Abstract: l’animo del reo sembra assumere una nuova centralità nel diritto penale. Il contributo intende criticare questa recente tendenza, che emerge dalla legislazione e dalle pronunce delle Corti. Dopo aver inquadrato, sinteticamente, le coordinate teoriche del tema, il principale ambito d’indagine è costituito dal dolo, che pare sempre più impregnarsi dei moventi dell’autore. Vengono, inoltre, prese in considerazione la cd. pena naturale e, tra le aggravanti, specialmente quella della crudeltà.
Abstract: the mind of the offender seems to acquire a new main role in criminal law. The aim of this paper is to criticize the trend, that emerges from legislation and Courts pronouncements. The main research is on intent, which is increasingly impregnated with the motivations of the offender. Furthermore, it is given consideration to the so-called natural punishment and, among aggravating circumstances, to cruelty.
1. Il diritto penale dell’atteggiamento interiore in dottrina: una critica. 2. Alcune ipotesi normative. 3. Un interrogativo dalla giurisprudenza costituzionale: dalla poena naturalis al diritto penale dell’atteggiamento interiore? 4. Profili involutivi della giurisprudenza di legittimità. 4.1 Dolo generico ‘specificizzato’: lesioni mediche, atti sessuali e detenzione di materiale pedopornografico. 4.2 Dolo eventuale. 4.3 Il dolo specifico tra tendenze restrittive ed espansive. 4.3.1. Alcune recenti pronunce delle Sezioni Unite: finalità di profitto e finalità di agevolazione mafiosa. 4.4. Un esempio paradigmatico: l’aggravante della crudeltà. 5. Una breve conclusione
1. Il diritto penale dell’atteggiamento interiore in dottrina: una critica.
Il cosiddetto diritto penale dell’atteggiamento interiore (Gesinnungsstrafrecht) costituisce una categoria risalente e composita[1], inquadrabile tra i paradigmi di diritto penale dell’autore[2]. Esso merita attenzione per due ordini di ragioni. Da un lato, si contraddistingue per un deciso, criticabile spostamento dal fatto al modo d’essere dell’autore nella configurazione del reato. Dall’altro, sussiste un’eco ancora attuale di alcuni suoi corollari in dottrina, disposizioni incriminatrici e applicazioni giurisprudenziali.
Il riferimento alla Gesinnung (traducibile come animo, tonalità emotiva o atteggiamento interiore) dell’agente, quale elemento rilevante per la configurazione del reato, è stato variamente adoperato nel corso del tempo, nel solco di una progressiva soggettivizzazione dell’illecito penale. Ciò è avvenuto principalmente ad opera della dottrina tedesca d’inizio Novecento[3]. Tale processo, le cui tappe sono cronologiche più che concettuali, parte da v. Liszt[4], passa per l’elaborazione dei penalisti neokantiani[5] e significative prese di posizione della dottrina finalistica[6] e culmina nell’elaborazione nazionalsocialista del tipo d’autore[7].
Si tratta di un percorso, peraltro, non ancora concluso. Preme di sottolineare come anche nel periodo post-bellico e fino a tempi recentissimi l’atteggiamento interiore abbia costituito il punto di riferimento di una parte minoritaria della dottrina, sia tedesca che italiana. In particolare, talvolta si è valorizzata la Gesinnung al fine di cogliere l’oggetto del rimprovero della colpevolezza, intesa in senso normativo[8]; talaltra si è accentuato l’atteggiamento interiore quale elemento psicologico in chiave dinamico-emozionale, al fine di cogliere l’essenza volitiva (principalmente) del dolo nelle sue varie forme[9].
La varietà delle voci sul punto non consente di ricavare dei presupposti comuni alle varie teorie. Così, mentre alcuni Autori limitano la rilevanza dell’atteggiamento interiore a talune fattispecie[10], la maggioranza dei sostenitori ne evidenzia la portata dommatica generale. Mentre alcuni la riferiscono ai soli soggetti capaci d’intendere e volere (coerentemente con la collocazione della Gesinnung nella colpevolezza)[11], per altri assume un peso anche in rapporto ai soggetti non imputabili (altrettanto coerentemente con l’inquadramento nell’elemento psicologico, ancorato al fatto tipico)[12]. La serie di distinguo potrebbe continuare.
Ad ogni modo, la tendenza comune sta nella progressiva eticizzazione del diritto penale e nella riscoperta del libero arbitrio come fondamento della pena[13]; ciò vale non solo per la prospettiva della colpevolezza[14], ma anche per quella dell’elemento psicologico[15].
La giustificazione in termini giuridici della considerazione dell’atteggiamento interiore è stata rinvenuta, specie in tempi più recenti, nel principio di personalità della responsabilità penale[16]; inoltre, la sua legittimità è stata sostenuta in virtù della produzione, mediante la considerazione dell’atteggiamento interiore, di un effetto soltanto restrittivo della punibilità.
Lo spostamento di accento sull’autore non ha portato l’orientamento di cui si discute ad obliterare il ruolo del bene giuridico nella configurazione dell’illecito penale. Anzi, la difesa del bene giuridico ha costituito una costante delle elaborazioni in parola, probabilmente anche per scongiurare il rischio di accostamenti al Tätertyp nazionalsocialista[17].
Ad ogni modo, la teoria del diritto penale dell’atteggiamento interiore, al pari delle altre teorie del diritto penale dell’autore, non è accoglibile nell’ordinamento giuridico italiano, fondato sulla Costituzione[18]. Quest’ultima contiene dei principi giuridici non derogabili e capaci di offrire un solido orientamento nella critica alle teorie in parola[19]. In virtù di essi, si impone l’elaborazione di un nucleo di illecito penale consistente in un fatto offensivo, cui si accompagnano, per esigenze di tipicità, componenti meramente psicologiche e non emotive[20].
L’argomento cardine si fonda sul principio di materialità. Esso comporta che il disvalore penale debba radicarsi su una condotta del soggetto agente. L’ermeneusi delle disposizioni costituzionali offre chiaramente questo risultato. Sotto il profilo letterale, la costituzionalizzazione è data, seppur in forma sintetica, all’art. 25 co. 2 Cost., il quale si riferisce al “fatto commesso”. Si deduce, inoltre, da un’interpretazione sistematica degli artt. 25 e 19 Cost.: la libertà di professare la propria fede religiosa postula, a fortiori, il riconoscimento di una libertà morale del cittadino; un mero atteggiamento interiore, di converso, non può certamente essere posto alla base della pena. Ciò è conforme alla separazione, affermatasi sin dall’Illuminismo, tra diritto e morale, sicché la conclusione è suffragata anche dall’argomento storico[21]. Pertanto, a monte, un tale modello di reato risulta vietato anche dal principio di laicità.
Dal principio di materialità discendono diversi limiti al potere punitivo del legislatore. In primo luogo, come riferito, vige il divieto di considerare reato un atteggiamento interiore ovvero una mera intenzione, di qualunque tenore sia la sua motivazione. La reale portata del divieto si coglie, a nostro avviso, non limitandola alla mera configurazione del reato-base: è quanto meno anacronistico, se non limitato a casi di scuola, ipotizzare delle fattispecie incriminanti meri atteggiamenti interiori, senza un supporto fattuale. Perciò, contrastano con il principio di materialità anche quelle circostanze soggettive aggravanti fondate sull’atteggiamento interiore dell’agente[22]. È irrilevante la tradizionale qualifica come “elementi accidentali” del reato, quasi come se si trattasse di elementi secondari: in definitiva, il maggiore o minore disvalore penale (e il conseguente trattamento sanzionatorio) riposa sull’animo dell’autore[23].
Per altro, di regola, è una condotta ad essere incriminata. Senonché, è possibile che ad essa venga attribuito un mero significato rivelatore della personalità malvagia dell’autore; storicamente, ciò è accaduto con alcune varianti del diritto penale dell’atteggiamento interiore. In tal caso, il riemergere ‘mediato’ dell’atteggiamento interiore, quale fulcro dell’illiceità penale, è inibito dal principio di offensività[24]; nonostante alcune opinioni dissenzienti, è ormai assolutamente prevalente l’affermazione della sua cogenza costituzionale[25]. Anche in tal caso, va segnalato come il principio di offensività si ripercuota non solo sulle fattispecie incriminatrici, ma anche sugli elementi accidentali, in linea con le indicazioni della Consulta[26] e della dottrina più recente[27].
Il rifiuto di un diritto penale dell’atteggiamento interiore deve, tuttavia, confrontarsi con la produzione normativa e la prassi. Queste ultime si mostrano talora dimentiche dei vincoli costituzionali, imponendo alcune osservazioni critiche.
2. Alcune ipotesi normative
Per cominciare, la legislazione offre degli esempi poco rassicuranti. È il caso, soprattutto, di circostanze soggettive, poggianti sulla finalità o sui motivi[28]. Possono ricordarsi alcuni esempi: A) rispetto alle circostanze aggravanti comuni, le ipotesi di cui ai nn. 1) e 2) dell’art. 61 c.p., ossia l’aver commesso il reato da un lato per motivi abietti o futili, dall’altro per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero la impunità di un altro reato; inoltre, l’aggravante di cui al n. 4 dell’art. 61 c.p., che contempla, tra l’altro, l’aver agito con crudeltà verso le persone; B) le aggravanti di cui agli artt. 270-bis.1 e 416-bis.1 c.p., che attribuiscono disvalore, rispettivamente, alla finalità di terrorismo e a quella di agevolazione mafiosa; C) l’aggravante di cui all’art. 604-ter c.p., per i reati (punibili con pena diversa dall’ergastolo) commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità. Nel prosieguo si tornerà sull’interpretazione offerta dalla Corte di cassazione in rapporto a talune delle aggravanti citate.
Analogamente, si dovrebbero ritenere in contrasto con il principio di offensività quelle (ormai poche) disposizioni in cui, tra gli elementi costitutivi del reato, compare un dato di carattere emotivo/morale, riferito all’autore: si pensi, ad es., al delitto di serrata ex art. 505 c.p., laddove si punisce il fatto se commesso “per solidarietà”[29]. Sarebbe, per altro, preferibile una riformulazione di quelle fattispecie in cui la condotta rischia di essere interpretata alla luce dell’atteggiamento interiore: si pensi, ad es., all’art. 410 co. 2° c.p., che configura una fattispecie qualificata di vilipendio di cadavere se l’autore compie “atti di brutalità o di oscenità”. Per altro, anche recentemente si è assistito all’introduzione di fattispecie di tal tenore; un esempio è dato dall’art. 544-ter c.p., introdotto dalla l. 20 luglio 2004, n. 189 e collocato sotto il titolo IX-bis, rubricato ambiguamente a tutela del “sentimento per gli animali”; esso rende punibile la condotta di maltrattamenti di animali se commessa “per crudeltà o senza necessità”[30]. Infine, non può sottacersi come alcune ipotesi di dolo specifico si prestino a essere interpretate estensivamente, con il rischio di far deviare la categoria verso forme di rilevanza delle disposizioni d’animo dell’agente[31].
3. Un interrogativo dalla giurisprudenza costituzionale: dalla poena naturalis al diritto penale dell’atteggiamento interiore?
La Corte costituzionale non ha, sinora, censurato forme di diritto penale dell’atteggiamento interiore. Viceversa, sembra potersi scorgere una parziale apertura, assai discutibile, alla categoria. Ha costituito l’occasione il tema della poena naturalis. Merita perciò qualche considerazione la recente pronuncia della Consulta, n. 48/2024.
Tale sentenza ha rigettato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 529 c.p.p., nella parte in cui, nei procedimenti relativi a reati colposi, non prevede la possibilità per il giudice di emettere sentenza di non doversi procedere allorché l’agente, in relazione alla morte di un prossimo congiunto cagionata con la propria condotta, abbia già patito una sofferenza proporzionata alla gravità del reato commesso; secondo il rimettente, sarebbero violati gli artt. 3, 13 e 27 co.3 Cost., da cui vengono dedotti i principii di necessità, proporzionalità e umanità della pena[32].
A fondamento della questione, vi è la teoria della poena naturalis. Mediante tale espressione, ci si riferisce al potere giudiziale – riconosciuto in alcuni ordinamenti europei[33] – di non irrogare la pena, o di irrogarla in misura attenuata, quando l’autore del reato abbia patito un significativo danno materiale (ad es.: l’avere il ladro perso entrambe le gambe durante il furto) o morale (ad es., l’avere il conducente imprudente perso il figlio a causa dell’incidente d’auto provocato, similmente al caso in esame) in conseguenza del reato stesso[34]. Tale teoria è stata più volte trattata nell’elaborazione dei progetti di riforma della legislazione italiana (in particolare nell’ambito dei lavori delle Commissioni “Pagliaro” e “Pisapia”).
Nella questione di legittimità, il rimettente argomentava che la pena potrebbe risultare «non necessaria ed eccessiva qualora, per effetto dello stesso fatto illecito, il relativo autore abbia già subito un’afflizione paragonabile a quella che lo Stato vorrebbe produrre con la propria sanzione o addirittura notevolmente superiore, quale quella normalmente conseguente alla morte di un prossimo congiunto», secondo la definizione che dei «prossimi congiunti» fornisce l’art. 307 co. 4 c.p. La sanzione irrogata in aggiunta a una pena naturale di per sé sufficiente sarebbe percepita dai consociati e dal condannato alla stregua di «un crudele accanimento dello Stato», e risulterebbe, quindi, inidonea ad assolvere la funzione rieducativa, oltre che inefficace nella prospettiva di ogni possibile declinazione finalistica della pena (generalpreventiva, specialpreventiva e persino retributiva); essa si risolverebbe in un trattamento contrario al senso di umanità, «fredda conseguenza di rigidi automatismi, quasi l’applicazione di un sillogismo, noncurante della sottostante vicenda umana di sofferenza».
A fronte di queste argomentazioni, l’Avvocatura dello Stato eccepiva, tra l’altro, l’infondatezza nel merito della questione, in ragione del fondamento della punizione del reato colposo: quest’ultimo è per definizione non intenzionale e, perciò, può comportare un’acuta sofferenza in capo al suo autore. Nulla escluderebbe che, ammessa la rilevanza della pena naturale (e della conseguente non punizione) nei reati colposi tra congiunti, la stessa non debba ammettersi anche in altri casi di relazioni interpersonali significative, quali quelle tra medico e paziente o tra maestro e allievo. Tuttavia, ciò farebbe crollare il sistema della responsabilità per colpa, il cui scopo è offrire una protezione rafforzata a beni giuridici primari, prevedendo regole cautelari a tutela dei titolari di quei beni.
