criterio di proporzionalità. Tale criterio, consentirebbe al giudice di poter acquisire mediante O.E.I. le prove già pre-formate all’estero che risultassero conformi alla lex loci, strettamente necessarie e che non avessero svuotato completamente i diritti fondamentali[82]. Sul punto, è bene rammentare che ai sensi del comma 2bis dell’art. 238 c.p.p., i verbali di dichiarazioni (dunque anche quelle formate all’estero) possono essere utilizzati contro l’imputato solo se è stato salvaguardato il contraddittorio nel processo a quo. Pertanto, la garanzia di tale diritto fondamentale non può essere omessa e, qualora si dovesse verificare la sua violazione, la prova acquisita dall’estero non può che essere ritenuta inutilizzabile.
Nel menzionato caso giudiziario, la Corte faceva altresì applicazione della norma di cui all’art. 270 c.p.p.[83], al fine di ritenere utilizzabili gli esiti delle intercettazioni trascritte all’estero, al di là del presupposto autorizzativo da parte dell’autorità giurisdizionale[84].
Ebbene, in sintesi, la Suprema Corte nel caso al suo esame non ritiene indispensabile la previa autorizzazione giurisdizionale anche nel caso dell’O.E.I. in quanto, trattandosi di acquisizione di sole trascrizioni, conseguenti ad attività intercettativa estera, e non prevedendo la norma speciale di cui all’art. 270 c.p.p. anche l’autorizzazione da parte del giudice che procede nel procedimento ad quem, ha concluso che anche in quel caso essa non fosse necessaria.
Si addebitava, poi, alla Difesa – come detto – l’onere di dimostrare la violazione di un suo diritto fondamentale, unica condizione che avrebbe potuto far dichiarare l’inutilizzabilità dei dati raccolti.
Tuttavia, tale decisione presta il fianco ad un paio di osservazioni.
Considerato che ciò che risulta acquisito erano i messaggi già decifrati riferibili alle comunicazioni scambiate tra tali soggetti, si rileva che, nel nostro ordinamento, le “trascrizioni” delle intercettazioni sono operazioni che si compiono in contraddittorio, all’esito di una perizia in seno alla quale le parti possono nominare anche dei propri consulenti. Pertanto, è abbastanza evidente come appaia già realizzata la violazione di un diritto fondamentale del soggetto indagato o imputato, ovvero: il contraddittorio.
Al contempo, la stessa decriptazione del dato informatico è operazione la quale o è da ritenersi irripetibile oppure, se possibile, vanno salvaguardate le garanzie tipiche di ripetibilità che insegna la digital forensic (impronta hash), proprio in ragione della facile alterabilità del dato informatico. Sicchè, se è vero che il giudizio sulla correttezza della decriptazione la si potrebbe dare anche ex post, ovvero allorquando i dati informatici siano già stati oggetto di decriptazione e si è raggiunto il risultato sperato, ottenendo “in chiaro” i messaggi scambiati (giacchè ad una cifratura corrisponde solo una chiave ed è quindi ovvio che l’attività sia avvenuta correttamente)[85], si potrebbe comunque controbattere che non abbiamo la certezza che tutti i dati siano stati salvati e che siffatta attività di decriptazione sia stata portata avanti secondo le buone regole stabilite a tal proposito[86]. Si vuol dire che, in ragione della facile alterabilità del prodotto informatico, tali dati potrebbero andare distrutti o danneggiati in ragione di tale attività. Considerando che la mole dei dati decriptati nell’operazione di cui al caso giudiziario indicato sono sconfinati, ben può essere che di tali eventuali dati danneggiati e/o dispersi non si abbia neanche la consapevolezza.
Ad ogni modo, dovendo eseguire un’operazione investigativa di fondamentale importanza, è comunque necessario che essa sia condotta in maniera proceduralmente corretta, nel rispetto dei diritti delle parti sulla base di leggi scientifiche determinate ex ante senza che la correttezza delle operazioni la si possa giudicare, ex post, solo in base ad un giudizio di buon esito delle stesse.
Tali considerazioni non possono che far propendere per una (quantomeno possibile) piena ostensione degli atti ad opera del soggetto che domanda l’ammissione della prova nel procedimento nazionale. In altri termini, se dovesse essere il PM a chiedere l’acquisizione di una prova pre-costituita all’estero, la quale tra l’altro risulti essere il risultato di un procedimento meccanizzato e/o informatizzato di ricerca o formazione, su di lui graverà l’onere di dimostrare la legittima formazione del dato probatorio medesimo.
Ad ogni modo, in ragione tanto di un principio di ragionevolezza quanto di esigibilità della condotta, alla Difesa non può essere addebitato l’onere di provare in maniera completa la lesione del diritto fondamentale che si sarebbe verificata nella formazione della prova all’estero.
La relatività del principio di presunzione di legittimità degli atti formati all’estero, pertanto, nella verifica della violazione di un diritto fondamentale del soggetto nel procedimento estero, deve certamente essere oggetto di bilanciamento con gli altri elementi del caso concreto, il cui criterio informatore non può che essere costituito dalla “proporzionalità”.
