Sorvegliare, punire, contenere: perché interrogarsi ancora sul senso della reclusione

Abstract

A partire dalla riflessione circa alcuni momenti della storia dell’evoluzione del sistema penale e punitivo, si cerca illustrarne la relatività e di mettere in luce le note costanti del problema della pena. Si spiegano i contenuti del paradosso della pena per far emergere come, di fatto, la pena detentiva si riduca già oggi ad una misura volta a emarginare categorie di soggetti ritenuti pericolosi.

Beginning with a reflection on key moments in the historical evolution of the penal and punitive system, this analysis seeks to highlight its relativity and the persistent features of the problem of punishment. The paradox of punishment is examined to show how, in practice, custodial sentences today largely serve as a means of marginalizing categories of individuals constructed as dangerous.

Sommario

1. Perché interrogarsi ancora sul senso del punire?. – 2. Alcuni cenni storici sull’evoluzione del meccanismo repressivo. – 2.1. Diritto romano e diritto longobardo. – 2.2. Epoca premoderna. 2.3. Illuminismo e rifiuto filosofico e razionale della pena di morte. – 2.4. Difesa sociale e diritto totalitario. – 3. Assemblea Costituente e «dibattito sulla rieducazione». – 4. Paradosso della pena oggi. – 5. Quale futuro per la punizione costituzionalmente orientata?

1. Perché interrogarsi ancora sul senso del punire?

In un recente saggio Giovanni Fiandaca si è interrogato sul concetto di punizione, sulla sua evoluzione storica e sull’attuale connotazione paradossale dello stesso[1]. L’autore sottolinea che l’idea di approfondire il tema è sorta non solo (e non tanto) alla luce della sua pregressa esperienza di studioso di diritto penale, ma piuttosto da quella più “pratica” di Garante dei Detenuti per la Regione Sicilia.

È una dichiarazione importante, perché nel corso dell’evoluzione della scienza penalistica è frequente ritrovare affermazioni simili. L’attenzione alla materia penitenziaria e ai problemi del carcere sorge da esperienze concrete, dal “toccare con mano”.

Non è un caso che la formulazione dell’articolo 27 della Costituzione sia stata oggetto di ampio dibattito in Assemblea Costituente. Di quest’ultima erano membri autorevoli penalisti e altrettanto autorevoli “reclusi” per motivi politici. Essi avevano conosciuto la vergogna dell’istituzione carceraria e la fragilità dell’essere umano di fronte alla forza della detenzione in un regime dittatoriale. Il carcere era mezzo di indottrinamento, di imposizione dell’ideologia sulla persona o di sua eliminazione dal consesso sociale[2].

In uno dei suoi frequenti appelli alla società e alla politica sulle condizioni carcerarie Giovanni Maria Flick ha sottolineato che «come abbiamo avuto il coraggio di riconoscere l’incostituzionalità di una pena come l’ergastolo nella misura in cui sia effettivamente fine pena mai, così, o prima o dopo, forse arriveremo a riconoscere che quando la Costituzione parla di pene, non parla solo di reclusione, ma apre un ventaglio di possibilità che consenta di mantenere la reclusione solo nelle ipotesi in cui vi siano fenomeni di aggressività e quindi di pericolosità per sé o per gli altri»[3].

È una posizione forte e sicuramente provocatoria. Pone però un problema concreto e attuale affrontato da molti[4]: la reclusione come pena è ancora giustificata nel nostro ordinamento giuridico-costituzionale? È una domanda che si pongono gli studiosi che vivono il carcere, entrandovi ad esempio per l’insegnamento didattico e la realizzazione di iniziative culturali; è la stessa domanda che si pongono molti operatori e volontari, che percepiscono le difficoltà quotidiane della vita carceraria e delle sue contraddizioni incomprensibili. Si pensi alla semilibertà (artt. 48 e ss. o.p.)che al di là dei tecnicismi significa: di giorno si lavora o si studia nella società libera; di notte si torna a dormire in carcere. A cosa e a chi serve? È difficile ottenere una risposta di senso a tale domanda di senso.

Solo entrare in carcere consente a chi vive nella società libera di comprenderne i problemi. Un esempio recente proviene da un’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Bologna[5] che – si è detto in dottrina[6] – ha affermato il diritto del detenuto in regime di 41-bis di “vedere il cielo” dalla propria cella.

Nel provvedimento si fa riferimento al fatto che il Magistrato di sorveglianza aveva «personalmente appurato che, per scorgere il cielo dalla finestra della c.d.p., [era] necessario appoggiarsi al muro o alla finestra stessa e sporgere la vista pressoché verticalmente». Ecco perché «bisogna aver visto»[7]: perché non si può paragonare la lettura di una informativa o di una deduzione difensiva scritta con la percezione personale e diretta della situazione di fatto.

Secondo parte della dottrina il diritto rispecchia «fedelmente l’evoluzione del tessuto sociale» quale «espressione costante, naturale e riflessa del mondo dell’azione»[8]. Il diritto non è sempre uguale a sé stesso, così come la punizione si è evoluta nel corso della storia.

 Ragionare sulle metamorfosi di quest’ultima dovrebbe consentire alla società – per il tramite dell’attività divulgativa degli esperti – di relativizzarne il concetto e accettare possibili suoi ulteriori cambiamenti, nell’ottica di un carcere sempre «più vuoto»[9] e marginale.

2. Alcuni cenni storici sull’evoluzione del meccanismo repressivo.

2.1. Diritto romano e diritto longobardo.

Non è questa la sede per presentare una storia della pena. Essa sarebbe incompleta e chi scrive non ne sarebbe capace. È possibile però richiamare alcune esperienze: da esse emerge che il diritto penale si costruisce “ad immagine e somiglianza” della collettività di riferimento, perché esso vive nel rispetto della legalità posta da un ordinamento determinato e non tollera interferenze prodotte da fonti normative non legali[10].

Originariamente all’epoca dei re la ricomposizione della pace violata dalla commissione di un crimine veniva rimessa alla vendetta della persona offesa o dei suoi familiari. La diffusione della vendetta privata nell’età arcaica anche oltre i confini di Roma sostituiva la necessità della celebrazione di un processo volto ad accertare la responsabilità dell’individuo davanti al consesso sociale.

Il coinvolgimento della autorità regia si rendeva necessario invece nel momento in cui venivano violati i rapporti con le divinità, che la città intendeva preservare al fine di assicurarsi prosperità.

Le sanzioni del re erano «ad un tempo penali e religiose, nei confronti di chi, con il suo riprovevole comportamento, avesse messo a rischio i buoni rapporti fra stato e divinità»[11]. Le leggi regie in materia criminale miravano a sanzionare l’offesa nei confronti degli dèi, la cui ira il re-sacerdote doveva scongiurare attraverso un’opera di purificazione[12]. Così facendo il re sanava la lacerazione del legame collettività-divinità, arginando l’oltraggio e attribuendolo ad unico soggetto, ritenuto empio[13].

Con le XII Tavole la vendetta privata veniva ridimensionata, “giuridificata” e indirizzata verso la promozione della ricomposizione della pace sociale attraverso strumenti alternativi allo spargimento di sangue, come ad esempio la sostituzione della pena corporale con la decurtazione del patrimonio dell’autore del fatto in favore dell’offeso.