La Corte costituzionale offre una motivazione invero ambigua: essa, come si è segnalato, rigetta la questione, ma suggerisce profili problematici della questione sollevata, corretti i quali si potrebbe giungere a un accoglimento della stessa[35]. Pertanto, può cautamente dirsi che la Consulta abbia sostanzialmente aperto la strada alla (futura) rilevanza della pena naturale.
In motivazione, le ragioni che hanno condotto al rigetto della questione di legittimità costituzionale possono sintetizzarsi nelle seguenti. In primo luogo, la censura è troppo generica nel riferimento ai reati colposi che cagionano la morte: esigenze di tutela di beni e profili criminologici impongono di distinguere le diverse ipotesi di colpa, specialmente in relazione alla qualità della regola cautelare violata; la Consulta sembra escludere una possibile rilevanza della pena naturale rispetto a contesti professionali. In secondo luogo, il riferimento ai prossimi congiunti è troppo generico; infatti, non è possibile presumere (in base all’id quod plerumque accidit) che la morte di un qualsiasi congiunto possa provocare all’agente medesimo una sofferenza intima (una pena naturale) tale che la pena irrogata nel processo risulti inutile; la nozione di prossimo congiunto, ai sensi dell’art. 307 c.p., giunge fino a includere rapporti di parentela in linea collaterale di grado inferiore al secondo (come quello di specie, tra zio e nipote), e persino vincoli di affinità; la Consulta sembra riconoscere un possibile rilievo alle relazioni della famiglia nucleare. Infine, è scorretta la censura di un istituto processuale, quale l’art. 529 c.p.p.; ad avviso della Corte, sarebbe possibile riflettere sulla non punibilità, non già sull’improcedibilità, anche per esigenze di accertamento dei fatti; per altro, sul piano sostanziale, la Corte resta ambigua circa la possibile rilevanza della pena naturale quale esimente o circostanza attenuante soggettiva.
La pronuncia merita di essere ricordata in questa sede perché pare aprire una breccia nel delicato tema del diritto penale dell’atteggiamento interiore: non punire in ragione di un’acuta sofferenza dell’autore ha la medesima sostanza del punire in considerazione (anche) di un’emozione dell’autore, da lui provata al momento del fatto e connotata in termini negativi dall’ordinamento.
Contro questo accostamento non sembra possibile eccepire che nell’un caso si tratti di un reato colposo, mentre nell’altro di un reato doloso: laddove il perno della punizione riposi sull’atteggiamento interiore dell’autore, perde di significato il ruolo della volontà/non volontà del fatto, intesa nel senso classico del diritto penale; ad essere centrale è il sentimento che accompagna la condotta. Tantomeno potrebbe eccepirsi che le ipotesi di Gesinnungsstrafrecht guardano all’atteggiamento interiore al momento della commissione del fatto, mentre la questione della poena naturalis guarda lo stesso in un momento successivo al fatto: in verità, l’ancoraggio temporale ha poco senso rispetto a forme di diritto penale dell’autore; anzi, la rilevanza successiva al fatto di valutazioni sull’autore è tipico indice di un paradigma soggettivistico[36]; per altro, nell’una come nell’altra ipotesi si richiede una verifica empirica impossibile, che esula dai canoni di razionalità cui dovrebbe essere soggetto l’accertamento del fatto penalmente rilevante.
La posizione della Corte, nella misura in cui sembra aprire a una possibile rilevanza della pena naturale, offre numerosi spunti di preoccupazione: al di là del sempre crescente ruolo politico che assumerebbe la Consulta nelle dichiarazioni d’incostituzionalità, essa rischia di spostare il baricentro del diritto penale verso l’accentuazione del profilo soggettivo-emozionale. Ai fini della commisurazione (e non già dell’esclusione) della pena, sarebbe preferibile circoscrivere l’insieme delle valutazioni sulla persona dell’autore alla colpevolezza intesa in senso normativo, valorizzando adeguatamente gli indici soggettivi enunciati dall’art. 133 c.p., orientati teleologicamente, nel rispetto del principio di proporzione, verso scopi di prevenzione[37]; ciò vale a maggior ragione per la colpa, la cui cosiddetta misura soggettiva impone un’osservazione complessa del fatto e del suo autore.
Per altro, la valorizzazione della pena naturale rischia di far scivolare lo stesso concetto di pena giuridica su un piano meramente retributivo-afflittivo, dato il concetto di compensazione che ne è alla base; ciò renderebbe poca giustizia all’idea di un diritto penale laico e razionale, già da tempo sostenuta da autorevole dottrina[38].
4. Profili involutivi nella giurisprudenza di legittimità
Un concetto che, nell’elaborazione giurisprudenziale, corre il rischio di uno slittamento verso forme di diritto penale dell’autore è quello del dolo. Alla rappresentazione e volontà del fatto, quali elementi costitutivi dell’elemento psicologico, viene sempre più affiancato il rilievo di emozioni e moventi; in tal modo, tuttavia, si assiste ad una soggettivizzazione dell’illecito penale e ad una deviazione verso il modello del diritto penale dell’atteggiamento interiore.
Questo processo, come si tenterà di illustrare, porta a sfumare le stesse categorie dommatiche tradizionali; così, l’atteggiamento interiore sembra individuare un nuovo trait d’union tra forme di dolo generico, di dolo eventuale e di dolo specifico.
4.1 Dolo generico ‘specificizzato’
Diverse fattispecie incriminatrici a dolo generico hanno subìto una torsione dell’elemento psicologico. Possono ricordarsi le interpretazioni offerte in tema di lesioni mediche, di atti sessuali e di detenzione di materiale pedopornografico.
Il primo ambito è stato segnato, da ultimo, dalla nota pronuncia delle Sezioni unite “Giulini” del 2009[39]: in sintesi, in caso di intervento terapeutico effettuato nel rispetto delle leges artis, in assenza del previo consenso del paziente, il dolo di lesioni non si configura se sussiste una finalità terapeutica nel medico, in caso di esito infausto dell’intervento; se l’esito è fausto, invece, viene a mancare a monte lo stesso elemento oggettivo tipico della malattia.
Nell’accogliere una nozione funzionale di malattia ai fini della configurazione del reato di lesioni, la Suprema Corte illustra alcune brevi considerazioni sul risvolto dell’elemento psicologico: da un lato, osserva come il dolo abbracci non solo l’alterazione anatomica cagionata, ma anche la conseguenziale alterazione del benessere del paziente[40]; dall’altro, afferma una “logica incoerenza” tra la condotta volta a fini terapeutici e il dolo di lesioni (posto che la malattia è la conseguenza peggiorativa della salute, incompatibile con il fine terapeutico)[41]. La Corte rigetta così implicitamente la tesi giurisprudenziale, considerata nella prima parte motiva della sentenza[42], secondo cui in tal modo si sarebbe configurato un dolo specifico, non richiesto dalla norma.
L’orientamento delle Sezioni unite è stato variamente ribadito nel corso degli ultimi anni[43]. Tuttavia, la migliore prova del cedimento verso il rilievo dell’atteggiamento interiore è offerta proprio da queste ultime pronunce: il fattore determinante per la configurazione (non già dell’elemento oggettivo della “malattia”, bensì del solo elemento psicologico) è stato individuato, volta a volta, nella motivazione che animava il medico; ciò è avvenuto a dispetto delle pur contestuali negazioni di trasformazione del dolo generico in dolo specifico[44]. Così, il dolo è stato ravvisato laddove il medico avesse agito per fini di “lucro”, di “affermazione personale e professionale”, di “prestigio”, “sperimentali” o “per altri fini altrimenti speculativi”. Non a caso, anche la dottrina che ha accolto con favore, in buona parte, l’impianto argomentativo della giurisprudenza ha necessità di ricordare che il dolo di lesioni resta generico[45]: excusatio non petita…
Il secondo ambito tradizionalmente caratterizzato da uno scivolamento verso l’atteggiamento interiore è quello della definizione degli “atti sessuali”, rilevanti ai fini della configurazione dei reati previsti dagli artt. 609-bis ss. c.p.; questi ultimi, com’è noto, hanno sostituito nel 1996 gli artt. 519 ss. c.p. La riforma legislativa non ha eliminato i dubbi ermeneutici che, dapprima legati al concetto di ‘atti di libidine’, si sono poi trasferiti sulla nozione di atti sessuali. Così, sono sopravvissuti nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale due orientamenti[46]: da un lato, vi è chi propugna una lettura oggettiva, per cui la sessualità dell’atto va determinata alla luce delle scienze mediche-psicologiche e delle scienze antropologiche-sociologiche[47] (ferma restando la necessità della rappresentazione e volontà del carattere sessuale dell’atto, da parte dell’autore, ai fini del dolo); tuttavia, dall’altro, una minoranza non irrilevante afferma un’interpretazione soggettiva, per cui è sessuale l’atto soggettivamente orientato all’eccitamento o allo sfogo dell’impulso sessuale dell’autore, senza rilievo degli atti ispirati da altri moventi (es.: affetto, simpatia, etc.)[48]. In tal modo, il dolo si connota di sfumature emotive, che rischiano di trasformarlo in una ipotesi tipica di Gesinnung.
Un ulteriore esempio è offerto dal reato di accesso a materiale pedopornografico, previsto all’art. 600-quater co. 3 c.p. È necessario ricordare come l’art. 600-quater preveda due diverse fattispecie incriminatrici. Al co. 1, è prevista la condotta di chi, al di fuori delle ipotesi di cui all’articolo 600-ter c.p., consapevolmente si procura o detiene materiale pornografico realizzato utilizzando minori degli anni diciotto; al co. 3, invece, si minaccia di pena chi, fuori dei casi di cui al primo comma, mediante l’utilizzo della rete internet o di altre reti o mezzi di comunicazione, accede ‘intenzionalmente’ e senza giustificato motivo a materiale pornografico realizzato utilizzando minori degli anni diciotto.
Al di là della dominante opinione dottrinale circa il contrasto della disposizione con il principio di offensività[49], preme sottolineare come la giurisprudenza abbia surrettiziamente reso rilevanti delle forme di atteggiamento interiore nel dolo della fattispecie. Una recente pronuncia[50] incentra il fulcro della illiceità sul fine perseguito dall’autore (escludendo il dolo qualora si acceda ai files “per curiosità” e ritenendolo viceversa sussistente in caso di finalità di condivisione del materiale pedopornografico, secondo il più classico diritto penale della volontà)[51]. È da evidenziare anche come tanto l’art. 600-quater co.1 (reato per cui c’era stata condanna nel grado di giudizio precedente) quanto l’art. 600-quater co. 3 (reato per cui si ricorreva in Cassazione, chiedendo la riqualificazione del fatto) non contengono elementi strutturali che facciano emergere il dolo specifico. Mediante una particolare operazione ermeneutica, in realtà, i giudici hanno cercato un modo per incriminare l’autore (detentore di materiale pedopornografico) a cui piaccia la pedopornografia, piuttosto che il fatto in sé della detenzione o dell’accesso; ciò costituisce un riflesso, nella prassi, delle osservazioni da tempo formulate in dottrina, secondo cui l’art. 600-quater c.p. mira a colpire le perversioni di un autore, in quanto “nemico”[52].
4.2 Dolo eventuale
La Corte di cassazione riunita, nella nota sentenza n. 38343/2014 sul caso Thyssenkrupp, ha offerto delle fondamentali indicazioni sul dolo eventuale, differenziandolo dalla colpa cosciente.
Non occorre, in questa sede, ripercorrere l’articolata e complessa motivazione che ha condotto alla soluzione ermeneutica prescelta dal Giudice di legittimità, né tantomeno il denso dibattito dottrinale che l’ha preceduta[53]. Piuttosto, bisogna sottolineare come la ricerca di un sostrato ontologico del dolo, quale massima adesione psichica all’evento, abbia portato la Corte a rendere rilevanti, in qualche misura, dei momenti emotivi, specie in relazione al dolo eventuale.
Si registra una certa ambiguità. Da un lato, si nega la rilevanza, sul piano sostanziale, degli stati d’animo[54]. Dall’altro, tuttavia, si attribuisce un ruolo «cruciale» alla valutazione dei motivi che hanno animato l’agente[55], nonché all’emozione (speranza, pessimismo, etc.) che ha accompagnato l’azione[56]; non va sottaciuto come un certo rilievo sia attribuito anche alla personalità dell’autore[57].
L’ambiguità viene solo in parte superata ove si presti mente alla distinzione dommatica tra ratio essendi e ratio cognoscendi: si dice comunemente come non possa confondersi il problema dell’essenza del dolo (eventuale) con quello della sua prova e, in particolare, degli indizi (“indicatori”, nel linguaggio della Corte) che inducono a ritenerlo sussistente[58]. In verità, non si coglie come, in assenza di una reale nozione sostanziale di dolo (in sentenza il dolo eventuale si riduce alla “consapevole adesione all’evento”, a un atteggiamento psicologico solo “assimilabile alla volontà”, una “volontà per analogia”), si possa frammentare il problema della sussistenza e della prova del dolo[59]; perciò, la valorizzazione di aspetti emotivi condiziona il modo stesso in cui il dolo eventuale viene configurato nella concreta applicazione del diritto e, in definitiva, la sua stessa sostanza.
Per altro, non sono mancate perplessità legate alla concreta utilità di un indicatore “emotivo” di un’entità “interiore”, essendo le emozioni non direttamente conoscibili al pari del dolo stesso[60]; ciò ha comportato la proposta di espunzione del dolo eventuale per indeterminatezza, in ragione della sua “scarsa afferrabilità empirica”[61].
4.3 Il dolo specifico tra tendenze restrittive ed espansive
Il dolo specifico, com’è noto, costituisce la forma di dolo per cui la stessa legge esige, oltre alla coscienza e volontà del fatto materiale, che il soggetto agisca per un fine particolare; quest’ultimo staoltre il fatto materiale tipico, onde il conseguimento di tale fine non è necessario per la consumazione del reato[62].