5. CONCLUSIONI
In conclusione, stando al suddetto indirizzo giurisprudenziale, nella costanza del principio di presunzione di conformità degli atti, qualora in giudizio una parte eccepisca la violazione di un diritto fondamentale nella fase (estera) di raccolta o formazione della prova, starebbe in capo alla medesima parte l’onere di fornirne la relativa prova.
Tuttavia, sembra che il principio normativo della “presunzione relativa di legittimità degli atti compiuti all’estero”, per come interpretata dalla nostra giurisprudenza, pone oneri troppo gravosi in capo alla privata difesa nel procedimento penale, che si riverberanno inevitabilmente sulla tutela dei suoi diritti fondamentali. Per come configurata, in effetti, sembra profilarsi una probatio diabolica in capo alla Difesa, soprattutto qualora vengano in rilievo acquisizioni dall’estero delle e-evidence, e ciò per la loro genesi e qualità intrinseca che non le rende facilmente perscrutabili. L’assunto sul quale si basa la questione riguarda l’impossibilità di falsificare il dato elaborato da un algoritmo se non è possibile accedere al codice sorgente che governa l’algoritmo stesso[87].
E’ probabilmente necessario, allora, un cambio di prospettiva: i diritti fondamentali non sono, e non possono, essere inquadrati quale “limite” alla presunzione relativa di legittimità degli atti raccolti all’estero. Essi, invece, devono costituire una condizione legittimante l’attività di raccolta.
Vista in tale ottica, sarà la parte che intende chiedere l’ammissione della prova stessa a doverne fornire prova della sua legittimità, conformente – tra l’altro – ad un principio di vicinanza della prova stessa.
Nè così argomentando risulterebbe violato il princpio di presunzione relativa di conformità degli atti raccolti all’estero. In effetti, tale principio è normativamente previsto nella direttiva e del d. lgs. ma non è certo scritto che tale onere gravi in capo alla difesa. Si potrebbe sostenere, in effetti, che secondo tale principio gli elementi di prova raccolti all’estero sarebbero sì legittimi ma, qualora una parte “alleghi” (e dunque non “provi”) la violazione di un diritto fondamentale, o anche solo un “mero diritto processuale” comunque strettamente legato all’esercizio di un diritto fondamentale, fornendo però anche solo un riscontro probatorio della sua impossibilità (sopra menzionate) di poter scrutare a fondo il dato informatico generato, ricadrebbe poi sulla parte che ha introdotto l’elemento di prova l’onere di provare la legittimità.
Pertanto, fermo restando che il principio di presunzione relativa di legittimità governa certamente il giudizio di ammissione e valutazione del giudice della prova, qualora però una parte eccepisca la violazione di un diritto fondamentale (o diritto affine) su questa non può gravare l’onere completo della sua prova, giacchè (come nelle sopra menzionate ipotesi in cui ciò risulti impossibile) si violerebbero tutta una serie di parametri costituzionali, convenzionali ed unionali in tema di parità delle parti, diritto di difesa e giusto processo.
D’altronde non sfuggirà che pretendere in capo ad una parte l’onere di provare qualcosa senza che sia possibile adempiere a tale onere (ad esempio per legittima opposizione del segreto di Stato o del segreto industriale), si violerebbe il basilare principio del ad impossibilia nemo tenetur, a tal proposito strettamente legato con il principio della inesigibilità della condotta.
A tal uopo, l’utilizzo del criterio della proporzionalità sarebbe auspicabile anche in relazione al giudizio di esclusione probatoria (in dottrina, a tal proposito, si è parlato di “esclusione proporzionata”[88]) nell’ambito della prova raccolta mediante O.E.I.
[1] Per quanto concerne le pronunzie giudiziarie, si tenga conto delle più recenti, quanto rilevanti, pronunce a livello interno e sovranazionale: C. cost., sent. 7 giugno 2023 n. 170, in Giur. cost., vol. 4, 2023, con note di A. D’ANDREA e A. CHELO, a pag. 1713 e pag. 1746; Cass., Sez. un., 29 febbraio 2024, n.ri 23755 e 23756 (vicenda Sky-ECC, di cui vi sono plurimi commenti in dottrina, tra cui G. SPANGHER, Criptofonini: le sentenze delle Sezioni Unite, in giustiziainsieme.it, 20 giugno 2024; L. FILIPPI, Criptofonini SKY-ECC e messaggi criptati: la Corte di cassazione attua i principi di diritto enunciati dalle Sezioni unite, in penaledp.it, 11 aprile 2024; M. DANIELE, La mappa del controllo giurisdizionale quando l’O.E.I. ha ad oggetto prove già in possesso dell’autorità straniera, in Sis. pen., 17.07.2024); Cass., sez. VI, 11 settembre 2024, n. 39548; Cass., sez. VI, sent. 13 gennaio 2025, n. 1269 (in tema di acquisizione della messaggistica istantanea e dei relativi screenshot contenuti all’interno di uno smartphone; per un commento, cfr. F. BALLESI, La sentenza n. 1269/2025 della Corte di cassazione ed i limiti all’acquisizione nel processo penale della messaggistica istantanea mediante screenshot, in Giur. pen., 25/02/2025); Cass., sez. V, sent. 8 novembre 2024, n. 2137 (ancora sul tema della circolazione della prova transnazionale, post sent. ss.uu. sky-ecc); Corte giust. UE, Grande Sezione, 04 ottobre 2024, C-548/21, per un’analisi della pronunzia, sia consentito un rimando a P. RAUCCI, Le condizioni per l’accesso ai dati del cellulare per il diritto europeo, in Arch. pen. web, 2, 2025; Corte giust. UE, 30 aprile 2024, C-670/22, M.N. (caso Encrochat).
