Sommario: 1. L’irrefrenabile tendenza al panpenalismo – 2. La questione della legittimità costituzionale della norma penale introdotta mediante decreto-legge – 3. Le perplessità suscitate dall’aggravante di luogo -4. Le perplessità suscitate dalla nuova disciplina del rinvio dell’esecuzione penale per le donne in maternità – 5. Eccesso di clamore su presunte incriminazioni del “disagio sociale” – 6. Brevi considerazioni conclusive
ABSTRACT
L’ultimo della lunga serie dei pacchetti-sicurezza ha suscitato commenti sfavorevoli quasi unanimi, il cui leitmotiv si individua nella critica della ratio legislativa, ritenuta appartenente al filone simbolico-espressivo che alimenta il panpenalismo. Si condivide il senso di tali rilievi critici, nei limiti in cui emerga la consapevolezza che siffatta tendenza del moderno legislatore – ovviamente giustificata in nome della sicurezza dei cittadini – ha radici profonde e non occasionali. Non si condividono, invece, le considerazioni ulteriori, formulate da più parti, che, inclinando sul versante della polemica politica, ascrivono al governo attuale un intento liberticida. Non pare che il pacchetto sicurezza introduca norme incriminatrici delle mere manifestazioni di disagio sociale o dissenso politico. Introduce semmai nuove ridondanti fattispecie di reato e aggravanti, formulate con il metodo casistico, affaticando l’interprete, col rischio che sia violato il principio del ne bis in idem sostanziale. In particolare, l’Autore critica sfavorevolmente l’introduzione dell’aggravante di luogo e la modifica della disciplina del rinvio dell’esecuzione penale per motivi di maternità.
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The latest in the long series of ‘security packages’ has elicited almost unanimous unfavorable comments, whose leitmotif lies in the critique of the legislative rationale, deemed to belong to the symbolic–expressive trend that fuels the phenomenon of pan-criminalization. Such critical remarks are shared, insofar as they reveal an awareness that this tendency of the modern legislator—ostensibly justified in the name of citizens’ security—has deep and structural rather than contingent roots. By contrast, one cannot endorse further considerations, voiced in several quarters, which, leaning toward political polemics, attribute to the current government a liberticidal intent. The security package does not appear to introduce criminal provisions targeting mere manifestations of social unrest or political dissent. Rather, it introduces new and redundant offences and aggravating circumstances, drafted in a casuistic manner, thereby burdening the interpreter and creating the risk of violating the principle of substantive ne bis in idem. In particular, the Author critically censures the introduction of the aggravating circumstance relating to the place of commission and the amendment to the rules on the suspension of the execution of a sentence on grounds of maternity
- L’irrefrenabile tendenza al panpenalismo
L’idea, ingenua e semplicistica, che il diritto penale possa e debba porre rimedio agli innumerevoli inconvenienti della convivenza sociale, sembra divenuta il mantra di ogni nuovo Governo che ha la ventura di insediarsi, succedendo al vecchio. La nuova compagine governativa ha l’onere di mostrarsi efficiente, non meno della precedente, e pertanto deve affrontare le “emergenze” del momento, vere o presunte, che destano “allarme sociale”, per placare il quale è necessario ricorrere alla norma penale. Il circolo vizioso del panpenalismo può essere così descritto: taluni fatti di cronaca nera, amplificati dalla stampa, emittenti varie e social, vengono percepiti dall’opinione pubblica come particolarmente pericolosi e comunque, anche nella migliore delle ipotesi, gravidi di conseguenze perniciose; la sensazione del pericolo, sull’onda del “sensazionalismo” mediatico, cresce fino a configurarsi come “allarme sociale“. Il sensibile e solerte legislatore recepisce l’allarme, nel frattempo divenuto “emergenza”, e intende apprestare il provvidenziale rimedio, ossia una nuova legge; la strada provvidenziale più breve e agevole è quella “sanzionatoria”; e poiché la sanzione penale è quella più severa e ha il pregio della visibilità mediatica, il rimedio viene individuato nella legge penale. Dall’emergenza alla norma penale il passo è breve, cosicché nel Paese delle mille emergenze attuali, che si aggiungono alle precedenti mai scomparse; insomma, nel Paese delle emergenze secolari e forsanche definitive, le quali proprio per questa ragione non dovrebbero chiamarsi “emergenze”, la legislazione penalistica è divenuta ipertrofica, sotto l’incalzare di un impulso securitario che si autoalimenta[1].
Questa logica emergenziale e securitaria ha ispirato l’ultimo anello (in ordine cronologico) della catena panpenalistica, che non per nulla è stato denominato “decreto sicurezza”[2]. L’opinione pubblica “allarmata” doveva essere rassicurata; nulla di meglio dunque che denominare “decreto sicurezza” l’eterogeneo pacchetto normativo approvato dal Consiglio dei Ministri, col chiaro intento di conquistare facile consenso sociale, da spendere in un mercato “elettorale” sempre attivo (per via dei continui sondaggi d’opinione), ancorché la fine della legislatura non sia dietro l’angolo. A nostro sommesso avviso, il “pacchetto” del governo Meloni incorre negli stessi errori dei precedenti pacchetti “rassicuranti”[3] e si presta alla stessa generale considerazione critica, riguardante lo sconcertante fenomeno moderno del panpenalismo, che ignora del tutto la funzione sussidiaria della sanzione penale, issata – ben diversamente – al centro e alla sommità di tutto il castello delle sanzioni giuridiche[4]. Nel mare magnum del panpenalismo sboccano numerosi corsi affluenti; tra questi un posto di primo piano occupa la normativa simbolico-espressiva, caratterizzata dal fatto che il Legislatore si erge a demiurgo onnipotente e lancia i suoi proclami, postulando che la “realtà” si adegui immantinente ai suoi propositi. Qualcosa di simile alle grida manzoniane, tanto più inefficaci quanto più solennemente proclamate. Si potrebbe dire che la funzione di tali norme sia quella della mera notifica, in quanto il fatto stesso che siano portate a conoscenza del popolo esaurisce la loro finalità. In questa funzione “notificatrice”, c’è tutta la presunta grandezza, accanto alla reale pochezza, del legislatore “panpenalisticamente” orientato. La prima, perché Egli presume che la sua “legge” determini ipso facto il cambiamento delle relazioni sociali, in ossequio ai suoi desideri; la seconda, perché Egli ignora la reale dinamica dei rapporti umani, molto più governata dagli interessi e dalle passioni dei consociati, che dai “comandi” dell’autorità politica[5].
2. La questione della legittimità costituzionale della norma penale introdotta mediante decreto-legge
Una prima questione attiene alla fonte. Il ricorso alla decretazione d’urgenza è la via più facile e sbrigativa per introdurre le nuove fattispecie penali, destinate a rassicurare i consociati di fronte delle nuove “emergenze”, le quali per definizione postulano un intervento “emergenziale” e dunque immediato. Senonché le minoranze politiche non prendono alcuna parte, nemmeno interlocutoria, alla formazione del decreto-legge, atto del Governo e non del Parlamento. Ne deriva che, laddove il decreto-legge venisse a sostituire in toto la via ordinaria di legiferazione, per ciò stesso si sarebbe realizzata una pericolosa ingerenza del potere esecutivo su quello legislativo. Da qui le notevoli riserve palesate dalla dottrina sull’utilizzabilità del decreto-legge come fonte di diritto penale. Prendiamo in considerazione sia quelle più radicali, riguardanti la tipologia della fonte in quanto tale; sia quelle riguardanti la sussistenza dei requisiti di legittimazione nel caso specifico[6].