Da tempo la dottrina osserva come, mediante il dolo specifico, assumano rilievo «il fine, l’intenzione, i motivi, l’atteggiamento interiore, la Gesinnung e gli stessi impulsi dell’agente»[63]. Perciò, la storia del dolo specifico è la storia della costante frizione con un diritto penale a vocazione oggettiva e dei tentativi di arginarne le derive soggettivistiche[64]. Nella prassi, questa tensione si è manifestata limpidamente; così, convivono orientamenti che cercano di restringere, per quanto possibile, gli esiti soggettivistici, e orientamenti che, invece, sembrano andare nel senso opposto.
Partendo dal primo gruppo, è apprezzabile l’opera ermeneutica svolta in relazione alla finalità di terrorismo, caratterizzante la maggior parte dei delitti di attentato. La giurisprudenza ha inteso, a chiare lettere e in più occasioni, evitare che l’art. 270-sexies c.p. potesse divenire il viatico attraverso cui dare spazio al diritto penale dell’atteggiamento interiore[65]. Così, da un lato, si afferma (seppur incidentalmente) il requisito oggettivo della idoneità dell’azione al fine quale «profilo strutturale dei casi di dolo specifico»[66]. Dall’altro, si interpreta restrittivamente la finalità di «costringere i pubblici poteri a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto»: al concetto è data una dimensione necessariamente macroscopica, anche al fine di evitare che ogni azione politicamente motivata possa portare a integrare la finalità in parola[67]. È comunque opportuno precisare come questo tentativo non abbia sempre persuaso la dottrina[68].
4.3.1. (segue) i recenti arresti delle Sezioni Unite
Maggior perplessità, invece, suscitano altre sentenze, caratterizzate da una tendenza espansiva del dolo specifico, nell’ottica di una maggiore pregnanza dei moventi. Possono ricordarsi le recenti pronunce delle Sezioni unite in materia di finalità di profitto nel reato di furto[69] e di finalità di agevolazione mafiosa, prevista, quale aggravante, dall’art. 416-bis.1 c.p.[70]
La prima pronuncia interviene a dirimere un contrasto le cui radici sono antiche[71]. Infatti, il profitto, che costituisce la finalità che anima l’agente nei delitti di furto e di appropriazione indebita, può essere inteso, com’è noto, in due modi: o in un’accezione strettamente economica, quale accrescimento del patrimonio del reo, ovvero in senso più ampio, come comprensivo di qualsiasi vantaggio, utilità e godimento, inclusa la soddisfazione di ordine psicologico, estetico, erotico, etc.
Anche questa seconda interpretazione assume graduazioni diverse: così, tra quanti ammettono la concezione estensiva, non manca chi osserva che è pur sempre necessario conservare una nota di patrimonialità, sia pur latamente concepita[72]. A risultati sostanzialmente analoghi giunge una terza tesi, per la quale costituirebbe profitto ogni incremento della capacità strumentale del patrimonio di soddisfare un bisogno umano, materiale o spirituale (economico, affettivo, religioso, artistico, letterario, scientifico, solidaristico, erotico etc.); il fine patrimoniale di profitto non sussiste, pertanto, se il vantaggio non è patrimoniale (avendo il reo agito per un intento di vendetta, dileggio, disprezzo, ludismo, etc.)[73]. Il necessario sostrato patrimoniale della nozione di profitto si afferma per evitare che il dolo specifico venga a confondersi con il movente, di qualunque genere, del reo; ciò ne tradirebbe la funzione selettiva e limitatrice della punibilità.
Le Sezioni riunite accolgono la nozione ampia del profitto. Tuttavia, esse procedono a una delimitazione su cui è opportuno soffermarsi. Secondo la Corte, «il profitto rilevante, quale connotato della specifica direzione della volontà che va a svolgere un’ulteriore funzione delimitatrice rispetto al mero profilo oggettivo della condotta di sottrazione e di impossessamento, è quello che, indipendentemente dalla sua idoneità ad essere apprezzato in termini monetari, viene tratto immediatamente dalla costituzione dell’autonoma signoria sulla res e non quello che può derivare attraverso ulteriori passaggi dall’illecito»[74]. In altri termini, il discrimen tra ciò che è profitto e ciò che tale non è passa per l’alternativa “vantaggio immediato” o “vantaggio mediato”; nella stessa pronuncia, come esempio di vantaggio mediato, si riporta la classica ipotesi del militare che ruba al solo scopo di farsi espellere dal corpo militare nel quale era stato arruolato.
Tuttavia, il criterio selettivo presta il fianco ad almeno una critica, ove si presti mente al caso sub iudice. In particolare, un soggetto aveva strappato di mano il cellulare alla fidanzata; il gesto, secondo i giudici di merito, era da ricondurre a un movente di ritorsione e di dispetto nei confronti della donna, dopo che quest’ultima aveva chiamato i carabinieri, richiedendone l’intervento a seguito di una lite; l’imputato, per altro, non avrebbe usato il cellulare successivamente, in ragione dell’immediato intervento delle forze dell’ordine, il che genera incertezze anche maggiori sulla finalità reale dell’autore.
In relazione a quel caso, le Sezioni unite ritengono che sussista il fine di profitto, ottenendo il reo un vantaggio immediato dall’appropriazione della res. Sennonché, appare evidente come il criterio possa essere manipolato arbitrariamente: il vantaggio, nel caso in esame, ben potrebbe essere ritenuto “mediato” (con conseguente esclusione del dolo specifico) in ragione del fatto che l’utilità finale, avuta di mira dal reo, poteva ad esempio consistere nel recuperare il rapporto affettivo di coppia, sebbene in maniera distorta (in specie, costringendo la donna a cercare il reo per riavere indietro il cellulare). D’altronde, il caso giudicato è attiguo a quello proposto in dottrina per escludere il dolo specifico, in ragione dell’assenza di qualsivoglia patrimonialità: si fa riferimento al caso dell’amante che sottrae il biglietto aereo alla partner allo scopo non di utilizzarlo personalmente, bensì di impedirle di partire[75].
Insomma, dietro i concetti di vantaggio immediato o mediato, derivante dalla res all’autore della sottrazione, si nasconde una sorta di analisi psicologica del tutto incerta, dai risultati arbitrari[76]; più che individuare un’accettabile nozione di profitto (avuto di mira dal reo), la tesi accolta rischia di portare il giudice a distinguere, in concreto, tra autori dalla volontà condivisibile (come l’essere esonerato dal servizio militare) e autori dalla finalità non condivisibile (essere dispettoso o ritorsivo, geloso etc.), prescindendo da un reale collegamento con la res. A fronte di queste possibili distorsioni del dolo specifico, sarebbe forse opportuno prediligere la tesi restrittiva[77].
La seconda pronuncia citata porta le Sezioni unite a risolvere il contrasto formatosi in ordine alla natura della circostanza aggravante prevista dall’art. 416-bis.1, co.1, seconda parte, c.p.[78]; quest’ultimo rende punibile più severamente l’avere commesso il fatto «al fine di agevolare l’attività dell’associazione mafiosa» per tutti i reati per cui sia prevista una pena diversa dall’ergastolo. Il dubbio sulla natura soggettiva od oggettiva dell’aggravante in parola si collegava al regime d’imputabilità della circostanza al concorrente, ai sensi dell’art. 118 c.p.
Prima della pronuncia, si sono fronteggiati due orientamenti, che vale la pena ricordare in sintesi. Per il primo, l’aggravante de qua avrebbe natura soggettiva. Essa richiederebbe un atteggiamento psicologico per lo più definito in termini di dolo specifico: occorre che l’agente, oltre alla coscienza e volontà del fatto che costituisce l’elemento oggettivo del reato base, agisca per un fine particolare (quello di agevolare l’attività dell’associazione di tipo mafioso), la cui realizzazione non è necessaria perché sia integrata l’aggravante. Quest’ultima viene quindi ritenuta di natura soggettiva, in quanto concernente i motivi a delinquere o l’intensità del dolo. Nel solco di tale orientamento, si richiedeva generalmente la presenza, ai fini del riconoscimento dell’aggravante, di un elemento di natura oggettiva, costituito dalla direzione univoca o dall’idoneità dell’azione ad agevolare l’associazione mafiosa. Tuttavia, tale requisito oggettivo veniva prevalentemente richiesto a fini di prova dell’elemento soggettivo che integra l’aggravante: è proprio la natura meramente probatoria del dato oggettivo che consente di inquadrare l’aggravante tra quelle riferite ai motivi a delinquere. Più raramente, tuttavia, la giurisprudenza ne ha evidenziato la necessità, quale ulteriore elemento costitutivo dell’aggravante, ai fini del rispetto del principio di offensività.
Di quest’opinione è anche la dottrina maggioritaria[79]: un elemento oggettivo è necessario per evitare di arrivare a punire un dato meramente intenzionale (giungendosi altrimenti a configurare un reato di pericolo di pericolo, ossia un reato senza offesa, col rischio di configurare una ipotesi di diritto penale dell’autore). In specie, in dottrina si richiede almeno l’effettiva esistenza del gruppo criminale e il possibile raccordo tra quanto programmato dall’agente e l’attività illecita che caratterizza il gruppo criminale. Inoltre, la condotta agevolativa si distingue dal concorso ‘esterno’ in ragione della non appartenenza dell’agente all’associazione criminale, della non essenzialità del contributo per la realizzazione degli scopi dell’associazione criminale, nonché della irrilevanza di un’effettiva utilità della condotta agevolativa per l’associazione.
Per il contrapposto orientamento, la circostanza in esame sarebbe integrata da un elemento oggettivo, consistente nell’essere l’azione «rivolta ad agevolare un’associazione di tipo mafioso», e sarebbe quindi di natura oggettiva ai sensi dell’art. 70 c.p., in quanto concernente le modalità dell’azione.
Le S.U. accolgono la tesi soggettiva in base ad argomenti teleologici e letterali. L’argomentazione parte da considerazioni squisitamente politico-criminali: la ratio dell’aggravante è creare «una sorta di cordone di contenimento» a fronte di tutte quelle condotte che, pur non comportando un effettivo contributo all’associazione, comunque contribuiscano a rafforzarla o rafforzare il pericolo della sua espansione.
L’interpretazione dell’aggravante porta a considerarla come motivo a delinquere qualificato, che ben può concorrere con altro motivo egoistico dell’azione. Il Supremo consesso appunta la propria posizione, invero non molto chiaramente, sulla necessaria esistenza di elementi oggettivi, quali “dati probatori” del motivo; per la Corte, questi ultimi sarebbero per altro utili a garantire l’offensività della fattispecie[80]. Sennonché, nella stessa motivazione, si nega la necessità di una qualche reale utilità dell’agevolazione, il che equivale ad affermare la possibile inesistenza di una qualsivoglia offensività[81].
Il richiamo espresso all’offensività ha rasserenato gli animi di diversi commentatori[82]; tuttavia, una lettura più attenta induce a rimodulare l’entusiasmo. Invero, si assiste a una vera e propria frode delle etichette.
L’interpretazione offerta dalle S.U. mira ad offrire un riscontro probatorio all’intenzione dell’agente (al suo “motivo a delinquere”), ma una cosa è cercare una conferma oggettiva dell’intenzione, altra cosa è ritenere quell’elemento offensivo. Il primo dato consente un rispetto del principio di tipicità (data la necessità di accertare, anche mediante indizi, la fattispecie soggettiva), ma non anche di quello di offensività. Infatti, a ben vedere, l’effettiva possibilità che il contributo abbia agevolato l’associazione (in ciò sta il pericolo) non è veramente effettiva, dovendo sussistere solo nell’intenzione dell’agente; ciò è dimostrato dai riferimenti in sentenza alla “mera valutazione dell’agente”, alla non necessarietà di alcun risultato concreto a seguito dell’ideale contributo e persino alla non necessità di un confronto con gli associati; tutti questi dati inducono a dubitare del presupposto di una reale maggiore pericolosità della condotta. In realtà, il fatto resta del tutto indifferente nel suo disvalore oggettivo e l’aggravante è effettivamente sensibile solo all’intenzione. Non è un caso che le S.U. non usino l’unica qualificazione che garantirebbe l’offensività della condotta, ossia la “idoneità” del fatto (secondo una prognosi postuma oggettiva, non calibrata sulla psiche dell’agente)[83].
Così, ad esempio, si dovrebbe dire aggravato dalla finalità di agevolazione mafiosa l’avvelenamento del bestiame commesso dal paesano, simpatizzante mafioso, ai danni del compaesano che non aveva rivolto l’ossequioso saluto al capoclan, all’uscita dalla chiesa nel giorno di festa. Questo fatto non contribuisce in alcun modo all’associazione; nella logica della giurisprudenza, però, si dovrebbe dire rafforzata la fama criminale della stessa associazione, con sua conseguente agevolazione; ma si è così lontani da una qualche offesa ulteriore (rispetto al danno patrimoniale, nell’esempio) che, a ben vedere, si punisce maggiormente soltanto per il movente, per l’essere un simpatizzante, per un atteggiamento interiore.
Un ultimo cenno può essere fatto in relazione all’esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Si tratta di un tema che esprime l’ambiguità della giurisprudenza verso il rilievo dell’atteggiamento interiore.
Com’è noto, gli artt. 392-393 c.p., in tema di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, prevedono dei reati a dolo specifico, posto che la violenza dev’essere esercitata “al fine di esercitare un preteso diritto”. Anche (ma non solo) su quest’ultimo profilo sono stati offerti dei fondamentali chiarimenti, nel 2020, dalla sentenza Filardi della Corte di Cassazione a Sezioni Unite[84]. Specialmente interessante si mostra l’ipotesi di realizzazione plurisoggettiva del reato di ‘ragion fattasi’, allorquando il titolare del preteso diritto concorra con un terzo; va infatti ricordato che, trattandosi di reato proprio non esclusivo, è possibile configurare i delitti in parola anche se l’esecutore materiale è un terzo. In tal caso, sorge il fondamentale problema della distinzione tra l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni e l’estorsione.
