Sentenza d’incompetenza e potere d’impugnazione della parte civile: la nomofilachia fa sentire la sua voce nel caso Ilva

Cass. pen., Sez. I, sent. 27.1.2025, n. 2970 – Pres. Siani

Abstract: A fronte di un ricorso mediante il quale veniva sollevata questione di legittimità costituzionale degli articoli 11 e 568, co. 2, c.p.p. in relazione agli articoli 3, 24, 25, co. 1, e 111 Cost., l’organo nomofilattico fissa i parametri interpretativi in tema d’impugnabilità della sentenza che decide sulla competenza. La scelta assunta dal legislatore con l’art. 568, co. 2, c.p.p. non cede a critiche di irragionevolezza, perseguendo quell’interesse di ordine pubblico in materia di competenza che risponde ai criteri di naturalità e precostituzione del giudice e che, conseguentemente, soddisfa i crismi del giusto processo.

Abstract: In the light of an appeal through which a question of constitutional legitimacy of Articles 11 and 568, co. 2, c.p.p. was raised in relation to Articles 3, 24, 25, co. 1, and 111 Const. the nomophylactic body sets the interpretive parameters on the subject of appealability of the judgment deciding on competence. The choice taken by the legislator with Article 568, co. 2, c.p.p. does not yield to criticism of unreasonableness, pursuing that public interest in matters of competence that meets the criteria of naturalness and pre-establishment of the judge and, consequently, satisfies the chrisms of due process.

Sommario: 1. La pronuncia d’inammissibilità. – 2. L’inoppugnabilità delle decisioni sulla competenza; tra tassatività e ragionevolezza. – 3. L’art. 11 c.p.p.: una garanzia del giusto processo. – 4.   La ragionevolezza delle scelte legislative.

  1. La pronuncia d’inammissibilità

Nell’ambito del processo celebrato per il caso Ilva, c.d. Ambiente svenduto, il giudice di legittimità si è pronunciato sul ricorso presentato dalle parti civili avverso la sentenza con cui la Corte di assise di appello di Taranto annullava la decisione del giudice di primo grado, ritenuto funzionalmente incompetente ai sensi dell’art. 11 c.p.p.

Precisamente, i ricorrenti sollevavano incidente di costituzionalità degli articoli 11 e 568, co. 2, c.p.p., per preteso contrasto con gli articoli 3, 24, 25, co. 1, e 111 Cost., dolendosi dell’impossibilità d’impugnare immediatamente la decisione sulla competenza, visto il limite imposto dall’art. 568, co. 2, c.p.p., e denunciando l’inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 11 c.p.p. perché – si contestava – i magistrati che si erano costituiti parte civile ricoprivano, nel caso specifico[1], una posizione “marginale”[2] e quindi inidonea ad influire sulla neutralità del giudice procedente.

Alla luce delle contestazioni mosse, la Suprema Corte dichiara “pacificamente” inammissibile il ricorso e ribadisce il carattere non equivoco dell’art. 568, co. 2, c.p.p.

In particolare il giusdicente rileva, sotto un profilo oggettivo, che la ragion d’essere dell’inoppugnabilità immediata delle sentenze declinatorie della competenza è «ravvisabile nell’opportunità, apprezzata dal legislatore, di devolvere a controllo, dinanzi all’organo giudiziario di vertice, le pronunce sulla competenza, ma di prevedere l’attivazione di tale controllo, almeno in via preferenziale, attraverso la denuncia di conflitto, sottraendo così il regolamento della competenza all’osservanza dei modi, dei termini e delle altre formalità proprie del giudizio di impugnazione, la cui mancata ottemperanza potrebbe comportare, a dispetto dell’interesse pubblico processuale coinvolto, il consolidamento di soluzioni contrarie all’assetto normativo vigente»[3]. E anche qualora l’interesse pubblico tutelato, ossia il rispetto dell’ordine delle competenze, collimi con l’interesse di parte, quest’ultimo «si pone sempre come interesse accessorio e concorrente dal punto di vista dell’ordinamento»[4].

D’altronde, secondo il giudice di legittimità, la sentenza con cui si dichiara l’incompetenza è decisione solo processuale, avente «un contenuto di mero rito, inidoneo ad incidere irrimediabilmente sugli interessi sostanziali delle parti»[5], nonché priva di definitività, potendo essere ulteriormente sindacata sia da parte del giudice che si dovesse ritenere a sua volta incompetente, sia da parte del giudice dell’impugnazione.

Di conseguenza risulta erronea quella lettura che, distaccandosi dall’ordine precettivo della norma, intravede nell’inoppugnabilità dell’art. 568, co. 2, c.p.p. un pregiudizio gravante sui diritti delle parti processuali, dovendosi piuttosto ricordare come la disciplina delle impugnazioni operi entro un “tassativo perimetro”[6]. Una delimitazione che, per ciò che qui interessa, è contenuta nelle disposizioni di cui agli articoli 576 e 568, co. 3 c.p.p., circoscrivendo l’ambito di legittima impugnazione della parte civile.

Di qui la manifesta infondatezza delle prospettate violazioni dei parametri costituzionali.

È, infatti, da escludere l’irragionevolezza dell’assetto legislativo contestato ove si consideri che l’azione civile, «inserita nel processo penale»[7], deve conformarsi all’esigenza di perseguire un interesse pubblicistico e limitarsi «al raggiungimento dei soli obiettivi compatibili con la fisionomia complessiva delineata dal legislatore per il giudizio penale (Corte cost., sent. n. 176 del 2019)»[8].

Né, a parere della Corte, può manifestarsi un reale pregiudizio a fronte della caducazione dei capi civilistici dovuta all’annullamento della sentenza di primo grado, dal momento che la sentenza di incompetenza, priva dei caratteri della decisorietà e definitività, produce solamente un effetto «precario e interlocutorio»[9] che pertanto, se anche comporta un «pregiudizio in sé, derivante dalla vanificazione dell’assetto di interessi già favorevolmente delineato dalla sentenza di primo grado»[10], non costituisce un pregiudizio definitivo, rimanendo eliminabile.

2. L’inoppugnabilità delle decisioni sulla competenza; tra tassatività e ragionevolezza

Nel decidere sulla competenza il giudice risponde, quindi, ad un’esigenza d’impronta pubblica, indirettamente rappresentativa degli interessi dei singoli in termini di garanzia e di certezza dei diritti. Conseguenza ne è che l’interesse delle parti ad impugnare un provvedimento sulla competenza deve necessariamente cedere a quanto normativamente stabilito, nel rispetto di quel principio di tassatività[11] che caratterizza la materia disciplinata dal Libro IX del codice di rito[12].

È la legge, ai sensi dell’art. 568, co. 1, c.p.p., a prevedere i casi d’impugnazione e a determinarne i mezzi.

Nel successivo comma tale principio viene specificato[13], prevedendosi una generica ricorribilità dei provvedimenti in tema di libertà personale e delle sentenze, ad eccezione di quelle sulla competenza che possono dare luogo a conflitti di giurisdizione o di competenza ai sensi dell’art. 28 c.p.p. Tali sentenze, infatti, sono decisioni che per loro intrinseca natura non attengono al merito della regiudicanda e sono, pertanto, prive dei caratteri di decisorietà e definitività. Caratteristiche, queste ultime, necessarie affinchè si attivi quel concreto interesse[14] ad impugnare delle parti processuali[15].