Un orientamento dottrinale esclude in radice che il decreto legge possa costituire fonte di diritto penale[7], giacché la riserva di legge prevista dalla Costituzione deve essere intesa in senso stretto, come riserva di legge formale. Solo l’ampia discussione nelle aule parlamentari offre la garanzia che le minoranze politiche possano utilmente rappresentare le proprie ragioni, in una materia tanto delicata, che incide sulla libertà di tutti. Al contrario, gli atti del governo sono sottratti alla discussione parlamentare, nella fase dell’emanazione, e il voto finale sulla legge di conversione non è ritenuto sufficiente a garantire la partecipazione attiva di tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento. Si opina che i tempi stretti della discussione e il frequente ricorso al voto di fiducia, da parte del governo, svuotino di senso l’apporto delle minoranze, tanto da sottrarre al Parlamento il pieno esercizio della funzione legislativa, riducendo il suo ruolo a quello di ratifica ex post di decisioni politiche prese aliunde, magari potenzialmente lesive dei diritti delle minoranze.
Sul punto si è pronunciata ripetutamente la Consulta, riconoscendo legittimità costituzionale alla fonte normativa del decreto legge, sul presupposto che la sovranità e il pieno controllo del Parlamento sull’iter di approvazione del dispositivo normativo non vengono meno[8]. La legge di conversione è un atto del Parlamento, nel quale si esprime la piena sovranità del titolare monopolista del potere legislativo. Se il Parlamento non approva la conversione, le norme del decreto decadono retroattivamente, dunque il vigore delle norme legislative si deve in ogni caso alla determinazione del Parlamento, sia in caso di conversione (giacché la legge formale prende il posto del decreto), sia di mancata conversione (la quale restituisce vigore alla norme antecedenti al decreto).
L’argomento ci pare insuperabile. Rimane in discussione l’opportunità – non già la legittimità – della decretazione d’urgenza. Sul punto è bene chiarire che il quid proprii della pena, ossia l’essere penalistico della norma, non risiede nell’oggetto, bensì nel modo della disciplina. L’area penalistica non delimita, propriamente, una materia in sé, bensì un modo di disciplinare qualsivoglia materia, che consiste nel sanzionare penalmente la trasgressione del dovere di comportamento tipizzato in fattispecie. Tutti i beni giuridici possono essere penalmente tutelati; non è la sorta del bene giuridico ciò che caratterizza la norma penale, bensì il ricorso alla sanzione penale. Se dunque è la tipologia della sanzione, non quella dell’interesse protetto e della materia disciplinata, ciò che caratterizza la norma penale, la necessità e l’urgenza, da valutare caso per caso, non si riferiscono alla sanzione penale, bensì alla disciplina degli interessi in considerazione[9]. Non il modo, bensì l’oggetto della tutela è rilevante ai fini della valutazione di urgenza e necessità. La sanzione penale potrebbe non essere necessaria e urgente in alcun caso, perché il dovere di condotta, correlato a una disciplina “necessaria” e “urgente” di determinati interessi in campo, potrebbe sussistere indipendentemente dal carattere penale della sanzione. Ciò posto, i rilievi critici sul ricorso alla decretazione d’urgenza in “materia” penale devono essere formulati cum grano salis, tenendo conto che la scelta politica di disciplinare un determinato settore di interessi con lo strumento immediato del decreto-legge ha una certa dose intrinseca di opinabilità.
Infatti, la Consulta si è guardata bene dall’entrare nel merito delle valutazioni politiche di opportunità e ha censurato il ricorso alla decretazione d’urgenza in casi molto limitati[10]. In base alla giurisprudenza della Corte costituzionale, l’invasione di campo, da parte del potere esecutivo su quello legislativo, si verifica nei casi in cui il decreto-legge non convertito venga reiteratamente riproposto[11]. In tali casi, le norme del decreto, non convertito in legge, vengono artificiosamente tenute in vita dal Governo che emana un nuovo decreto identico al precedente e per ciò stesso proroga per altri sessanta giorni la validità delle medesime. Di proroga in proroga si potrebbe arrivare all’infinito, sì che il governo avrebbe per ciò stesso usurpato le prerogative del Parlamento, divenendo arbitro della validità (indeterminata nel tempo) delle proprie deliberazioni, in un campo riservato alla legge (e dunque alla funzione parlamentare). In Italia, prima della sentenza n. 360 del 1996, si è corso questo rischio, giacché il governo aveva fatto abuso della decretazione d’urgenza, con tale sorta di proroga sine die. Con la su citata sentenza il Giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della reiterazione seriale e periodica dei decreti-legge non convertiti, ponendo fine all’andazzo che incrinava la stessa architettura costituzionale della corretta divisione dei poteri[12].
Nel caso di specie, la questione della reiterazione non si pone. Tuttavia viene in considerazione qualcosa di simigliante, poiché nel pacchetto sicurezza, varato dal Consiglio dei Ministri col menzionato decreto-legge, sono stati trasfusi i contenuti del disegno di legge d’iniziativa governativa. In sintesi, non è cambiata la linea del Governo, ma lo strumento utilizzato per attuarla. E cambiato l’avviso del Governo sull’urgenza della nuova disciplina; ciò che ieri era ritenuto non urgente, oggi è stato ritenuto tale. Autorevoli commentatori vi hanno ravvisato la dimostrazione più lampante della mancanza del presupposto giustificativo del decreto[13]: se era stata scelta la via della legge ordinaria, ciò significa che si potevano attendere i tempi “lunghi” della discussione e del voto parlamentare. L’argomento è suggestivo; sicuramente ragionevole e, sulle prime, molto convincente; ma, a ben vedere, non pare decisivo e dirimente. Proprio le inevitabili “lungaggini” delle procedure parlamentari, sperimentate lungo l’iter di approvazione del disegno di legge, potrebbero aver influito sulla scelta governativa. L’idea di disciplinare con immediatezza ed efficienza un settore d’interessi particolarmente significativo, per attuare le linee programmatiche di governo, potrebbe essere nata proprio dalla verifica dei “ritardi” accumulati. Inoltre non è escluso che nelle more la situazione si sia aggravata, al punto che l’intervento legislativo rinviabile, sia divenuto ipso facto non più rinviabile. La questione dell’urgenza, come si vede, è molto opinabile e non ammette facili semplificazioni. In ogni caso, è bene precisare che la “sicurezza” dei beni giuridici primari è la precondizione necessaria della pacifica convivenza sociale e dell’efficienza dell’ordinamento giuridico, talché ogni governo non può che essere sensibile al tema, dal quale dipende infine la realizzazione dell’intero programma politico. Non a caso governi di coloritura politica e riferimenti ideali molto diversi hanno fatto ricorso alla decretazione d’urgenza con finalismo securitario. Si possono citare i decreti Maroni del 2008 e del 2009, emanati dal governo Berlusconi[14]; il decreto Minniti del 2017, emanato dal governo Gentiloni[15]; i decreti Salvini del 2018 e del 2019[16], emanati dal primo governo Conte e il decreto Lamorgese del 2020[17], emanato dal secondo governo Conte[18]. Se ne possono trarre argomenti per pensare a una “debolezza” strutturale del sistema-Italia, che inceppa il meccanismo di approvazione della legge ordinaria, inducendo i governi a scegliere la scorciatoia del decreto. In effetti il bicameralismo perfetto, vigente in Italia, impone la votazione per “doppia conforme”; il che di per sé comporta una procedura di approvazione più lunga e farraginosa. Ciò ovviamente non giustifica, sempre e comunque, la scelta governativa della strada più breve, al posto di quella maestra; ma consiglia almeno di cercarne e comprenderne le ragioni non occasionali. In ogni caso, sulla scorta dell’esperienza politica degli ultimi decenni, non pare ragionevole formulare la censura di “incostituzionalità” del decreto-legge de quo, sulla base di un paventato pericolo di autoritarismo, specificamente attribuito alla destra[19] e ravvisato, a nostro sommesso avviso, troppo frettolosamente.