 In quest’ottica, la pena iniziava ad arricchirsi di ulteriori funzioni rispetto alla mera afflizione. In riferimento ad esempio al taglione (XII Tab. 8.2) si è rilevato come esso non fosse una mera reminiscenza della violenza arcaica dell’età regia, quanto piuttosto una sanzione posta dall’ordinamento al fine di arginare la vendetta privata attraverso la promozione del pactum fra l’autore e la vittima: solo in ottica residuale e, potremmo dire, di extrema ratio, assumeva significato il dettato «si membrum ruptum, ni cum eo pacit, talio esto»[14].

 Le XII Tavole fissavano poi la «fondamentale distinzione»[15] tra crimina di competenza degli organi pubblici e delicta rimessi all’iniziativa della parte offesa e sanzionati con pena pecuniaria di carattere privato. L’innovazione risiedeva nel fatto di attrarre la pena pubblica nella sfera degli interessi della collettività organizzata. Si intraprendeva un percorso di progressiva depurazione dalle influenze religiose. La carcerazione non costitutiva una species di sanzione penale. Nell’evoluzione dell’età repubblicana l’esecuzione della pena di morte era peraltro alquanto rara, perché si preferiva ad essa l’esilio[16].

La punizione pubblica da strumento necessario per emendare religiosamente la collettività dall’impurità di cui si era macchiato il reo – che avevo recato offesa agli dèi – si trasformò in strumento volto a neutralizzare i soggetti pericolosi per la ordinata convivenza nell’Urbe, salvo i casi in cui il fatto illecito commesso potesse trovare una compensazione economica.

Anche in età imperiale, nonostante la maggiore rilevanza affidata alla pena di morte, «carcer enim ad continendos homines, non ad puniendos haberi debet»[17].

Nel diritto penale longobardo prevaleva invece il sistema delle «compositiones». Il processo penale veniva azionato dalla pubblica autorità e solitamente conduceva all’irrogazione di una multa il cui scopo era «colpire un comportamento che l’ordinamento considera[va] e qualifica[va] come antigiuridico»[18].

La pena pecuniaria come strumento di risoluzione dei conflitti e di afflizione assumeva ruolo centrale, mentre le privazioni della libertà personale avvenivano solo quando il reo si fosse reso insolvente, quale extrema ratio: la pubblica autorità assicurava che l’autore fosse messo a disposizione delle volontà della persona offesa. Per i crimina atrocissima erano invece previste principalmente pena di morte e confisca[19].

2.2. Epoca premoderna.

Nell’epoca premoderna la repressione penale trovava la sua giustificazione nella derivazione divina del potere costituito ed era plasmata quale sanzione necessaria all’emenda interiore. Si è rilevato come «(…) Nel XVI secolo la radicalizzazione delle componenti preventive dello ius puniendi si salderà ad un penale ancora non secolarizzato, permeato da un’idea metafisica di diritto e fermo alla bipartizione fra poenae divinae e poenae humanae, tese rispettivamente a supportare il carattere espiatorio-retributivo del peccato-reato ovvero l’emendatio del reo»[20].

Si tratta del contesto storico-sociale in cui prenderà piede il meccanismo repressivo della Santa Inquisizione. È interessante notare come alla conformazione della pena quale espressione di potere[21], valida di per sé in quanto minacciata, irrogata ed eseguita, si accompagnassero il disinteresse per la ricostruzione del fatto per un verso; e la valorizzazione del modo di essere deplorevole del reo per un altro. Il fatto commesso (o meglio imputato) assumeva significato in quanto indicativo dell’interiore modo di essere, capace di orientare qualsiasi condotta di quell’uomo verso il contrasto alle regole esistenti.

Secondo la dottrina il diritto penale era costruito sul modello del diritto penale dell’autore, dunque del nemico[22].

In tal senso si spiegano le pene straordinarie irrogate dal Giudice in caso di difetto di prova certa, sulla base di presunzioni semplici. Il bisogno di reprimere gli imputati per fatti non pienamente provati ma “sicuramente” a loro attribuibili influenzava anche le regole del rito, perché «l’accentramento statale seicentesco [aveva] impresso un deciso carattere di pubblicizzazione, in virtù del quale il delitto [era] visto prima di tutto come un’offesa alla Respubblica e la punizione come un elemento essenziale alla sua stessa difesa»[23].

Così ad esempio in caso di un reato odioso come quello di blasfemia si giustificava l’ammissibilità dell’escussione testimoniale di soggetti solitamente giudicati incapaci ad assumere l’ufficio di testimone, per l’assoluta necessità – di allora – di pervenire ad una condanna al fine di non lasciare impunito il soggetto colpevole di un fatto ritenuto particolarmente grave[24].

Al netto delle teorizzazioni filosofiche e giuridiche in ordine al significato della punizione legale l’obiettivo principale dell’uso della forza pubblica sembrava essere quello di colpire i soggetti che attraverso il proprio comportamento avessero manifestato la propria natura ribelle rispetto alle regole imposte dal potere costituito: non vi era (o meglio non era prevalente) l’esigenza di preservare la convivenza civile. Si percepiva invece il bisogno di riaffermare la forza del regnante, della potestà accentrata[25].

2.3. Illuminismo e rifiuto filosofico e razionale della pena di morte.

Secondo il Foucault, a partire da questo retroscena storico dalla seconda metà del Settecento iniziava «una nuova era per la giustizia penale»[26] nella quale la reclusione dei colpevoli diveniva necessaria nell’ottica di neutralizzare gli effetti sociali pregiudizievoli connaturati all’esecuzione pubblica dei supplizi: la compassione verso il condannato, l’abitudine alla violenza, la normalizzazione del fenomeno criminale[27].

Il carcere sarebbe nato al fine di rendere la punizione «la parte più nascosta del processo penale»[28]. Lo strumento della deterrenza non era più da individuarsi nel timore sociale della truculenza della pena-vendetta spettacolare, ma nella certezza fatale della punizione[29].

Altri osservano invece come l’affermazione del carcere come luogo della correzione sia da attribuirsi al processo di urbanizzazione che coinvolse l’Europa a seguito della caduta dei regimi feudali, in un contesto in cui la emarginazione sociale di reietti fungeva da strumento di controllo delle masse e del proletariato[30]. Così in Inghilterra si realizzavano le work-houses e le case di correzione tese alla custodia[31].

L’ingresso della reclusione nel novero delle punizioni per il fatto-reato in Europa trovava la sua giustificazione filosofica e giuridica nell’epoca dei lumi. L’elemento di maggiore rilievo esaminando l’opera del Beccaria è da individuarsi proprio nello stretto ancoraggio fra critica alla pena di morte e alla pena corporale (inutili e ingiuste) e costruzione di un sistema di commisurazione del quantum di pena proporzionale al fatto commesso: il fondamento contrattualistico del potere punitivo dello Stato non poteva tollerare irrazionalità, arbitrio od eccessi, perché esso derivava dalla cessione di quote di libertà da parte degli individui in vista di un interesse generale, ossia assicurare la convivenza civile[32].