Le S.U. hanno riaffermato l’orientamento tradizionale sul punto, basando il distinguo sul movente del terzo[85]. Difatti, nel caso in cui la condotta tipica sia posta in essere da un terzo a tutela di un diritto altrui, si configurano i delitti di cui agli artt. 392-393 c.p. qualora il terzo abbia commesso il fatto al solo fine di esercitare il preteso diritto per conto del suo effettivo titolare, dal quale abbia ricevuto incarico di attivarsi. Per contro, il terzo non deve essere spinto anche da un fine di profitto proprio, ravvisabile ad esempio nella promessa o nel conseguimento di un compenso per sé, anche se di natura non patrimoniale; qualora il terzo agente – seppure inizialmente inserito in un rapporto inquadrabile ex art. 110 c.p. nella previsione dell’art. 393 c.p. – inizi ad agire in piena autonomia per il perseguimento dei propri interessi, deve ritenersi che tale condotta integri gli estremi del concorso nel reato di estorsione ex artt. 110 e 629 c.p.
La pronuncia, a ben vedere, rischiava di introdurre surrettiziamente un profilo di atteggiamento interiore differenziale, distinguendo i reati in base alle disposizioni d’animo del terzo (il senso – mal riposto – di giustizia piuttosto checupidigia o egoismo, un animus lucrandi etc.). A dimostrazione dell’assunto, è interessante notare come una pronuncia della Corte di Cassazione[86] abbia meritoriamente rovesciato gli assunti delle Sezioni unite.
In specie, tale pronuncia procede a una ridefinizione dell’interesse proprio del terzo: essa esclude espressamente che il movente del terzo possa assumere valore determinante ai fini della configurazione del reato di ragion fattasi o di estorsione[87]. Per la Corte, l’interesse proprio del terzo va individuato valorizzando l’elemento tipico soggettivo, che distingue la fattispecie di cui agli artt. 392-393 c.p. da quella ex art. 629 c.p.; perciò, ai fini della configurabilità dell’estorsione, il terzo concorrente deve coartare la volontà della vittima rappresentandosi un ingiusto profitto con altrui danno. Secondo la Corte, se il terzo ha richiesto alla persona offesa esattamente lo stesso oggetto del diritto agito, l’eventuale motivo egoistico che possa averlo mosso ad agire non può determinare la differente e più grave qualificazione giuridica.
Invero, può avvenire che il creditore abbia promesso una ricompensa al terzo o altro profitto, ovvero che il terzo abbia agito nella prospettiva della realizzazione di un proprio futuro guadagno indiretto; tuttavia, questo motivo è estraneo all’azione delittuosa commessa nei confronti della vittima e non consente di qualificare il fatto come un’estorsione. Infatti, il dolo del terzo rimane sempre quello di agire esattamente e precisamente per la realizzazione del solo diritto sotteso all’azione e non anche per arrecare danni altrui, con corrispondente ingiusto profitto; così che l’eventuale guadagno sotteso può costituire il prezzo del reato di cui all’art. 393 c.p. o il movente del reato, ma non costituisce un interesse proprio diretto, tale da determinare la più grave qualificazione giuridica, non arrecando alcun danno altrui. In altri termini, ove il terzo abbia avuto quale motivo dell’azione un interesse proprio mai oggetto di richiesta nei confronti della vittima, dipendente da circostanze del tutto estranee all’azione criminosa, egli continua a rispondere di esercizio arbitrario, pure, per usare le parole della Corte, se possa avere immaginato di ricavare un qualche guadagnodall’azione criminosa.
In definitiva, la Corte ha premura di precisare, in maniera significativa, che il dolo riguarda la sfera della rappresentazione e volizione dell’evento; non rientra nella sua struttura il movente (definito in sentenza come la causa psichica della condotta umana e che costituisce lo stimolo che ha indotto l’individuo ad agire); quest’ultimo «non ha alcuna rilevanza ai fini del dolo».
4.4. Un esempio paradigmatico: l’aggravante della crudeltà
Uno dei massimi riconoscimenti, nella giurisprudenza di legittimità, dell’atteggiamento interiore quale fulcro della (più severa) punizione si è avuto in relazione all’aggravante di cui all’art. 61 n. 4 c.p.; di quest’ultima si è occupata una rilevante sentenza della Suprema Corte a sezioni unite[88].
La Corte qualifica la circostanza in parola come soggettiva: l’efferatezza che contraddistingue le manifestazioni dell’aggravante non atterrebbe alle modalità della condotta, ma caratterizzerebbe l’atteggiamento interiore dell’autore. Tale pronuncia afferma: «Si tratta in effetti di comportamenti che rilevano precipuamente nella sfera della colpevolezza, dell’atteggiamento interiore, caratterizzato da particolare riprovevolezza per via della sua perversità. È ben vero che l’aggravante chiama in causa le particolari modalità dell’azione. Tuttavia tali peculiarità rilevano più che per la concreta afflittività della condotta tipica che conduce all’evento, per il contrassegno di spietatezza che conferiscono, nel complesso, alla volontà illecita manifestatasi nel delitto. Insomma, le eccedenti modalità dell’azione mostrano una riprovevolezza che giustifica l’aggravamento della pena».
Si legge pure che «è la perversità dell’intento che, al fondo, contrassegna la figura di cui si parla. Tale atteggiamento di gratuita eccedenza, naturalmente, è intrinsecamente volontario. Esso può essere definito doloso, ma con la precisazione, già accennata ma da ribadire, che non si fa qui riferimento al dolo d’evento ma se ne recuperano le categorie, i tipi, per più immediata ed agevole esplicazione del pensiero e catalogazione dei moti interiori entro schemi noti al lessico giuridico».
Nel prosieguo, la Corte precisa che «le considerazioni svolte – si confida – rendono chiaro che la riprovevolezza aggiuntiva riguarda l’azione e non l’autore. Si infligge una pena più severa perché la condotta è efferata e non perché l’agente è una persona crudele. Il contrario avviso espresso dall’ordinanza di rimessione non può essere condiviso. L’attribuzione al diritto penale di un’impronta autoriale rischia di evocare scenari del passato estranei al moderno diritto penale costituzionale. Inoltre, il dato normativo è chiaro: il rimprovero riguarda la condotta posta in essere nel corso dell’esecuzione del reato. Si può essere compassionevoli per un’intera vita ed efferati in una speciale, magari drammatica contingenza esistenziale. Infine, il sistema. Il codice non è alieno dal considerare l’autore: la recidiva, l’abitualità, la professionalità nel reato. Ma sempre lo fa considerando la storia personale e mai un singolo atto».
La pronuncia, invero, lascia emergere non pochi aspetti problematici. Da un lato, sebbene con formulazione ambigua, sembra affermare vigorosamente una colpevolezza per il fatto piuttosto che per la condotta di vita; in tal modo, vorrebbe schermarsi dal rischio di un diritto penale “autoriale”. L’assunto è per altro irrilevante: qui si potrebbe configurare, tuttalpiù, una colpevolezza per il carattere (malvagio) più che per la condotta di vita[89]. Anche criminalizzare un atteggiamento interiore malvagio in un singolo momento della vita dell’autore significa attingere a un parametro soggettivizzante.
Dall’altro lato, contraddittoriamente, la pronuncia sembra riconoscere forme di diritto penale dell’autore classiche, di stampo positivistico; queste ultime sono trattate dalla Cassazione per differenza, perché, diversamente dalla crudeltà, guardano all’intera storia personale del reo. Sennonché, in tal modo, la Corte offre per la seconda volta il fianco a critiche, fornendo un’ulteriore legittimazione a quel diritto penale “autoriale”, il cui rischio voleva scacciare.
La dottrina che si è interessata al commento della decisione, d’altronde, è parsa poco sensibile ai problemi citati. È stata anzi definita “eccessiva” la preoccupazione della Corte di fugare dubbi sul diritto penale dell’autore[90]. L’attenzione è stata spostata sull’oggetto del giudizio di colpevolezza in senso normativo, in una prospettiva marcatamente retributiva[91]. Tuttavia, com’è noto, la colpevolezza per il fatto, in senso normativo, consiste in un giudizio individualizzato, concreto sull’autore[92]. Se ciò è vero, va posto in dubbio lo stesso collegamento tra la categoria dommatica della colpevolezza e una circostanza aggravante soggettiva: quest’ultima offre una valutazione astratta del disvalore (soggettivo), che mal si presta a essere riferita a una colpevolezza così congegnata e che attiene maggiormente alla definizione del nucleo tipico dell’illecito penale[93]. Tuttavia, quest’ultimo non può essere connotato da dati eticizzanti, in una corretta impostazione del reato nell’ordinamento costituzionale.
Pare preferibile, invece, accogliere una interpretazione oggettiva dell’aggravante della crudeltà. Essa attiene alle modalità della condotta, gratuitamente eccedenti e sproporzionate rispetto all’evento offensivo; queste ultime non dovrebbero essere ridotte a meri indicatori, sul piano probatorio, dell’atteggiamento interiore malvagio[94]. Tale conclusione eviterebbe di lasciare aperta la porta a involuzioni soggettivizzanti, per altro quasi sempre parziali[95].
5. Una breve conclusione
L’analisi sembra dimostrare uno spostamento verso il diritto penale dell’atteggiamento interiore nella legislazione, nella dottrina e nella prassi. Per arginare quella che può ben essere definita una deriva, è necessario riscoprire il limite insito nelle formulazioni teoriche e, in specie, nelle categorie dommatiche del reato. Evitare di tipizzare elementi emozionali, di interpretare soggettivamente elementi tipici equivoci, di torcere le categorie dommatiche dando rilievo all’autore e alla sua immoralità.
Solo in tal modo si potranno rispettare appieno le promesse di un diritto penale laico e razionale, a cui la modernità ambisce ancora.
[1] Fondamentale, anche per la ricostruzione complessiva delle opinioni in tema, è l’opera di Morselli, Il ruolo dell’atteggiamento interiore nella struttura del reato, Padova, 1989, passim. Per un inquadramento critico, ancora attuali le pagine di N. Mazzacuva, Il disvalore di evento nell’illecito penale: l’illecito commissivo doloso e colposo, Milano, 1983, p. 42 ss. e passim.
[2] La pluralità di paradigmi di diritto penale dell’autore è stata ben messa in luce da Zaffaroni, Tratado de derecho penal – parte general, vol. III, Buenos Aires, 1981, p. 185. Similmente, nella dottrina italiana, Vassalli, Diritto penale della volontà e diritto penale dell’evento nella recente legislazione (in «Quaderni 2» – supplemento della «Rassegna della Giustizia militare» [Studi in onore di Vittorio Veutro, 1986, p. 179-185]), in Scritti giuridici, vol. I, Milano, 1997, p. 986. La variante più nota è costituita dal diritto penale del tipo d’autore di marca nazionalsocialista. Di recente, ne costituisce un esempio il cd. diritto penale del nemico; sul punto, la letteratura è vasta; per l’inquadramento e la critica, possono segnalarsi le due opere collettanee AA.VV., Diritto penale del nemico: un dibattito internazionale, a cura di Donini, Papa, Milano, 2007; AA.VV., Delitto politico e delitto penale del nemico, a cura di Gamberini, Orlandi, Bologna, 2007.
[3] Il tema dev’essere opportunamente circoscritto, essendo necessario, altrimenti, ripercorrere l’intera, tormentata storia dommatica dell’elemento soggettivo del reato, ciò che valica i confini della presente analisi. Per altro, in un recente studio, è stato autorevolmente segnalato come forme di Gesinnungsstrafrecht fossero già presenti nelle elaborazioni tedesche d’inizio Ottocento: pur mutandone i presupposti filosofici (specie con riguardo alla dialettica necessità-libertà), un accentramento del reato sull’atteggiamento interiore si era già avuto sia tra i sostenitori della funzione specialpreventiva della pena (Stübel, Grolman), sia tra i sostenitori della teoria dell’emenda (Krause, Ahrens, Röder). Cfr. Moccia, Le teorie penali pure nel pensiero tedesco, Napoli, 2023, p. 219 ss.
[4] von Liszt, Lehrbuch des deutschen Strafrechts, XXIV ed., 1922, p. 160, riportato da Morselli, Il ruolo dell’atteggiamento interiore nella struttura del reato, cit., p. 56, nt. 76. La concezione della Gesinnung di von Liszt aveva un fondamento non spiritualistico, ma biologico-psicologico. Sebbene v. Liszt qualifichi la Gesinnung mediante l’aggettivo «asociale», o «antisociale», tuttavia non si tratta di un giudizio di valore di carattere etico, bensì soltanto di una connotazione di dannosità o pericolosità dell’atteggiamento interiore del soggetto nei confronti della società. Conformemente alla sua vocazione liberale, von Liszt si preoccupò di sottolineare come solo la Gesinnung esprimentesi nel fatto commesso («aus der begangenen Tat erkennbaren») fosse da tenere in considerazione. Tuttavia, va notato come per von Liszt la Gesinnung assuma il significato di una caratteristica permanente, e perciò sostanzialmente deterministica, della personalità del delinquente («dauernende Einstellung»). È proprio questo il punto di partenza delle elaborazioni dei sintomatici Tesar e Kollmann. Sul punto, cfr. anche le notazioni di Musco, La misura di sicurezza detentiva. Profili storici e costituzionali, Milano, 1978, p. 58 ss.
[5] In particolare, furono rilevanti la “scoperta” degli elementi soggettivi dell’antigiuridicità e le conseguenti elaborazioni dommatiche. Per un quadro d’insieme, cfr. Schiaffo, Le situazioni «quasi-scriminanti» nella sistematica teleologica del reato. Contributo ad uno studio sulla definizione di struttura e limiti della giustificazione, Napoli, 1998, p. 103 ss.; nonché Cavaliere, L’ errore sulle scriminanti nella teoria dell’illecito penale: contributo ad una sistematica teleologica, Napoli, 2000, p. 188 ss.
[6] Queste sono ancora riscontrabili nel manuale del Welzel, Derecho penal. Parte general, trad. spagn. a cura di Fontán Balestra, Buenos Aires, 1956, p. 83 ss.; 103 ss. Cfr., per una panoramica critica, Würtenberger, La situazione spirituale della scienza penalistica in Germania, Milano, 1965, p. 85 ss. Quest’ultimo, per altro, evidenzia come il Welzel concentri la rilevanza dell’atteggiamento interiore nell’illecito personale, sottraendolo al “più naturale” ambito del rimprovero di colpevolezza; in realtà, ci sentiamo di segnalare come il pensiero del Welzel sia alquanto sfumato sul punto: ciò è ben dimostrato dalla ambiguità con cui lo stesso Welzel tratta della collocazione dommatica dei Gesinnungsmerkmale, asserendo che «[…] in certi tipi, alcuni di questi elementi di Gesinnung sono, simultaneamente, elementi di colpevolezza. […] Qui si sovrappongono i limiti dell’illecito e della colpevolezza» – Welzel, Derecho penal. Parte general, cit., p. 85.