Ciò considerato per il metodo, si possono muovere rilievi critici di non poco conto nel merito del pacchetto sicurezza, riguardanti, in particolar modo, la nuova aggravante del locus commissi delicti e la nuova disciplina dell’esecuzione penale per le donne in maternità.
3. Le perplessità suscitate dall’aggravante di luogo
Fatto salvo il metodo, il pacchetto sicurezza pare meritevole di critica in relazione ad alcuni punti di merito. In primo luogo, si possono esprimere notevoli perplessità sull’aggravante del locus commissi deliciti, di cui all’art. 61, n. 11 decies, c.p., introdotta con la legge 80/2025, la quale ricorre quando il fatto di reato risulta commesso all’interno o nelle immediate vicinanze delle stazioni ferroviarie o della metropolitana. L’originaria formulazione del decreto legge non specificava la tipologia del reato base[20], sicché si prestava a un’eventuale censura di incostituzionalità per violazione dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e offensività. Non si capiva infatti per quale ragione un eventuale fatto di corruzione, con dazione di denaro perfezionata all’interno di una stazione ferroviaria, sarebbe stato meritevole di una sanzione più severa, rispetto al medesimo, per ipotesi, consumato presso uno studio privato. I due fatti di corruzione ipotizzati, commessi
in luoghi diversi, possiedono all’evidenza il medesimo grado di offensività, sicché non aveva alcun senso la differenza sanzionatoria dovuta all’aggravante. La legge di conversione ha posto rimedio a siffatta incongruenza, poiché l’aggravante inerisce solo a un fatto base, che sia annoverabile tra i reati contro l’incolumità pubblica, la persona o il patrimonio[21]. Dunque, con la legge di conversione, quella palese incongruenza è stata eliminata; tuttavia, l’aggravante de qua, secondo il nostro sommesso avviso, si presta tuttora a qualche rilievo critico.
Innanzitutto, si può osservare che il metodo casistico, in linea generale, non pare il più adatto per le formule verbali che descrivono i reati e le loro circostanze. L’elencazione casistica e dettagliata dei fatti, per quanto accurata possa essere, rischia comunque di non essere esaustiva, rimanendone fuori fatti ugualmente meritevoli di pena, non rientranti nel tipo legislativo per mancanza di qualche dettaglio. E d’altronde si corre il rischio opposto – forse quello più rilevante in concreto – dell’eccesso previsionale. Talvolta le descrizioni dettagliate si sommano a quelle generali, disorientando l’interprete e generando incertezze applicative. Insomma, il rischio è duplice: per un verso, i mille casi della vita non sono sempre pienamente prevedibili, sicché la casistica legislativa potrebbe non comprendere l’intera casistica della vita; per l’altro verso, il fatto previsto nell’elencazione casistica non sempre si pone in rapporto di species a genus, rispetto al fatto previsto dalla formula descrittiva ampia[22]. Ne potrebbe sortire una duplicità sanzionatoria, lesiva del principio del ne bis in idem sostanziale.
Di tal fatta è la possibile incertezza applicativa che riguarda l’aggravante in parola, rispetto a quella generale prevista dall’art. 61 n.5 c.p.. Il locus commissi delicti in sé e per sé, considerato nella sua purezza astratta, non può né aggravare né attenuare l’offesa del reato. Non occorrono molte parole per dimostrare l’estraneità, al quadro offensivo del fatto, di una circostanza di luogo, avulsa dal contesto storico temporale. Dal punto di vista oggettivo, è evidente che il quantum del danno non dipende dal fatto commesso in una località piuttosto che in un’altra. Tutt’al più, in relazione al luogo, potrebbe forse cambiare la percezione del pericolo, nel consesso sociale. Si può pensare che l’allarme sociale, inteso come sensazione di pericolo per la persona e le cose, percepito in una zona “malfamata“ della città sia ben diverso da quello che si percepisce in una tranquilla zona residenziale. Ma, a ben vedere, anche in relazione al pericolo, non incide tanto il luogo in sé, quanto il contesto sociale. È la componente umana che conferisce un certo imprinting al luogo; la zona è malfamata o meno, in base agli eventi determinati dall’uomo, non già in base alle neutre coordinate spaziali. Infatti, la “fama” deriva al luogo dagli eventi della comunità umana che vi è insediata e dalla communis opinio formatasi sugli stessi.
Anche dal punto di vista soggettivo possiamo escludere che il locus commissi delicti, in sé e per sé, possa incidere sulla gravità del fatto. Il reo non mostra maggiore o minore colpevolezza, se commette il fatto in un luogo, piuttosto che in un altro. Tuttavia, non si può escludere che il luogo possa esprimere un particolare animus delicti, in relazione alle circostanze storiche del fatto. Nel caso di atti osceni in luogo pubblico, i caratteri del luogo costituiscono elemento costitutivo; nel caso di violazione di domicilio, indubbiamente il locus commissi delicti ha rilevanza sulla colpevolezza del fatto. Ma sempre e comunque, a ben vedere, l’incidenza del luogo sulla colpevolezza del soggetto filtra attraverso il contesto storico. L’oscenità degli atti, per esempio, sussiste solo in quanto il soggetto agente sia consapevole della visibilità pubblica dei suoi atti, di talché un luogo, teoricamente accessibile da parte di un numero indeterminato di persone, ma in concreto, per le circostanze storiche, del tutto isolato non integrerebbe gli estremi dell’elemento costituivo “oggettivo” del reato. Allo stesso modo, la violazione di domicilio implica la consapevole volontà del soggetto agente di violare lo jus excludendi esercitato dal soggetto passivo. In ultima analisi, si può ritenere che il locus commissi delcti incida sul reato, non già in sé e per sé, ma per il riflesso esercitato sulla colpevolezza del soggetto agente, in base alle concrete circostanze storiche del fatto.
La superiore osservazione, che attiene alla sussistenza del fatto, si può riproporre per la gravità del fatto. Non c’è ragione di ritenere un fatto di reato più o meno grave per le semplici caratteristiche del luogo e tuttavia può essere ragionevole graduare la gravità del fatto per i riflessi che tali caratteristiche esercitano sulla colpevolezza del soggetto agente e sul quadro offensivo del reato, in base alle circostanze storiche concrete. Ne discende che solo il giudice del caso concreto è in grado di valutare tali riflessi, in relazione alle mutevoli circostanze storiche. Orbene, l’art. 61 n. 5 contempla una circostanza aggravante comune, che ricomprende l’occasionale incidenza del locus commissi delicti sulla colpevolezza del soggetto e sul quadro offensivo del fatto. Alla stregua dell’aggravante in parola, il reo è meritevole di una pena maggiore in quanto abbia commesso il fatto di reato, approfittando di determinate circostanze di luogo (oltre che di tempo etc.). A nostro sommesso avviso, la norma era già bastevole a ricomprendere tutti i possibili casi di maggiore gravità del fatto per incidenza delle caratteristiche del luogo, giustificativi, ovviamente, dei corrispondenti aggravamenti di pena.
Ma il legislatore bulimico dei nostri giorni ha ritenuto quella norma insufficiente, di fronte alla “nuova emergenza” rappresentata dalle rapine compiute nelle vicinanze di istituti di credito, uffici postali etc.. Il “rimedio” è stato individuato in due disposizioni legislative che hanno introdotto nuove aggravanti (art. 625 n. 8-ter e 628 n. 3-bis c.p.)[23]. I reati di furto e rapina sono puniti con pena più grave, se commessi nei luoghi considerati. Si può ritenere che quelle disposizioni si sovrappongano alla norma generale di cui all’art. 61 n. 5 e, sotto questo profilo, costituiscano una sorta di “superfetazione”; tuttavia, si deve riconoscerne la non palese irragionevolezza e si deve escludere la violazione dei principi di uguaglianza e proporzionalità retributiva. Pare che il legislatore, smanioso di provvedere su tutto e arginare le “emergenze”, abbia ritenuto necessario tipizzare l’approfittamento presunto delle condizioni di luogo. In altre parole, il legislatore, poco fiducioso che il giudice potesse individuare da sé i casi di approfittamento, ha voluto introdurre una presunzione legislativa per i reati commessi in quei luoghi. Per ciò stesso che il furto e la rapina sono commessi nelle “vicinanze di …”, si presume che il soggetto abbia approfittato delle minorate possibilità di difesa della vittima “in occasione di …” e pertanto sia meritevole di una pena maggiore.