In dottrina, tra i tanti, si segnalano F. R. DINACCI, Sequestro di dispositivi informatici: imposizioni tecnologiche e scelte interpretative. Alla ricerca di un recupero della legalità probatoria, Arch. pen. web, 1, 2025, il quale (a pag. 7) evidenzia come «Il rilievo risulta particolarmente attuale con riferimento alla problematica del sequestro di dispositivi elettronici»; Id., I modi acquisitivi della messaggistica chat o e-mail: verso letture rispettose dei principi, in Arch. pen. web, 1, 2024; G. DI PAOLO, La circolazione transfrontaliera delle prove elettroniche, in Penale Dir. e proc., 13.05.24; Id., voce Prova informatica (diritto processuale penale), in Enc. Dir., Annali, vol. VI, Milano, 2013, p. 736 ss.; L. BELVINI, Data protection e accertamento penale nel panorama europeo e nazionale, in Arc. pen. web, 1, 2024; M. PITTIRUTI, Digital evidence e procedimento penale, Torino, 2018, il quale afferma che «nessun settore appare tanto fecondo quanto quello informatico e telematico»; S. LORUSSO, Digital evidence, cybercrime e giustizia penale 2.0, in Proc. pen. giust., 4, 2019, pagg. 821 e ss.; M. CAIANIELLO – A. CAMON, Digital forensic evidence, Cedam, 2021; S. QUATTROCOLO, Equità del processo penale e automated evidence alla luce della convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Revista Ítalo-Española de Derecho Procesal, Vol. 1, 2019, Madrid, 2018; S. FURFARO, Intercettazioni telefoniche – «Pin to pin» Blackberry, in Arch. pen., 2016, 1.
[2] Sul sito web “Osservatorio di Digital evidence nel procedimento penale” di Luca Lupària con Marco Pittiruti, si legge «L’impiego della tecnologia nel processo penale per l’accertamento di fatti di reato rappresenta un dato oramai noto: dai nuovi ambiti scientifici si attinge al fine di creare nuove tipologie di prova e nuovi strumenti investigativi. Ma nessun settore appare tanto fecondo quanto quello digitale. Il crescente utilizzo, nell’era moderna, di strumentazione informatica e telematica per la trasmissione, ricezione ed elaborazione delle informazioni ha comportato che, mediante tali apparati, si veicoli quotidianamente una mole enorme di dati, molti dei quali di sicuro interesse ai fini processuali»; inoltre G. DI PAOLO, voce Prova informatica (diritto processuale penale), in Enc. dir., Annali VI, 2013, che afferma che «le più recenti fonti internazionali e di matrice europea hanno cercato di tenere conto dell’impatto della tecnologia digitale nelle indagini penali, nell’intento di regolamentare nuove e più efficaci forme di assistenza».
[3] Tanto che è stata, addirittura, preconizzata un’era ove qualsiasi fonte di prova sarà digitale, cfr. G. ZICCARDI, Informatica giuridica. Privacy, sicurezza informatica, computer forensics e investigazioni digitali, vol. II, Milano, 2012, p. 296.
[4] Si tenga conto che nel cd. “Impact assessment” dell’U.E. (Commission Staff Working Document Impact Assessment, Accompanying the document, Brussels, 17.4.2018, pag. 15, reperibile al link https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/PDF/?uri=CELEX:52018SC0118), si riferisce come vi siano circa 13.000 richieste annuali di cooperazione giudiziaria tra Stati membri per accedere a prove elettroniche; che le richieste dirette ai fornitori di servizi come Google e Facebook mostrano un aumento del 70% delle richieste negli ultimi 4 anni; e che meno della metà delle richieste ai fornitori di servizi viene soddisfatta, con una percentuale mediana del 45%. La Commissione ha elaborato una stima utilizzando due fonti principali di informazioni: 1) un sondaggio rivolto alle autorità pubbliche negli Stati membri; e 2) le relazioni sulla trasparenza dei principali fornitori di servizi (Facebook, Google, Microsoft, Twitter e Apple), che contengono informazioni sul numero di richieste ricevute dalle autorità pubbliche e sulla percentuale di richieste soddisfatte. I risultati hanno mostrato che: a) più della metà di tutte le indagini includono una richiesta transfrontaliera di accesso alle prove elettroniche; b) le prove elettroniche in qualsiasi forma sono pertinenti in circa l’85% delle indagini (penali) totali; c) in quasi due terzi (65%) delle indagini in cui le prove elettroniche sono pertinenti, è necessaria una richiesta ai fornitori di servizi transfrontalieri (con sede in un’altra giurisdizione); d) combinando le due percentuali di cui sopra si ottiene il 55% delle indagini totali che includono una richiesta di accesso transfrontaliero alle prove elettroniche; e) le richieste di dati non di contenuto superano quelle di contenuto all’interno dell’UE e oltre. I dati non di contenuto provenienti dalle comunicazioni elettroniche sono quelli più comunemente richiesti. I report sulla trasparenza forniscono un’idea del numero di richieste a cui si riferiscono le percentuali di cui sopra.