[7] Per altro, le forme di Gesinnungsstrafrecht qui riportate differiscono dal diritto penale del tipo d’autore nazionalsocialista: quest’ultimo accentua l’atteggiamento interiore di infedeltà ai valori etici della comunità al punto da sostituirlo alla violazione del bene giuridico nel fondamento dell’illecito penale; a tanto non arrivarono le teorie appresso riportate, che anzi mantennero saldo il riferimento oggettivo della lesione di un interesse giuridicamente tutelato ai fini della configurazione del reato, come si chiarirà nel testo. Sul diritto penale del tipo d’autore, cfr. soprattutto Bettiol, Sul reato proprio (1939), in Scritti giuridici, vol. I, Padova, 1966, p. 400 ss.; Id., Azione e colpevolezza nelle teorie dei tipi di autore (1942), in Scritti giuridici, vol. II, Padova, 1966, p. 535 ss.; Calvi, Tipo criminologico e tipo normativo d’autore, Padova, 1967, passim; Bricola, Teoria generale del reato, Nss. D. I., vol. XIX, Torino, 1973, p. 26 ss.; Marinucci, Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali, in Riv. it. dir. proc. pen., 4, 1983, 1190 ss. (spec. 1198 ss.); Fiorella, Reato (dir. pen.), in Enc. dir., vol. XXXVIII, Milano, 1987, p. 770 ss. (spec. 779 ss.).
[8] Cfr. soprattutto, per la dottrina tedesca, Gallas, Sullo stato attuale della teoria del reato, in Scuola pos., 1963, spec. 48 ss. Per la dottrina italiana, Bettiol, Sul diritto penale dell’atteggiamento interiore., in Riv. it. dir. proc. pen., 1971, p. 3 ss.; Romano, Grasso, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, III ed., 2004., p. 332 (pre – art. 39, n. 84); Zuccalà, L’infedeltà nel diritto penale, Padova, 1961, p. 248 ss., 257 ss. Questa posizione sembra doversi tenere distinta da quella di chi propone di valutare la Gesinnung non già come oggetto del rimprovero di colpevolezza, ma più semplicemente come uno degli elementi da considerare al fine di apprestare una efficace strategia di recupero sociale del reo, sempre con il consenso di questi – sul punto, Moccia, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, Napoli, 1992 (rist. 2006), p. 103 ss., 163.
[9] Nella dottrina italiana, è soprattutto la tesi di Morselli, Il ruolo dell’atteggiamento interiore nella struttura del reato, cit., p. 42 ss., 66, 71; recentemente, tuttavia, sembra aderire alle medesime tesi (pur senza nominare la Gesinnung e tentando un approccio di carattere storico-dommatico) Ronco, Voluntas ut ratio. Sullo statuto della volontà nel diritto penale, Torino, 2023, passim e spec. 93 ss. Questo tipo di approccio al dolo, da intendersi come dolus malus, pare manifestarsi anche in trattazioni più settoriali, specialmente con riguardo al dolo eventuale: cfr. ad es. Donini, Il dolo eventuale: fatto-illecito e colpevolezza. Un bilancio del dibattito più recente, in Dir. pen. cont., 1, 2014, 70 ss., spec. p. 88 ss. Esso non è rimasto senza conseguenze sul piano pratico, con adesioni quasi esplicite: cfr., ad es., infra, par. 4.2, la giurisprudenza delle S.U. della Corte di cassazione sul caso Thyssenkrupp.
[10] Si tratterebbe di quelle disposizioni incriminatrici che presentano caratteristiche di atteggiamento interiore (Gesinnungsmerksmale): esse si identificano perché formulate mediante espressioni quali, ad esempio, “brutalmente”, “per disprezzo”, “fraudolentemente” etc.; si tratta di categorie non estranee anche alla nostra legislazione: cfr. ad es. rispettivamente gli artt. 410, 345 (abr.), 505 c.p., 2621 c.c. In questa prospettiva si muove soprattutto Schmidhäuser, Gesinnungsmerkmale im Strafrecht, Tubinga, 1958, passim. Nella dottrina italiana, anche Zuccalà, L’infedeltà nel diritto penale, cit., pp. 260–261; 264.
[11] Cfr. ad es. Welzel, Derecho penal. Parte general, cit., p. 85: «Tuttavia, in certi tipi, alcuni di questi elementi di Gesinnung sono, simultaneamente, elementi di colpevolezza; cioè, possono essere eseguiti solo dall’autore capace di colpevolezza; ad es.: “in malafede” nel § 170, c) e d). Una sottrazione con “intenzione di appropriazione” può essere eseguita anche dall’incapace (il malato mentale o il bambino), ma negare “in malafede” l’aiuto (§ 170, c), può farlo solo il soggetto capace di colpevolezza. Qui si sovrappongono i limiti dell’illecito e della colpevolezza».
[12] Cfr. Morselli, Il ruolo dell’atteggiamento interiore nella struttura del reato, cit., p. 63: «Ora, la Gesinnung non ha nulla a che vedere con l’imputabilità e la colpevolezza: anche un soggetto non imputabile, come l’amens, può ben agire con “malizia”, “pravità”, “ferocia” o “malafede” alla stessa stregua di un soggetto imputabile».
[13] Questo aspetto è messo in luce, in chiave critica, già da Baratta, Antinomie giuridiche e conflitti di coscienza. Contributo alla filosofia e alla critica del diritto penale, Milano, 1963, p. 84 ss., 152 ss.
[14] Nell’ambito della dottrina tedesca già citata, cfr. ad es. Welzel, Derecho penal. Parte general, cit., p. 152 ss. (spec. 160-163); Gallas, Sullo stato attuale della teoria del reato, cit., p. 49. Nella dottrina italiana, Zuccalà, L’infedeltà nel diritto penale, cit., p. 259; Bettiol, Sul diritto penale dell’atteggiamento interiore., cit., pp. 7–8.
[15] Cfr. Morselli, Il ruolo dell’atteggiamento interiore nella struttura del reato, cit., p. 46; Ronco, Voluntas ut ratio, cit., p. 107 ss., spec. 118 ss.
[16] Sono attualmente discusse le ripercussioni del principio di personalità della responsabilità penale sulla teoria del reato, una volta superate le tesi riduttive del mero divieto di responsabilità per fatto altrui e del divieto di responsabilità oggettiva. È nettamente minoritario l’orientamento, qui sinteticamente analizzato, che spinge l’incidenza del principio sino alle soglie della valutazione dell’atteggiamento interiore dell’agente, vuoi nel dolo, vuoi nella colpevolezza. Invece, maggiormente avvertito è il contrasto in dottrina tra due posizioni: quanti, in maggioranza, sostengono un’estraneità di un disvalore personale rispetto al fatto tipico, inglobando le considerazioni soggettive nella colpevolezza; quanti, invece, sostengono l’esistenza di un disvalore personale nel fatto tipico, nel limitato senso di un’attribuibilità psicologica del fatto all’autore (per altro, in conformità più a un principio di determinatezza che di personalità della responsabilità penale). Per il primo orientamento, cfr. Mantovani F., Diritto penale. Parte generale, Milano., 2017, p. 277 ss.; Fiandaca, Musco, Diritto penale. Parte generale, VIII ed., Torino, 2019, p. 207; Marinucci, Dolcini, Gatta, Manuale di diritto penale: parte generale, XII ed., Milano, 2023, pp. 243–249, 389 ss.; Padovani, Diritto penale, Milano, 2023, pp. 130–132; De Francesco, Diritto penale: principi, reato, forme di manifestazione, II ed., Torino, 2022, pp. 205–207; Pulitanò, Diritto penale, V ed., Torino, 2013, pp. 62–65. Per il secondo, Moccia, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, cit., p. 141; Cavaliere, Riflessioni intorno a oggettivismo e soggettivismo nella teoria del reato, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, vol. II, Milano, 2006, p. 1448 ss. (spec. 1461).
[17] Tra le affermazioni più vigorose possono ricordarsi quelle di Bettiol, Sul diritto penale dell’atteggiamento interiore., cit., p. spec. 6-10; Morselli, Il ruolo dell’atteggiamento interiore nella struttura del reato, cit., pp. 91–92; Zuccalà, L’infedeltà nel diritto penale, cit., pp. 211, 251.
[18] Si esprime contro un diritto penale dell’atteggiamento interiore la dottrina maggioritaria: cfr. Angioni, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, p. 116 ss.; Mazzacuva N., Il disvalore di evento nell’illecito penale: l’illecito commissivo doloso e colposo, cit., p. 42 ss., 219 ss.; Id., Il soggettivismo nel diritto penale: tendenze attuali ed osservazioni critiche, in Foro it., 5, 1983, 45 ss.; Gallo E., Attentato (delitto di), in Appendice del Nss. D.I., Torino, 1980, p. 566 (nt. 38); Sgubbi, Uno studio sulla tutela penale del patrimonio: libertà economica, difesa dei rapporti di proprietà e reati contro il patrimonio, Milano, 1980, pp. 24, 223, 236 ss.; Moccia, Tutela penale del patrimonio e principi costituzionali, Padova, 1988, pp. 8, 121, 123 ss.; Marinucci, Il reato come azione, Milano, 1971, p. 173 ss. (spec. 177 ss.); Bricola, Teoria generale del reato, cit., p. 65 ss., 87–88; Fiorella, Reato (dir. pen.), cit., p. 781; Fornasari, Diritto penale liberale e derive autoritarie: riflessi nel pensiero del giovane Giuseppe Bettiol, in Dallo Stato Costituzionale di diritto allo Stato di polizia?, a cura di Riondato, Padova, 2012, p. 61. Nella manualistica, cfr. Mantovani F., Diritto penale. Parte generale, cit., p. 120; Fiandaca, Musco, Dir. pen., parte gen., cit., p. 332; C. Fiore, S. Fiore, Diritto penale, cit., pp. 173, 415.
[19] La tesi della ricostruzione dommatica del reato alla luce delle norme costituzionali trova, ancora oggi, un caposaldo nel suo primo autorevole formulatore: Bricola, Teoria generale del reato, cit., passim; per una revisione critica, seppur con diversa intensità, cfr. Marinucci, Dolcini, Costituzione e politica dei beni giuridici, in Riv. it. dir. proc. pen., 2, 1994, 333 ss.; Mazzacuva N., Diritto penale e Costituzione, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, Torino, 2000, p. 79 ss. (spec. 85 ss.).
[20] Cfr. supra, nota 16, in relazione al secondo orientamento riportato.
[21] Ex multis, cfr. Mantovani F., Diritto penale. Parte generale, cit., pp. 120–121; Fiandaca, Musco, Dir. pen., parte gen., cit., p. 3; Moccia, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie del sistema penale, Napoli, 2000, p. 15; Ferrajoli, Diritto e ragione, Roma, 1990 (II ed.), p. 483 ss.; Manna, Manuale di diritto penale: parte generale, II ed., Milano, 2021, p. 80. Marinucci, Dolcini, Gatta, Manuale di diritto penale, cit., p. 242. Pagliaro, Principi di diritto penale – parte generale, Milano, 2000, pp. 627–628.
[22] La ratio garantistica del principio di materialità ha imposto di riferirsi solo alle circostanze aggravanti soggettive; tuttavia, il divieto di dare rilevanza anche a circostanze attenuanti di tal genere ci sembra riposi sui principii di uguaglianza e di certezza del diritto (artt. 3 e 25 cost.): diversamente, potrebbe corrersi il rischio di una ‘concessione’ legislativa di un trattamento di favore per un delinquente, il cui atteggiamento interiore sembri rispondere più fedelmente alla contingente ‘morale di governo’ o comunque all’etica della maggioranza.
[23] Già in passato denunciava questo aspetto Mazzacuva N., Il disvalore di evento nell’illecito penale: l’illecito commissivo doloso e colposo, cit., p. 19 ss.; più di recente, si è espresso in tal senso anche Cavaliere, Il furore casistico nella recente legislazione penale. In particolare: circostanze e soggettivismo, in AA.VV., Scritti in onore di Nicola Mazzacuva, a cura di Amati, Foffani, Guerini, Pisa, 2023, p. 65 ss.
[24] Ad onor del vero, è proprio l’offensività, più che la materialità, a costituire il tradizionale argomento contro un diritto penale dell’autore. Sotto il profilo logico-giuridico, l’alternativa offesa/autore (sullo sfondo neutrale della condotta) è ben esposta già in Calvi, Tipo criminologico e tipo normativo d’autore, cit., p. 83 ss.
[25] Per tale ragione, è ormai più agevole fare riferimento alla residua dottrina minoritaria: cfr., ad es. Zuccalà, Sul preteso principio di necessaria offensività del reato, in Studi in memoria di Giacomo Delitala, vol. III, Milano, 1984, p. 1700. Non sono mancate, per altro, opinioni tese a ridimensionare in qualche misura la portata del principio: ad es., secondo Donini, Teoria del reato. Una introduzione, cit., pp. 28–29, 46, quello di offensività sarebbe un principio non dimostrativo, ma di indirizzo politico o comunque argomentativo (e dunque utilizzabile “in misura molto parziale” dalla Corte costituzionale nei giudizi d’incostituzionalità); per un ripensamento, cfr., successivamente, Id., Il principio di offensività. Dalla penalistica italiana ai programmi europei, in Dir. pen. cont. – riv. trim., 2013, 15 ss.
[26] Cfr. Corte cost., sentt. n. 249/2010, in tema di aggravante della clandestinità, e 251/2012, in materia di recidiva reiterata.
[27] Cfr. ad es. Cavaliere, Il furore casistico nella recente legislazione penale. In particolare: circostanze e soggettivismo, cit., p. 65 ss. In passato, aveva offerto un chiaro avvertimento Calvi, Tipo criminologico e tipo normativo d’autore, cit., p. 272, secondo cui il diritto penale d’autore (e persino un tipo normativo d’autore) può celarsi dietro ogni norma, comunque qualificata, che leghi delle conseguenze sanzionatorie al modo d’essere dell’autore. Contra, autorevolmente, Bricola, Teoria generale del reato, cit., p. 67 (nota 9) secondo cui la concezione realistica del reato non avrebbe forza espansiva fino agli elementi accidentali del reato.