Se questa lettura delle norme è corretta, se dunque è possibile individuarne la ratio in nient’altro che nell’approfittamento (delle minori difese della vittima) descritto in via generale dall’art. 61 n. 5 c.p., si può delimitare il campo di applicazione delle suddette aggravanti speciali ai fatti commessi “in occasione di …”. La persona intenta a prelevare o depositare somme di denaro (non ancora messe al sicuro) è, per forza di cose, in condizioni di vulnerabilità, sicché si può presumere che il reo approfitti di una minorata difesa del bene protetto. E mentre la presunzione legislativa di approfittamento non appare irragionevole, al contempo emergono i presupposti del rapporto di specialità tra la norma generale di cui all’art. 61 n. 5 c.p. e quelle speciali di cui all’art. 625 n. 8-ter c.p. e 628 n. 3-bis c.p.. Posto che la ratio dell’aggravante è identica, l’approfittamento delle condizioni di luogo può aggravare il fatto una sola volta, e ovviamente prevale l’aggravante speciale. Dunque, non risulta violato il principio del ne bis in idem sostanziale.
Per l’aggravante prevista dal pacchetto sicurezza, le questioni interpretative sono più complesse e si possono muovere rilievi più decisamente e aspramente critici. Il legislatore odierno ha fatto un altro passo avanti lungo la strada della bulimia. Ha introdotto l’aggravante che consiste nell’avere commesso il fatto, nei delitti contro la vita e l’incolumità pubblica e individuale, contro la libertà personale e contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio «all’interno o nelle immediate adiacenze delle stazioni ferroviarie e delle metropolitane o all’interno dei convogli adibiti al trasporto di passeggeri». La formulazione verbale della norma non lascia molto spazio all’interpretazione teleologica. A nostro avviso, sebbene l’unica ratio che giustifichi l’incidenza del luogo sull’entità dell’offesa non può che essere il menzionato “approfittamento” de lla minor difesa[24], la formulazione puramente oggettiva della fattispecie sembra ostare all’idea dell’approfittamemnto presunto. L’area delle stazioni ferroviarie e metropolitane non è a destinazione univoca. Mentre istituti di credito, uffici postali e macchine automatiche per il prelievo e il deposito di denaro sono destinati a operazioni che costituiscono la ghiotta “occasione” per il furto e la rapina, le aree prese in considerazione dal pacchetto sicurezza sono interessate da un passaggio incessante di persone dai mille variegati impegni. Di fronte all’infinita congerie delle occupazioni dei passeggeri, non ci sembra possibile formulare una presunzione. Ovviamente è ben possibile, e forsanche probabile, che sussistano le condizioni di minor difesa della vittima, simili a quelle richiamate implicitamente dalle aggravanti previste dagli art. 625 n. 8-ter c.p. e 628 n. 3-bis c.p., ma la sussistenza presunta ci sembra incongrua.
Ciò premesso, l’aggravante de qua sembrerebbe, per un verso, superflua, per l’altro, ingiusta. Se sussistono le condizioni dell’approfittamento, si può applicare la circostanza aggravante comune; se non sussistono, viene meno la ratio per applicare un’aggravante puramente oggettiva, posto che il locus commissi delicti di per sé nulla dice del grado di colpevolezza e della gravità dell’offesa. I risultati interpretativi potrebbero essere ingiusti in entrambi i casi. Nel primo, perché si corre il rischio di applicare entrambe le aggravanti, una per l’approfittamento del luogo, l’altra per il luogo in sé, violando, a nostro avviso, il principio del ne bis in idem sostanziale; nel secondo, si corre il rischio di applicare un’aggravante puramente oggettiva, del tutto avulsa dal contesto storico-temporale che contribuisce realmente alla gravità del fatto. È palese, infatti, che il legislatore ha inteso conferire rilevanza aggravante ai luoghi descritti in fattispecie, per la moltitudine di persone che normalmente li affollano. Ma supponiamo che, per circostanze occasionali e imprevedibili, tali luoghi non siano affollati nel tempus commissi delicti; o ipotizziamo che la stazione dei treni, nella quale si è consumato il reato, sia quella di un paesino poco abitato e ben lontano dalla metropoli. In questi casi verrebbe meno quel contesto “emergenziale” che ha motivato il legislatore e con esso la ratio politico-criminale della fattispecie.
È stato osservato inoltre che risultano esclusi dall’elencazione legislativa le stazioni dei bus e gli aeroporti[25]. Anche sotto questo profilo, la norma risulta imprecisa. Se il fatto commesso nelle stazioni ferroviarie è particolarmente grave, non si vede perché non dovrebbe esserlo alla stessa maniera e nella stessa misura il fatto commesso nelle stazioni di bus o negli aeroporti. E poiché l’analogia in malam partem è contraria ai principi costituzionali, ci si dovrebbe rassegnare a una differente risposta punitiva per fatti di uguale colpevolezza e offensività.
Alla fine dei conti, pare proprio che l’aggravante de qua appartenga al genus del diritto simbolico-espressivo, il cui movente va ricercato certamente nella preoccupazione securitaria del legislatore, ampiamente evidenziata da molti commentatori[26], ma anche, a nostro avviso, in una sorta di “delirio di onnipotenza” poco dibattuto. Quest’ultimo impulso motivazionale a legiferare nasce dall’idea che il “verbo” del legislatore si traduca sic et simpliciter in “effetto”. Dunque, perché affannarsi a cercare e realizzare le cure amministrative più appropriate per la patologia, quando è sufficiente “scrivere” la legge? Una volta scritta, la legge giuridica diventa ipso facto una sorta di legge fisica, o almeno statistica; gli accadimenti si adeguano alla disposizione normativa; i fatti alla volontà del legislatore. Egli vede e provvede per ciò stesso che “scrive”. Posto dunque che nelle stazioni ferroviarie e metropolitane risultano commessi innumerevoli delitti, occorre “scrivere” qualcosa. La realtà non tarderà ad adeguarsi. Pare questa l’autentica logica della norma in commento, la quale, con molta evidenza, non smentisce l’intento di rassicurare l’opinione pubblica, ma ne costituisce il naturale complemento.
4. Le perplessità suscitate dalla nuova disciplina del rinvio dell’esecuzione penale per le donne in maternità
Nel merito del pacchetto, un altro punto sembra particolarmente meritevole di sfavorevoli osservazioni critiche: la nuova disciplina del rinvio dell’esecuzione penale per motivi di maternità. Condividiamo l’avviso, espresso da più parti, che ne risulta vulnerato, se non palesemente violato, il principio basilare di civiltà giuridica, il quale preserva la maternità nella sua intangibile sacralità di “fonte della vita”.
In virtù del nuovo testo degli articoli 146 e 147 c.p.. il rinvio è divenuto facoltativo, cosicché l’esecuzione carceraria, a carico della donna gravida, partoriente, o madre di un infante (anche di età inferiore a un anno), può avere il suo corso senza alcun rinvio. Ciò ovviamente significherebbe che la pena viene scontata da due persone: la madre, attuale o futura e il figlio, nato o nascituro[27]. E s’intende che tra i due esiste almeno un innocente.