Attraverso il patto sociale i consociati miravano ad uscire dallo stato di natura ove era a rischio la libertà individuale di ciascuno. Per tale ragione essi non avrebbero mai potuto razionalmente attribuire all’organizzazione statuale il diritto di annientare il bene supremo della vita[33].

La pena di morte veniva poi criticata sotto il profilo della sua utilità in riferimento alla funzione intimamente attribuita all’istituto penale: quella di «prevenire i delitti» attraverso la minaccia di un male che si ritiene necessario[34]. Non sembra corretto individuare profili di mera retribuzione nel sistema razionale di reazione statale al fatto-reato: si trattava piuttosto di una retribuzione finalizzata a garantire il mantenimento delle condizioni di esistenza del contratto sociale.

L’inflizione della pena di morte non poteva di conseguenza annoverarsi fra i diritti del sovrano. Beccaria non escludeva in assoluto la pratica necessità e l’utilità della pena capitale, che appariva legittima nel caso in cui fosse messa in crisi o in pericolo l’esistenza dello Stato. In tempo di pace invece non si rinveniva «necessità alcuna di distruggere un cittadino»[35].

La giustificazione razionale e filosofica della reclusione mutuava il suo significato dall’esclusione dai diritti del sovrano di quello di annientare l’essere umano. Seguiva la necessità di razionalizzare la relazione fatto-reato/pena in chiave proporzionale. Anche in tal caso il ragionamento era al contempo logico ed utilitaristico: la sanzione percepita come ingiusta era considerata inutile perché la sua intima funzione doveva essere quella di convincere la collettività della sconvenienza della commissione dei delitti.

È proprio in confronto ai profili di general-prevenzione che la pena di morte (o meglio la pubblica esecuzione di essa) aveva perso la sua capacità intimidatoria e aveva condotto alla diffusione nei consociati di sentimenti di pietà per il dolore subito dal suppliziato[36].

 In uno dei passi più lucidi della sua opera il Beccaria si sofferma sulla capacità conformante della minaccia di una pena non massimamente intensa, ma proporzionalmente estesa nel tempo[37]. Il tempo di privazione della libertà personale come porzione di vita sottratta all’esercizio dei diritti e al perseguimento del proprio utile appariva come elemento centrale della deterrenza del sistema sanzionatorio penale di matrice legale.

Da questa importante impalcatura concettuale derivava che la reclusione del reo dovesse trovare giustificazione nella sua destinazione ai lavori forzati, quale bestia da servigio[38]al servizio della società. Quest’ultima avrebbe dovuto essere ricompensata l’offesa rivolta a quest’ultima «con le sue fatiche». La lacerazione del patto sociale doveva trovare ricomposizione; quest’ultima era rimessa all’impegno e al sudore del reo[39].

Una volta mossa la critica alla violenza della pena capitale e alla truculenza del supplizio pubblico residuava il problema di fondo di cosa fare dell’individuo messo a disposizione dell’autorità: se per il suo tramite si dovesse perseguire uno scopo generale (“ripagare la società offesa”) o se piuttosto si potessero creare le condizioni anche in concreto del suo ritorno alla vita libera.

2.4. Difesa sociale e diritto totalitario.

Nell’evoluzione ottocentesca del diritto penale e della criminologia si individuavano i difetti della retribuzione general-preventiva rispetto all’esigenza di contrastare i fenomeni criminali e di recuperare effettivamente chi una volta conclusasi la privazione della libertà fosse tornato nel consesso civile.

Nell’opera del Liszt[40] ad esempio il problema della pena era individuato nella sua eguaglianza. Il rifiuto delle pene detentive brevi non era assoluto ma limitato ai c.d. delinquenti abituali, ossia coloro che si erano determinati a delinquere per necessità e non per malvagità: ad essi lo Stato avrebbe dovuto dedicare attenzione, al fine di eliminare quelle condizioni sociali che ne avessero indirizzato l’azione verso l’offesa a beni giuridici tutelati.

 Solo agli occhi di questi soggetti una pena detentiva breve sarebbe apparsa come profondamente ingiusta in quanto meramente afflittiva e indifferente alle loro difficoltà di vita, mentre la reclusione ricompresa fra uno e cinque anni[41] sarebbe risultata utile per gli stessi delinquenti «abituali» allo scopo di preservare la società dalla loro devianza.

Nessun trattamento era invece da prevedere nei confronti dei recidivi a cui fosse stata inflitta una terza condanna: per essi era necessaria l’emarginazione indeterminata, salvo cicliche valutazioni circa la persistenza della pericolosità sociale. Nella teoria lisztiana la privazione della libertà di lunga durata assumeva senso in quanto volta a neutralizzare quei soggetti ritenuti ormai refrattari a qualsiasi possibile programma di recupero.

La «difesa sociale»[42] costituiva nelle teorie del positivismo lo scopo della punizione.

 Eppure, l’attenzione alla difesa sociale non appare un’invenzione di fine Ottocento, ma piuttosto una nota costante più o meno emersa nel corso dell’evoluzione del sistema punitivo. Essa riesplodeva proprio a partire dall’affermazione illuminista della privazione della libertà come principale strumento di reazione alla commissione di fatti di reato.

Successivamente nella prima metà del Novecento in Germania si dedicava particolare attenzione al tipo «normativo» di autore del fatto illecito. In particolare la dottrina tedesca[43] individuava nella legislazione penale di quel paese un’innovazione costituita dalla maggiore considerazione della personalità del reo nell’opera interpretativa del contenuto delle fattispecie penali incriminatrici. È proprio nella veste di canone ermeneutico che il tipo normativo d’autore trovava rilevanza giuridico-penale, al fine di facilitare l’opera di sussunzione delle condotte contestate all’imputato nella descrizione legale del fatto illecito.

Si trattava per un verso di uno strumento di risoluzione di questioni controverse nell’ambito dell’accertamento processuale; per un altro verso di regola di giudizio in caso di ricostruzione problematica della sussistenza della fattispecie soggettiva[44].

Su tale costruzione si poggiò la funzionalizzazione della pena quale strumento di affermazione dello Stato sull’individuo. Anche il bene giuridico subiva la sua metamorfosi: da strumento di garanzia nella razionale costruzione della proporzionalità liberale a strumento di apertura del diritto positivo criminale[45], al fine di consentire allo Stato di punire secondo le sue necessità. Esso unito alle considerazioni sulla pena e sull’autore malvagio giungeva a legittimare l’irrogazione di sanzioni quali strumenti di attuazione della ratio legis[46].

Con l’affermazione del regime totalitario nazionalsocialista il senso della punizione muoveva dal significato attribuito all’offesa, considerata quale perdita dell’onore da parte del Volkglied reo che si fosse determinato a violare l’obbligo di fedeltà alla Comunità popolare. Il reato diveniva «un ribellarsi ed un sottrarsi agli ordinamenti reali ed etici della comunità popolare»[47]: in sostanza l’autore del fatto offendeva anzitutto sé stesso[48], perché veniva meno al ruolo di membro della collettività in chiave organicistica. Il diritto penale si riduceva a strumento sanzionatorio per la mera violazione del dovere di condotta.