Di qui si comprende come la logica del legislatore abbia voluto sottrarre al potere[16] d’impugnazione delle parti le decisioni di mero rito sulla competenza, individuando piuttosto nell’art. 28 c.p.p. lo strumento di valutazione della stessa.

La disciplina prevista affida, dunque, al giudice che procede la possibilità di sollevare conflitto di competenza, senza che con ciò vengano limitati i controlli giurisdizionali dato che, nel caso in cui le sentenze in materia di competenza diano concretamente luogo al conflitto, «questo viene sottoposto, per la risoluzione, alla Corte di Cassazione dal giudice di merito che lo rileva d’ufficio o su denuncia di parte, mentre nel caso che non diano luogo al conflitto, la questione relativa alla competenza può essere liberamente prospettata davanti al giudice che procede e dedotta anche come motivo di appello e, successivamente, di ricorso per cassazione. Per tale ragione è pacifico che i provvedimenti negativi di competenza non sono ricorribili per cassazione, nemmeno per abnormità, attesa l’espressa previsione dell’art. 568, comma 2, cod. proc. pen. e lo specifico procedimento per risolvere i conflitti di competenza stabilito dall’art. 28 cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 9729 del 14/11/2013, dep. 2014, Federici, Rv. 259251 – 01; Sez. 5, n. 33281 del 04/04/2016, Zabeo, Rv. 267722). Tale causa di inammissibilità, derivante dalla non impugnabilità del provvedimento (art. 591, comma 1, lett. b, cod. proc. pen.) va dichiarata senza formalità di procedura, ai sensi dell’art. 610, comma 5-bis, cod. proc. pen.»[17].

La motivazione espressa dal giudice di legittimità rende evidenti le ragioni di speditezza su cui è improntata la disciplina[18], che tuttavia non si sottrae allo scrutinio delle parti, in capo alle quali permane il potere di sollecitare il giudice investito del procedimento affinché trasmetta la denuncia di conflitto ex artt. 30 e seguenti del codice di procedura penale.

E non si può ritenere che tale schema operativo valga solo per talune parti e non per altre, sussistendo una generica carenza di legittimazione oggettiva ad impugnare decisioni sulla competenza che diano luogo ad un conflitto ex art. 28 c.p.p.[19]. Si consentirebbero, altrimenti, arbitrarie eccezioni che non trovano giustificazione né nel dato normativo né nel fondante costituzionale[20].

Il ragionamento è altrettanto valido per quel che riguarda la parte civile, il cui potere d’impugnativa è espressamente limitato dall’art. 576 c.p.p.; la disposizione disciplina, quale primo “selettore”[21] dell’impugnabilità soggettiva, la legittimazione ad impugnare di parte civile. L’azione impugnativa di quest’ultima può infatti concernere soltanto i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile e, ai soli effetti della responsabilità civile, la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio[22].

La precisione del lessico adottato non lascia adito a dubbi o interpretazioni laddove, l’utilizzo del sintagma “sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio” porta a concludere che i conditores abbiano voluto far riferimento unicamente alle pronunce dibattimentali, ovvero a quelle emesse nell’ambito di giudizio abbreviato, con esclusione della sentenza con la quale sia stata accolta l’eccezione di competenza per territorio[23].

Più precisamente, la Suprema Corte argomenta in forza di quel generale principio per il quale «il diritto di impugnazione spetta soltanto alla persona alla quale la legge espressamente lo conferisce (comma terzo dell’art. 568 c.p.p.)», corroborato dalla previsione di cui all’art. 576 c.p.p. che espressamente limita «tale diritto ai soli capi della sentenza di condanna riguardanti l’azione civile e, per gli effetti della responsabilità civile, a quelli della sentenza di proscioglimento pronunciata in giudizio. Ne restano, quindi escluse le sentenze che, come quella in esame, hanno carattere sostanzialmente interlocutorio, essendo evidente la intentio legis di privilegiare la speditezza del processo quando la impugnazione non sia utile per la rimozione di una qualsiasi situazione giuridica pregiudizievole (ovvio è che la parte civile potrà far valere ogni sua ragione nel procedimento che andrà a instaurarsi davanti alla diversa autorità giudiziaria)»[24]. Una delimitazione, dunque, che non permette un’azione impugnativa avverso una sentenza processuale come quella dichiarativa d’incompetenza, se non fuoriuscendo «dal tassativo perimetro che, in materia, il codice delinea in favore della parte civile»[25]; si tratta di una legittimazione direttamente proporzionata al ruolo accessorio[26] e subordinato che questa parte riveste in sede penale[27]. Un ruolo, di fatto, corredato delle caratteristiche proprie di un “ospite”[28].

E ciò non si traduce in una disciplina pregiudizievole per la parte civile, poiché alla stessa non viene di fatto imposto alcun sacrificio ove si consideri che l’azione esercitata può sempre trasferirsi nella sua originaria sede[29].

Infatti, la sentenza che rileva l’incompetenza, a differenza di altri provvedimenti dalla natura “bifronte”[30], non ha contenuto decisorio in quanto non definisce, neanche incidentalmente, la regiudicanda, e pertanto non possiede neanche quel carattere definitivo in grado di concludere il processo. Né, quindi, può arrecare un vulnus agli interessi di parte civile, non apprezzandone il merito.

3. L’art. 11 c.p.p.: una garanzia del giusto processo

La condivisibile presa di posizione dell’organo nomofilattico mostra sensibilità in ordine al contenuto di valore veicolato dall’art. 11 c.p.p.; contenuto che, attenendo a garanzie presidiate dalla Costituzione, non ammette variabili interpretative, proprio per evitare momenti di conflitto tra norma positiva e Carta dei valori.

In questa prospettiva appare difficilmente comprensibile quella presa di posizione secondo cui l’art. 11 c.p.p. non opererebbe qualora, nel corso del processo, il magistrato costituitosi parte civile e in servizio al tempo e nel luogo di commissione dei fatti non appartenga più all’ordine giudiziario. Ipotesi interpretativa, questa, certamente contra legem nella misura in cui il precetto della norma fa riferimento a quei procedimenti attribuiti alla competenza di un ufficio distrettuale in cui il magistrato “esercita” le proprie funzioni, oppure le “esercitava” al momento del fatto[31].

Preme evidenziare infatti, seppur la pronuncia in esame non potesse affrontare nel merito la questione a fronte della declaratoria d’inammissibilità, che la garanzia del giudice terzo ed imparziale costituisce una “piattaforma di diritto naturale”[32] preesistente all’esercizio stesso del potere costituente.

Non a caso lo stesso art. 111 Cost. esordisce statuendo che «la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge», e prosegue al comma 2 rilevando che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale». Il testo costituzionale pone in evidenza un rapporto di strumentalità tra giurisdizione e giusto processo; quest’ultimo non può esistere in assenza di una giurisdizione che rispecchi quei requisiti essenziali a comporre la neutralità operativa del giusdicente[33].

La scelta del giudice rappresenta, dunque, mediante criteri normativamente prefissati di cui è espressione l’art. 11 c.p.p., riflesso plastico del principio del giusto processo.