Non si capisce in quali casi il giudice potrebbe ritenere non opportuno il rinvio. È ovvio che la facoltatività suppone una valutazione discrezionale d’opportunità, ma nel caso della maternità qualsivoglia valutazione è superflua e incongrua. O la situazione (pre e post partum) sussiste o non sussiste; e per il fatto stesso che sussiste, e dunque la donna ha partorito o sta per farlo, c’è una persona (neonato o nascituro) che non deve subire alcuna pena e tanto meno carceraria. Tale certezza è assoluta; non residua alcun margine di opinabilità. Non c’è alcuna ragione di sovraccaricare il giudice di un ulteriore onere di discernimento, nelle more del quale potrebbe anche accadere che il rinvio, pur opinato opportuno, giunga a perfezionamento troppo tardi.
Ne deriva che il rinvio facoltativo infrange, a nostro avviso, un principio di civiltà universale[28], espressione della pietas romano-cristiana. Stupisce che ciò accada proprio in Italia, con capitale Roma, culla del diritto romano (che costituisce l’ossatura dei moderni ordinamenti giuridici occidentali) e sede centrale della cristianità universale. Il vulnus arrecato ai principi di civiltà giuridica condivisi nella comunità internazionale è tanto più grave, quanto più irrilevante in fatto di “sicurezza” collettiva. A nostro avviso, nessuna “sicurezza” potrebbe giustificare, in alcun modo, la violazione della sacralità della maternità, generatrice della vita, ma tanto più una maldestra “illusione ottica”, emergenziale anzichenò, dietro la quale si nasconde l’irrilevanza assoluta. Non occorrono grandi rilevamenti statistici, per concludere che la sicurezza collettiva dipende ben poco dalle donne che delinquono nella finestra temporale del pre-parto e post-parto. Il loro numero non può che essere esiguo, come non può che essere insignificante l’impatto della loro carcerazione immediata, piuttosto che rinviata, sulla sicurezza sociale. Ma come spiegare allora uno sfregio così grave alla “sacralità” universale della figura materna per un’efficienza securitaria di ben poco momento, ovvero “tanto rumore per nulla”? Possiamo provare a ripercorrere l’iter motivazionale seguito dal legislatore, nella certezza di non essere molto lontani dal vero. La fonte dell’abbaglio si può rinvenire, verosimilmente, nelle notizie di cronaca, relative ai tanti “borseggi” commessi alla stazione Termini di Roma da giovani ragazze di etnia rom[29]. L’emergenza-borseggi è divenuta “emergenza-zingarelle”; e infine la fecondità di queste ultime è stata considerata l’ostacolo da rimuovere per l’efficiente tutela della “sicurezza”. Al posto delle misure amministrative di contenimento, possibili e ragionevoli, che avrebbero riguardato la stazione Termini di Roma, si è preferito introdurre una norma-provvedimento, che, a nostro avviso, ingiuria millenni di civiltà giuridica e viola il principio costituzionale del carattere umanitario della pena.
5. Eccesso di clamore su presunte incriminazioni del “disagio sociale”
Altre riserve di dettaglio si potrebbero formulare nel merito del decreto, tutte comunque afferenti al “comune denominatore” evidenziato fin dalla prima pagina. Le nuove fattispecie penali (di reato e d’aggravante) appaiono ridondanti, giacché non contemplano fatti nuovi, ma segmentano e frazionano fatti già previsti in via generale, riferendoli a determinati casi più specifici e dettagliati. In sintesi, il legislatore odierno sceglie la strada dell’incriminazione casistica e lo fa per necessità intrinseche alla sua stessa logica securitaria ed emergenzialistica, che conduce al panpenalismo. Avendo smarrito i riferimenti al principio di sussidiarietà del diritto penale e avendo assunto l’opposto orientamento, che affida alla sanzione penale la funzione provvidenziale di “risolvere” le innumerevoli e mutevoli “emergenze” della nostra coesistenza, purtroppo sempre faticosa e imperfetta, il solerte legislatore italiano, spinto dalla finalità di rassicurare l’opinione pubblica, convinto che il suo “Verbo” sia sufficiente di per sé a modificare il corso degli eventi, ha introdotto con il suddetto pacchetto sicurezza una congerie non indifferente di nuovi reati[30]. Le nuove figure delittuose ci sembrano criticabili per i motivi già accennati, e cioè, sinteticamente, per l’eccesso di legislazione speciale e casistica, sovrapposta a quella di carattere generale, mentre non ci sembrano convincenti i rilievi mossi da tanti commentatori, circa la presunta repressione delle manifestazioni di disagio sociale, dissenso ideologico e antagonismo politico[31].
Invero la nuova fattispecie di rivolta all’interno di un istituto penitenziario (art. 26 del decreto) non punisce mere espressioni di dissenso. Gli estremi della condotta illecita descritta in fattispecie non risultano integrati dalla resistenza passiva in quanto tale, bensì dalla partecipazione ad una rivolta all’interno di un istituto penitenziario “mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza, commessi da tre o più persone riunite”. Come ben si vede, il “dissenso” di per sé non costituisce reato; sono incriminati comportamenti di partecipazione attiva a una rivolta, la cui carica offensiva è notevole, essendo realizzata da tre o più persone in concorso. Commette reato solo chi contribuisce alla rivolta in concorso con altri; il che ovviamente richiede la consapevolezza e la volontà di “concorrere”, che è cosa ben diversa dal “dissentire” individualmente. Il reo, seppure non commettesse atti personali di violenza o minaccia, concorrerebbe comunque negli atti altrui e il suo apporto concorsuale non si limiterebbe al dissenso, ma si esprimerebbe quanto meno nel rifiuto di obbedire ai comandi dell’autorità impartiti per ristabilire l’ordine. Insomma il soggetto agente è punito, in quanto corresponsabile della rivolta. Non paiono dunque giustificati i soverchi timori di una presunta “svolta autoritaria” in atto[32], i cui segni sarebbero appunto ravvisati in una “repressione del dissenso”, che noi tuttavia non riusciamo a cogliere.
Allo stesso modo, non li cogliamo nella previsione di un mini-sistema di diritto sostanziale, diretto a punire l’occupazione arbitraria di immobili destinati al domicilio altrui, e di diritto processuale, diretto a reintegrare gli aventi diritto nel possesso degli stessi (art. 10 Decreto)[33]. Anche in questo caso non sembra sia punito il mero dissenso, o il disagio sociale in quanto tale; è punita una grave violazione del diritto altrui. Per di più si può osservare che l’occupazione violenta del domicilio altrui colpisce, molto spesso, le fasce di popolazione a basso reddito, aventi diritto alle abitazioni popolari assegnate con graduatoria pubblica, come ci ricorda un’autorevole dottrina: «l’esperienza degli ultimi decenni rivela la preoccupante stabilizzazione di situazioni illecite ai danni di vittime incolpevoli derivante dall’occupazione violenta di immobili, organizzata da gruppi che, in spregio sistematico della legalità, vìolano le precedenze fissate dai pubblici uffici per l’assegnazione di abitazioni popolari»[34]. Non è sufficiente edulcorare con le parole “antagonismo” o “disagio sociale” la carica di aggressività e offensività, insita nel carattere violento della condotta di occupazione degli immobili altrui, per farci dimenticare che la premura più grande dello Stato di diritto é appunto quella di fare rispettare il diritto; primo fra tutti il diritto all’abitazione, nel cui seno si preserva la privatezza della persona e del suo nucleo familiare.