[5] In ambito sovranazionale, cfr. “Convention on Cybercrime”, Budapest, 23.11.2001 (cd. Convenzione di Budapest) è il primo trattato internazionale a trattare specificamente la criminalità informatica. Successivamente, è stato adottato il “Additional Protocol to the Convention on Cybercrime, concerning the criminalisation of acts of a racist and xenophobic nature committed through computer systems”, Strasbourg, 28.1.2003 (primo protocollo addizionale); di poi, ” Second Additional Protocol to the Convention on Cybercrime on enhanced co-operation and disclosure of electronic evidence”, (Secondo protocollo addizionale alla convenzione sulla criminalità informatica riguardante la cooperazione rafforzata e la divulgazione di prove elettroniche, adottato il 17 novembre 2021 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa); ed ancora, la Decisione (UE) 2023/436 del Consiglio del 14 febbraio 2023 che autorizza gli Stati membri a ratificare, nell’interesse dell’Unione europea, il secondo protocollo addizionale alla Convenzione sulla criminalità informatica riguardante la cooperazione rafforzata e la divulgazione di prove elettroniche. Quanto invece all’ambito dell’Intelligenza artificiale, menzione particolare merita il cd. IA ACT, ovvero il Regolamento (UE) 2024/1689, che stabilisce norme armonizzate sull’intelligenza artificiale, in quanto è il primo quadro giuridico globale in assoluto sull’IA a livello mondiale, con l’obiettivo di promuovere un’IA affidabile in Europa.
[6] Per tutti, si veda S. QUATTROCOLO, Equità del processo penale e automated evidence alla luce della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, in Revista Ítalo-Española de Derecho Procesal, 1, 2019.
[7] Quanto alle “prove analogiche”, per la necessità che sia garantita la genuinità del reperto v. Cass., Sez. III, 19 gennaio 2010, n. 2388, in Dir. pen. proc., 2010, 1076. Sulla incidenza della non genuinità del reperto in punto di valutazione della prova, v. Cass., Sez. I, 14 marzo 2007, n. 10834, Rv. 236291. La giurisprudenza è consolidata nel ritenere che sebbene la mancata osservanza di regole tecniche di repertazione del campione e analisi non costituisca causa di nullità del risultato ottenuto, essa incide sulla sua attendibilità come prova (Cass., Sez. II, 11 luglio 2024, n. 27813, sulle indagini del DNA; Cass., Sez.V, 4 marzo 2021, n. 8893, Rv. 280623; Cass., Sez.V, 21 marzo 2016, n. 11905, Rv. 266477; Cass., Sez. III, 26 maggio 2009, n. 21652, Rv. 243726; Cass., Sez. III, 6 settembre 2006, n. 29737, Rv. 234984).
[8] In questo senso cfr. J. BAUDRILLARD, Simulacres et simulation, Editions Galilée, 1981.
[9] Per un’analisi di insieme dell’istituto, J. R. SPENCER, Il principio del mutuo riconoscimento, in Manuale di procedura penale europea, a cura di R.E. KOSTORIS, Milano, 2017, pagg. 313 e ss.; per un quadro d’insieme, M. R. MARCHETTI, Cooperazione giudiziaria: innovazioni apportate e occasioni perdute, in Dir. pen. proc., 2017, pag. 1545; F. RUGGIERI, Il libro XI del codice di rito. Guida minima, in Cass. pen., 2018, pag. 1766. Per la dottrina estera, anche con riferimenti ai diversi ambiti in cui tale principio ha trovato applicazione negli anni successivi, v. M. MÖSTL, Preconditions and limits of mutual recognition, in Common Market Law Review, Vol. 47, 2010, pagg. 405-436, e, più diffusamente, J. JANSSENS, The Principle of Mutual Recognition in EU Law, Oxford, Oxford University Press, 2013.
[10] Ivi per la prima volta sancito nella <<sua più pura espressione>>, così G. DE AMICIS, Il principio del reciproco riconoscimento e la sua attuazione nel diritto interno, in La nuova cooperazione giudiziaria penale, a cura di M. R. MARCHETTI e E. SELVAGGI, Cedam, 2019, pag. 239. Il 15 e 16 ottobre 1999, a Tampere, il Consiglio europeo ha tenuto una riunione straordinaria sulla creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia nell’Unione europea, la cui Risoluzione è pubblicata in GUCE, C 154/63, del 05/06/2000.