Lo dimostra la disciplina che impone, tramite lo spostamento territoriale della competenza, di salvaguardare l’organo giudicante affinché lo stesso sia e risulti imparziale soprattutto laddove ad assumere determinate qualità processuali[34] sia un suo collega[35].

La prospettiva è quella di fugare ascendenze che naturalmente tendono a crearsi in seguito all’instaurarsi di legami di colleganza; ma certamente inammissibili per un modello di giudizio fondato sull’imparzialità[36].

I criteri per la determinazione della competenza devono, quindi, essere necessariamente prefissati, dato che la previsione di un giudice post costituito è manifestazione di un ordinamento non osservante dei principi propri di uno Stato di diritto, così come un giudice pre costituito rappresenta il presupposto essenziale di un giusto processo[37].

Per convincersene basti osservare come l’art. 11 c.p.p., seppur preveda lo spostamento territoriale motivato da un elemento soggettivo riguardante la persona del magistrato, adotti un criterio predeterminato ed automatico volto a garantire il principio di precostituzione del giudice di cui all’art. 25, co. 1, Cost.[38].

Non a caso i Costituenti modellarono il primo comma della disposizione costituzionale sulla base di un binomio, composto dall’aggettivo “naturale” e dal participio con funzione attributiva “precostituito”[39]. È chiaro che il dato letterale dà rilievo a due distinte nozioni che, lungi dall’essere sovrapponibili, alludono, la prima, al luogo di radicazione della competenza del giudice e, la seconda, al momento temporale per la costituzione dello stesso[40]; elementi, questi, che «richiedono una ricognizione estrinseca del reato per il quale si procede, senza che siano necessari apprezzamenti valutativi o discrezionali»[41].

Deve quindi sussistere un duplice presupposto da verificare affinché la norma assuma rilievo: quello territoriale, relativo al distretto giudiziario nel quale il magistrato abbia esercitato o sia venuto ad esercitare le funzioni, e quello temporale, parametrato sulla «coincidenza di tali funzioni con il servizio prestato al momento del giudizio o al momento del fatto per il quale si procede»[42].

La norma di cui all’art. 11 c.p.p. pone dunque in relazione funzionale il luogo di commissione del fatto, le funzioni svolte dal magistrato al momento del fatto o al momento del giudizio e l’ufficio[43] giudiziario competente[44]. Si è dinanzi ad aspetti collegati da quel fil rouge che si concretizza nel rapporto di colleganza[45] sussistente al momento del fatto o al momento dell’instaurazione del procedimento, generando un rischio d’imparzialità del giudice.

A nulla rileva, infatti, che la qualifica di magistrato permanga o meno al momento dell’assunzione formale di uno dei ruoli individuati dall’art. 11 c.p.p.[46]. Diversamente opinando, si permetterebbe di introdurre un elemento discrezionale all’interno dei criteri di competenza, rimesso alla libera scelta del magistrato stesso che voglia costituirsi parte civile, oltre che alla disponibilità del pubblico ministero che eserciti il potere di cui all’art. 335 c.p.p. ai fini dell’assunzione formale della qualità di indagato. In tal modo si rischierebbe d’interpretare la norma secondo valutazioni di opportunità, tra cui quella di poter scegliere il giudice, incompatibili con i criteri di astrattezza e oggettività attributivi della competenza.

Ne consegue uno stretto legame tra le regole determinative della competenza e l’art. 25, co. 1, Cost., in ragione di criteri normativamente prefissati idonei a soddisfare il principio di precostituzione del giudice, ed individuabili nel locus[47] e nel tempus commissi delicti.

È infatti nel momento di esplicazione della condotta che il soggetto manifesta un contrasto con l’ordinamento penale, disattendendo quella funzione generalpreventiva della norma che guida il comportamento dei consociati[48]. La logica, come noto, è quella di tutelare la libertà di autodeterminazione del singolo, garantendogli «di non essere sorpreso dall’inflizione di una sanzione penale per lui non prevedibile al momento della commissione del fatto. Una simile garanzia non è posta in discussione dall’applicazione di una norma penale, pur più gravosa di quelle entrate in vigore successivamente, che era comunque in vigore al momento del fatto: e ciò “per l’ovvia ragione che, nel caso considerato, la lex mitior sopravviene alla commissione del fatto, al quale l’autore si era liberamente autodeterminato sulla base del pregresso (e per lui meno favorevole) panorama normativo (sentenza n. 394 del 2006)” (sentenze n. 238 del 2020 e n. 63 del 2019)»[49]. Allo stesso modo la norma di cui all’art. 11 c.p.p. dà rilievo “al momento del fatto” come punto di riferimento temporale ai fini dell’individuazione della competenza e, quindi, come criterio di calcolabilità delle conseguenze processuali volto a garantire un giudice precostituito.

4. La ragionevolezza delle scelte legislative

L’impianto normativo esaminato non sembra, dunque, presentare rilievi distonici rispetto al canone costituzionale, dovendosi allora escludere una lacuna del sistema in danno dei diritti della parte civile. Questa si scontra, al pari delle altre parti, con una carenza d’impugnabilità oggettiva laddove ritenga di poter impugnare sentenze in materia di competenza che possono dare luogo ad un conflitto a norma dell’art. 28 c.p.p.

Non è d’altronde un caso che l’inserimento dell’azione civile nel processo penale postuli una situazione ontologicamente differente rispetto a quando la stessa venga esercitata in sede civile, “agganciandosi” all’iter dell’azione penale ed ai suoi obiettivi: l’accertamento del fatto di reato contestato e la definizione del processo in tempi ragionevoli. «Soluzione legislativa, questa, nella quale non può scorgersi alcun profilo di irrazionalità stante la preminenza delle predette esigenze rispetto a quelle collegate alla risoluzione delle liti civili (ordinanza n. 115 del 1992) e considerato che si discute di “condizionamenti giustificati dal fatto che oggetto dell’azione penale è l’accertamento della responsabilità dell’imputato” (sentenza n. 532 del 1995). Di conseguenza, una volta che il danneggiato, “previa valutazione comparativa dei vantaggi e degli svantaggi insiti nella opzione concessagli”, scelga di esercitare l’azione civile nel processo penale, anziché nella sede propria, “non [gli] è dato sfuggire agli effetti che da tale inserimento conseguono” (…) (sentenza n. 94 del 1996, ordinanza n. 424 del 1998)»[50].

Emerge come l’esercizio dell’azione risarcitoria in sede penale rappresenti niente più che un’opzione, aggiuntiva ed ulteriore, a disposizione del danneggiato; una scelta, quindi, fondata sul diritto di agire in giudizio, ma le cui limitazioni non costituiscono un’apprezzabile lesione del diritto di difesa «poiché resta intatta la possibilità di esercitare l’azione di risarcimento del danno nella sede civile: di modo che ogni separazione dell’azione civile dall’ambito del processo penale non può essere considerata una menomazione o una esclusione del diritto alla tutela giurisdizionale, giacché la configurazione di quest’ultima, in vista delle esigenze proprie del processo penale, è affidata al legislatore (sentenze n. 168 del 2006, n. 433 del 1997 e n. 192 del 1991; ordinanza n. 124 del 1999)»[51].