3. Assemblea Costituente e «dibattito sulla rieducazione».

Il dibattito sulla pena si ripropose nel momento in cui un nuovo ordinamento doveva formarsi e cercare di stabilire i suoi caratteri fondamentali.

In Assemblea Costituente si manifestavano tensioni, perché l’eventuale esplicitazione in Costituzione della funzione della pena avrebbe sicuramente avvicinato il testo costituzionale ad una delle scuole di pensiero precedenti (Scuola Classica e Scuola Positiva). Così a fronte dell’originaria formulazione dell’art. 27, co. 3° Cost. in cui la tendenza alla rieducazione risultava anteposta al principio di umanità della pena; e della proposta emendativa di Bettiol e Leone di invertire gli enunciati[49]; Tupini suggeriva di assumere una posizione più chiara che non temesse la possibile successiva catalogazione della scelta dispositiva costituzionale, così potendosi mantenere il testo originario ove la rieducazione precedeva l’umanizzazione[50].

Per alcuni il problema della pena era di assicurarne anzitutto l’umanità e non anche la finalità rieducativa. Vi era un certo scetticismo ideologico circa la possibilità di «redimere» tutti i colpevoli: sarebbe risultato in ipotesi bastevole intervenire in chiave pratica e amministrativa, migliorando le strutture ed investendo risorse economiche[51].

Dall’orrore del regime fascista maturava in ogni caso la necessità di dover affermare l’inviolabilità della libertà personale e di esplicitare la finalità rieducativa delle pene. I due principi costituiscono i pilastri della struttura costituzionale dell’illecito penale[52]. Non si può poi trascurare la portata fondamentale dell’art. 13, co. 1° Cost. nella giustificazione del potere sanzionatorio penale statuale[53].

Tali principi come anticipato derivavano più dall’esperienza pratica di chi li propose che dall’adesione ad una o all’altra filosofia morale: un’esperienza di «dolore» che molti dei Costituenti (e molti deputati e senatori, successivamente) ebbero a provare sulla propria pelle perché reclusi quali oppositori politici[54].

Quel dolore si è perso con il passare del tempo nella trama della memoria collettiva e sembra esser svanita la sua capacità pedagogica. Talché se nel ’48 «il pubblico non sa[peva] abbastanza»[55] riguardo alle condizioni delle strutture penitenziarie del tempo, oggi il pubblico non vuole sapere affatto cosa significhi essere sottoposti a processo, subire una condanna, essere reclusi.

L’attuazione costituzionale dell’art. 27, co. 3° Cost. veniva (e viene ancora oggi) portata avanti dalla Corte costituzionale. Con la sentenza n. 12 del 1966 per esempio – pur rimanendo ancorata alla concezione polifunzionale della pena – la Corte connetteva le due parti dell’art. 27, co. 3° per valorizzare la necessaria umanità della pena pur relegando la finalità rieducativa a mero momento dell’esecuzione in concreto: «rieducazione del condannato, dunque, ma nell’ambito della pena, umanamente intesa ed applicata».

Iniziava poi quel lento percorso che avrebbe condotto la Corte ad alcune sentenze “storiche”: la n. 364 del 1988 in tema di ignorantia iuris e di colpevolezza; la n. 313 del 1990 con la quale si riconosceva la finalità rieducativa come connotato essenziale della pena e unico scopo di essa. Il piano del reato in generale e quello della pena in riferimento alla loro conformazione ai principi costituzionali procedevano di pari passo, perché la punizione per un fatto incolpevole è di per sé contraria ad un possibile progetto rieducativo. L’autore mai potrebbe aderire ad un trattamento che gli è imposto per aver commesso un fatto che dal punto di vista psichico non poteva essergli attribuito.

In questo percorso si inserirà l’entrata in vigore della legge n. 354 del 1975. La forza propulsiva della riforma del 1975 si doveva però confrontare con prevedibili e fisiologiche resistenze.

Franco Bricola nel 1977 ad esempio sottolineava che il legislatore non si era avveduto della criticità di fondo del sistema penale, ossia l’iper-criminalizzazione. La riforma si inseriva nel contesto sociale e politico degli anni di piombo nel quale la legislazione penale veniva polarizzata dalla necessità degli interventi in materia di ordine pubblico.

In quel momento, il sistema viveva nel paradosso di una riforma epocale non pienamente attuata per necessità, in quanto prevaleva l’interesse di contrastare fenomeni percepiti dalla società come particolarmente allarmanti. Si riaffermava il «carattere violento e terroristico del carcere» e si strumentalizzava a livello politico il fenomeno delle evasioni al fine di screditare il ruolo del Giudice della Sorveglianza così come definito dall’ordinamento penitenziario[56].

Giuliano Vassalli nel 1982 ricordava le reazioni dell’opinione pubblica che considerava il trattamento riconosciuto dalle autorità agli autori di determinati reati troppo “compassionevole” e “mite”, in un contesto in cui «la società esterna presenta[va] gravi problemi per la gente onesta o non venuta a contatto con la giustizia». Il pensiero di quest’ultima veniva così generalizzato: «fino a quando gli ospedali sono nelle condizioni in cui si trovano (o sono stati in questi anni ridotti) perché ci si dovrebbe preoccupare della condizione dei condannati?»[57].

4. Paradosso della pena oggi.

Le esperienze richiamate – e gli ultimi riferimenti al «dibattito» seguito all’entrata in vigore della legge sull’ordinamento penitenziario nel 1975 – mettono in luce elementi – che paiono costanti – del paradosso della punizione. Essi si ripropongono ancora oggi.

Per un verso v’è la costruzione politica della pena minacciata come naturale risposta al bisogno di sicurezza “alimentato” nella società che consente alla collettività di invocare il mito della pena esemplare per i soggetti pericolosi. Per un altro verso l’ordinamento ha difficoltà a garantire l’effettiva esecuzione della pena esemplare per il soggetto pericoloso perché è necessario scongiurare il rischio del sovraffollamento delle aule di giustizia e quello degli istituti di pena (degradante per la dignità dei detenuti)[58].

È necessaria una presa d’atto: la collettività vuole una punizione non rieducativa, neutralizzante, che non punisca per il fatto commesso, ma che punisca l’animo di chi lo commette; la politica registra senza intermediazione il bisogno repressivo e conseguentemente cerca di far apparire la punizione come esemplare, trascurando il profilo della rieducazione.

Discutere di pena e di diritti dei detenuti è ancora necessario a causa della difficoltà di affrancamento dei discorsi politico e sociale dalle logiche securitarie e della vendetta pubblica. Non può dirsi sopito l’interesse per temi “classici” della giustizia penale: il senso del punire; con quali modalità sia costituzionalmente legittimo punire, anche avuto riguardo al perpetuo replicarsi della logica emergenziale (la proverbiale «perenne emergenza»[59]) in materia penale.

La reclusione tanto nella proclamazione quanto nella esecuzione[60] non pare più conformarsi al concetto stesso di pena costituzionalmente legittima. La privazione della libertà personale come reazione dell’ordinamento sembra mantenersi per un tempo che una Costituzione pienamente attuata non potrebbe più tollerare.

