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Dalle ruspe alle politiche di inclusione: i reati culturalmente orientati nella dosimetria della pena

Abstract

La Cassazione a distanza di sei mesi condanna due uomini rom, nel primo caso per la “vendita in sposa” della propria figlia minore, nel secondo per l’impiego di una minore nell’accattonaggio. Accanto all’importante affermazione del valore indiscusso dei diritti fondamentali, si apre uno spiraglio per l’applicazione di una pena, in concreto, calibrata sulle peculiarità culturali dell’autore. Negli ultimi anni il reato culturalmente condizionato sta riscuotendo un’attenzione sensibilmente crescente nella giurisprudenza di legittimità, che mostra inusuali flessibilità applicative in bonam partem. Tuttavia, in alcuni frangenti, sarebbe più efficace un confinamento del diritto penale in funzione di extrema ratio, implementando l’apparato di risorse socioeconomiche e culturali, che più efficacemente sono in grado di prevenire questi specifici comportamenti illeciti. In questa direzione si è mossa una recente raccomandazione del Consiglio d’Europa, sull’uguaglianza, inclusione e partecipazione di Rom e Sinti alla vita civile di ciascun Paese (2021-2030).   

Abstract

The Supreme Court, six months later, sentenced two Roma men, in the first case for the ‘sale in marriage’ of minor daughter, in the second for the use of a minor in begging. Alongside the important affirmation of the undisputed value of fundamental rights, a glimmer of hope opens up for the application of a punishment, in concrete terms, calibrated to the cultural peculiarities of the author. In recent years, the culturally conditioned offence has been receiving significantly increasing attention in the jurisprudence of legitimacy, which shows unusual flexibility in bonam partem application. However, at certain times, it would be more effective to confine the criminal law to a function of extrema ratio, implementing the apparatus of socio-economic and cultural resources, which are more effectively able to prevent these specific offences. A recent Council of Europe recommendation on equality, inclusion and participation of Roma and Sinti in the civic life of each country (2021-2030) moved in this direction.   

Sommario: 1. Introduzione; 2. Vendita in sposa: Cassazione 4/8/2021 n. 30538; 3. Una delle novità introdotte dal “codice rosso”: l’art.558-bis c.p.; 4. Impiego di un minore in accattonaggio: Cassazione 1/3/2022 n. 7140; 5. Identità culturale e diritti fondamentali: prove di convivenza giuridica; 6. Abbandonare il modello ghettizzante per un’inclusione attiva.

1. Introduzione

La riflessione che segue prende spunto da due sentenze recenti della Corte di Cassazione in tema di reati culturalmente condizionati. Si tratta di arresti giurisprudenziali che sembrano raccogliere il testimone di un orientamento che in dottrina è ormai ampiamente consolidato e diffuso e che legge la matrice culturale della condotta illecita in chiave pro reo[1]. Senza spingersi fino al punto di considerarla una causa di esclusione dell’antigiuridicità o della colpevolezza, la più recente giurisprudenza di legittimità ha pronunciato sentenze di condanna nelle quali il fattore culturale concorre a commisurare la pena verso il limite inferiore della cornice edittale o addirittura consente di diminuirla ulteriormente, grazie alle circostanze attenuanti generiche[2]

Certamente la presenza, statisticamente sempre più rilevante, di migranti nei Paesi occidentali sfida le strutture dello Stato democratico, indebolendo le radici identitarie nazionali dei suoi cittadini. A queste strutture i migranti rivolgono la richiesta di un riconoscimento multietnico non solo dei loro diritti individuali, ma della loro stessa identità[3]. Se non vogliamo assistere alla trasformazione dei paesi occidentali dalla forma dello stato democratico a quella di una società repressiva e penitenziaria[4], diventa necessario invertire la rotta innanzitutto sul piano sociale ed economico.

2. Vendita in sposa: Cassazione 4/8/2021 n. 30538

La prima vicenda ha riguardato un caso di “cessione” in matrimonio di una ragazza di etnia rom, minore di sedici anni, avvenuta in cambio di una somma di denaro, definito “prezzo della sposa”[5]. Il padre della giovane ragazza viene condannato in primo grado per riduzione in schiavitù, aggravata ai sensi dell’art. 602-ter, commi 5 e 6 c.p. (fatto commesso ai danni di un minore di sedici anni e da un ascendente). La Corte d’Assise d’appello di Firenze, confermando l’imputazione, ha invece ritenuto di operare un giudizio di equivalenza tra le contestate aggravanti e le circostanze attenuanti generiche.