Ciò è frutto di una scelta di sistema che, al pari delle opzioni di politica criminale, è sottoponibile allo scrutinio di legittimità solo per vizio di manifesta irrazionalità ed arbitrarietà, come ripetutamente affermato dal Giudice delle leggi[52]. La ragionevolezza della norma risulta, invero, lesa laddove si accerti «l’esistenza di una irrazionalità intra legem, intesa come contraddittorietà intrinseca tra la complessiva finalità perseguita dal legislatore e la disposizione espressa dalla norma censurata. Tuttavia, non ogni incoerenza o imprecisione di una normativa può venire in questione ai fini dello scrutinio di costituzionalità, consistendo il giudizio di ragionevolezza in un apprezzamento di conformità tra la regola introdotta e la causa normativa che la deve assistere che, quando è disgiunto dal riferimento ad un tertium comparationis, può trovare ingresso solo se l’irrazionalità o l’iniquità delle conseguenze della norma sia manifesta e irrefutabile (ex plurimis, sentenze n. 195 del 2022, n. 6 del 2019 e n. 86 del 2017)»[53].

Ne consegue che lo scrutinio sulla ragionevolezza non investe solamente la legittimità della norma, ma anche il merito della scelta legislativa. Infatti il binomio eguaglianza-ragionevolezza ricavabile dall’art. 3 Cost. ha portato a ritenere che «il giudizio di ragionevolezza, lungi dal comportare il ricorso a criteri di valutazione assoluti e astrattamente prefissati, si svolge attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti»[54].

Ebbene la pronuncia annotata si dimostra consapevole dei limiti insiti in un ordinamento governato dal criterio di stretta legalità, riconoscendo la ragionevolezza delle norme contestate e, conseguentemente, l’impraticabilità di una censura costituzionale.

Ciò che difetta, inoltre, ai fini della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del caso, è un’offensività processuale che, limitando i poteri di azione della parte civile, determini un concreto pregiudizio alla medesima. Un pregiudizio, tuttavia, difficilmente riscontrabile laddove la pretesa avanzata nel processo penale possa, ulteriormente ai rimedi già esperibili in tale sede, indisturbatamente trasferirsi nella sua sede naturale[55].

Di qui, l’esclusione della possibilità di esprimere un giudizio di irragionevolezza e arbitrarietà della disciplina di cui agli articoli 11 e 568, co. 2, c.p.p., ai quali la parte civile, scegliendo d’intervenire nel giudizio penale, sceglie di aderire.


[1] Le parti civili in questione erano tre giudici onorari in servizio al tempo dei fatti presso la circoscrizione territoriale della sezione distaccata della Corte di appello di Taranto, che tuttavia cessavano dalla carica giudiziaria nelle more del processo rendendo, secondo i ricorrenti, “risibile” distogliere il giudice dalla sua sede naturale.

[2] La sentenza che si propone qui di commentare descrive in tal modo l’interpretazione fornita dai ricorrenti, v. punto 6 del “Ritenuto in fatto”.

[3] Così la pronuncia in commento al punto 4 del “Considerato in diritto”.

[4] Ibidem.

[5] Cfr. il punto 7 della motivazione della sentenza che si annota.

[6] Con specifico riferimento al diritto d’impugnazione della parte civile, la sentenza commentata censura in questi termini tale profilo soggettivo, al punto 5 del “Considerato in diritto”.

[7] In questi termini la pronuncia al punto 7 dell’argomentazione in diritto.

[8] Cfr., ancora, il punto 7 della sentenza.

[9] Così al punto 8 della motivazione.

[10] Ibidem.

[11] La riserva di legge in tema di impugnazione volge alla realizzazione di una duplice esigenza, sicché «il controllo investa, parallelamente, i provvedimenti che la legge stessa non considera inoppugnabili e che esso si effettui con le forme che la legge individua, fermi restando il temperamento derivante dal principio della conservazione dell’impugnazione», così, A. Marandola, Impugnazioni, in G. Spangher (a cura di), Trattato di Procedura Penale, UTET giuridica, Torino, 2009, p. 4

[12]  Si rimanda, in generale, agli studi di F. Cordero, Procedura penale, Milano, 2012, p. 1091, il quale osserva incisivamente che «l’art. 568 annuncia figure tassative: l’atto x è impugnabile in quanto un articolo del codice lo dica; e nel modo ivi definito»; O. Lupacchini, Profili sistematici delle impugnazioni penali, in A. Gaito (a cura di), Le impugnazioni penali, I, Torino, 1998, pp. 81 ss.; G. Spangher, Impugnazioni penali, in Il Diritto, Enciclopedia giuridica Sole 24 ore, Milano, 2007, p. 505; Id., Impugnazioni, in Diritto processuale penale: profili generali, EGT, XVI ed., Roma, 2002. E sul fronte giurisprudenziale v., ex pluribus, Cass. Pen., Sez. Un. “Gatto”, 29 maggio 2014, n. 42858, Rv. 260696-01, in Diritto penale e processo, 2015, 2, p. 173, con nota di C. Pecorella, La rideterminazione della pena in sede di esecuzione: le Sezioni Unite danno un altro colpo all’intangibilità del giudicato.

[13] Occorre evidenziare la diversità di accenti a volte conferita al secondo comma dell’art. 568 c.p.p., laddove si ritenga che lo stesso mitighi il principio di tassatività, piuttosto che rappresentarne una conferma. V. M. Bargis, Impugnazioni, in G. Conso – V. Grevi (a cura di), Compendio di Procedura Penale, Wolters Kluwer, CEDAM, XI ed., Milano, 2023, p. 830. Diversamente, A Marandola, Impugnazioni, cit., p. 6, che con completezza di vedute evidenzia che «l’impugnabilità è, dunque, tratteggiata dalla legge una tantum: la legge [id est l’art. 568, co. 2, c.p.p.], così statuendo, restringe e, contestualmente, conferma la regola della tassatività».

[14] Tale interesse si configura non tanto in un generico interesse ad impugnare in sé per sé, bensì in un interesse al risultato ottenibile dall’impugnazione, nel senso di poter perseguire un risultato migliore di quello che si otterrebbe dalla decisione oggetto di gravame. La nozione di “interesse” ha dunque assunto, a seguito di svariati sforzi ermeneutici (v., tra i primi ed ex multibus, Cass. Pen., S. U., sent. 13.12.1995, n. 930, Timpiani, CP, 1996, p. 788), il significato di poter conseguire un risultato vantaggioso. D’altronde «se le parti fossero libere di muoversi in qualsiasi senso e verso qualsiasi meta senza la persecuzione di una certa utilità pratica, il giudizio si trasformerebbe in un’incomposta zuffa o in una vuota accademia», in questi termini G. Leone, Sistema delle impugnazioni penali, in Annali Camerino, IX, Jovene, Napoli, 1935, p. 308. Sul tema v., anche, F.M. Iacoviello, La Cassazione penale. Fatto, diritto e motivazione, Giuffrè, Milano, 2013, p. 724

[15] Era ben noto, già dal II-III secolo d.C., quanto fosse necessario l’”appellandi usus” al fine di correggere «iniquitatem iudicantium vel imperitiam», Ulpiano, De appellationibus, in Digesto, XLIX, pr. 1.1; strumento che tuttavia trova un logico riscontro solo in decisioni “definite”, e non “in corso di” o “funzionali alla” definizione.