[11] La Carta è stata elaborata da una Convenzione composta da un rappresentante di ogni paese dell’UE e da un rappresentante della Commissione europea, nonché da 16 membri del Parlamento europeo e 30 dei Parlamenti nazionali (due per ogni Parlamento nazionale) ed è stata inizialmente proclamata il 7 dicembre 2000 a Nizza.
[12] Ai sensi dell’art. 6, par. 1, del Trattato sull’Unione europea, come riformulato dal Trattato di Lisbona, «[l’]Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati».
[13] Nel c.d. “mandato di Colonia” (ovvero delle conclusioni del Consiglio europeo del giugno 1999), il Consiglio affermava di ritenere che, «allo stato attuale dello sviluppo dell’Unione europea, i diritti fondamentali vigenti a livello dell’Unione debbano essere raccolti in una Carta e in tal modo resi più manifesti»; che «[l]a tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell’Unione e il presupposto indispensabile della sua legittimità»; e che «[a]llo stato attuale dello sviluppo dell’Unione è necessario elaborare una Carta di tali diritti al fine di sancirne in modo visibile l’importanza capitale e la portata per i cittadini dell’Unione».
[14] Consiglio Europeo di Tampere 15 e 16 ottobre 1999. Conclusioni della Presidenza. Rinvenibile al link https://www.europarl.europa.eu/summits/tam_it.htm#annexe
[15] G. DE AMICIS, Il principio del reciproco riconoscimento e la sua attuazione nel diritto interno, cit., pag. 240.
[16] Con una curiosa “eterogenesi dei fini” secondo E. SELVAGGI, La circolare del Ministero della giustizia sul c.d. ordine europeo di indagine, in Dir. pen. cont., 11, 2017, pag. 289. Articoli innestati dall’art. 3, comma 1, lett. a), D.Lgs. 3 ottobre 2017, n. 149, che ha inserito il Titolo I-bis, a decorrere dal 31 ottobre 2017.
[17] Così C. M. PAOLUCCI, I problemi di diritto transitorio e l’intreccio tra gli strumenti vigenti. Una bussola per l’interprete, in La nuova cooperazione giudiziaria penale, loc. cit., pag. 223.
[18] P. SPAGNOLO, Il procedimento di emissione dell’O.E.I., in L’ordine europeo di indagine penale. Il nuovo volto della raccolta transnazionale delle prove nel d.lgs. n. 108 del 2017, a cura di M. DANIELE – R.E. KOSTORIS, Torino, 2018, pag. 76, la quale comunque sottolinea come tale strumento rinunci alla piena attuazione del “mutuo riconoscimento” per aderire a quello di “mutua assistenza” (pag. 77).
[19] In questo senso P. SPAGNOLO, Il procedimento di emissione dell’O.E.I., cit., pagg. 75-76.
[20] Così S. ALLEGREZZA, Cooperazione giudiziaria, mutuo riconoscimento e circolazione della prova penale nello spazio giudiziario europeo, in L’area di libertà, sicurezza e giustizia: alla ricerca di un equilibrio fra priorità repressive ed esigenze di garanzie, a cura di T. RAFARACI, Giuffrè, 2007, pag. 710.
[21] Così Corte Cass., sez. III, sent. 14 gennaio 2022 n. 1396; Corte Cass., sez. V, sent. 12 gennaio 2017 n. 1405; Corte Cass., sez. II, sent. 1 luglio 2010 n. 24776. In materia cautelare, si segnala Corte Cass., sez. I, sent. 26 maggio 2009 n. 21673, secondo cuila sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza richiesti per l’adozione di provvedimenti di cautela personale nella fase delle indagini preliminari può essere accertata anche mediante l’acquisizione della documentazione di atti compiuti autonomamente da autorità straniere in un diverso procedimento penale all’estero, anche al di fuori dei limiti stabiliti per la loro utilizzabilità dagli artt. 238 cod. proc. pen. e 78 disp. att. cod. proc. pen.
[22] Corte Cass., sez. II, sent. 17 gennaio 2017, n. 2173 (ove la Corte ha ritenuto esente da censure il provvedimento impugnato che aveva respinto l’eccezione di inutilizzabilità di intercettazioni ambientali disposte ed acquisite dall’autorità olandese, essendo la procedura penale olandese in tema di intercettazioni conforme ai principi garantiti dall’art. 15 della Costituzione).
[23] Corte Cass., Sez. un., 14 giugno 2024, n.ri 23755 e 23756, cit.
[24] Relatività della presunzione comunque prevista nel Considerando 19 direttiva; in conformità, si veda anche Corte giust. UE, 11 novembre 2021, Gavanozov II, C-852/19; Corte giust. UE, 08-12-2020, C-584-19, par. 40.
[25] Corte Cass., Sez. un., 14 giugno 2024, n.ri 23755 e 23756, cit., par. 10.6.
[26] M. DANIELE, La mappa del controllo giurisdizionale, cit.
[27] Corte giust. UE, caso Encrochat, cit., par. 100.