La pena detentiva di media e di lunga durata sembra assumere de facto i caratteri tipici di una misura di sicurezza detentiva volta alla difesa della collettività attraverso l’emarginazione di soggetti ritenuti pericolosi e capaci di perpetrare azioni criminose una volta fuori dalle mura del penitenziario.

Nella «dicotomia fra interno ed esterno» il diritto penale si rivela «funzionale all’obiettivo della sicurezza»[61]. La pena risulta efficace quando consente di escludere il soggetto violento dalla collettività ordinata. Tale portato concettuale incide sull’idea rieducativa anche nell’era del costituzionalismo moderno. L’aporia del recludere per rieducare risiede nel fatto che il trattamento imposto nei limiti del tempo predeterminato dalla legge è «inteso come adesione del reo a regole comportamentali del tutto formali e quindi del tutto prive della capacità di incidere realmente sulla persona, ma anzi incentivanti una vera e propria finzione deresponsabilizzante attraverso la costruzione di un comportamento “corretto” di mera facciata (…)»[62].

Richiamando ancora il discorso di Vassalli, «(…) la pena una volta scontata o altrimenti caduta sotto una causa estintiva [dovrebbe] aver termine anche ove sia chiaro che non vi è stato alcun recupero del soggetto alla vita sociale. (…) Per la pena si ha dunque funzione di prevenzione speciale mediante rieducazione del condannato come per la misura di sicurezza, ma non si ha solo quella funzione»[63].

In quest’ottica il progresso della civiltà giuridica potrebbe (o dovrebbe?) pervenire ad una nuova operazione di coerenza. Si tratta come già visto di un problema non solo attuale ma costante del carcere quale punizione connessa alla commissione di un fatto-reato. «L’unità di misura»[64] della pena veniva individuata dall’illuminismo giuridico nella libertà personale per necessità logica, perché davanti agli occhi degli osservatori vi erano la pena di morte e le pene corporali con le loro aberrazioni e sostanziale inutilità pratica.

Ma oggi – per fortuna – tale necessità non è più attuale nel nostro ordinamento giuridico- costituzionale.

5. Quale futuro per la punizione costituzionalmente orientata?

La punizione come afflizione ha valenza costituzionale se ad essa si riconnette la finalità special-preventiva tesa alla individualizzazione del progetto di trattamento per il condannato – che presuppone la sua effettiva “presa in carico” – affinché questi addivenga alla comprensione del momento di disvalore insito nel fatto commesso[65].

Ci si chiede se non sia possibile ragionare di equivalenze tra grado di offesa al bene giuridico e grado comparabile di limitazione temporale all’esercizio di diritti costituzionali diversi dalla libertà personale: ossia ripensare l’illecito penale non più come eccezione alla regola della libertà personale quanto piuttosto come eccezione alla regola del libero godimento delle facoltà e delle prerogative proprie dello statuto personalistico su cui fonda l’architettura costituzionale.

Tale ragionamento potrebbe condurre ad individuare quale «unità di misura» della pena il tempo in sé, quale bene sacrificabile per attuare la finalità prescritta dall’art. 27, co. 3° Cost. nel rispetto della dignità umana. Si tratterebbe del tempo che il reo mette a disposizione dell’ordinamento affinché quest’ultimo attui il meccanismo con cui richiedere l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale (art. 2 Cost.), violati dalla commissione di un fatto individuato dal legislatore come offensivo di un interesse. «L’unità di misura» potrebbe essere individuata nel tempo che l’ordinamento giuridico-costituzionale sottrae al condannato per promuovere la sua opera rieducativa e la riparazione del reato[66].

Appare necessaria e urgente una nuova impalcatura concettuale e una nuova riflessione che miri a sconfessare la validità della reclusione quale punizione in generale, individuando proprio nel tempo in sé messo dal reo a disposizione dell’ordinamento – per realizzare la ricomposizione della lacerazione della relazione sociale autore/vittima connessa al fatto; per assicurare la ricomposizione del rapporto autore/collettività/ordinamento attraverso la comprensione del disvalore – il carattere centrale del meccanismo di tutela penale.

Esistono particolari categorie di delitti di rilevante gravità, sociologicamente connotati: se solo nei confronti di questi debba giustificarsi la reclusione, ci si chiede quale senso abbia continuare a identificare tale istituto nella sua interezza come forma di punizione. La reclusione appare un attuale problema di natura costituzionale e un costante problema filosofico e giuridico, poiché sembrerebbe giustificarsi maggiormente se incardinata nel sistema delle misure di sicurezza detentive.

Quest’ultime presentano notevoli criticità. Sembra però difficile identificare diversamente una misura che estranei dal contesto sociale un soggetto per un fatto commesso, in ottica custodiale.

Una nuova concezione – costituzionalmente orientata – potrebbe spiegare effetti positivi per la valorizzazione dei diritti dei reclusi: se costruite sulla gravità del fatto commesso e con cornici edittali predeterminate dal legislatore – così da poter essere conoscibili – le misure di sicurezza consentirebbero di valutare con maggiore flessibilità il percorso trattamentale quale elemento suscettibile di attenuare il giudizio di pericolosità del soggetto nell’ottica del rilascio. La revoca – superato il tempo corrispondente alla durata minima stabilita dalla legge per ciascuna misura di sicurezza – potrebbe essere disposta in qualsiasi momento al venire meno della pericolosità sociale.

V’è il rischio che proseguendo nella legittimazione del carcere come pena si addivenga nei fatti ad una distinzione del contenuto della pena a seconda delle diverse categorie dei soggetti e non invece ad una distinzione di esso sulla base della diversa offesa arrecata ad un bene giuridico tutelato. A venire meno così sarebbe il principio di pari dignità sociale di cui all’art. 3 Cost.

Le pene come imposto dalla Costituzione nascono appunto “per punire”. Individuare una diversa modalità di costruzione dell’equivalenza fra bene giuridico offeso dal fatto e bene giuridico proprio dell’autore aggredibile non ne sconfessa l’esistenza. Piuttosto la innova.

Ragionare sul metro di paragone del tempo in sé, come periodo della vita umana sottratta al libero esercizio dei diritti costituzionali, consentirebbe di preservare i caratteri afflittivi, riparativi e rieducativi della pena costituzionalmente conforme. La restrizione della libertà personale per lunghi lassi di tempo si giustifica di fatto sulla permanenza della pericolosità; potrebbe venire meno con più semplicità qualora si espungesse di diritto la reclusione dal novero delle forme del punire.

Il carcere può subire una nuova trasformazione – dopo quelle sopra esaminate in modo asistematico – in questo senso, o si tratta solo di una sterile provocazione?


[1] Cfr. G. Fiandaca, Punizione, Bologna, 2024.

[2] Cfr. sul punto S. Talini, La privazione della libertà personale. Metamorfosi normative, apporti giurisprudenziali, applicazioni amministrative, Napoli, 2018, 25 ss.; P. Gonnella – D. Ippolito (a cura di), Bisogna aver visto. Il carcere nella riflessione degli antifascisti, San Giuliano Milanese, 2019.