[16] Sul punto, G. Ciani, Le impugnazioni penali: evoluzione o involuzione? Controlli di merito e controlli di legittimità, in Atti del convegno di Palermo, 1-2 dicembre 2006, Giuffrè, Milano, 2008, pp. 187- 188, che ricorda, tra l’altro, le sottili considerazioni di D. Siracusano, Ragionevole durata del processo e giudizi di impugnazione, in Riv.it.dir.proc.pen., 2006, quando descriveva l’appello come strumento di critica alla valutazione della prova, volto ad accentuarne il potenziale persuasivo. E precisamente: «i momenti “persuasivo” e “confutatorio” sono inscindibilmente legati, insomma, alla prova come argomentazione e possono consentire, nel passaggio dalla prima alla seconda fase del giudizio di merito, e attraverso nuovi parametri di persuasione, un’adeguata rivalutazione ex actis della quaestio facti», Ibidem, p. 18.

[17] Così, Cass. Pen., Sez. V, sent. 19 febbraio 2024, n. 7401, in https://dejure.it/, punti 3.2 e 4.

[18] Con art. 4, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, è stata introdotta la possibilità di rinviare pregiudizialmente alla Corte di cassazione le questioni di competenza territoriale; un rimedio che ben rappresenta l’esigenza di speditezza o, meglio, di efficienza processuale perseguita dal legislatore. Infatti, lo strumento in questione conferma la logica legislativa adotatta in tema di conflitti di giurisdizione e competenza, adottandone il modello. Ciò è reso esplicito nella Relazione illustrativa al d.lgs. n. 150 del 2022, dove si afferma che la disciplina di cui all’art. 24-bis c.p.p. «è costruita sul modello della proposizione e della risoluzione dei conflitti di giurisdizione e competenza (artt. 30-32 c.p.p.)», in Gazzetta Ufficiale, serie genrale n. 245 del 19.10.2022 – suppl. straordinario n. 5, pp. 171-172.

[19] Ed infatti nemmeno l’imputato ha facoltà d’impugnare nell’immediato una sentenza che decidendo in materia di competenza possa dar luogo a conflitto tra giudici.

[20] Analizzando la nota pronuncia emanata da Cass. Pen., S.U., sent. 15 dicembre 2004, n. 292, in Cass. Pen., 2005, 4, p. 1143, che si esprimeva nel senso di estendere l’applicabilità dell’art. 11 c.p.p. anche ai magistrati onorari, si voglia porre attenzione all’argomentazione della relativa ordinanza di rimessione, per la quale è «preferibile, nonostante il carattere eccezionale della norma derogatoria [id est, l’art. 11 c.p.p.], una applicazione “estensiva” della norma a motivo della sua pacifica ratio, che pur la rende “eccezionale”, confermata e rafforzata dalla consacrazione» costituzionale del principio di terzietà e imparzialità del giudice, in tali termini Cass. Pen., Sez. V, ord. 6 ottobre 2004, n. 42385, in dirittoegiustiziaonline, 11 novembre 2004.

[21] Così, F.M. Iacoviello, La Cassazioone penale: fatto, diritto e motivazione, Giuffrè, Milano, 2013, p. 724, che identifica la legittimazione ad impugnare quale «selettore automatico dell’impugnabilità soggettiva», oltre al «secondo selettore (non automatico): quello dell’interesse da valutare caso per caso».

[22] Occorre ricordare come tale “delimitazione” sia il risultato, in realtà, di modifiche normative che hanno di fatto ampliato la legittimazione della parte civile ad impugnare. Con art. 6, l. n. 46 del 2006, c.d. legge Pecorella, è infatti stato soppresso quel parallelismo che legittimava l’impugnazione della sentenza da parte della parte civile “con il mezzo previsto per il pubblico ministero” ai sensi del previgente art. 576, co. 1 c.p.p. Si espanse, in tal modo, il diritto d’impugnazione della parte civile, svincolandola dal potere di azione del pubblico ministero.

Con riferimento ai poteri impugnatori di quest’ultimo, si segnala l’ipotesi recentemente avanzata nell’ambito della riesumata vicenda dell’omicidio di Garlasco, che considera la possibilità di eliminare il potere di appello della sentenza di assoluzione di primo grado per la pubblica accusa, consentendogli solamente di ricorrere per cassazione. E ciò al fine di evitare che una vicenda giudiziaria investita da una c.d. doppia conforme possa essere ribaltata da una sentenza di condanna che non ripercorra il dovuto iter processuale. Infatti, «a fronte di una sentenza di assoluzione in primo grado, ove gli Ermellini accogliessero il ricorso per cassazione proposto dal pubblico ministero rimuoverebbero (casserebbero, per l’appunto) la prima decisione di merito e restituirebbero gli atti di nuovo a un giudice di primo grado. A questo punto, il processo ripartirebbe da zero con due gradi di giudizio di merito possibili: in caso di condanna in primo grado, quindi, l’imputato potrebbe proporre appello». Così C. Bonzano, nell’intervista pubblicata dall’Adnkronos, in www.adnkronos.com, 27 maggio 2025.

[23] Cfr. Cass. Pen., Sez VI, sent. 17 maggio 2001, n. 24081, in https://dejure.it/. La legittimità della disposizione di cui all’art. 576 c.p.p., in ogni caso, era già stata messa in dubbio nel punto in cui consentiva di rimettere al giudice penale, invece che al collega civile, la cognizione delle impugnazioni della sola parte civile avverso sentenze di proscioglimento, seppur ai soli effetti della responsabilità civile. Sul punto, diverso è stato l’avviso del Giudice delle leggi, il quale ha ritenuto che «anche quando l’unica impugnazione proposta sia quella della parte civile non è irragionevole che il giudice d’appello sia quello penale con la conseguenza che le regole di rito siano quelle del processo penale», C. cost., sent. 12 luglio 2019, n. 176, in https://www.cortecostituzionale.it/, p. 7. Pe un’analisi della vicenda, si vedano le considerazioni di B. Monzillo, La Corte costituzionale “salva” l’art. 576 c.p.p.: legittima la facoltà per la parte civile di impugnare il proscioglimento ai soli effetti civili, in Dir. Pen. Cont., 2019. La disciplina, come noto, ha subito un’evoluzione laddove il legislatore, con d. lgs. n. 150 del 2022, ha introdotto ai sensi dell’art. 573, co. 1-bis, c.p.p. il rinvio al giudice civile delle impugnazioni per i soli interessi civili, salvo censure d’inammissibilità. E sul tema non si è mancato di dubitare del fatto che, tra le difficoltà operative insite nell’individuazione di un criterio di rinvio al giudice civile, tale giudizio di rinvio possa qualificarsi come un semplice giudizio “in prosecuzione”, senza un atto di impulso necessario, «ma non sufficiente per una corretta instaurazione del nuovo processo civile che deve seguire le regole contenute negli artt. 392 ss. c.p.c., in tema di “riassunzione della causa”». In questi termini G. Varraso, Le impugnazioni agli effetti civili dopo la riforma “Cartabia”: la “nuova” accessorietà dell’azione risarcitoria da reato, in Proc. pen. e giust., 2023, § 5.