I giudici di legittimità hanno rigettato in toto il ricorso dell’imputato, considerandolo infondato e a tratti inammissibile. Hanno invece accolto uno dei motivi del Procuratore Generale, rinviando ad altro giudice di secondo grado la commisurazione della pena, perché hanno rilevato che era stato operato un calcolo errato nel giudizio di bilanciamento tra le circostanze aggravanti, a effetto speciale, ex art. 602-ter e le attenuanti generiche ex art. 62-bis c.p. Infatti, l’ultimo comma dell’art. 602-ter c.p. prescrive che le circostanze attenuanti non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto alle aggravanti descritte nei commi precedenti e le diminuzioni di pena si possono operare solo sulla quantità della pena «risultante dall’aumento conseguente alle predette aggravanti». 

Degno di nota il passaggio nel quale è argomentata l’insussistenza della matrice culturale, asseritamente rinvenuta nel comportamento dell’imputato. La decisione, anzitutto, assegna un perimetro alla tematica dei cosiddetti “reati culturali”: «Semplificando, il problema può definirsi quello della rilevanza di un conflitto normativo determinato dall’antinomia tra la norma penale ed una regola di matrice culturale ai fini dell’affermazione della responsabilità di colui che ha violato la prima per conformarsi alla seconda»[6].

L’asfittica alternativa tra assimilazionismo alla francese, da un lato, e relativismo culturale all’inglese, dall’altro, ha prodotto nei due rispettivi contesti giuridici una legislazione che oscilla tra previsioni che non diversificano i giudizi a seconda dell’identità culturale dell’autore del reato, fino all’inasprimento della risposta penale per il gruppo etnico minoritario; e un’esaltazione del principio di uguaglianza sostanziale, a scapito di quella formale, tale da disciplinare analiticamente le rispettive diversità culturali tra i consociati.

È giunto il momento di partire dalla necessaria presa d’atto che i confini fisici degli Stati non coincidono più con i confini culturali di un dato territorio e la cosiddetta omogeneità culturale, che aveva contribuito al rafforzamento dello Stato-nazione, è ormai venuta meno. Ciò deve indurre a ripensare come integrare, in un ordine politico stabile, le sempre più presenti differenze culturali. Nei Paesi europei del Mediterraneo – in cui l’immigrazione di individui portatori di culture e religioni diverse non è ipotizzabile che possa arrestarsi o addirittura cambiare segno e per i quali il confine politico e culturale tra un «noi» e un «loro» è difficile da definire una volta per tutte – si impone la necessità di elaborare nuovi modelli teorici e soluzioni operative alle questioni poste dalle specificità culturali[7]. Si tratta indubbiamente di una sfida all’idea liberale di una struttura giuridica e politica omogenea, ma essa chiaramente non è più eludibile. Va affrontata innanzitutto un’essenziale questione di meta-eguaglianza, ovvero va deciso in chiave politica un preciso modo di integrare il trattamento eguale della diversità con il trattamento da eguali[8]. Il primo consente quelle capacità che rendono effettive le libertà, il secondo consente di declinare in modo culturalmente differenziato le scelte di capacità. In secondo luogo, va potenziato l’impegno dello Stato a favorire modalità concrete di confronto interculturale, dalle quali derivi la possibilità di comprendere le ragioni di una precisa scelta fra le due declinazioni dell’eguaglianza. Si può cogliere nel multiculturalismo uno strumento di ricomposizione della frattura postcoloniale, che separa la sponda nord da quella sud del Mediterraneo, e un impulso alla capacità integrativa della cittadinanza come pratica sociale, purché si tracci una visione antitetica a quella dello “scontro tra civiltà”[9].