[3] Cfr. https://ristretti.org/flick-le-carceri-sono-affollate-di-persone-povere-perche-e-piu-facile-castigare-i-deboli; sul punto cfr. anche G.M. Flick, Carcere, violenza e “residui di libertà”, in Rivista AIC, 1, 2024.

[4] Cfr. ex plurimis N. Christie, Abolire le pene?, Torino, 1985; T. Mathiesen, Perché il carcere?, Torino, 1996; L. Hulsman, Pene perdute, Milano, 2001; L. Manconi – S. Anastasia – V. Calderone – F. Resta, Abolire il carcere, Milano, 2022.

[5] Cfr. Trib. Sorveglianza Bologna, ord. n. 3441/2024 del 17-09-2024, in Giurisprudenza Penale Web, 07-10-2024.

[6] Cfr. ex plurimis E. Fanciullo, Dal riconoscimento del “diritto al cielo” alla preclusione alla “pasticceria fresca”: due modi di intendere il 41-bis O.P., in Giurisprudenza Penale Web, 10, 2024.

[7] Cfr. P. Calamandrei, Bisogna aver visto, in Rivista Il Ponte, 1949, V, 3, 225 ss.

[8] Cfr. V. Frosini, La struttura del diritto, Milano, 1976, 27.

[9] Cfr. G. Gallone, Il sogno di un carcere vuoto, in L’Osservatore Romano, 06-07-2024.

[10] Sulla relatività del reato dal punto di vista spaziale, cfr., essenzialmente, E.H. Sutherland – D.R. Cressey, Criminology, IX, Santa Barbara, 1974, 15; cfr. anche E. Mezger, Kriminologie. Ein Studienbuch, München-Berlin, 1951, 4; C. Roxin, I compiti futuri della scienza penalistica, in Riv. it. dir. proc. pen., 4, 2000; M. Weber, Economia e società. Sociologia politica. trad. it. Wirtschaft und Gesellschaft (1922), vol. IV, Torino, 1999, 479-480.

[11] Cfr. B. Santalucia, La giustizia penale in Roma antica, Urbino, 2017, 11.

[12] Cfr. B. Santalucia, op. cit., 14.

[13] Con riferimento alle leggi regie, cfr., ex plurimis, S. Tondo, Introduzione alle “leges regiae”, in Studia et documenta historiae et iuris, n. 37, 1971,1-73; P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in Studia et documenta historiae et iuris, 19, 1953, 38 ss.

[14] In questo senso, F.M. De Robertis, La funzione della pena nel diritto romano, in Scritti vari di diritto romano, III, Bari, 1987, 8-9.

[15] Cfr. B. Santalucia, in Diritto e processo penale nell’antica Roma, Milano, 1998, 67.

[16] Cfr. B. Santalucia, Pena criminale (dir. rom.), in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, 737, ove si specifica come all’espatrio – consentito prima della pronuncia dell’ultimo voto per la condanna – seguiva l’aqua et ignis interdictio, un formale provvedimento adottato per dichiarare le conseguenze giuridiche prodotte dall’esilio volontario, ossia: divieto di entrare in città, confisca dei beni e perdita della cittadinanza. Ricorda inoltre l’A. come tale pratica «si trasformò da semplice mezzo per sfuggire all’esecuzione della condanna in vera e propria pena».

[17] Cfr. Ulpiano, D. 48, 19, 8, (9 de off. proc.) come riportato in B. Santalucia, ult. op. cit., 738.

[18] Cfr. G. Diurni, Pena criminale (dir. interm.), in Enc. dir., XXXII, Milano, 1984, 755.

[19] Cfr. G. Diurni, op. cit., 759.

[20] Cfr. F. Forzati, Il diritto penale dell’obbedienza fra fondamento etico-religioso dell’offesa e funzione potestativa della pena, in Arch. pen., 3, 2017, 3.

[21] Cfr. in questo senso F. Forzati, op. cit., 6: «[s]ottratta all’utilità ed ai bisogni effettivi della comunità, la pena si tramutò in mero esercizio (e manifestazione) di potestas, esacerbando i suoi caratteri coercitivi e belligeranti».

[22] Cfr. in questo senso ex plurimis, T. Padovani, Il nemico politico e il suo delitto, in A. Gamberini – R. Orlandi (a cura di), Delitto politico e diritto penale del nemico, Bologna 2007, 74.

[23] Cfr. F. Di Chiara, Il diritto penale del Regnum Siciliae in una raccolta di decisiones della seconda metà del Seicento, in Glossae. European Journal of Legal History, 13, 2016, 193. L’A. presenta il contenuto della raccolta del giudice ed avvocato messinese Girolamo Basilicò (G. Basilicò, Decisiones criminales Magnae Regiae Curiae Regni Siciliae. Quibus adiectae sunt insignores quaestiones ad materias decisum pertinentes, Madriti, 1669). Lo studio appare particolarmente interessante, poiché tenta di desumere dal contenuto dalla prassi giudiziaria cristallizzata nelle decisiones esaminate il significato della punizione secondo l’organizzazione del Regnum Siciliae seicentesco.

[24] Cfr. F. Di Chiara, op. cit., 196.

[25] Cfr, sul punto, M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (trad. it. di Alcesti Tarchetti), Torino, 2017, 39: «Ayrault supponeva che questa procedura (stabilita nell’essenziale già nel secolo XVI) avesse come origine “la paura dei tumulti, delle grida e delle acclamazioni che il popolo fa d’abitudine, la paura che ci fossero disordine, violenza e impetuosità contro le parti o addirittura contro i giudici”; il re avrebbe voluto mostrare con questo mezzo che “la potenza sovrana” da cui deriva il diritto di punire non può, in nessun caso, appartenere “alla moltitudine”. Davanti la giustizia del sovrano, tutte le voci devono tacersi».

[26] Cfr. M. Foucault, op. cit., 9.

[27] Cfr., M. Foucault, op. cit., 11.

[28] Cfr. M. Foucault, ibidem.

[29] Cfr. M. Foucault, ibidem.

[30] Cfr. D. Melossi, Creazione dell’istituzione carceraria moderna in Inghilterra e nell’Europa continentale tra la seconda metà del Cinquecento e la prima metà dell’Ottocento, in D. Melossi – M. Pavarini, Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario, Bologna, 1977 (ris. 2018), 69 ss.

[31] Cfr. D. Melossi, op. cit., 70 ss. La posizione degli A. è così ricostruita in M. Donini, Genesi ed eterogenesi “moderne” della misura e dell’unità di misura delle pene. commento a Carcere e fabbrica, quarant’anni dopo, in Discrimen, 4-06-2020, 4: «[l]a minaccia del carcere funziona come deterritio per queste masse urbanizzate o disperse e diventa presto mezzo di produzione, utilizzando il vagabondo e il brigante in forme di lavoro forzato. Leggi terroristiche imperversano in Inghilterra contro i vagabondi. Fino a metà del ’500 ci sono la frusta, il bando e la pena capitale. Poi dalla Poor Law di Elisabetta in avanti, si sviluppa un sistema costrittivo che indurrà il povero o al lavoro o alla detenzione in case correzionali. È così che nasce il carcere nel significato custodiale, via via generalizzato e applicato a determinate “classi”».