Ugualmente non sembra irragionevole l’aumento di pena per chi commetta il reato di danneggiamento in occasione di manifestazioni “con violenza alla persona o con minaccia” (art. 12 Decreto). Pare pretestuoso tirare in ballo il diritto di manifestare, giacché è ben evidente che non si punisce l’esercizio del diritto, bensì l’azione di danneggiamento. Anche in questo caso, paiono fuori luogo le preoccupazioni relative alla “svolta autoritaria” in corso (i cui segni non riusciamo a scorgere). Danneggiare i beni altrui non si può annoverare tra gli “spazi di agibilità” politico-sindacale, che il legislatore “populista” andrebbe a restringere; al contrario costituisce un reato, per dir così, naturale e universale, giacché offende uno dei capisaldi della convivenza pacifica, ossia il rispetto della proprietà altrui. E mentre il fatto base costituisce un reato naturale e universale, l’aggravate ha una sua ragion d’essere, sotto due profili; sotto il profilo oggettivo, perché si offende non solo il diritto di proprietà, ma anche l’ordine pubblico materiale, turbato da tumulti e manifestazioni violente di una moltitudine di persone; sotto il profilo soggettivo, perché il reo approfitta di una manifestazione, per confondersi nella folla, assicurarsi l’impunità e contare su una minoro difesa dei beni bersaglio.
Al contempo non pare astrattamente irragionevole l’aggravante del reato di truffa, commesso approfittando delle condizioni di luogo, di tempo o di persona, “anche in riferimento all’età”[35]. Sembra certamente più intensa la colpevolezza di chi sorprende la credulità di una persona anziana e indifesa, piuttosto che quella di una persona pienamente compos sui, cosicché pare adeguato un aggravamento di pena. Ma, a ben vedere, anche per questa ulteriore aggravante di “approfittamento” della minor difesa, la questione vera non ci pare quella della ragionevolezza, bensì quella dell’opportunità. Non è forse sufficiente la previsione dell’aggravante comune di cui all’art. 61 n. 5 c.p.? Ha senso duplicare un’aggravante basata sempre e comunque sull’approfittamento delle condizioni di minor difesa della vittima? Non siamo affatto certi che la scelta “casistica” del legislatore sia del tutto opportuna; ben che vada, ne sortiscono incertezze applicative, mentre non sono escluse violazioni del principio del ne bis in idem sostanziale, derivanti dal cumulo di aggravanti aventi la medesima ratio politico-criminale.
6. Brevi considerazioni conclusive
Dalle osservazioni che precedono emerge chiaramente che il pacchetto sicurezza appare criticabile – a chi scrive – non tanto per ciò che lo rende dissimile dai pacchetti precedenti, quanto per ciò che lo rende simile. Le dissimiglianze, secondo una lettura condivisa da molti commentatori, sarebbero riconducibili alla nuova ratio autoritaria e liberticida del governo attuale, la quale non pare realisticamente ravvisabile; mentre le somiglianze afferiscono alla ratio simbolico-espressiva, che si pone in linea di continuità con la legislazione precedente. Il governo Meloni e la sua maggioranza parlamentare ci paiono orientati al panpenalismo, non diversamente dai governi di ieri. Ci sembra di cogliere una linea di continuità, non certo di discontinuità; al contempo, ribadiamo che non si riesce a scorgere traccia di attentati alle libertà di dissenso e manifestazione. Ravvisiamo solamente l’endemica, e si direbbe strutturale, tendenza del moderno legislatore a emanare leggi-provvedimento, concepiti come immediato “rimedio” ai tanti guasti quotidiani dell’umana convivenza, divenuti nuove “emergenze” sotto l’incalzante onda mediatica. Afflitto dal morbo panpenalistico, il legislatore moderno è divenuto paternalistico; o forse, afflitto dal morbo paternalistico, si è inclinato verso il panpenalismo. Trascurando la questione “se venga prima l’uovo o la gallina”, è certo che il moderno legislatore (di qualunque colore sia la maggioranza parlamentare) è sempre e comunque “populista” in senso lato, giacché intende non solo rassicurare, ma anche compiacere il suo popolo. In questa corsa alla rassicurazione e al compiacimento, smarrisce la via maestra della sussidiarietà penalistica e imbocca la scorciatoia che erige la sanzione penale a “direttiva pastorale”, la quale ipso facto mette ordine nel gregge. Non può che venirne fuori una legislazione penale ondivaga e caotica.
Il pacchetto sicurezza soffre, a nostro avviso, di questa sindrome. Tra le nuove aggravanti, spiccano quelle che possiamo definire di “approfittamento” delle condizioni di minor difesa del bene protetto[36]. Riteniamo che la minor difesa possa talvolta essere presunta; ma solo quando la situazione descritta in fattispecie sia indice chiaro e univoco di una difesa, per forza di cose, minusvalente. Non ci pare questo il caso dell’aggravante di luogo di cui all’art. 61 n. 11-decies c.p., poiché certamente le stazioni ferroviarie e di linea metropolitana si prestano a codesto approfittamento, il quale tuttavia potrebbe mancare in determinate circostanze. In ogni caso la segmentazione casistica di siffatto “approfittamento” ci pare ispirata alla logica del diritto penale simbolico-espressivo; è certamente idonea a esprimere la preoccupazione “emergenziale” e la dedizione “pastorale” del Legislatore al benessere delle pecorelle, insidiato in guise sempre nuove, per ognuna delle quali Egli ritiene necessaria una norma ad hoc; ma sovrapposta com’è alla formulazione generale dell’aggravante, di cui all’art. 61 n. 5, affatica inutilmente l’interprete, che si ritrova al cospetto di una possibile duplicazione sanzionatoria per il medesimo elemento circostanziale.
Quanto alla previsione di nuove fattispecie di reato, abbiamo osservato e qui ribadiamo che non pare giustificato evincerne un intento liberticida, ispirato alla repressione del dissenso. Le preoccupazioni al riguardo paiono eccessive, perché sempre e comunque la condotta tipica, descritta nelle nuove fattispecie, è offensiva di beni giuridici primari. Piuttosto si può osservare che il decantato programma di “depenalizzazione”, diretto alla deflazione dei carichi processuali e allo sfoltimento della popolazione carceraria, non solo rimane lettera morta, ma anzi viene esplicitamente contraddetto[37]. E tuttavia il popolo italiano, paternamente accudito dal solerte legislatore di turno, è ben aduso, e non da ora, alla fatale discordanza tra le parole e i fatti del suo benevolo protettore e prolifico rassicuratore.
[1] Sul punto sia consentito rinviare ad A. Abukar hayo, I tratti del simbolismo nella legislazione di contrasto ai fenomeni corruttivi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2021, e bibliografia ivi indicata.
[2] Il decreto legge n. 48, emanato dal Consiglio dei Ministri, in data 11 aprile 2025, recante “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale di servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”, è stato convertito nella legge 9 giugno 2025, n. 80. Il pacchetto ha riproposto il contenuto del disegno di legge approvato dalla Camera in data 18 settembre 2024 (AC. 1660) e trasmesso al Senato il successivo 19 settembre (AS. 1236).
[3] Dello stesso avviso G. Salcuni, Note critiche sull’aggravante di luogo di cui all’art. 61 n. 11 decies c.p., i in www.nullumcrimen.it, 28 luglio 2025, 2: «Il decreto in esame, che recupera il contenuto del d.d.l. S 1236, continua quella linea di politica criminale dell’emergenza che trovava i suoi antecedenti nei c.d. pacchetti sicurezza 2008-20092, nel c.d. Decreto rave party, nel c.d. Decreto Caivano, nel decreto Cutro, tutti espressione di un diritto penale totale o “populistico-sicuritario”». Vedasi anche A. Abukar hayo, Dall’extrema ratio all’onnipresenza della norma penale. La vicenda emblematica della legge “anti – rave”, in www.lalegislazionepenale.eu, 29 giugno 2023. Si può dire che i c.d. “pacchetti sicurezza” siano divenuti una costante nel nostro panorama politico più recente per quanto sulla loro reale efficacia si possano nutrire seri dubbi. Osserva in proposito G. L. Gatta, Il pacchetto sicurezza e gli insegnamenti dimenticati di Cesare Beccaria, in Sistema penale, 11/2024, 66: «anni di pacchetti sicurezza non hanno reso l’Italia un Paese migliore e più sicuro». Ne trae argomento E. Dolcini, Un Paese meno sicuro per effetto del decreto-legge sicurezza, in www.sistemapenale.it.,15 maggio2025, 7, per la sua drastica conclusione sul pacchetto attuale: «Il decreto-legge sicurezza promette, in definitiva, un Paese meno sicuro».