Il codice Rocco non ha previsto alcuna apertura alla specificità culturale dell’imputato. Ai tempi della sua entrata in vigore mancavano anche le condizioni sociali affinché potesse farsi sentire la rilevanza sul piano penale di motivazioni culturalmente condizionate, estranee alle tradizioni italiane. A quel tempo l’Italia non era un Paese di immigrazione, ma semmai di emigrazione, come la storia del nostro Paese e la presenza nel codice penale del delitto di frode in emigrazione (art. 645 c.p.), fattispecie oggi del tutto desueta, chiaramente testimoniano[10]. Nel 2006 viene introdotta la fattispecie di pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili (art. 583-bis c.p.), che incrimina una condotta autonoma severamente punita, sebbene fosse già disponibile un presidio penale a questo specifico bene giuridico (ovvero la fattispecie di lesioni gravi e gravissime). Con l’introduzione di questo reato, il legislatore si è chiaramente mosso in direzione opposta al possibile riconoscimento dell’incidenza in favorem rei del fattore culturale, in quanto il conseguente aggravamento della disciplina sanzionatoria riflette la squalificazione del fattore culturale, che quelle pratiche esprimono[11]. Nel medesimo solco si è inserita la più recente fattispecie di cui all’art.558-bis c.p., rubricata: «costrizione o induzione al matrimonio», che vedremo più avanti.

Bisogna guardare al formante giurisprudenziale per poter cogliere qualche interessante segnale. In una prima fase c’è stata una tendenza piuttosto uniforme a non considerare rilevante la categoria dei reati culturalmente orientati. Emblematica, in tal senso, è la pronuncia della Suprema Corte sull’ormai famoso caso del porto del kirpan, pugnale rituale dei sikh (Cass., sez. I, sentenza 31 marzo 2017, n. 24048)[12]. Più recentemente, si segnalano sentenze che invece sembrano orientarsi a favore di una valorizzazione del condizionamento culturale in bonam partem, naturalmente con differenti esiti a seconda del profilo sistematico sul quale vanno ad incidere. Le più frequenti ricadute si apprezzano essenzialmente sul versante sanzionatorio, sia in relazione all’applicabilità delle circostanze o al loro bilanciamento, sia limitatamente alla commisurazione infraedittale[13]

Nel caso pronunciato ad agosto 2021, i giudici romani hanno escluso la configurabilità di una “scriminante culturale”, poiché l’esercizio del diritto dell’agente, nel rimanere fedele alle regole sociali del proprio gruppo identitario di riferimento, si è tradotto nella negazione di beni e diritti fondamentali configurati dall’ordinamento costituzionale e presidiati dalle norme penali violate. Si tratta di un orientamento condiviso anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e conforme all’art.2 della Convenzione di Parigi del 2005[14], in base al quale la protezione del diritto alla diversità culturale non può essere invocata per violare i diritti umani e le libertà fondamentali, come consacrati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo o come garantiti dal diritto internazionale.

Più lapidariamente si afferma che, in conformità a quanto già deciso dalla Corte in precedenza, il titolo di reato contestato esclude qualsivoglia possibilità di attribuire valenza scriminante alla supposta volontà del padre di aderire alle regole ed alle consuetudini della comunità Rom, «atteso che il bene tutelato dall’art. 600 è la libertà individuale intesa come status libertatis», ossia come quel complesso di manifestazioni che si riassumono in tale condizione e la cui negazione comporta l’annientamento della stessa personalità dell’individuo[15].

Per ragioni di spazio è impossibile fare cenno a quella che altrimenti sarebbe un’imprescindibile analisi antropologica, che tra le altre ha la funzione di evitare il rischio di avallare interpretazioni semplicistiche e riduzionistiche, come quelle che qualificano i rom “premoderni”, “barbari” o “espressione di cultura arretrata”[16]. Solo una precisazione: il bridewealth (la ricchezza della sposa) non è da intendersi come compravendita della sposa, ma è una sorta di “compensazione” per la famiglia di origine della donna, la quale porterà avanti la discendenza di un’altra famiglia, quella del marito. Il flusso di beni è inverso a quello della dote, ed è forse per questo motivo che, in base al sapere comune dei gagé (i non Rom), la comprensione risulta più difficile. Il bridewealth ha una funzione di mediatore fra le due famiglie, ha un ruolo centrale nello stabilire legami e alleanze tra gruppi familiari[17].