[32] Cfr. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, in Opere, I, Milano, 1984, 31.

[33] Cfr. C. Beccaria, op. cit., 86-87.

[34] Cfr. C. Beccaria, op. cit., 33.

[35] Cfr. C. Beccaria, op. cit., 88.

[36] Cfr. C. Beccaria, op. cit., 93, ove l’A. tenta di spiegare quali reazioni (nel condannato e nel pubblico) possano essere stimolate dall’esecuzione della pena: «Ah!, diranno essi, queste leggi non sono che i pretesti della forza e le meditate e crudeli formalità della giustizia; non sono che un linguaggio di convenzione per immolarci con maggiore sicurezza, come vittime destinate in sacrificio, all’idolo insaziabile del dispotismo. L’assassinio, che ci vien predicato come un terribile misfatto, lo veggiamo pure senza ripugnanza e senza furore adoperato. Prevalghiamoci dell’esempio. Ci pareva la morte violenta una scena terribile nelle descrizioni che ci venivan fatte, ma lo veggiamo un affare di momento. Quanto lo sarà meno in chi, non aspettandola, ne risparmia quasi tutto ciò che ha di doloroso! Tali sono i funesti paralogismi che, se non con chiarezza, confusamente almeno, fanno gli uomini disposti a’ delitti, ne’ quali, come abbiam veduto, l’abuso della religione può piú che la religione medesima».

[37] Cfr. C. Beccaria, op. cit., 83-84 «non è l’intensione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa; perché la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni che da un forte ma passeggiero movimento».

[38] Così in C. Beccaria, op. cit., 89.

[39] Cfr., in questo senso, L. Garlati, Nemo propheta in patria. La proposta abolizionista di Beccaria nel dibattito italiano di fine settecento, fra tiepidi entusiasmi e tenaci opposizioni, in L. Garlati – G. Chiodi, Un uomo, un libro. Pena di morte e processo penale nel Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, Milano, 2014, XXI: «il condannato torna così ad essere mezzo e non fine del diritto, strumento utilizzato per ragioni di salute pubblica. Come nel caso del patibolo, anche nei lavori forzati il corpo del prigioniero diviene l’oggetto, attraverso cui fluisce l’idea stessa di giustizia».

[40] Cfr. F.V. Liszt, Der Zweckgedanke im Strafrecht, in Id. (a cura di), Strafrechtliche Aufsätze und Vorträge, Berlino, 1905, 126 ss.: trattasi della Prolusione di insediamento dell’A. all’Università di Marburgo (cattedra di diritto penale), anche nota come Programma di Marburgo.

[41] Cfr. F.V. Liszt, Der Zweckgedanke im Strafrecht, cit., 166 ss.

[42] Sulla ricostruzione dei contenuti della teoria della difesa sociale cfr., anche per i riferimenti ivi contenuti, M.A. Cattaneo, Pena (filosofia), in Enc. Dir., XXXII, Milano, 1982, 707 ss.; per la teoria della difesa sociale nella scuola positiva italiana, cfr. fondamentalmente, E. Ferri, Sociologia criminale, III, Torino, 1892. La teoria veniva costruita in opposizione alla teoria della responsabilità penale (o morale, con le parole del Romagnosi, citate dal Ferri) cara alla scuola classica. In particolare, «la punibilità o meglio la difesa sociale contro i delinquenti ha ancora la sua radice nell’individuo, come autore materiale di un delitto che è l’indice della sua personalità fisio-psicologica nel reagire all’ambiente fisico e sociale», talché l’A. specificava, per sconfessare le critiche mosse, che per «responsabilità sociale» si deve intendere responsabilità «dell’individuo verso la società» (cfr. E.  Ferri, op. cit., 475).

[43] Cfr., in generale, la ricostruzione presente in G. Dahm, Der Tätertyp im Strafrecht, Lipsia, 1940.

[44] Cfr. G. Dahm, op. cit., 21-46.

[45] Cfr. in questo senso J.M.F. Birnbaum, Über das Erfordernis einer Rechtsverletzung zum Begriff der Ehrenkränkung, in Neues Archiv des Criminalrechts, XV, 1834, 134 e ss.

[46] Cfr., ex plurimis, R. Honig, Die Einwilligung des Verletzten, Mannheim, 1919, 109.

[47] Cfr. H. Welzel, Der Allgemeine Teil des deutschen Strafreschts, Berlin, 1940, 1-2; cfr. sul punto anche F. Schaffstein, Grundfragen der neuen Rechstwissenschaft, Berlin, 1935, 119.

[48] Cfr. G. Maggiore, Diritto penale totalitario, in Riv. it. dir. pen., 1939, 155.

[49] Cfr. G. Leone, in Assemblea Costituente, Seduta antimeridiana di martedì 15 aprile 1947, Parte X, tipografia della Camera dei Deputati, 2879: «L’emendamento proposto da me e dall’onorevole collega Bettiol si pone nella stessa posizione spirituale in cui, a mio avviso, si è posta la Commissione nei confronti del secolare problema della funzione della pena. La Commissione, è chiaro, non ha voluto prendere posizione su questo problema. Esso è un problema che tormenta da secoli le menti dei pensatori e dei filosofi e che agita le legislazioni di tutto il mondo; non sarebbe stata quindi questa la sede opportuna per tentare di risolverlo./ La Commissione vuol quindi esprimere qualche cosa di diverso: che cioè, nell’esecuzione della pena, lo Stato si assuma l’impegno di facilitare il processo di rieducazione, di recupero morale del delinquente./ Ora, a me sembra che la formula del terzo comma proposta dalla Commissione possa, sia pure con una interpretazione esagerata, dar luogo all’impressione che la Commissione abbia voluto stabilire che il fine principale della pena sia la rieducazione. A mio avviso, poiché non si deve prender posizione, se non nel senso di individuare un fine collaterale dell’esecuzione della pena, il fine cioè di non ostacolare il processo di rieducazione del reo, la formula da noi proposta è la più idonea a rendere questo concetto, sul quale sono d’accordo i componenti della stessa Commissione» (a questo testo ci si riferisce anche in S. Talini, La privazione della libertà personale. Metamorfosi normative, apporti giurisprudenziali, applicazioni amministrative, cit., 25).

[50] Cfr. Aa. Vv. (Camera dei Deputati – Segretariato Generale), La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente. Vol. I – Sedute dal 25 giugno 1946 al 16 aprile 1947, Roma, 1970-1971, 905: «in questa discussione si sono proiettate le preoccupazioni che hanno riferimento alle scuole filosofiche. C’è la preoccupazione di chi è più ligio alla scuola classica, l’altra di chi è più ligio alla scuola positiva, e il timore che la nostra formula aderisca più all’una che all’altra e viceversa. Fo osservare agli onorevoli proponenti degli emendamenti che, in fondo, se noi siamo convinti, come chi vi parla è convinto, che effettivamente la società non deve rinunciare ad ogni sforzo, ad ogni mezzo affinché colui che è caduto nelle maglie della giustizia, che deve essere giudicato, che deve essere anche condannato, dopo la condanna possa offrire delle possibilità di rieducazione, perché ci dobbiamo rinunciare? Non importa a me che questo possa rispondere ad un postulato scientifico di una determinata scuola. Sono convinto, per un elementare senso umano, che bisogna fare ogni sforzo perché il reo possa essere rieducato, e credo che non dobbiamo rinunciare in nessun caso a questa possibilità. Giacché questo è anche il sentimento dell’on. Leone, dirlo in questa forma mi sembra il modo più chiaro possibile. Per queste ragioni noi teniamo ferma la formulazione della commissione».