[4] Lo stesso discorso vale anche per il più recente Decreto-legge 8 agosto 2025, n. 116 – “Disposizioni urgenti per il contrasto alle attività illecite in materia di rifiuti, per la bonifica dell’area denominata Terra dei fuochi, nonché in materia di assistenza alla popolazione colpita da eventi calamitosi” pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 183 dell’8 agosto 2025 ed in vigore dal 8 agosto 2025. Per un commento cfr. R. Compostella, La riforma dei reati ambientali introdotta – a sorpresa – dal d.l. 8 agosto 2025, n. 116. Note di (primissima) lettura ed aspetti controversi, in Giurisprudenza Penale Web, 1 Settembre 2025, 9.
[5] Si è avuto modo di svolgere osservazioni critiche sul modus operandi del legislatore degli ultimi tempi in relazione al Decreto Sicurezza de quo anche in A. Abukar Hayo, Luci e ombre dell’ennesimo pacchetto sicurezza, in www.nullumcrimen.it, 30 agosto 2025.
[6] A titolo esemplificativo si cita G. Salcuni, Note critiche, cit., 5. Ad avviso dell’Autore, «la Corte costituzionale richiede che il decreto legge debba trattare materie omogenee, circostanza che manca nel decreto sicurezza in discussione, nel quale l’omogeneità verrebbe artatamente ricavata da concetti omnicomprensivi come ordine pubblico e sicurezza». Mancano inoltre i requisiti di necessità e urgenza, secondo una lettura ampiamente condivisa; ex multis G. Giostra, È ‘necessario e urgente’ rifondare il DL sicurezza, in www.sistemapenale.it., 24 aprile 2025. Cfr. Anche nota 10.
[7] E. Dolcini-G. Marinucci-G.L. Gatta, Manuale di diritto penale, Giuffrè, Milano, 2024, 49 ss.. Gli Autori intendono la riserva di legge prevista dalla Costituzione come riserva di legge formale. Dello stesso avviso, nella dottrina costituzionalistica, V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II, pt. 1, 1993, 61; L. Carlassare, voce Fonti del diritto, Enc. Dir. Ann., 2008, 536 ss..
[8] Corte cost., 12 giugno 1974, n. 184; Corte cost., 11 luglio 1996, n. 330; Corte cost., 17 ottobre 1996, n. 360.
[9] Infatti, la Corte costituzionale, nel valutare la legittimità del ricorso al decreto, fa riferimento alle “riforme”, ossia alle discipline complessive degli interessi in gioco, non già alle norme penali eventualmente contenute nelle riforme.
[10] Nella sentenza n. 32 del 2014 la Corte costituzionale enuncia due principi: a) il decreto-legge non può essere lo strumento per realizzare riforme di grande momento, che incidono profondamente nell’ordinamento; b) inoltre non si possono realizzare riforme mediante norme “intruse” nella legge di conversione di un decreto-legge avente un diverso contesto. Sul punto E. Dolcini, Sicurezza per decreto legge?, in www.sistemapenale.it., 30 giugno 2025.
[11] Corte cost., 17 ottobre 1996, n 360.
[12] Ibidem. A tal proposito si legge in sentenza: «Il divieto di iterazione e di reiterazione, implicito nel disegno costituzionale, esclude, quindi, che il Governo, in caso di mancata conversione di un decreto-legge, possa riprodurre, con un nuovo decreto, il contenuto normativo dell’intero testo o di singole disposizioni del decreto non convertito, ove il nuovo decreto non risulti fondato su autonomi (e, pur sempre, straordinari) motivi di necessità ed urgenza, motivi che, in ogni caso, non potranno essere ricondotti al solo fatto del ritardo conseguente dalla mancata conversione del precedente decreto».
[13] Tra questi F. Febbo, Il diritto penale del ‘tipo normativo del luogo’. Le tensioni costituzionali delle circostanze aggravanti introdotte dal d.l. sicurezza, in G. Losappio – A. Manna (a cura di), Profili di incostituzionalità del decreto sicurezza. Atti del Webinar del 30 maggio 2025, pubblicato suwww.sistemapenale.it, 11 luglio 2025, 17 ss.; il quale sottolinea: «la specifica anomalia del ricorso alla decretazione di urgenza, apoditticamente finalizzata all’introduzione emergenziale di un testo normativo che, tuttavia, era da oltre un anno in discussione innanzi alle Camere, sotto forma di disegno di legge di iniziativa governativa approvato dalla Camera in data 18 settembre 2024 (AC. 1660) e trasmesso al Senato il successivo 19 settembre (AS. 1236)».
[14] D.l. 23 maggio 2008, n. 92, intitolato “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”, convertito nella l. 24 luglio 2008, n. 125, nonché d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, intitolato “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori”, convertito nella l. 15 luglio 2009, n. 38.
[15] D.l. 20 febbraio 2017, n. 14, intitolato “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città”, convertito nella l. 18 aprile 2017, n. 48.
[16] D.l. 4 ottobre 2018, n. 113, intitolato “Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”, convertito nella l. 1° dicembre 2018, n. 132, nonché d.l. 14 giugno 2019, n. 53, intitolato “Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica”, convertito nella l. 8 agosto 2019, n. 77.
[17] D.l. 21 ottobre 2020, n. 130, intitolato “Disposizioni urgenti in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare, modifiche agli articoli 131-bis, 391-bis, 391-ter e 588 del codice penale, nonché misure in materia di divieto di accesso agli esercizi pubblici ed ai locali di pubblico trattenimento, di contrasto all’utilizzo distorto del web e di disciplina del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale”, convertito nella l. 18 dicembre 2020, n. 173.
[18] Si tratta dunque di Governi di centro-destra, centro-sinistra e uno giallo-verde. Ciò fa concludere a E. Dolcini, Sicurezza per decreto-legge?, cit., 4 che «il decreto-legge, non solo trova ampio spazio nella prassi, ma anzi è stato costantemente assunto quale strumento principe per la tutela della sicurezza collettiva».
[19] S. Moccia, Sicurezza di destra, in questa Rivista, 21 settembre 2023, parla di un modello di sicurezza “pseudoefficientistico” attribuito, piuttosto che a un governo specifico, a una cultura politica di “destra”. L’Autore non prende in considerazione specificamente il “pacchetto” de quo, bensì la ratio politica di fondo. Sotto questo profilo, pare possibile cogliere significative “sintonie” panpenalistiche in orientamenti politici, pur variegati.
[20] Il primo comma dell’articolo 11 del decreto introduceva nell’articolo 61 c.p. la nuova circostanza aggravante comune dell’aver commesso il fatto «all’interno o nelle immediate adiacenze delle stazioni ferroviarie e delle metropolitane o all’interno dei convogli adibiti a trasporto passeggeri».
[21] La legge di conversione ha così riformulato la circostanza prevista dall’art. 61, n. 11-decies: «l’avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità pubblica e individuale, contro la libertà personale e contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio commesso il fatto all’interno o nelle immediate adiacenze delle stazioni ferroviarie e delle metropolitane o all’interno dei convogli adibiti al trasporto di passeggeri».