Sebbene prevalga un atteggiamento da parte del formante giurisprudenziale moderatamente cauto, rispetto alla valorizzazione della matrice culturale del fatto, questa pronuncia dimostra il favore per un approccio progressivamente più flessibile, con effetti tangibili quanto meno sul piano della commisurazione della pena[18]. Al di là del comprensibile dilemma, nel quale si dibatte il giudice, costretto ad oscillare tra l’assumere il ruolo di gate keeper, rispetto al messaggio culturale veicolato dall’expert testimony, oppure – ma andrebbero definiti preventivamente gli strumenti – di colui che interviene per decodificare e disambiguare il precetto vincolante[19], nel caso di specie non c’è stata alcuna esitazione nell’affermare che il disvalore del fatto non risulta intaccato dal sommario inquadramento antropologico poc’anzi richiamato. È stato comprovato il dissenso della ragazza, che non voleva aderire alla tradizione, tant’è che ha deciso di scappare e di denunciare il padre. Cionondimeno, il condizionamento culturale dell’imputato ha assunto comunque rilievo nel momento di commisurazione della pena, calcolata tenendo conto di un concorso eterogeneo di circostanze: da un lato l’art. 602-ter c.p., quinto e sesto comma; dall’altro l’art. 62-bis c.p.

3. Una delle novità introdotte dal “codice rosso”: l’art.558 bis c.p.

Con legge 19 luglio 2019 n. 69 è stata introdotta una specifica fattispecie, rubricata: «Costrizione o induzione al matrimonio».  Il secondo comma prevede la pena della reclusione da uno a cinque anni, se l’induzione a contrarre matrimonio o unione civile viene esercitata «con abuso delle relazioni familiari». Certamente questa nuova previsione, che non poteva essere applicata ai fatti di causa, in ossequio al principio di irretroattività (la Cassazione ha escluso un fenomeno di successione, sulla base del confronto strutturale tra l’art. 600 c.p. e il nuovo 558-bis c.p.), contribuisce certamente a rafforzare il profilo della tassatività. Nell’ottica integralmente assimilazionista, adottata dal legislatore del cosiddetto “codice rosso”, si perseguono quei comportamenti che le vittime – prevalentemente, anche se non esclusivamente, di sesso femminile ed in giovanissima età – difficilmente denunciano per timore di ritorsioni, per sfiducia nelle istituzioni, per mancanza di informazioni sui soggetti cui rivolgersi o perché lo stato di controllo in cui vivono impedisce loro di poterlo fare.

Nell’ultimo rapporto dell’organizzazione “Save the children”, pubblicato ad ottobre 2022, in occasione della giornata internazionale delle ragazze, emerge che sono quasi 90 milioni – ovvero 1 su 5 a livello globale – le bambine e le adolescenti di età compresa tra i 10 e i 17 anni che vivono in zone di conflitto, con impatti devastanti sul loro benessere fisico e mentale e sulle loro opportunità future. Le bambine che vivono nell’Asia orientale e nel Pacifico, in America Latina e nei Caraibi e nell’Asia meridionale sono le più esposte al rischio di matrimonio precoce, legato ai conflitti. L’Africa occidentale e centrale registrano i tassi più alti al mondo. La Nigeria, nonostante abbia previsto una legislazione contro il matrimonio infantile, è il Paese che ha il numero più elevato di matrimoni precoci del pianeta[20].

Nel rapporto, pubblicato dal servizio analisi criminale del Dipartimento della pubblica sicurezza, del Ministero dell’Interno, si legge che il numero dei reati di matrimonio forzato, commessi nel periodo compreso tra il 9 agosto 2019 e il 31 dicembre 2021, è andato progressivamente aumentando (dai 7 degli ultimi 5 mesi del 2019, agli 8 del 2020, ai 20 nel 2021). Un terzo delle vittime sono minorenni, in particolare il 6% è infraquattordicenne, mentre il 27% ha un’età compresa tra i 14 ed i 17 anni. Tra le vittime maggiorenni, la percentuale nettamente preponderante (43%) è quella riferita alla fascia d’età compresa tra i 18 ed i 24 anni. Per quanto attiene alla cittadinanza, risultano prevalenti le vittime straniere (64%); nell’ambito di queste le nazionalità più rappresentate sono quella pakistana (57%) e quella albanese (10%); India, Bangladesh, Sri Lanka, Croazia, Polonia, Romania e Nigeria con una unità rappresentano ciascuna circa il 5%[21].