[24] In tal senso, Cass. Pen., Sez. VI, sent. 17 maggio 2001, n. 24081, cit.

[25] Così la sentenza in annotazione al punto 5 della motivazione.

[26] Non a caso il principio di accessorietà dell’azione civile nel processo penale trova fondamento «nelle “esigenze, di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi”, e che ha quale naturale implicazione quella per cui l’azione civile, ove esercitata all’interno del processo penale, “è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura” di questo processo (sentenza n. 176 del 2019; in precedenza, anche sentenza n. 12 del 2016)», C. cost., sent. 30 luglio 2021, n. 182, in https://www.cortecostituzionale.it/. E ne è infatti espressione quel principio secondo il quale il giudice, nel pronunciare sentenza di condanna, decide sulla domanda per le restituzioni ed il risarcimento del danno proposta mediante l’esercizio dell’azione risarcitoria, ai sensi dell’art. 538 c.p.p.

[27] Si evidenzia allo stesso tempo una “deviazione” dal principio di accessorietà, laddove l’art. 576 c.p.p. attribuisce al giudice «il potere-dovere di provvedere sulla domanda civile, pur in presenza di una pronuncia di proscioglimento e quindi in assenza dell’accertamento della responsabilità penale». In questi termini, R. Bricchetti, Impugnazioni per i soli interessi civili: il nuovo comma 1-bis dell’art. 573 c.p.p., in Sistema Penale, 2023, punto 3.

[28]  Esemplificative le riflessioni di A. Diddi, L’impugnazione per gli interessi civili, A. Giarda, G. Spangher, P. Tonini (a cura di), CEDAM, Milano, 2011, pp. 24-25, quando afferma che l’art. 538 c.p.p. «costituisce non solo il riflesso processuale  del fondamento della responsabilità civile derivante da reato (…), ma anche l’effetto di una scelta di fondo alla quale è pervenuto il legislatore il quale, come detto, pur non volendo estromettere completamente la tutela risarcitoria dal processo penale, ha tuttavia congegnato un sistema volto a non incoraggiarne comunque la presenza incentivandone, ove possibile, un suo volontario esonero»; alla stregua di un ospite che troppo si attarda.

[29] Per convincersene basti por mente alle conseguenze pregiudizievoli in termini di prescrizione del reato, in ragione delle quali la declaratoria di estinzione del reato non inibisce la parte civile dall’esercitare l’azione risarcitoria nell’apposita sede. E con la stessa logica trova applicazione l’art. 578 c.p.p., imponendo al giudice di appello e alla Corte di cassazione di pronunciarsi sugli interessi civili contestati con atto d’impugnazione nel caso di estinzione del reato per amnistia o prescrizione, oltre che nel caso di improcedibilità per superamento dei termini di cui all’art. 344-bis c.p.p.

[30] Si pensi all’ordinanza di archiviazione per particolare tenuità del fatto pronunciata ex art. 411, co. 1-bis c.p.p. Cfr. sul punto Cass. Pen., Sez. V, sent. 31 agosto 2023, n. 36468, per la quale si deve «intendere per “sentenza” non solo il provvedimento giurisdizionale avente detta forma, ma anche ogni altro provvedimento che, pur diversamente nominato, abbia “carattere decisorio e capacità di incidere in via definitiva su situazioni giuridiche di diritto soggettivo producendo, con efficacia di giudicato, effetti di diritto sostanziale e processuale sul piano contenzioso della composizione di interessi contrapposti e non sia soggetto ad alcun altro mezzo di impugnazione” (Sez. Unite, n. 25080 del 28/05/2003, Pellegrino, Rv. 224610). È il caso dell’ordinanza di archiviazione per particolare tenuità del fatto, pronunciata ai sensi dell’art. 411, comma 1-bis, c.p.p., con la quale il legislatore ha realizzato un modello che “si distacca dall’iter tipo e questa particolarità giustifica, diversamente dagli altri epiloghi, la legittimazione attribuita alla persona sottoposta alle indagini di attivare il mezzo di impugnazione” (Sez. 3, Pandolfi, in motivazione)» in https://dejure.it/, punto 3.

Allo stesso modo, con riferimento alla sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato, l’organo nomofilattico ha sostenuto: «attesa la forma-contenuto della sentenza di cui all’art. 420-quater cod. proc. pen., recante sia una pronuncia di improcedibilità virtualmente conclusiva, sia una vocatio in iudicium a udienza predefinita per il caso di rintraccio dell’imputato, se ne sottolinea la “natura bifronte”; ambivalenza destinata tuttavia a sciogliersi con il decorso del tempo, in quanto, ai sensi dei commi 3 e 6 dello stesso art. 420-quater, nel momento in cui per tutti i reati oggetto di imputazione sia superato il termine previsto dall’art. 159, ultimo comma, del codice penale (cioè il doppio del tempo necessario a prescrivere il reato), senza che la persona nei cui confronti è stata emessa sia stata rintracciata, la sentenza di non doversi procedere diviene irrevocabile (cfr. Corte Costituzionale, n. 192 del 27.9.2023). Stante, dunque, la natura “bifronte” della sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato, che, come affermato in dottrina con annotazione condivisibile, da un lato, “chiude una regiudicanda esauritasi, ma, allo stesso tempo, costituisce l’atto propulsivo di una nuova, destinata ad aprirsi se e quando l’originario imputato sarà rintracciato”, non va sottovalutata, ad avviso del Collegio, ai fini della soluzione della questione che ci occupa, la riconosciuta natura definitoria di tale sentenza, che, per l’appunto, definisce, dunque conclude il processo iniziato con l’esercizio dell’azione penale e la richiesta di fissazione dell’udienza preliminare, sul presupposto della mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato. Natura evidenziata in un passaggio della Relazione illustrativa al decreto legislativo recante attuazione della legge 27 settembre 2021 n. 134, in cui si legge: “la pronuncia definisce il procedimento, sicché il destinatario della medesima non è più imputato e il fascicolo va specificamente archiviato per un più agevole recupero”», Cass. Pen., Sez. V, sent. 21 maggio 2024, n. 20140, in https://dejure.it/, punto 4.1.

[31] Così, testualmente, l’articolo 11, co. 1 c.p.p.

[32] Cfr. le considerazioni espresse da A. Giarda, Imparzialità del giudice e difficoltà operative derivanti dall’incompatibilità, in Il giusto processo, Atti del Convegno di Salerno, Milano, 1988, p. 35.

[33] Le prime argomentazioni sul punto, agli albori della nuova formulazione dell’art. 111 Cost., affermavano come la norma costituzionale, così come novellata, demarcasse un rapporto di identità tra giurisdizione e giusto processo. V., G. Dean, I principi costituzionali di terzietà ed imparzialità del giudice nella sistematica del processo penale, in G. Cerquetti – C. Fiorio (a cura di), Dal principio del giusto processo alla celebrazione di un processo giusto, CEDAM, Padova, 2002, p. 3. E nel condividere tale assunto, si è affermato come la scelta di politica legislativa introducesse, con l’art. 111 Cost., in sede costituzionale «un rapporto di “strumentalità essenziale” tra giurisdizione e giusto processo». Cfr., F. R. Dinacci, Giurisdizione penale e giusto processo verso nuovi equilibri, CEDAM, Padova, 2003, p. 6.