[51] In questo senso l’intervento di Pietro Mastino, cfr. Aa. Vv. (Camera dei Deputati – Segretariato Generale), La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, cit., 712: «La rieducazione del reo. Io ho in materia le mie idee e penso che molti dei colpevoli possano veramente essere capaci di umana redenzione. Ma nego che tutti, assolutamente tutti, siano in grado di redimersi. (…) Miglioriamo le carceri ed i penitenziari. Spendiamo quel che è necessario per le carceri e anche per gli agenti di custodia, e allora potremo avere praticamente l’applicazione dei principî contenuti in questo articolo».

[52] In dottrina si fa riferimento al «modello costituzionale di illecito», che «si distingue, così, da altri modelli di diritto penale per la sua matrice tipicamente gius-legalistica. Non si tratta, cioè, di ricavare i principi fondamentali del sistema concretamente in vigore facendo leva sulle posizioni del singolo interprete o su dati di riferimento di tipo “giusnaturalistico”, ma di dedurre proprio dalla fonte legislativa primaria di un certo ordinamento i contenuti che quel diritto penale deve possedere» (cfr. N. Mazzacuva, Diritto penale e Costituzione, in G. Insolera – N. Mazzacuva – M. Pavarini – M. Zanotti (a cura di), Introduzione al sistema penale, III, I, Torino, 2006, 85).

[53] Cfr. l’intervento di Veroni, in Atti dell’Assemblea Costituente, Seduta 29-03-1947, 2652, rinvenibile all’URL http://legislature.camera.it/frameset.asp?content=%2Faltre%5Fsezionism%2F304%2F8964%2Fdocumentotesto%2Easp%3F: «(…) E come innanzi la prima Sottocommissione e la Commissione dei Settantacinque si era, con ardente passione, esaminato il problema delle libertà essenziali, così innanzi a questa Assemblea, con la stessa passione, si è approfondito l’esame della difesa e della protezione delle libertà inviolabili della persona. La discussione conclusiva ha condotto a pensare che la formula proposta nell’articolo 8: “La libertà personale è inviolabile”, rappresenta un sicuro progresso sulla formula dello Statuto albertino, secondo cui “la libertà personale è garantita”. La formula proposta oggi risponde meglio anche al criterio animatore del nuovo legislatore, che nel campo penalistico dovrà poi accingersi a fissare le norme repressive dei delitti contro tutte le libertà». In F. Bricola, Teoria generale del reato, in Noviss. Dig. it., XIX, Torino, 1973, 15 ss., l’art. 13 Cost. costituisce il fondamento costituzionale del principio di extrema ratio del diritto penale; la dottrina maggioritaria, invece, deriva dal precetto costituzionale ulteriore conferma del principio di stretta legalità, sotto il profilo della irretroattività della legge penale sfavorevole (cfr., ex plurimis, A. Pagliaro, Principi di diritto penale. Parte generale, Milano, 1980, 115).

[54] Cfr. P. Calamandrei, L’inchiesta sulle carceri e sulla tortura (Discorsi pronunciati alla Camera dei deputati nelle sedute del 27-28 ottobre 1948), in Il Ponte, 3, 1949, 228-229.

[55] Cfr., P. Calamandrei, op. cit., 228: «[i]n Italia il pubblico non sa abbastanza – e anche qui molti deputati tra quelli che non hanno avuto l’onore esperimentare la prigionia, non sanno – che cosa siano le carceri italiane».

[56] Cfr. F. Bricola, Introduzione a Aa.Vv., Il carcere “riformato”, Bologna, 1977, 2-3.

[57] Cfr. G. Vassalli, Il dibattito sulla rieducazione (in margine ad alcuni recenti convegni), in Rass. penit. crim., 3, 1982, 478.

[58] Cfr. ex plurimis F. Forzati, La sicurezza penale fra rassicurazione sociale, conservatio ordinum e criminalizzazione del corpo estraneo, in Arch. Pen., 3, 2018; cfr. – scusandoci per l’ineleganza dell’autocitazione – D.F. Pujia, Il problema costituzionale del carcere, fra umanità e cultura, in S. Migliori (a cura di), La dimensione culturale in carcere. Il valore della cultura, dell’arte e della formazione per il reinserimento, Firenze, 2024, 43 ss.

[59] Concetto analizzato in S. Moccia, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, 2° ed., Napoli, 2011.

[60] Cfr. G.M. Flick, A proposito di un volume sul carcere e la pena a cura di Franco Corleone e Andrea Pugiotto, in costituzionalismo.it, 1, 2013, 4.

[61] Cfr. R. Bartoli, Il carcere come extrema ratio: una proposta concreta, in dir. pen. cont., 4, 2016, 7.

[62] Cfr. R. Bartoli, ibidem.

[63] Cfr. G. Vassalli, Il dibattito sulla rieducazione, cit., 463.

[64] L’espressione è usata in M. Donini, Genesi ed eterogenesi, cit., 19, 21, 25.

[65] Cfr. tra le riflessioni più recenti E. Dolcini, Patologie del sistema sanzionatorio penale e principio della rieducazione del condannato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2, 2024, 414 ss.; M. Donini, Punire e non punire. Un pendolo storico divenuto sistema, in Riv. it. dir proc. pen., 4, 2023, 1301 ss.; in generale, sul recente «dibattito» sul sistema sanzionatorio, cfr. Aa. Vv., Atti del IX Convegno nazionale dell’Associazione italiana dei Professori di Diritto Penale, in Riv. it dir. proc. pen., 1, 2022, 199 ss.

[66] Cfr. M. Donini, Il delitto riparato. Una disequazione che può trasformare il sistema sanzionatorio, in Dir. pen. cont., 2, 2015, 236 ss.; Id., Pena agìta e pena subìta. Il modello del delitto riparato, in Questione giustizia, 29-10-2020; A. Ceretti, Giustizia riparativa e mediazione penale. Esperienze pratiche a confronto, in S. Scapparo (a cura di), Il coraggio di mediare, Milano, 2001, 307. Sulla giustizia riparativa la letteratura è ovviamente molto vasta. Del tema si era già occupato il Tavolo 13 degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, la cui relazione è disponibile all’URL https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_19_1_13.page. Per un approfondimento più generale, anche alla luce della vastità della materia e delle fonti ivi citate cfr., ex plurimis, M. Colamussi – A. Mestitz, Restorative Justice (Giustizia riparativa), in Dig. Disc. Pen., V agg., Torino, 2010, 423 ss.

Tags

Condividi su:

Articoli Correlati
Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit, sed do eiusmod tempor incididunt ut labore et dolore
Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit, sed do eiusmod tempor incididunt ut labore et dolore