[28] Anche sul punto, in chiari termini, cfr. Cavaliere, Il furore casistico nella recente legislazione penale. In particolare: circostanze e soggettivismo, cit., p. 575 ss.; in passato, v. anche Moccia, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie del sistema penale, cit., p. 99 ss.
[29] Per la travagliata storia degli artt. 502 ss. c.p. e l’ambiguo percorso seguito dalla Corte costituzionale, in generale cfr. Fiandaca, Musco, Diritto penale. Parte speciale 1, VI ed., Bologna, 2021, p. 708 ss. (spec. 714); La Cute, Serrata, in Enc. dir., vol. XLII, Milano, 1990, p. 230 ss. Nonostante le critiche siano state generalmente rivolte al venir meno del bene giuridico fascista dell’“ordine del lavoro” a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione, riteniamo che un più sicuro argomento d’incostituzionalità sarebbe la riferibilità dell’ipotesi a un paradigma di diritto penale dell’atteggiamento interiore.
[30] Per un quadro generale, cfr. Furia, I delitti contro il sentimento per gli animali, in Trattato di diritto penale, a cura di Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa, vol. II, Milano, 2022, p. 4372 ss., ove per altro è condiviso il proposito dell’eliminazione di un tal elemento costitutivo, a causa delle profonde incertezze dommatiche e applicative (Ivi, p. 4400-4403).
[31] Cfr. infra cap. II, sez. II, par. 3 ss.
[32] Per un commento all’ordinanza di rimessione, con riflessioni anche sul tema della pena naturale, cfr. Florio, La riscoperta della poena naturalis: note a margine di una recente questione di costituzionalità, in Leg. pen. (riv. web), 15 novembre 2023.
[33] Possono ricordarsi il § 60 del c.p. tedesco, il § 34 del c.p. austriaco, l’art. 29 del c.p. svedese.
[34] Al tema è possibile fare solo dei brevi cenni in ragione della densità e complessità delle questioni che vi sono sottese. Nella dottrina italiana, ha dedicato diversi studi al tema della pena naturale M. Ronco, con particolare attenzione ai profili di ricostruzione storico-dommatica; in particolare, dell’illustre Autore possono menzionarsi Il problema della pena: alcuni profili relativi allo sviluppo della riflessione sulla pena, Torino, 1996, p. 161 ss.; Retribuzione e prevenzione generale (già in Studi in ricordo di Gian Domenico Pisapia, I, Milano, 2000), in Scritti patavini, vol. II, Torino, 2017, p. 1433 ss.; possono inoltre ricordarsi i commenti al § 60 StGB in Paliero, Minima non curat praetor. Ipertrofia del diritto penale e decriminalizzazione dei reati bagatellari, Padova, 1985, p. 431 ss.; Fornasari, I principi del diritto penale tedesco, Milano, 1993, pp. 524–525. Nella dottrina tedesca, al di là dei commenti che i principali manuali dedicano al § 60 StGB, può rinviarsi alle recenti indagini di Sprotte, Die poena naturalis im Straf- und Strafzumessungsrecht, Frankfurt am Main, 2013, passim. Anche la scienza penalistica spagnola ha offerto un ampio contributo alla riflessione sul tema: cfr. Bustos Rubio, El reflejo de la poena naturalis en la poena forensis. Posibilidades en derecho penal español, in «Teoría & derecho», 19, 2016, 119 ss.; Mapelli Caffarena, Pena natural –“poena naturalis”– o daños colaterales en la realización de una infracción penal, in Estudios de Derecho penal. Homenaje al Profesor Santiago Mir Puig, a cura di Silva Sánchez, Queralt Jiménez, Corcoy Bidasolo, Castiñeira Palou, Buenos Aires, 2017, p. 1003 ss.; Silva Sánchez, Malum passionis: mitigar el dolor en el derecho penal, Barcelona, 2018, passim.
[35] Conferma quest’impressione il commento a caldo di Zincani M., Pene naturali: ci rivedremo presto. Un commento a prima lettura della sentenza n. 48/2024 della Corte costituzionale, in Giurisprudenza penale web, 3, 2024.
[36] Cfr. istruttivamente già Calvi, Tipo criminologico e tipo normativo d’autore, cit., p. 513 ss.
[37] Cfr. Roxin, Politica criminale e sistema del diritto penale, Napoli, 1998, pp. 51–52, 69 ss., 183 ss.
[38] Contro l’idea della retribuzione, per tutti, cfr. Moccia, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, cit., p. 41 ss. e 92–95. Non si ignora che alla teorica della pena naturale abbiano contribuito anche sostenitori di teorie relative della pena, per i quali nessuna esigenza di prevenzione generale o speciale sussisterebbe rispetto a un reo che abbia già sofferto una pena naturale; tuttavia, l’assunto non sembra corretto, soprattutto ove si valuti la prevenzione speciale come risocializzazione e la prevenzione generale come orientamento culturale. In caso di pena naturale “materiale”, il ladro che perde una mano nel tentativo di furto sembra necessitare comunque di una forma di reinserimento sociale, salva ogni diversa forma di assistenza cui avrà naturalmente diritto; la pena, inoltre, contribuisce a orientare i consociati intorno al disvalore insito nell’offesa al patrimonio altrui, nonché ai rischi per la salute che l’attività criminosa può comportare. In caso di pena naturale ‘morale’, il padre, automobilista imprudente, che perde il figlio nel terribile incidente provocato, non per questo diviene più esperto alla guida o maggiormente capace di valutare le situazioni di rischio connesse a una condotta imprudente; d’altra parte, resta l’esigenza di orientare i consociati al massimo rispetto delle norme cautelari in attività intrinsecamente rischiose. Riflessioni analoghe propone il recente commento di Padovani, La «pena naturale» al vaglio della Corte costituzionale, in Sistema penale (riv. web), 17 aprile 2024. Nulla toglie, ovviamente e come già segnalato, che istanze di proporzione entrino nel giudizio di colpevolezza, anche nell’ottica di una non-desocializzazione del reo. Quanto alle conseguenze di un approccio teleologico (legato agli scopi di prevenzione generale positiva e prevenzione speciale positiva) sul momento dell’inflizione della pena, in generale cfr. Moccia, op. ult. cit., pp. 110–111.
[39] Cass., sez. un., ud. 18/12/2008, dep. 21/01/2009, n. 2437, su cui, per alcune riflessioni, si segnalano Fiandaca, Luci ed ombre della pronuncia a sezioni unite sul trattamento medico-chirurgico arbitrario – Nota a Cass. pen. sez. un., 18/12/2008, (ud. 18/12/2008, dep. 21/01/2009), n.2437, in Foro it., 6, 2009, 306 ss. e Viganò, Omessa acquisizione del consenso informato del paziente e responsabilità penale del chirurgo: l’approdo (provvisorio?) delle sezioni unite, in Cass. pen., 5, 2009, 1811 ss. Questa sentenza ha portato a compimento il lento e articolato percorso giurisprudenziale in tema di responsabilità medica, iniziato negli anni ‘90, su cui si era soffermato approfonditamente Viganò, Profili penali del trattamento chirurgico eseguiti senza il consenso del paziente, in Riv. it. dir. proc. pen., 1, 2004, 141 ss. Per una diversa prospettiva, maggiormente attenta alla fattispecie oggettiva (specie in relazione al trattamento arbitrario con esito infausto) mediante la valorizzazione delle teorie dell’imputazione oggettiva dell’evento, cfr. Masarone, Profili di rilevanza penale del trattamento medico-chirurgico arbitrario, in Crit. dir., 1–3, 2010, 25 ss. (spec. 36 ss.).
[40] Ivi, p.to 8, motivazione in diritto.
[41] Ivi, p.to 9, motivazione in diritto.
[42] Ivi, p.to 3, motivazione in diritto, ove si richiama l’orientamento di Cass., Sez. IV, n. 28132/2001.
[43] Possono ricordarsi, tra le difese maggiormente vigorose, le pronunce della Cass., Sez. IV, n. 34521/2010 (che, nella sua particolarissima impostazione, affronta il tema nelle seguenti parti motive: sez. II, p.to 6, lett. C) e sez. III, p.to 3), Sez. V, n. 16678/2015 (considerato in diritto, p.to 5); Sez. I, n. 14776/2017 (considerato in diritto, p.to 11.2); Sez. VI, n. 18944/2022 (considerato in diritto, p.to 4.2).
[44] Emblematica è l’affermazione contenuta in Cass. Sez. V, n. 16678/2015 poc’anzi citata, secondo cui: «In questa maniera non si trasforma il reato di cui all’art. 582 cod. pen., pacificamente a dolo generico, in reato a dolo specifico, come opinato nella sentenza impugnata e da taluni commentatori, giacché la “specificità” attiene ai motivi dell’agere e agli scopi dell’agente, mentre, nella specie, la finalità curativa pone la volontà del medico in rapporto di contraddizione con l’evento tipico. Egli, infatti, non vuole né accetta di procurare una “malattia”, anche se la prevede o può prevederla; opera ugualmente, per obbligo professionale e perché “costretto” dalla natura del male che è chiamato a curare. In ciò sta, infatti, la fondamentale differenza tra il medico e qualsiasi volgare attentatore alla incolumità altrui […]», salvo poi aggiungere che gli insegnamenti delle Sezioni Unite valgono «[…] alla fondamentale condizione – più volte espressa e che qui viene ulteriormente rimarcata – che l’opera del medico sia inequivocabilmente sorretta da un “finalismo curativo” non inquinato da scopi e interessi diversi, come sono quelli rimarcati nella sentenza impugnata (scopi di lucro, di carriera, o sperimentali, che vanno – comunque – pur sempre provati), i quali, se sussistenti, inciderebbero proprio sulla fonte di legittimazione dell’attività medica».
[45] È stato affermato che «la norma non richied[e], conviene ribadirlo, alcun dolo specifico sub specie di animus nocendi o simili»: in questi termini, Viganò, Omessa acquisizione del consenso informato del paziente e responsabilità penale del chirurgo: l’approdo (provvisorio?) delle sezioni unite, cit., 1829. Per altro, occorre segnalare come una parte della dottrina (riconosca e) accolga favorevolmente l’impianto soggettivizzante in tema di trattamenti medici arbitrari, enfatizzando la portata dei moventi: cfr. Cappellini, L’orizzonte del dolo nel trattamento medico arbitrario. Un’indagine giurisprudenziale, in Riv. it. med. leg., 3, 2016, 933 ss. (spec. 951, 955 ss.). Bisogna pure far presente come l’intervento della l. n. 219/2017, sul consenso informato, abbia lasciato irrisolti i principali problemi in esame; per un commento (fermamente contrario alla centralità della finalità terapeutica per la configurazione del dolo), cfr. Piras, L’atto medico senza il consenso del paziente. A dieci anni dalle Sezioni unite e dopo la legge 219 del 2017, in Sistema penale, 11, 2019, 11 ss. (spec. 16 ss.)
[46] Per una sintetica ma efficace ricostruzione, cfr. Romano B., Delitti contro la sfera sessuale della persona, Milano, 2022, pp. 106–111.
[47] In dottrina, cfr. Mantovani F., Diritto penale. Parte speciale, 1, Milano, 2019 (VII ed.), p. 429 ss. All’interno dell’orientamento oggettivo, per altro, convivono dei sotto-indirizzi, che non possono essere approfonditi in questa sede; per un’illustrazione, cfr. Cappai, La qualificazione delle «violenze» prive di un contatto «corpore corpori» alla prova della recente giurisprudenza in tema di atti sessuali, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim., 2, 2017, 43 ss. Per una recente, pregevole analisi a favore del rilievo dell’atto sessuale in termini rigorosamente oggettivi, cfr. Beguinot, I reati contro la sfera sessuale della persona al tempo di Internet, tra criticità tradizionali ed esigenze di prevenzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 3, 2023, spec. 1006 ss. In passato, aveva apportato efficaci critiche contro gli orientamenti soggettivistici in tema di atti sessuali Picotti, Il dolo specifico: un’indagine sugli «elementi finalistici» delle fattispecie penali, Milano, 1993, p. 139 ss. (spec. 150). In giurisprudenza, tra le affermazioni più recenti, può ricordarsi Cass., Sez. III, n. 10923/2019, considerato in diritto, p.to 3.1, secondo cui «ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale, non è necessario che la condotta sia specificamente finalizzata al soddisfacimento del piacere sessuale dell’agente, essendo sufficiente che questi, indipendentemente dallo scopo perseguito, sia consapevole della natura oggettivamente sessuale dell’atto posto in essere volontariamente, ed in particolare del suo carattere invasivo o lesivo della libertà sessuale della persona offesa non consenziente».
[48] In dottrina, cfr. ancora recentemente Fiandaca, Musco, Diritto penale. Parte speciale. Vol. 2, tomo I – I delitti contro la persona, VI ed., Torino, 2024, pp. 332–335, che mirano ad «attribuire una corretta collocazione agli impulsi e alle intenzioni soggettive dell’autore del fatto»; Antolisei, Grosso, Manuale di diritto penale. Parte speciale, XVI ed., Milano, 2016, p. 227, secondo cui è sessuale “ogni sfogo dell’appetito di lussuria”; Marini, Delitti contro la persona, II ed., Torino, 1996., p. 296, secondo cui gli atti devono essere «[…] legati a motivazioni e/o pulsioni erotiche […]». In giurisprudenza, questo orientamento è stato affermato anche a seguito della riforma del 1996; tra le ultime pronunce, particolarmente decisa è la presa di posizione in Cass., Sez. V, n. 11598/2010, ove si legge che «ai fini della definizione di “atti sessuali” di cui all’art. 609-bis c.p. non è indispensabile il requisito del contatto fisico diretto con il soggetto passivo, ma è sufficiente che l’atto abbia oggettivamente coinvolto la corporeità sessuale della persona offesa e sia finalizzato ed idoneo a compromettere il bene primario della libertà dell’individuo nella prospettiva dell’agente di soddisfare od eccitare il proprio istinto sessuale». Anche nella giurisprudenza di merito riecheggia detta tesi; recentemente, cfr. ad es. le note critiche di Sicignano, La cd. «palpata breve» nella violenza sessuale, tra fattispecie oggettiva ed elemento soggettivo. Nota a Trib. Roma, sez. V penale, 6/7/2023, in Dir. pen. proc., 3, 2024, 374 ss., spec. 378–379.