[28] Ibidem, par. 99 e 100. Similmente, S. RAGAZZI – F. SPIEZIA, Decifrare, acquisire e utilizzare le comunicazioni criptate in uso alla criminalità organizzata: uno sguardo europeo, in attesa del count-down italiano, in sistemapenale.it, 26 febbraio 2024, 2, p. 223 s.
[29] Così M. DANIELE, La mappa del controllo giurisdizionale, cit.
[30] Così Corte Cass., Sez. Un., sent 16 luglio 2009, n. 39061, Rv. 244329 -01, e, in termini analoghi, Corte Cass., Sez. Un., sent. 17 novembre 2004, n. 45189, Rv. 229245 -01; tra le tante successive conformi, cfr. Corte Cass., Sez. V, sent. 19 aprile 2023, n. 23015, Rv. 284519 01; Corte Cass., Sez. VI, sent. 14 dicembre 2017, n. 18187, Rv. 273007-01.
[31] Così Corte Cass., Sez. Un., sent. 45189/2004, cit.; nonché Corte Cass., Sez. V, sent. 18 novembre 2010, n. 1915, Rv. 249048 -01, Corte Cass., Sez. V, sent. 17 dicembre 2008, n. 600, Rv. 242551-01.
[32] Così Corte Cass., SS.UU. 23755/24, cit., par. 7 (pag. 27).
[33] La quale, rubricata “Disposizioni sulla utilizzabilità degli atti compiuti e delle prove assunte all’estero”, prevede che «1. Sono raccolti nel fascicolo per il dibattimento di cui all’articolo 431 del codice di procedura penale:
a) i documenti acquisiti all’estero mediante ordine di indagine e i verbali degli atti non ripetibili assunti con le stesse modalità; b) i verbali degli atti, diversi da quelli previsti dalla lettera a), assunti all’estero a seguito di ordine di indagine ai quali i difensori sono stati posti in grado di assistere e di esercitare le facoltà loro consentite dalla legge italiana.
2. Nei casi e con le modalità di cui all’articolo 512-bis del codice di procedura penale il giudice dà lettura dei verbali di dichiarazioni rese all’estero, diversi da quelli di cui all’articolo 431, comma 1, lettera e), del codice di procedura penale, acquisiti a seguito di ordine di indagine emesso nelle fasi precedenti il giudizio».
[34] At. 14, par. 2, secondo periodo, pervede: «Fatte salve le norme procedurali nazionali, gli Stati membri assicurano che nei procedimenti penali nello Stato di emissione siano rispettati i diritti della difesa e sia garantito un giusto processo nel valutare le prove acquisite tramite l’O.E.I.».
[35] Il primo periodo di tale norma, in effetti, così recita: «La creazione di uno spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia nell’Unione si fonda sulla fiducia reciproca e su una presunzione di conformità, da parte di tutti gli Stati membri, al diritto dell’Unione e, in particolare, ai diritti fondamentali».
[36] Contenuta all’art. 1, par. 4, della direttiva 41/2014, ove si prevede: «4. La presente direttiva non ha l’effetto di modificare l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali e i principi giuridici sanciti dall’articolo 6 TUE, compresi i diritti di difesa delle persone sottoposte a procedimento penale, e lascia impregiu dicati gli obblighi spettanti a tale riguardo alle autorità giudiziarie».
[37] Così Corte Cass., SS.UU. n.ri 23755/2024, cit., par. 7.5.
[38] Per i criteri per individuarli nella Costituzione, cfr. A. BALDASSARRE, voce Diritti Inviolabili, in Enc. giur., pagg. 21 e ss.
[39] A. RUGGERI, Cosa sono i diritti fondamentali e da chi e come se ne può avere il riconoscimento e la tutela, in Consulta online, 30 giugno 2016, reperibile al link https://giurcost.org/contents/giurcost/studi/ruggeri56.pdf.
[40] Cfr. Corte cost., sent. 30 luglio 2021, n. 182; Corte cost., sent. 27 febbraio 2019, n. 25; Corte cost., sent. 4 dicembre 2009, n. 317; Corte cost., sent. n. 388 del 1999.
[41] A. RUGGERI, Cosa sono i diritti fondamentali, cit.
[42] Ibidem.
[43] Così S. QUATTROCOLO, Equità del processo penale e automated evidence, cit., pag. 108.
[44] A. DE CARO, Le delicate traiettorie dell’Informazione digitale nel processo penale, in Arch. pen. web, 1, 2025, pag. 28, al quale appartengono anche le riflessioni di cui in appresso sul tema della rilevanza del “domicilio digitale” quale diritto fondamentale.
[45] Sulla ricostruzione dell’art. 2 come clausola aperta e come norma capace di assorbire e disciplinare al massimo livello i nuovi diritti e le nuove libertà cfr. A. DE CARO, Libertà personale e sistema processuale penale, Napoli, 2000, 176 ss.