La crudezza di questi dati deve indubitabilmente provocare una risposta severa. Tuttavia, è difficile pensare che il diritto penale possa fronteggiare significativamente il fenomeno, arrivando addirittura a dissuadere l’autore culturalmente motivato dal replicare le condotte incriminate. Ancora minore è la convinzione che lo strumento repressivo sia in grado – in questo aggrovigliato intreccio di tradizioni e culture – di soddisfare la funzione rieducativa e risocializzante di un autore “culturalmente motivato”[22]. Proprio il radicamento di una storia patriarcale, che si è conservata nonostante le migrazioni e il trascorrere dei secoli, deve indurre ad elaborare strategie di intervento quantomeno concorrenti, che in tempi certamente non immediati riescano però a generare un ritorno sul piano sociale, economico e culturale, nettamente più efficace.

4. Impiego di un minore in accattonaggio: Cassazione 1/3/2022 n. 7140

Nel secondo caso, la Corte d’appello di Catanzaro confermava la decisione del Tribunale di Cosenza, che aveva condannato un uomo di etnia rom per il reato di cui all’art. 600-octies c.p., previa concessione delle circostanze attenuanti generiche. L’uomo, di fronte al Tribunale della città, sotto una pioggia battente, aveva indotto una bambina di sei anni a chiedere l’elemosina e a farsi consegnare quanto raccolto dai passanti[23].

La Corte ha rigettato il ricorso dell’imputato e ha affermato che la dedotta connotazione culturale della pratica di chiedere l’elemosina non può certamente condurre – come evidenziato nell’impugnata sentenza – a “decriminalizzare” la condotta posta in essere dall’imputato. «I “valori” della cultura rom non rilevano quando – come nel caso di specie – contrastino con i beni fondamentali riconosciuti dall’ordinamento costituzionale, quali il rispetto dei diritti umani e la tutela dei minori.» Inoltre, per l’integrazione del reato contestato non è richiesto che il minore sia sottoposto a “sofferenze e/o mortificazioni”, come risulta chiaramente dal tenore della norma incriminatrice, che punisce, «salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque si avvale per mendicare di una persona minore degli anni quattordici e, comunque, non imputabile.»[24]

È utile evidenziare incidentalmente che la legge n. 94/2009 ha riformato il reato di impiego di minori nell’accattonaggio, tramutandolo da contravvenzione concernente l’ordine pubblico e la tranquillità pubblica in delitto contro la personalità individuale. Il cosiddetto decreto Salvini, nel 2018, ha aggiunto il secondo comma, prevedendo la reclusione da uno a tre anni per chiunque organizzi l’altrui accattonaggio, se ne avvalga o comunque lo favorisca a fini di profitto. Possiamo immaginare che l’intento persecutorio nei confronti di una categoria di persone giudicate altamente pericolose per l’ordine pubblico, la sicurezza urbana, la tranquillità pubblica e la pacifica convivenza civile, abbia fatto ritenere opportuno non accontentarsi della presenza nel nostro sistema punitivo dell’istituto del concorso di persone, che all’art. 112, in particolare numero 2), già prevede una specifica aggravante per chi abbia promosso od organizzato la cooperazione nel reato, ovvero abbia diretto l’attività delle persone, che sono concorse nel reato. È di tutta evidenza l’opzione nel primo decreto sicurezza a favore di una nuova fattispecie autonoma e non circostanziata, per evitare il rischio di una mitigazione sanzionatoria, attraverso il meccanismo del bilanciamento delle circostanze[25]. Nella vicenda qui richiamata tuttavia non è stato contestato il secondo comma dell’art.600-octies c.p., ma il primo comma, poiché il fatto è avvenuto antecedentemente alla sua entrata in vigore.