[49] Cfr. ancora recentemente, per entrambe le fattispecie, Caroli, Quando guardare un reato. Accesso intenzionale a materiale pedopornografico e novità normative in materia di reati sessuali nei confronti di minori, in Dir. pen. proc., 7, 2022, 973 ss.-spec. 978–980. Fiandaca, Musco, Diritto penale. Parte speciale. Vol. 2, tomo I – I delitti contro la persona, cit., p. 239. In relazione alla detenzione (ma ciò ci sembra valido a fortiori per l’accesso), cfr. Delsignore, L’incriminazione della detenzione di materiale pedopornografico (art. 660-quater c.p.), in Trattato di diritto penale, a cura di Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa, Milano, 2022, p. 5891 ss; Cadoppi, Sub art. 600quater, in Commentario delle norme contro la violenza sessuale e contro la pedofilia; aggiornata alle legge n. 38 del 2006, IV ed., Padova, 2006, p. 229; Cocco, Può costituire reato la detenzione di pornografia minorile?, Riv. it. dir. proc. pen., 3, 2006, p. 863 ss.; Flora, Verso un diritto penale del tipo d’autore?, Riv. it. dir. proc. pen., 2, 2008, pp. 566–567; Maugeri, I reati sessualmente connotati e diritto penale del nemico, Pisa, 2021, p. 43 ss.; Padovani, Legge 3/8/1998 n. 269 Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù. Art. 1: Modifiche al codice penale, in Leg. pen., 1/2, 1999, 53–55. Contra, afferma l’offensività della fattispecie di detenzione Mantovani F., Diritto penale. Parte speciale, 1, cit., p. 567 ss.
[50] Si fa riferimento a Cass. Sez. III, n. 36572/2023.
[51] Il termine ‘consapevolmente’, di cui al co.1, viene interpretato come una sorta di movente qualificato: « […] al fine di scongiurare il rischio che un utente ignaro che, per caso fortuito o per mera curiosità si trovi ad accedere ad una chat dai contenuti penalmente rilevanti o nella quale gli stessi siano stati solo occasionalmente immessi, sia chiamato a rispondere in via automatica del reato in contestazione, è la consapevolezza della sua partecipazione ad una chat che presenti contenuti integranti la violazione del relativo un precetto penale, e dunque costituita allo specifico fine di condividere materiale pedopornografico»; è così necessaria la «la dimostrazione di siffatta consapevolezza, che rileva sul piano dell’elemento psicologico del delitto ex art. 600-quater comma 1 c.p.» [considerato in diritto, p.to 1]. Che, invece, il dolo del reato sia generico, tuttalpiù intenzionale, è assunto ampiamente condiviso in dottrina: cfr. Romano B., Delitti contro la sfera sessuale della persona, cit., p. 221; Fiandaca, Musco, Diritto penale. Parte speciale. Vol. 2, tomo I – I delitti contro la persona, cit., p. 241; Mantovani F., Diritto penale. Parte speciale, 1, cit., p. 570.
[52] Cfr. Pistorelli, L’attenzione spostata sulla perversione del reo, in Guida al diritto – il sole 24 ore, 9, 2006, 51 ss.; Cadoppi, L’assenza di cause di non punibilità mette a rischio le buone intenzioni, in Guida al diritto – il sole 24 ore, 9, 2006, 40 ss.
[53] Per delle efficaci sintesi del dibattito antecedente alla pronuncia, si segnalano Pulitanò, I confini del dolo. Una riflessione sulla moralità del diritto penale, Riv. it. dir. proc. pen., 1, 2013, 22 ss.; Donini, Il dolo eventuale: fatto-illecito e colpevolezza. Un bilancio del dibattito più recente, Dir. pen. cont., 1, 2014, 70 ss.
[54] «Non rilevano invece, in quanto tali, gli atteggiamenti della sfera emotiva, gli stati d’animo. L’ottimismo ed il pessimismo, la speranza, naturalmente, non hanno un ruolo significativo nell’indagine sull’atteggiamento interno in rapporto alla direzione della condotta verso l’offesa del bene giuridico. Risulta però spesso interessante comprendere le ragioni che hanno determinato la speranza o altro atteggiamento emotivo. E dunque non può neppure dirsi che la considerazione della sfera emotiva sia del tutto estranea al nostro tema» (considerato in diritto, p.to 50). Ancora, si legge «come si è ripetutamente enunciato, gli stati affettivi, emozionali, l’ottimismo, il pessimismo, sono in linea di principio assai poco influenti ed anzi, secondo molti, irrilevanti» (considerato in diritto, p.to 51.10).
[55] Così in considerato in diritto, p.to 51.6
[56] «Senza dubbio l’ottimismo o il pessimismo, la rimozione, il chiudere gli occhi, gli stati affettivi in generale, non risolvono il problema del dolo eventuale. Non è tuttavia privo di interesse tentare di cogliere se e quale iter abbia condotto ad un atteggiamento fiducioso. Il caso Oneda è tipico. I genitori, oltre a non augurarsi per nulla la morte della figlia, avevano maturato la speranza che gli interventi autoritativi imponessero i trattamenti salvavita, evitando loro condotte ritenute peccaminose» (considerato in diritto, p.to 51.10)
[57] Specialmente ai punti 51.3 e 51.9 della motivazione. Nel primo, si legge «[…] La personalità, esaminata in concreto e senza categorizzazioni moralistiche, può mostrare le caratteristiche dell’agente, la sua cultura, l’intelligenza, la conoscenza del contesto nel quale sono maturati i fatti; e quindi l’acquisita consapevolezza degli esiti collaterali possibili. Insomma, essa ha un peso indiscutibile, soprattutto nell’ambito del profilo conoscitivo del dolo». Nel secondo, la valorizzazione del contesto lecito o illecito in cui si è svolto il fatto contribuisce a indiziare il giudizio sulla sussistenza del dolo; la Corte si mostra consapevole del rischio che, in tal modo, il giudizio si tramuti in un giudizio sull’autore: «Una situazione illecita di base indizia più gravemente il dolo, mentre un contesto lecito solitamente mostra un insieme di regole cautelari ed apre la plausibile prospettiva dell’errore commesso da un agente non disposto ad accettare fino in fondo conseguenze che lo collocano in uno stato di radicale antagonismo rispetto all’imperativo della legge, tipico del dolo. Naturalmente tale criterio, al pari del resto di tutti gli altri cui si è fatto riferimento, va utilizzato con cautela, ed in accordo con le altre emergenze del caso concreto. Qui si tratta, in particolare, di evitare che il giudizio sulla colpevolezza per il fatto concreto possa nascondere un giudizio sul tipo d’autore». Queste deviazioni indiziarie dal fatto all’autore non sembrano aver impensierito molto la dottrina; in senso adesivo, cfr. Fiandaca, Le Sezioni Unite tentano di diradare il «mistero» del dolo eventuale. Nota a Cass. pen., Sez. Unite, 18 settembre 2014, n. 38343, Riv. it. dir. proc. pen., 4, 2014, 1950. In passato, contro questa posizione ci sembrano porsi le parole di Canestrari, La definizione legale del dolo: il problema del dolus eventualis, in Riv. it. dir. proc. pen., 3, 2001, 927–928.
[58] Particolarmente attento a questo profilo critico, mosso da un’apprezzabile motivazione garantistica, è il contributo di Ronco, La riscoperta della volontà nel dolo. Nota a Cass. pen., Sez. Unite, 18 settembre 2014, n. 38343, in Riv. it. dir. proc. pen., 4, 2014, 1953 ss. (spec. 1968-1969).
[59] Una simile considerazione è presente anche in C. Fiore, S. Fiore, Diritto penale, cit., pp. 295-296 (spec. nt. 2).
[60] Cfr. Fiandaca, Le Sezioni Unite tentano di diradare il «mistero» del dolo eventuale. Nota a Cass. pen., Sez. Unite, 18 settembre 2014, n. 38343, cit., p. 1948. Si esprime contro il dictum della Cassazione, ma per un diverso motivo (perché speranza e volontà non sono coincidenti ontologicamente) anche Ronco, La riscoperta della volontà nel dolo. Nota a Cass. pen., Sez. Unite, 18 settembre 2014, n. 38343, cit., p. 1969.
[61] Fiandaca, Le Sezioni Unite tentano di diradare il «mistero» del dolo eventuale. Nota a Cass. pen., Sez. Unite, 18 settembre 2014, n. 38343, cit., p. 1952.
[62] Per questa definizione, Mantovani F., Diritto penale. Parte generale, cit., p. 319. Per delle approfondite analisi, attente ai profili di carattere storico e sistematico, possono ricordarsi gli studi di Picotti, Il dolo specifico: un’indagine sugli «elementi finalistici» delle fattispecie penali, cit., passim.; Gelardi, Il dolo specifico, Padova, 1996, passim.
[63] In questi termini, già Sgubbi, Uno studio sulla tutela penale del patrimonio, cit., p. 232. Quest’ultimo, nel prosieguo, offre degli istruttivi spunti di riflessione anche su casi avrebbero potuto essere definiti di dolo generico “specificizzato”, nella nomenclatura proposta al par. 3.1; dell’opera, ormai classica, resta ancora vivo l’insegnamento relativo all’attenzione metodologica al momento ermeneutico, quale occasione di emersione di forme di diritto penale dell’autore.
[64] In relazione al dolo specifico e ai relativi rischi, ancora attuali ed istruttive sono le pagine di Mazzacuva N., Il disvalore di evento nell’illecito penale: l’illecito commissivo doloso e colposo, cit., p. 219 ss. (spec. 223 ss.).
[65] Ad esempio, Cass. sez. VI, n. 28009/2014 asseritamente conduce una interpretazione volta a evitare “un diritto penale dell’intenzione e del tipo d’autore”. La pronuncia in parola ha costituito un punto di riferimento per le sentenze dell’ultimo decennio in tema di terrorismo, che spesso si sono limitate a richiamarne i principii ermeneutici. Altrettanto enuncia, più di recente, Cass., sez. I, n. 25158/2022, che mira a evitare la configurazione di un diritto penale dell’atteggiamento interiore, ove l’incriminazione riposerebbe, nelle parole della Corte, solo sul ‘desiderio’ politico dell’agente. Una parte della dottrina, d’altronde, in tema di terrorismo riconosce ormai (con certa rassegnazione) alla magistratura un ruolo di “conservazione dei limiti costituzionali e sovranazionali” (in questi termini, Pelissero, La legislazione antiterrorismo. Il prototipo del diritto penale del nemico tra garanzie e rischi di espansione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2, 2020, 770). Altra parte della dottrina, invece, ha sottolineato come, in alcuni casi, la giurisprudenza abbia proceduto a una “dilatazione applicativa” della fattispecie, con il rischio di “svuotamento” dei requisiti costitutivi, mediante il ricorso a “motivazioni apparenti”: cfr. Cavaliere, 270-sexies, in Codice penale, a cura di Padovani, vol. I, VII ed., Milano, 2019, pp. 1818–1819.
[66] Cass., sez. VI, n. 28009/2014, considerato in diritto, pt. 4.1 e 4.6.
[67] Cass. sez. VI, n. 28009/2014, considerato in diritto, p.tp 4.4
[68] Cfr., ad es., le notazioni critiche di Masarone, Associazione con finalità di terrorismo e custodia cautelare in carcere, in Dir. pen. proc., 4, 2021, 510 ss., spec. 517-518.
[69] Cass. S.U. n. 41570/2023. Si segnala il commento di Amarelli, Le sezioni unite dilatano il dolo specifico nel delitto di furto: un caso di cripto-analogia in malam partem con effetti irragionevoli?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1, 2024, 179 ss., nonché Valente Bagattini, Le Sezioni Unite sul fine di profitto nel delitto di furto, in Dir. pen. proc., 4, 2024, 478 ss.
[70] Cass. S.U. n. 8545/2019
[71] Riportano indietro il contrasto sino al diritto romano Fiandaca, Musco, Diritto penale. Parte speciale. Vol. 2, tomo I – I delitti contro la persona, cit., p. 37.
[72] Così Ivi, p. 38.
[73] Per tale definizione, Mantovani F., Diritto penale. 2: Parte speciale Delitti contro il patrimonio, VIII ed., Milano, 2021, p. 43.
[74] Cass. S.U. n. 41570/2023, p.to 2.3.
[75] L’esempio è proposto in Fiandaca, Musco, Diritto penale. Parte speciale. Vol. 2, tomo I – I delitti contro la persona, cit., p. 38.
[76] Si è anzi precisamente sostenuto che, accogliendo l’accezione lata del fine di profitto, «il fenomeno sembra somigliare non poco ai profili della vecchia Gesinnung»: così, Carmona, Il fine di profitto nel delitto di furto. Presupposti «culturali» e struttura normativa, Milano, 1983, p. 21 ss. In senso parzialmente diverso Amarelli, Le sezioni unite dilatano il dolo specifico nel delitto di furto: un caso di cripto-analogia in malam partem con effetti irragionevoli?, cit., pp. 189, 193, il quale ritiene condivisibile l’accoglimento della tesi estensiva, purché sia conservato lo scopo propriamente di profitto quale fulcro dell’incriminazione; inoltre, andrebbe sempre verificata l’adeguatezza oggettiva della condotta rispetto allo scopo effettivamente perseguito dall’agente; in mancanza di queste due verifiche, rischiano di essere confuse le fattispecie incriminatrici in concreto applicabili, avendosi sempre un furto in luogo delle più miti figure del furto d’uso, della violenza privata, dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, etc. Senonché, non sembra che l’analisi proposta si sottragga alle critiche qui formulate, posto che, nello sviluppo della stessa, il riferimento utile a discriminare le diverse fattispecie delittuose pare essere il sentimento che muove l’autore del fatto.