[46] A. D’ATENA, Costituzionalismo moderno e tutela dei diritti fondamentali, in Tutela dei diritti fondamentali e costituzionalismo multilivello, a cura di A. D’ATENA e P. GROSSI, Milano, 2004, 25 ss., dove si spiega il fondamento del “rapporto costitutivo” tra la Costituzione e i diritti fondamentali. A. CARDONE, voce Diritti fondamentali (tutela multilivello dei), in Enc. giur., Annali IV, 2011, pag. 336.
[47] G. UBERTIS, Sistema di procedura penale, I, Principi generali, Giuffrè, 2017, pag. 20; così F. FIORENTIN, I trasferimenti dei detenuti, in L’ordine europeo di indagine penale, loc. cit., pag. 283, in nota 13.
[48] Così M. CHIAVARIO, voce Diritto processuale penale, in Enc. dir., Annali IX, 2016, pag. 285.
[49] Per uno studio sulla nozione e significato della formula “giusto processo” tanto nella nostra Carta costituzionale, quanto nelle Carte sovranazionali, sia consentito un rimando a P. RAUCCI, La valenza autonoma della formula “giusto processo” in Costituzione, collana Problemi attuali della giustizia penale, Cedam, 2023.
[50] Corte E.D.U., Case Gregačević v. Croatia, n. 58331/09, 10 luglio 2012, par. 49.
[51] Corte E.D.U., Case Ibrahim e altri v. Regno Unito, Grande Camera, nn. 50541/08 e altri 3, 13 settembre 2016, par. 250, riguardante il diniego, senza alcun motivo imperioso, del diritto di accesso a un avvocato durante il primo interrogatorio del sospettato al posto di polizia.
[52] Ibidem, par. 250.
[53] Corte E.D.U., Case Mehmet Zeki Celebi c. Turchia, 28 gennaio 2020, par. 51.
[54] Corte E.D.U., Case Mirilashvili c. Russia, appl. 6293/04, 10 luglio 2007, par. 165, così anche in dottrina, R. E. KOSTORIS, Processo penale e paradigmi europei, Giappichelli, 2022, pag. 24, in nota 24, ricorda che l’equità processuale secondo la Corte EDU è un concetto di relazione e, pertanto, il suo rispetto è commisurato al rispetto complessivo delle garanzie; essa potrebbe dunque non risultare compromessa da singole violazioni che non abbiano presentato in concreto significativa incidenza sulla posizione dell’interessato.
[55] Così L. FILIPPI, Criptofonini e diritto di difesa, in Pen. dir. proc., 23 giugno 2023.
[56] S. QUATTROCOLO, Equità del processo penale e automated evidence,cit.
[57] M. A. BIASOTTI, A proposed electronic evidence exchange across the European Union, in Digital Evidence and Electronic Signature Law Review, 14, 2017, pag. 3.
[58] Sul punto, cfr. A. DE CARO, Le delicate traiettorie dell’Informazione digitale, cit., pag. 26.
[59] M. HILDEBRANDT, Algorithmic regulation and the rule of law, in Philosophical Transactions of the Royal Society, 2018, pag. 2.
[60] Così S. QUATTROCOLO, Artificial Intelligence, Computational Modelling and Criminal Proceedings. A Framework for A European Legal Discussion, Springer, 2020, pag. 17.
[61] Ne da atto S. QUATTROCOLO, Artificial Intelligence, Computational Modelling, cit., pag. 17.
[62] N. GESLEVICH PACKIN, Y. LEV-ARETZ, Learning algorithms and discrimination, in Barfield W, Pagallo U (eds), Research handbook on the artificial intelligence and law, Elgar Cheltenham, 2018, pagg. 88 e ss.
[63] S. QUATTROCOLO, Equità del processo penale e automated evidence,cit., pag. 120.
[64] Il poter contestare l’accuratezza della prova a carico esprime il senso proprio del giusto equilibrio tra le parti, come ripetutamente sottolineato dalla Corte Europea, cfr. Così, Corte E.D.U., Gr. Ch., sent. 10 marzo 2009, Bykov v. Russia, par. 90; Corte E.D.U., sent. 22 maggio 2018, Svetina v. Slovenia, par. 44, ove si è affermato che «it must be examined in particular whether the applicant was given the opportunity of challenging the authenticity of the evidence and of opposing its use. In addition, the quality of the evidence must be taken into consideration, including whether the circumstances in which it was obtained cast doubt on its reliability or accuracy».
[65] In questo senso, S. QUATTROCOLO, Equità del processo penale e automated evidence,cit., pag. 120.
[66] Cfr. Considerando 40, secondo cui: «La protezione delle persone fisiche in relazione al trattamento dei dati personali è un diritto fondamentale. A norma dell’articolo 8, paragrafo 1, della Carta e dell’articolo 16, paragrafo 1, TFUE ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano». Si vedano, comunque, anche i Considerando n.ri 41 e 42.
[67] Corte Giust. U.E., Grande Sezione, 4 ottobre 2024, proc. C-548/21, cit.