Di un qualche interesse la richiesta, sebbene sia stata rigettata dai giudici della prima sezione della Corte di Cassazione, formulata dal procuratore generale e volta ad ottenere l’annullamento della sentenza impugnata, limitatamente all’applicazione dell’esimente di cui all’articolo 54 c.p.. Naturalmente anche la difesa ha ricostruito in capo all’imputato uno stato di necessità che lo avrebbe indotto a commettere il reato, a causa della profonda situazione di indigenza, trovandosi a vivere in una baracca, senza servizi igienici, e a usare vestiti di “recupero”. La Corte, richiamando un orientamento conforme[26], ha replicato che: «la situazione di indigenza non è di per sé idonea a integrare la scriminante dello stato di necessità per difetto degli elementi dell’attualità e dell’inevitabilità del pericolo, atteso che alle esigenze delle persone che versano in tale stato è possibile provvedere per mezzo degli istituti di assistenza sociale»[27]. È difficile non cogliere affatto il pur esilissimo margine di incertezza, sull’efficienza della macchina assistenziale, proprio in considerazione dell’etnia dell’autore del reato. In occasione delle trasformazioni che il welfare europeo ha subito, all’interno del paradigma neoliberale, si assottiglia vistosamente l’opportunità di essere aiutati, soprattutto se stranieri. Gli istituti giuridici, pur continuando ad avere una capacità descrittiva, non appaiono però più idonei a regolamentare efficacemente le nuove esigenze emergenti nelle società postindustriali contemporanee, complice la crisi del welfare, la difficoltà dello Stato sociale di mantenere le proprie promesse e di realizzare i principi affermati nella Carta costituzionale[28].   

Il formante giurisprudenziale sovranazionale sembra più incline ad assumere una posizione non di retroguardia, rispetto alla linea ormai univocamente tracciata dalla suprema corte italiana. Sebbene non sia coinvolto un minore, come vittima di sfruttamento, la recente pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo affronta proprio un caso di mendicità – esercitata da un adulto – in assenza di alternative di sostentamento[29]. La vicenda ha riguardato una cittadina rumena di etnia rom, analfabeta e proveniente da una famiglia poverissima che nel 2011, non essedo in grado di trovare lavoro, aveva iniziato a chiedere la carità in Svizzera, a Ginevra e per questo era stata condannata al pagamento della somma di 500 franchi svizzeri, oltre alla confisca del poco denaro raccolto attraverso l’elemosina. Inoltre, la donna era stata detenuta per cinque giorni, poiché non era stata in grado di pagare la sanzione pecuniaria, come previsto dalla legge penale del Cantone svizzero. Secondo la Corte di Strasburgo la pena inflitta aveva violato il diritto alla dignità umana della ricorrente e compromesso l’essenza stessa dei diritti protetti dall’art. 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata e familiare), poiché la pratica della mendicità in assenza di alternative costituisce un diritto intrinseco al rispetto della dignità umana non bilanciabile con l’esigenza di “nascondere” la povertà dalla pubblica via[30].

Il passaggio davvero assai rilevante espresso dai giudici europei riguarda il riconoscimento, nei termini di un diritto umano intrinseco al rispetto della dignità della persona, della possibilità di manifestare il proprio disagio e ricercare solidarietà in situazioni di bisogno. Esso si inscrive nel quadro delle fonti internazionali, riportate dalla stessa sentenza, in cui si guarda con sfavore alla tendenza degli Stati alla “criminalizzazione” dello status del nullatenente, costretto a dover mendicare, senza che si possa trovare alcuna giustificazione nell’esigenza di salvaguardare il decoro urbano [31]. Sempre nelle righe di motivazione di questa sentenza, la Corte ha considerato che misure meno severe – e aggiungiamo noi, anche alternative al diritto penale – avrebbero potuto portare allo stesso risultato o ad un risultato comparabile. Il sistema punitivo, nel perseguire una cieca penalizzazione dell’indigenza, fagocita risorse umane ed economiche di cospicuo tenore, che potrebbero essere invece più efficacemente dirottate verso piani di intervento socioculturali, capaci di restituire risultati tangibili e di sicuramente più solida durata.   