[77] Seppur con argomenti diversi, l’accoglimento della tesi restrittiva è stata da tempo patrocinata da una parte autorevole, seppure minoritaria, della dottrina. Cfr. già Leone, Per una revisione del concetto di profitto nel delitto di furto, in Scritti giuridici in onore di Vincenzo Manzini, Padova, 1954, p. 285 ss.; Bricola, Dolus in re ipsa: osservazioni in tema di oggetto e di accertamento del dolo, Milano, 1960, p. 52 nt. 78; Pecorella, Furto (dir. pen.), in Enc. dir., vol. XVIII, Milano, 1969, p. 348 ss. (spec. 352 ss.); Sgubbi, Uno studio sulla tutela penale del patrimonio, cit., pp. 152, 158 ss., 203 ss. Più di recente, Gelardi, Il dolo specifico, cit., pp. 172–180.
[78] Si tratta della già citata sent. Cass. S.u. n. 8545/2019; tra i diversi commenti, si segnalano Apollonio, Le Sezioni Unite rivisitano istituti generali per definire lo statuto applicativo dell’agevolazione mafiosa di cui all’art. 416-bis.1 c.p. Nota a Cass. pen., sez. un., 19 dicembre 2019, n.8545, in Cass. pen., 6, 2020, 2232 ss.; P. Bartolo, L’aggravante della agevolazione mafiosa si “applica” anche al concorrente che ha agito con dolo eventuale? Nota a: Cass. pen., sez. un., 19 dicembre 2019, n.8545, in Cass. pen., 3, 2021, 933 ss.; Calabrese, La sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione a proposito della natura della aggravante della finalità di agevolazione mafiosa. Nota a Cass. Pen., Sez. Sez. un., data udienza Ud. 19 dicembre 2019 (dep. 3 marzo 2020), n. 8545, in Arch. pen. (riv. web), 2, 2020; Candore, Nota a Cass. Pen., Sez. Sez. un., data udienza Ud. 19 dicembre 2019 (dep. 3 marzo 2020), n. 8545, in Cass. pen., 6, 2020, 2251 ss. Guerini, Le Sezioni unite si pronunciano sulla natura soggettiva dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa e sul regime di comunicabilità ai correi, in Dir. pen. proc., 6, 2020, 763 ss.
[79] Cfr. De Francesco, Dogmatica e politica criminale nei rapporti tra concorso di persone ed interventi normativi contro il crimine organizzato, in AA. VV., Lotta alla criminalità organizzata: gli strumenti normativi, a cura di Giostra, Insolera, Milano, 1995, p. 70 ss.; De Vero, La circostanza gravante del metodo e del fine di agevolazioni mafiosi: profili sostanziali e processuali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1, 1993, 42 ss. (spec. 53); Squillaci, La circostanza aggravante della c.d. agevolazione mafiosa nel prisma del principio costituzionale di offensività. Nota a Cass. pen., Sez. I, 20 marzo 2011 (ud. 8 febbraio 2011), in Arch. pen. (riv. web), 1, 2011, 13. Più di recente, Messori, La comunicabilità delle circostanze al correo: una lettura costituzionalmente imposta dell’art. 118 c.p., in Arch. pen. (riv. web), 3, 2021, 20 ss.
[80] Cfr. Cass. S.u., sent. n. 8545/2019, ove si afferma: «La forma aggravata in esame esige quindi che l’agente deliberi l’attività illecita nella convinzione di apportare un vantaggio alla compagine associativa: è necessario però, affinché il reato non sia privo di offensività, che tale rappresentazione si fondi su elementi concreti, inerenti, in via principale, all’esistenza di un gruppo associativo avente le caratteristiche di cui all’art. 416-bis c.p. ed alla effettiva possibilità che l’azione illecita si inscriva nelle possibili utilità, anche non essenziali al fine del raggiungimento dello scopo di tale compagine, secondo la valutazione del soggetto agente, non necessariamente coordinata con i componenti dell’associazione. Trattandosi invero di un’aggravante che colpisce la maggiore pericolosità di una condotta, ove finalizzata all’agevolazione, è necessario che la volizione che la caratterizza possa assumere un minimo di concretezza, anche attraverso una mera valutazione autonoma dell’agente, che non impone un raccordo o un coordinamento con i rappresentanti del gruppo e, soprattutto, non prevede che il fine rappresentato sia poi nel concreto raggiunto, pur essendo presenti tutti gli elementi di fatto, astrattamente idonei a tale scopo. È bene ribadire che tale finalità non deve essere esclusiva, ben potendo accompagnarsi ad esigenze egoistiche quali, ad esempio, la volontà di proporsi come elemento affidabile al fine dell’ammissione al gruppo o qualsiasi altra finalità di vantaggio, assolutamente personale, che si coniughi con l’esigenza di agevolazione» (considerato in diritto, p.to 7).
[81] Nell’analizzare la differenza tra la condotta di concorso esterno e quella di agevolazione, si continua a sostenere che «[…] l’utilità dell’intervento può essere anche valutata astrattamente solo da uno degli agenti, senza estensione ai componenti del gruppo, e del tutto estemporanea e fungibile rispetto all’attività delinquenziale programmata e, soprattutto, non necessariamente produttiva di effetti di concreta agevolazione»: cfr. Cass. S.u. sent. n. 8545/2019, considerato in diritto, p.to 9.
[82] Guardano con un certo ottimismo alla sentenza i commentatori citati supra, nota 78.
[83] In dottrina, segnala incidentalmente la necessaria «idoneità del delitto ad agevolare, se non l’intera associazione, almeno la sua attività in un determinato momento», Cavaliere, Associazione di tipo mafioso, in Trattato di diritto penale: parte speciale. 5: Delitti contro l’ordine pubblico, a cura di Moccia, Napoli, 2007, p. 468.
[84] Cass. S.u. n. 29541/2020, per un cui commento cfr. Braschi, La natura dei reati di ragion fattasi e il loro rapporto con la fattispecie di estorsione: alcuni chiarimenti dalle Sezioni unite, in Dir. pen. proc., 3, 2021, 314 ss. – ove, per altro, viene condivisa l’argomentazione soggettivistica della Corte (pp. 321-322).
[85] Cfr. sent. ult. cit., considerato in diritto, punti 13 ss.
[86] Cass., sez. II, n. 46097/2023. Quest’ultima, a dispetto di un asserito rispetto della decisione delle Sezioni unite, ne contesta sostanzialmente gli assunti.
[87] In verità, a un’analisi minuziosa, non può sfuggire come l’iter logico sia assai stravagante, passando dal soggettivo all’oggettivo: si parte dall’idea, ossequiosa del dictum delle S.U. Filardi, che l’interesse proprio attenga al piano psicologico del terzo; si dice che, però, il reato di estorsione non è a dolo specifico, ma a dolo generico, sicché l’interesse proprio non può che consistere nella rappresentazione e volontà dell’evento dell’estorsione; quest’ultimo consiste, appunto, nell’ingiusto profitto con altrui danno. Mediante il riferimento all’evento, tuttavia, si passa a delineare il contributo materiale del comportamento del terzo: per essere rilevante come estorsione, è necessario che vi sia, appunto, prima di tutto, un ingiusto profitto con altrui danno. Con questo articolato percorso logico, verosimilmente, si è voluta eludere la tesi tradizionale, condivisa dalle S.U. Filardi, che distingueva i reati di estorsione e di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in base a un criterio soggettivistico; in tal modo, si distinguono i due reati in base al profilo oggettivo; tuttavia, ai fini della distinzione, non si guarda più alla gravità della violenza (proporzionata o sproporzionata), come pure era stato proposto in giurisprudenza prima dell’intervento delle S.U., ma alla qualità dell’evento prodotto (esatto importo vantato dall’altrui diritto, con conseguente configurazione degli artt. 392-393 c.p., oppure extraprofitto, con configurazione dell’estorsione).
[88] Si fa riferimento a Cass. S.U. n. 40516/2016; per dei commenti, in generale concordi con le conclusioni della Corte, cfr. le note di Demuro, Dolo d’impeto, aggravante della crudeltà e componenti impulsive della condotta, in Riv. it. dir. proc. pen., 4, 2016, 1975 ss.; La Rosa, Le Sezioni unite ‘‘ribadiscono’’ la compatibilità tra dolo d’impeto e aggravante della crudeltà, in Giur. It., 5, 2017, 1214 ss. (spec. 1217).; Veneziani, Dolo d’impeto ed aggravante della crudeltà, in Dir. pen. proc., 5, 2017, 604 ss.
[89] Per una efficace definizione delle categorie in parola, cfr. Dolcini, La commisurazione della pena, Padova, 1979, p. 287 ss.,
[90] Così Demuro, Dolo d’impeto, aggravante della crudeltà e componenti impulsive della condotta, cit., 1979, il quale scrive «Affermare – come pure in sentenza – che la condotta crudele rileva nella sfera della colpevolezza, dell’atteggiamento interiore, rendendolo particolarmente riprovevole per la sua perversità, insistere poi sul contrassegno di spietatezza che tale condotta conferisce alla volontà illecita, significa in fondo esprimere un giudizio, una riprovazione personale su un singolo fatto e su un animo per come si è manifestato in quel fatto, senza che ciò comporti l’attribuzione di un’etichetta duratura all’autore». Al di là dell’eloquente riferimento al giudizio anche sull’animo dell’autore (ribadito pure Ivi, 1996, ove si afferma che l’aggravante investe “il profilo morale” dell’autore), va segnalato un altro dato: una “etichetta duratura all’autore”, in verità, esiste e consiste nella misura supplementare di pena che egli dovrà scontare. Il diritto penale dell’autore va guardato per i suoi risvolti concreti e non solo in un’ottica meramente astratta.
[91] Cfr. op. ult. cit., nonché Veneziani, Dolo d’impeto ed aggravante della crudeltà, cit., 606-607.
[92] Non sembra necessario riportare la copiosa elaborazione dottrinale sul punto. Nello sviluppare il concetto di colpevolezza in una dimensione preventiva della pena, un’autorevole dottrina propone di ricostruire la colpevolezza in senso normativo prescindendo da problemi di ontologica libertà o di subiettiva riprovevolezza; in specie, il giudizio di colpevolezza dovrebbe preoccuparsi di «stabilire la misura della presenza nel soggetto della capacità di recepire il dettato normativo e di orientare secondo i parametri da questo predisposti la sua risposta sanzionatoria». Così Moccia, Il diritto penale tra essere e valore, cit., p. 95.
[93] In questo senso, avrebbe maggiore coerenza l’affermazione secondo cui la crudeltà costituirebbe un attributo del dolo, ma emergerebbe una diversa criticità. Ad es., Demuro, Dolo d’impeto, aggravante della crudeltà e componenti impulsive della condotta, cit., 1994, nell’analizzare i profili di compatibilità tra dolo d’impeto e aggravante della crudeltà, scrive: «Non si capisce infatti, come la volontà dell’agente di infliggere sofferenze “aggiuntive” (fondamento dell’aggravante comune dell’articolo 61 n.4) rispetto a quelle ordinariamente implicate dalla produzione dell’evento possa trovare spazio nella struttura e nell’oggetto del dolo, cioè nella rappresentazione e volizione del fatto tipico, costituito da tutti gli elementi obiettivi positivamente richiesti per l’integrazione della singola figura di reato. Nella descrizione delle fattispecie l’elemento della crudeltà non colora tipicamente la condotta: al limite ciò potrebbe avvenire in concreto per l’intervento della circostanza, con l’applicazione dunque del regime d’imputazione delle circostanze aggravanti, che è sì soggettiva ma diversa dall’imputazione dolosa del fatto tipico». Tuttavia, a quest’ultimo proposito, deve rilevarsi come i criteri d’imputazione soggettiva (artt. 43 c.p. per il cd. reato-base e 59 co. 2 c.p. per la circostanza aggravante) presuppongono una nozione di dolo che non può che essere unitaria, tanto per il reato base, quanto per la circostanza aggravante; tale nozione è necessariamente deeticizzata, non coincidente con una volontà più o meno malvagia e riprovevole. Diversamente opinando, le circostanze soggettive rischierebbero di divenire un comodo salvacondotto per il diritto penale dell’atteggiamento interiore, con rischi di sovrapposizione di diritto e morale.
[94] Come affermano le S.U. n. 40516/2016 e come propone anche Demuro, Dolo d’impeto, aggravante della crudeltà e componenti impulsive della condotta, cit., 1977, 1987 ss., in linea, d’altronde, con una consolidata tradizione: già Malinverni, Circostanze del reato, in Enc.dir.,VII, 1960, p. 81, affermava che «Il comportamento crudele del soggetto deve essere considerato nel suo valore sintomatico di tale mancanza di pietà».
[95] Non è un caso che, mediante l’aggravante della crudeltà, si sia dato rilievo tanto al piano sintomatico-criminologico, quanto al piano dell’atteggiamento interiore riprovevole. In relazione al primo profilo, può ricordarsi Mantovani F., Diritto penale. Parte generale, cit., p. 404, che significativamente collega la crudeltà alla tipologia criminologica del delinquente disaffettivo; quanto al secondo, oltre agli orientamenti dottrinali sopra citati, può ricordarsi Malinverni, Circostanze del reato, cit., p. 80-81. Merita di essere segnalato, conclusivamente, che anche chi sostiene un’interpretazione soggettiva è poi costretto a ripiegare sulla tesi oggettiva, quando s’interroga sulla configurabilità della crudeltà nel caso di condotte consapevolmente crudeli, poste in essere su persona già deceduta; in tal caso, pur in presenza di una pretesa maggiore perversità del reo, si ritiene che l’aggravante non si configuri; cfr. Veneziani, Dolo d’impeto ed aggravante della crudeltà, cit., 607, che parla di una “prevalenza” del dato oggettivo su quello soggettivo. Inoltre, sembra riemergere la tesi oggettiva quando non si richiede la consapevolezza della crudeltà nell’autore, limitando l’elemento psicologico alla rappresentazione della condotta efferata (Malinverni, Circostanze del reato, cit., p. 80-81; Padovani, Circostanze del reato, in Dig. disc. pen., II, Torino, 1988, p. 218; Mantovani F., Diritto penale. Parte generale, cit., p. 404; Veneziani, Dolo d’impeto ed aggravante della crudeltà, cit., 607. Contra, con chiaro giudizio sulla personalità empia dell’autore, Demuro, Dolo d’impeto, aggravante della crudeltà e componenti impulsive della condotta, cit., 1979 e la giurisprudenza ivi citata).