[68] Per un’analisi, della decisione, sia consentito un rimando a P. RAUCCI, Le condizioni per l’accesso ai dati del cellulare per il diritto europeo, cit; tra i primi commenti, si segnala L. FILIPPI, La CGUE mette i paletti all’accesso ai dati del cellulare, in Altalex, 10/10/2024, reperibile al link www.altalex.com/documents/2024/10/10/cgue-mette-paletti-accesso-dati-cellulare. Invece, per le possibili ricadute nel nostro ordinamento di tale decisione, invece, cfr. P. RAUCCI, Sequestro del cellulare e acquisizione dei dati: possibili patologie dell’atto alla luce della recente giurisprudenza europea, in corso di pubblicazione su Proc. pen. giust.
[69] S. QUATTROCOLO, Equità del processo penale e automated evidence,cit.
[70] Ibidem, pag. 113.
[71] Il testo completo del Considerando 12 così recita: «Quando emette un O.E.I., l’autorità di emissione dovrebbe prestare particolare attenzione al pieno rispetto dei diritti stabiliti nell’articolo 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (la Carta). La presunzione di innocenza e i diritti della difesa nei procedimenti penali sono i capisaldi dei diritti fondamentali riconosciuti nella Carta nel settore della giustizia penale. Ogni limitazione di tali diritti mediante un atto di indagine richiesto conformemente alla presente direttiva dovrebbe rispettare pienamente i requisiti stabiliti nell’articolo 52 della Carta quanto alla necessità, agli obiettivi di interesse generale da perseguire, nonché all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui».
[72] Il testo completo del par. 4 dell’art. 1 direttiva 41/2014 così recita: «4. La presente direttiva non ha l’effetto di modificare l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali e i principi giuridici sanciti dall’articolo 6 TUE, compresi i diritti di difesa delle persone sottoposte a procedimento penale, e lascia impregiu dicati gli obblighi spettanti a tale riguardo alle autorità giudiziarie».
[73] Così il testo del par. 7: «Lo Stato di emissione tiene conto del fatto che il riconoscimento o l’esecuzione di un O.E.I. sono stati impugnati con successo conformemente al proprio diritto nazionale. Fatte salve le norme procedurali nazionali, gli Stati membri assicurano che nei procedimenti penali nello Stato di emissione siano rispettati i diritti della difesa e sia garantito un giusto processo nel valutare le prove acquisite tramite l’O.E.I.».
[74] Che così prevede «1. Sono raccolti nel fascicolo per il dibattimento di cui all’articolo 431 del codice di procedura penale: a) i documenti acquisiti all’estero mediante ordine di indagine e i verbali degli atti non ripetibili assunti con le stesse modalità; b) i verbali degli atti, diversi da quelli previsti dalla lettera a), assunti all’estero a seguito di ordine di indagine ai quali i difensori sono stati posti in grado di assistere e di esercitare le facoltà loro consentite dalla legge italiana.
2. Nei casi e con le modalità di cui all’articolo 512-bis del codice di procedura penale il giudice dà lettura dei verbali di dichiarazioni rese all’estero, diversi da quelli di cui all’articolo 431, comma 1, lettera e), del codice di procedura penale, acquisiti a seguito di ordine di indagine emesso nelle fasi precedenti il giudizio».
[75] M. DANIELE, La sfera d’uso delle prove raccolte, in L’ordine europeo di indagine penale., loc. cit., pag. 192, ed ivi in nota 32.
[76] Ex art. 33 d. lgs. 108/17, formulazione che secondo F. RUGGIERI, Le nuove frontiere dell’assistenza penale internazionale: l’ordine europeo di indagine penale, in Proc. pen. giust., 2018, 1, pag. 139, presuppone il dovere di osservare in modo integrale le garanzie difensive assicurate dal nostro sistema.
[77] M. DANIELE, La sfera d’uso delle prove raccolte, cit., pag. 192.
[78] Ibidem, pag. 195.
[79] Corte cass., SS. Un., caso sky-ecc, cit.
[80] L. FILIPPI, Criptofonini e diritto di difesa, cit.
[81] Così P. FERRUA, Il contraddittorio tra il declino della legge e tirannia del diritto vivente, in Le erosioni silenziose del contraddittorio, a cura di D. NEGRI – R. ORLANDI, Giappichelli, 2017, pag. 4.
[82] M. DANIELE, La sfera d’uso delle prove raccolte, cit. pag. 196.
[83] Corte Cass., SS. Un., caso sky-ecc, cit., par. 9.2, pag. 29.
[84] Ibidem, par. 9.3
[85] Così Corte Cass., Sez. un., 14 giugno 2024, n. 23755, cit., par. 12.
[86] Giacchè come evidenziato la prova digitale per sua stessa natura può essere alterata, corrotta o distrutta da gestioni e analisi improprie, è importante che il trattamento della digital evidence avvenga seguendo le linee guida dettate dallo standard ISO/IEC 27037 durante le fasi di identificazione, raccolta, acquisizione e conservazione (denominate appunto «Information technology — Security techniques — Guidelines for identification, collection, acquisition, and preservation of digital evidence»).
[87] S. QUATTROCOLO, Equità del processo penale e automated evidence, cit., pag. 117.
[88] M. DANIELE, La sfera d’uso delle prove raccolte, cit., pag. 191.