5. Identità culturale e diritti fondamentali: prove di convivenza giuridica

Le due sentenze richiamate si allineano perfettamente sulla direttrice che la giurisprudenza di legittimità sembra aver imboccato nell’affrontare la tematica complessa e densa di implicazioni anche extragiuridiche, rappresentata dalla presenza di un conflitto culturale. Il limite insuperabile, tracciato anche dai giudici sovranazionali nel riconoscimento dell’identità culturale, coincide con la salvaguardia dei diritti fondamentali. C’è reato quando viene menomato un diritto inviolabile della persona. Quindi, ferma l’impossibilità di configurare difetti di tipicità, colpevolezza o eccezioni al carattere antigiuridico del fatto, sembra invece dischiudersi, nei più recenti orientamenti giurisprudenziali, uno spiraglio che consente di intravedere la peculiarità identitario-culturale dell’autore nel momento in cui si fissa la dosimetria sanzionatoria, che può avere il perimetro della sola cornice edittale, oppure può allargarsi attraverso il riconoscimento delle attenuanti generiche, oppure di altre attenuanti comuni o speciali, che consentono di abbassare ulteriormente la pena in concreto inflitta.

Accanto a un formante giurisprudenziale apprezzabilmente più attento a cogliere le sfumature di una materia che,  rispetto alla rigida sistematica del reato, conserva un alto indice di fluidità e che è destinata a subire forti variazioni politico-criminali, si può oggi, più che in passato, pensare a nuovi scenari che – in una prospettiva de iure condendo di politica sociale – permettano di creare legami interculturali, di comprensione reciproca, fondati su una serie di incentivi, capaci di stimolare la conformità alla legge. Imboccata questa direzione, il diritto penale verrebbe in parte sollevato dall’inane compito di risolvere ogni tipo di conflittualità all’interno della società contemporanea, riguadagnando un più appropriato ruolo di extrema ratio.

6. Abbandonare il modello ghettizzante per un’inclusione attiva

L’Italia, sebbene non sia l’unico Stato europeo ad avere “campi nomadi” sul proprio territorio, viene etichettata come “Paese dei campi”, in quanto sarebbe la nazione maggiormente impegnata nella politica dei villaggi etnici per le comunità Rom e Sinti e Caminanti (RSC), anche dette romaní, dal nome della lingua parlata. Negli ultimi anni si assiste a un cambio di strategia politica e narrativa, che sembra lasciare alle spalle l’approccio di tipo emergenziale (capace di riprodurre ed esasperare le condizioni di marginalità, esclusione e segregazione sociale delle minoranze[32]), per fare spazio a interventi sistematici di inclusione sociale di un gruppo etnico, che ad oggi resta oggetto di una forma di «ostilità trasversale» in molte zone d’Europa. Le azioni ordinarie di politica sociale, opportunamente calibrate nel contesto in cui si interviene, se rivolte a sviluppare percorsi inclusivi individualizzati e strutturati sulle esigenze dei singoli nuclei familiari[33], non possono che relegare in una posizione sussidiaria il diritto penale, per sua essenza punitivo e in questo specifico frangente del tutto incapace di sovraintendere efficacemente alle sue essenziali prerogative di prevenzione generale e speciale. Sono necessari strumenti flessibili[34], mentre il diritto penale è costitutivamente un mezzo rigido di soluzione dei conflitti, legato al perimetro obbligato della fattispecie penale. Inoltre, da un lato esso sviluppa una logica di esclusione, antitetica al percorso di integrazione a cui dovrebbe tendere la coabitazione tra culture; dall’altro lato, la sanzione più severa di cui l’ordinamento dispone si presenta fragile quanto a capacità di deterrenza e di orientamento sociale, laddove il fatto sia sorretto da una motivazione sedimentata in costumi e tradizioni che fanno parte delle Kulturnormen dell’autore del reato, ben più introiettate dei precetti penali vigenti nel Paese ospitante[35].