[34] L’art. 11, co. 1 c.p.p. fa, infatti, riferimento all’assunzione di determinate qualità personali, la cui individuazione è funzionale all’attivazione delle relative garanzie procedurali, differenziando tra “persona sottoposta ad indagini”, “imputato”, “persona offesa” o “danneggiata”.

[35] Sorsero contrapposte opinioni con riferimento alla natura giuridica della disposizione in esame, tra chi ritenesse di trovarsi di fronte ad un’ipotesi d’incompetenza territoriale, cfr., a titolo esemplificativo, Cass. Pen., Sez. I, sent. 20 maggio 1999, n. 3766; Cass. Pen., Sez. I, sent. 21 febbraio 2001, n. 13105, entrambe in https://dejure.it/; rispetto al contrapposto orientamento che rinveniva nella norma un’incompetenza di tipo funzionale. A quest’ultima conclusione è infine pervenuto l’organo nomofilattico, che nella sua massima composizione ha ritenuto «indispensabile fare capo alla “ratio” che presiede a tale disciplina, da individuarsi per unanime riconoscimento – come già ricordato – nell’esigenza di garantire che il processo penale si svolga, e appaia svolgersi, nella più perfetta imparzialità, potendo questa essere, o apparire, alterata, dalla circostanza che a giudicare di un reato nel quale è indagato, imputato, offeso o danneggiato un magistrato, sia un giudice che, per appartenere allo stesso plesso territoriale in cui il detto magistrato abbia esercitato o sia venuto ad esercitare le sue funzioni, abbia con quello un rapporto di colleganza e di normale frequentazione», così Cass. Pen., Sez. Un. “Scabbia”, sent. 15 dicembre 2004, n. 292, Rv. 229633. Rappresentativa di tale orientamento, oramai cristallizzato, v. la pronuncia ex Cass. Pen., Sez. II, sent. 6 dicembre 2024, n. 44814, in https://dejure.it/. Tra l’altro si è notato come lo spostamento sia determinato a prescindere dal lugo del reato quando, «ai sensi del cpv dell’art. 11 c.p.p., il procedimento subisca un ulteriore spostamento nel caso in cui nella nuova sede il giudice venga ad esercitare le sue funzioni (…); nell’ipotesi di connessione (art. 11, comma 3, c.p.p.); nella situazione disciplinata dall’art. 11-bis c.p.p., nonché a ragione dell’operatività dell’art. 11 c.p.p. in sede civile, per le sole azioni di danno da reato riguardanti i magistrati (art. 30-bis c.p.c.)», così G. Spangher, Parere pro veritate, in Giur. Pen., 2013, p. 6, redatto in occasione del giudizio di primo grado.

[36] Plurime e consolidate sono le affermazioni secondo le quali la riserva di legge prevista per la costituzione del giudice, prima ex art. 25 Cost. e successivamente anche dall’art. 111 Cost., presidi il valore dell’imparzialità dell’organo di giudizio. Si confronti, in particolare, G. Conso, La rimessione dei procedimenti riguardanti magistrati e la garanzia del giudice precostituito per legge, in Giur. Cost., 1963, p. 860; M. Maddalena, Scelta del rito istruttorio e inderogabilità del principio del giudice naturale precostituito per legge, in Giur. Cost., 1968, p. 2111; G. Riccio, Naturalità e precostituzione del giudice nella giurisprudenza costituzionale, in Studi in onore di G. Vassalli, Evoluzione e riforma del diritto e della procedura penale, 1945-1990, vol. II, Milano, 1991, p. 158.

[37] Con affermazioni sempre attuali, F. Cordero, Connessione e giudice naturale, in Connessione di procedimenti e conflitti di competenza, Milano, 1976, p. 54, evidenziava come sia il locus commissi delicti a determinare il giudice “naturale”, diventando criterio di differenziazione tra naturalità e precostituzione.

[37] Si ricorda l’insegnamento tanto lapidario quanto garantista di F. Cordero, Procedura penale, Milano, 1985, quando denunciava che «la creazione di un giudice ex post factum è un “atto politico inteso ad un trattamento discriminatorio incompatibile con i canoni dello stato di diritto”», p. 255.

[38] Si è constatato, nell’ambito di una diagnosi storico-giurisprudenziale sull’evoluzione della garanzia dell’imparzialità del giudice, come il concetto di “naturalità” fosse stato a volte, prima dell’introduzione dell’art. 111 Cost., assimilato a quello di “imparzialità”, con ciò derivandone che la disposizione costituzionale di cui all’art. 25 della Carta «tutelerebbe non solo l’interesse concreto del singolo cittadino ma anche l’uguaglianza tra i possibili imputati di un processo assicurando una “condotta giudiziaria” imparziale per tutti, senza accanimenti o favoritismi». L’imparzialità costituiva, in sostanza, la ratio del principio di naturalità del giudice. Per tale ricostruzione cfr., F. R. Dinacci, Giurisdizione penale e giusto processo verso nuovi equilibri, cit., p. 13. Si veda anche, in ambito giurisprudenziale, C. cost., sent. n. 124 del 1992, in https://giurcost.org/, dove si considera l’imparzialità delineata dall’art. 25 Cost. il contenuto ineliminabile ed intrinseco dell’attività del giudice «in quanto non finalizzata al perseguimento di alcun interesse precostituito», al punto 3 della pronuncia.

[39] Per una disamina volta a sottolinearne le differenze, cfr. G. Ubertis, La naturalità del giudice e valori socioculturali della giurisdizione, in Riv.it.dir.proc.pen., 1977, p. 1062, che esclude categoricamente l’unicità dei concetti “naturale” e “precostituito” ex art. 25 Cost.; M. Bargis, Dubbi di costituzionalità nel passaggio di competenze della Corte di Assise al tribunale per determinate categorie di reati, in Riv.it.dir.proc.pen., 1975, p. 306, la quale analizza gli atti dell’Assemblea Costituente nel dibattito concernente il primo comma dell’art. 25 Cost. Infine, G. Conso, La costituzionalità dell’art. 55 c.p.p. alla luce di una sentenza provvidenziale, in Riv.it.dir.proc.pen., 1963; l’Autore argomenta retoricamente che «se “naturale” volesse semplicemente significare “precostituito per legge”, ed indicare “il giudice istituito in base a criteri generali fissati in anticipo e non in vista di determinate controversie”, perché mai l’art. 25 avrebbe fatto uso di una tale espressione del tutto pleonastica e comunque ambigua?», p. 538.

[40] In tal modo si evince lo specifico ruolo che ciascun concetto ricopre, laddove la naturalità garantisce il cittadino da arbitri o abusi che possano derivare dall’individuazione del giudice o dalla sua competenza, e la precostituzione tutela «in termini di certezza. Competente a decidere sul fatto reato sarà, e non potrà non essere, il giudice competente secondo la legge in vigore al momento del fatto stesso», cfr. F.R. Dinacci, Giurisdizione penale e giusto processo verso nuovi equilibri, cit., p. 17. Sul punto si rimanda, anche, alle considerazioni di M. Siniscalco, La garanzia della precostituzione del giudice e il mutamento delle circoscrizioni territoriali, in Giur. Cost., 1967, p. 667.