[22] In questo senso, G. Giostra, È ‘necessario e urgente’, cit., 2; l’Autore osserva che l’iper-descrizione casistica delle fattispecie può produrre «disorientamenti interpretativi, prestandosi a comparazioni con fattispecie omologhe connotate da minori ridondanze descrittive; comparazioni, in forza delle quali l’argomento a contrario produce spesso esiti esegetici molto diversi», mentre «l’analiticità prescrittiva consegna non poche situazioni all’anomia, specie nel settore penale in cui alla mancata previsione non si può sopperire con l’analogia». Criticano inoltre il metodo casistico: A. Cavaliere, Il furore casistico nella recente legislazione penale. In particolare: circostanze e soggettivismo, in questa Rivista, 27 febbraio 2023; G. Salcuni, Note critiche, cit..
[23] Art. 625 n. 8-ter c.p.: «se il fatto è commesso nei confronti di persona che si trovi nell’atto di fruire ovvero che abbia appena fruito dei servizi di istituti di credito, uffici postali o sportelli automatici adibiti al prelievo di denaro». Art. 628 n. 3-bis c.p.; «se il fatto è commesso nei luoghi di cui all’articolo 624 bis o in luoghi tali da ostacolare la pubblica o privata difesa».
[24] In questo senso G. Salcuni, Note critiche cit., 10, osserva che «la combinazione di elevato affollamento, anonimato, distrazione delle vittime e potenziali aree di degrado o scarsa sorveglianza rende le stazioni luoghi dove le vittime possono trovarsi in una posizione di svantaggio e con minori possibilità di difesa».
[25] G. Salcuni, ibidem.
[26] Il movente securitario ha indubbiamente ispirato gran parte della legislazione penalistica degli ultimi anni. Sul punto la dottrina prevalente ha espresso commenti molto critici; si veda per tutti A. Cavaliere, Le disposizioni penali nei recenti decreti sicurezza: considerazioni de lege delenda, in www.lalegislazionepenale.eu, 21 luglio 2020.
[27] Sul punto e, più in generale, sul fenomeno dell’invasività dell’uso del carcere come strumento di contrasto della criminalità, cfr. ex multis G. Fornasari – A. Menghini, Il carcere come extrema ratio. Atti del Convegno Trento, 20-21 dicembre 2024, Università degli Studi di Trento, 2025.
[28] E. Dolcini, Un Paese meno sicuro per effetto del decreto-legge sicurezza, cit.,, sostiene che la nuova disciplina del rinvio dell’esecuzione si pone in contrasto con la Costituzione, le Regole penitenziarie europee, nonché con le Regole delle Nazioni Unite (c.d. Regole di Bangkok).
[29] E. Dolcini, Un paese meno sicuro, cit., osserva che «il decreto sicurezza punta l’indice (o meglio, punta l’arma della pena carceraria) contro le donne di etnia Rom, alle quali si imputa – in un coro assordante e ossessivo, largamente alimentato da pubblici proclami – di essere autrici di frequenti borseggi e di sottrarsi sistematicamente al carcere attraverso gravidanze e maternità». Dello stesso avviso R. Cornelli, Verso democrazie autoritarie? Paradossi, presupposti e tendenze delle politiche di sicurezza contemporanee, in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2025, 207 ss.
[30] G. L. Gatta, Il pacchetto sicurezza, cit., osserva: «il pacchetto sicurezza, se ho fatto bene i conti, introduce quattordici nuovi reati e nove circostanze aggravanti di reati già previsti nell’ordinamento».
[31] Critiche radicali sono state indirizzate al pacchetto in un coro quasi unanime. Per una breve panoramica delle prese di posizione dell’Associazione dei Professori di Diritto Penale, dell’Associazione Nazionale Magistrati, della VI Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, dell’Unione Italiana delle Camere penali, si veda E. Dolcini, Sicurezza per decreto-legge?, cit. Nel merito delle osservazioni critiche: E. Dolcini, Un paese meno sicuro, cit., ritiene che «il pacchetto sicurezza criminalizzi la protesta pacifica, assumendo come tale il blocco stradale effettuato con la sola interposizione del proprio corpo, sicché “la disobbedienza civile è diventata reato. Nell’Italia di oggi Gandhi finirebbe in carcere». Dello stesso avviso M. Pelissero, A proposito del disegno di legge in materia di sicurezza pubblica: i profili penalistici, in www.Sistemapenale.it, 27 maggio 2024. Si è schierata in questo senso, altresì, l’Associazione Antigone in DDL sicurezza. Antigone e Asgi: una minaccia per il nostro stato di diritto, 17 maggio 2024. Rilievi critici non meno rilevanti si devono a: L. Risicato, Dalla Costituzione al Leviatano. La torisione illiberale del decreto sicurezza, in Riv. It. dir. proc. pen., 2025; S. Lonati – C. Melzi D’evril, Il decreto-legge sicurezza (48/2025) autoritratto involontario di una politica di oppressione, in www.sistemapenale.it, 11 giugno 2025; A. Cavaliere, Contributo alla critica del d.d.l. sicurezza, in Crit. dir., 2/2024, 239 ss.; M. Ruotolo, Su alcune criticità costituzionali del c.d. pacchetto sicurezza (A.S. 1236), in www.sistemapenale.it, 9 ottobre 2024; R. Cornelli, Il d.d.l. sicurezza alla prova della ricerca criminologica: prime annotazioni critiche, in www.sistemapenale.it., 27 maggio 2024, 113 ss.; F. Forzati, Il nuovo D.d.l. sicurezza fra (poche) luci e (molte) ombre: primi spunti di riflessione, in Arch. pen., 3/2023, 2 ss..
Una delle poche voci discordanti è stata quella di M. Ronco, Pacchetto sicurezza, 28 aprile 2025, in Centro Studi Rosario Livatino.
[32] Di svolta autoritaria parla espressamente S. Zirulia, Il decreto sicurezza 2025 interrompe il processo di adeguamento del codice Rocco alla Costituzione. Criticità e possibili rimedi, in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2025, 217 ss.; dello stesso avviso E. Dolcini, Abolire l’ergastolo: è davvero un’utopia?, ivi, 25 ss.; V. Mongillo, Ordine pubblico e sicurezza.nel diritto penale: per un’ecologia concettuale quale viatico di razionalizzazione, in Arch. Pen., 1/2025.
[33] In argomento, cfr. M. Gambardella, Occupazione arbitraria di immobili e figure di “resistenza passiva” nel recente decreto-legge in materia di sicurezza pubblica, in questa rivista, 08 luglio 2025.
[34] M. Ronco, op. cit., 3.
[35] M. Ronco, op. cit.., 4 osserva: «Per quanto riguarda la previsione quale circostanza acondivisa da molti commentatoriutonoma dell’aggravante di chi abbia approfittato per compiere il delitto di truffa “di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa (art. 11 Decreto), va detto che il nuovo precetto merita consenso al solo riflettere sulle centinaia di truffe agli anziani in solitudine compiute da malfattori che si introducono con l’inganno nelle loro abitazioni».
[36] Abbiamo già menzionato due aggravanti di approfittamento di minor difesa (per via del luogo e dello svolgimento di manifestazioni politico-sindacali). Si può aggiungere l’aggravante della truffa a carico di chi abbia approfittato “di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa” (art. 11 Decreto). Non possiamo non concordare con chi osserva che “il nuovo precetto merita consenso al solo riflettere sulle centinaia di truffe agli anziani in solitudine compiute da malfattori che si introducono con l’inganno nelle loro abitazioni” (M. Ronco, op. cit., 4). Concordiamo sul fatto che la norma è astrattamente plausibile e giustificata. Ma lo è pure in concreto? Dobbiamo chiederci in cosa infine venga a consistere la differenza rispetto all’aggravante comune di cui all’art. 61 n. 5 c.p.. Forse l’inciso “anche in riferimento all’età” configura un “nuovo precetto”? A nostro avviso il nuovo era già contenuto nel vecchio.
[37] G. L. Gatta, Il pacchetto sicurezza cit., 7 ss.