[41] C. cost., sent. n. 381 del 1999, in https://giurcost.org/, punto 3.

[42] Ibidem, punto 4.

[43] Nel considerare l’ufficio giudiziario territorialmente competente, la disposizione si riferisce ai magistrati che esercitino o abbiano esercitato la funzione al momento del fatto e nel distretto di riferimento, comprendendo così qualunque ufficio giudiziario al suo interno. Si confrontino le considerazioni di F. Della Casa, Soggetti, in G. Conso – V. Grevi (a cura di), Compendio di Procedura Penale, Wolters Kluwer, CEDAM, XI ed., Milano, 2023, p. 16, che evidenzia, nel vigore della precedente formulazione legislativa, il problema delle c.d. competenze incrociate causate dall’assenza di una previsione legislativa ai fini della riallocazione territoriale della competenza.

[44] Tale considerazione permette di misurare la ratio della disciplina in una prospettiva non solo di garanzia di efficienza in termini di imparzialità, ma anche come garanzia d’immagine del giudice; non basta, infatti, che il medesimo sia indipendente ed imparziale, bensì è necessario che appaia, anche, tale. Cfr., C. EDU, Gran Camera, Grieves c. Regno Unito, 16.12.2003, in https://hudoc.echr.coe.int/, punto 69, dove si fa espressa richiesta di una struttura – quale organo giudicante nel suo complesso – che, oltre ad esserlo, appaia indipendente. Negli stessi termini, successivamente, la già citata Cass. Pen., Sez. Un. “Scabbia”, n. 292 del 2004.

[45] Il giudice delle leggi rileva, con riferimento al rapporto di colleganza, che «diverso è il rapporto inerente all’esercizio attuale delle funzioni nel distretto competente per il giudizio o all’esercizio di esse al momento del fatto, rispetto alle molteplici situazioni che possono verificarsi quando l’esercizio delle funzioni sia cessato e, quindi, vi è un distacco tra tale esercizio e l’ufficio competente per il giudizio», C cost., sent. 381 del 1999, cit., punto 5.

[46] Si noti come la disposizione, nel far riferimento alla qualità di persona offesa o danneggiata, non menziona la parte civile. È stato quindi affermato che la circostanza in cui il magistrato revochi successivamente l’atto di costituzione di parte civile non incide ai fini dell’operatività dell’art. 11 c.p.p., la cui applicazione si radica piuttosto sulla funzione giurisprudenziale. V. G. Spangher, Parere pro veritate, cit., p. 11.

[47] Con affermazioni sempre attuali, F. Cordero, Connessione e giudice naturale, in Connessione di procedimenti e conflitti di competenza, Milano, 1976, p. 54, evidenziava come sia il locus commissi delicti a determinare il giudice “naturale”, diventando criterio di differenziazione tra naturalità e precostituzione.

[48] Infatti: «è nel momento in cui agisce ovvero omette di compiere l’azione doverosa che l’agente si pone in contrasto con la funzione di orientamento della norma penale», così Cass. Pen., Sez. Un. “Pittalà”, 19.07.2018, n. 40986, in Dir. Pen. Cont., 2018, con riferimento alla questione riguardante l’individuazione della lex mitior applicabile nel rispetto del sistema predisposto dall’art. 2 c.p. e del principio di offensività in concreto, secondo il noto discrimen rilevabile tra il momento della condotta e il momento dell’evento criminoso.

[49] C. cost., sent. n. 198 del 2022, in https://giurcost.org/.

[50] Si confronti, nel consolidato orientamento del giudice delle leggi, C. Cost., sent. 29 gennaio 2016, n. 12, in https://giurcost.org/, al punto 5 della motivazione.

[51] Ibidem, nel prosieguo dell’argomentazione.

[52] Si rimanda in particolare a C. cost., sent. 7 ottobre 1999, n. 381; v., inoltre, C. cost., ordinanze 22 luglio 1999, n. 354; 18 febbraio 1988, n. 204; 28 luglio 1987, n. 294; ed anche, sentenze 25 luglio 1997, n. 274; 19 gennaio 1987, n. 7. Tutte reperibili in https://giurcost.org/. Tenuto conto, tra l’altro, «che si discute di istituti processuali, nella cui conformazione – per costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 64 del 2014 e n. 216 del 2013) – il legislatore fruisce di ampia discrezionalità», cfr. C. Cost., sent. n. 12 del 2006, cit., p. 8. Anche di recente, in tema di differenti previsioni di istituti premiali nel rito abbreviato e in quello di applicazione della pena su richiesta delle parti, la scelta operata con la legge n. 103 del 2017 «deve essere considerata, quindi, espressiva dell’ampia discrezionalità che, per costante giurisprudenza di questa Corte, compete al legislatore nella disciplina degli istituti processuali, il cui esercizio è censurabile solo ove decampi nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio», v. C. Cost., sent. 10 maggio 2024, n. 83, in https://giurcost.org/, p. 5.5.

[53] In questi termini, C. cost., sent. 30 maggio 2024, n. 95, in https://www.cortecostituzionale.it/, p. 8.

[54] Cfr. C. cost, sent. 22 dicembre 1988, n. 1130, in https://giurcost.org/, p. 2. I criteri utilizzati, come noto, fanno riferimento ad una ragionevolezza intrinseca, in quanto sia evidente una difformità rispetto allo scopo perseguito e ciò sia oggettivamente ricavabile dal contenuto della norma stessa, ovvero ad un tertium comparationis che permette di verificare qualora un trattamento normativo sia diverso per situazioni eguali o simili, per cui «se due leggi regolano la stessa situazione in maniera diversa, una legge delle due è contraria al principio di eguaglianza ed il trattamento deve quindi essere “livellato” da parte della Corte costituzionale», così R. Romboli, Il giudizio di ragionevolezza: “una nozione di famiglia, non suscettibile di definizione esaustiva”, in C. Bergonzini, A. Cossiri, G. Di Cosimo, A. Guazzarotti (a cura di), Scritti per Roberto Bin, Giappichelli, Torino, 2019, p. 568.

[55] La possibilità di fruire di plurimi rimedi processuali è un dato valorizzato anche in sede europea e, in particolare, dalla Corte di Strasburgo che ha ravvisato una violazione dell’art. 6 CEDU, sotto il profilo del diritto di accesso al giudice, qualora la parte civile non avesse altri rimedi processuali accessibili per esercitare la propria difesa. Cfr. sull’argomento, C. EDU, Sez. III, 25 giugno 2013, Associazione delle persone vittime del sistema s.c. Rompetrol s.a. e s.c. Geomin s.a. e altri contro Romania; C. EDU, Sez. I, 4 ottobre 2007, Forum Maritime s.a. contro Romania. Entrambe reperibili nel database della Corte EDU, https://hudoc.echr.coe.int/. Circostanza non sussistente nell’ordinamento italiano, dove la parte civile gode dell’alternativa offerta dalla possibilità di rivolgersi al giudice civile.

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