Un’indicazione incoraggiante viene dal recepimento, il 23 maggio 2022, della raccomandazione del Consiglio dell’Unione europea del 12 marzo 2021 (2021/C 93/01), nella quale si delinea la strategia nazionale di uguaglianza, inclusione e partecipazione di Rom e Sinti (2021-2030) [36]. Questo documento afferma un nuovo approccio, integrando l’inclusione socioeconomica dei rom emarginati con la promozione dell’uguaglianza e partecipazione. Si tratta di una fonte di soft law, che per sua natura dispone di una vincolatività solo indiretta, ma rappresenta la premessa più efficace per indurre i singoli Stati membri ad intraprendere un comune approccio all’integrazione degli stranieri in Europa. I dati sono confortanti: dal 2016 al 2021 i “campi rom” sono diminuiti in Italia da 149 a 109 e il numero delle persone al loro interno è calato nello stesso periodo del 36%. Un nuovo modello di relazione interculturale nel pieno rispetto del pluralismo è possibile, purché il processo necessariamente dinamico che lo governa sia condiviso, con eguale impegno, dagli attori istituzionali, dai decisori politici, dal terzo settore e dall’intera società civile.

Al terzo punto delle considerazioni iniziali si dichiara che: «Il pilastro europeo dei diritti sociali esprime principi e diritti intesi a sostenere ed aumentare l’equità sociale, a prescindere da sesso, razza o origine etnica, religione o convinzioni personali, disabilità, età o orientamento sessuale. Misure universali integrate da misure mirate, quali quelle contenute nella presente raccomandazione, tese a tutelare e sostenere i gruppi ad alto rischio di discriminazione o esclusione sociale sono fondamentali per sostenere l’attuazione dei principi del pilastro sociale. La realizzazione del pilastro è un impegno politico e una responsabilità condivisa. Dovrebbe essere attuato a livello dell’Unione e degli Stati membri in linea con le rispettive competenze, tenendo debitamente conto dei diversi contesti socioeconomici e della diversità dei sistemi nazionali, compreso il ruolo delle parti sociali, nel pieno rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità.» Ancora più esplicitamente, al sesto punto si riconosce esserci già stato un notevole impulso alla lotta contro la povertà e l’esclusione sociale, attraverso la fissazione di obiettivi comuni europei, mirati ad aumentare i livelli di istruzione e di occupazione. Tali obiettivi, tuttavia, non possono essere raggiunti senza migliorare l’uguaglianza, l’inclusione e la partecipazione dei Rom, così come la presente raccomandazione sollecita.    

Dopo la lettura dell’intero testo approvato dal Consiglio d’Europa, emerge con ancora maggiore chiarezza quanto il ricorso al diritto penale significhi il fallimento delle politiche sociali, quanto l’uso della pena consolidi la distopia liberale di uno Stato ridotto a guardiano notturno della proprietà privata. Per affrancarsi da uno scenario nel quale primeggia la funzione di polizia di un diritto penale eminentemente simbolico, diventa imprescindibile un convinto reinvestimento nella dimensione sociale e culturale di ogni singolo Paese, rinnovando l’impegno comunitario verso gli obiettivi primari per un benessere reale dell’intera comunità[37].


[1] La letteratura sul tema è ormai estesa. Solo alcuni essenziali rinvii ai contributi monografici: C. De Maglie, I reati culturalmente motivati. Ideologie e modelli penali, Pisa 2010; F. Basile, Immigrazione e reati culturalmente motivati. Il diritto penale nelle società multiculturali, Milano 2010; A. Bernardi, Modelli penali e società multiculturali, Torino 2006; Id., Il ‘fattore culturale‛ nel sistema penale, Torino 2010; F. Parisi, Cultura dell’altro e diritto penale, Torino 2010; A. Massaro, Reati a movente culturale o religioso. Considerazioni in materia di ignorantia legis e coscienza dell’offesa, Roma 2012; A. Provera, Tra frontiere e confini: il diritto penale dell’età multiculturale, Napoli 2018.

[2] C. Grandi, I reati contro la famiglia e contro la persona culturalmente motivati: teoria ed evoluzione della prassi, https://archiviopenale.it/ n. 3/2022, 1-24.

[3] Sulla labilità del confine tra incontro e rispetto dell’alterità e costruzione in negativo dell’altro: L.Ricci, Alterità e potere punitivo nello scenario  europeo contemporaneo.  Spunti a sostegno di un approccio critico post-coloniale, www.lalegislazionepenale.eu, 1 dicembre 2022, 26.  

[4] D. Zolo, Tramonto globale. La fame, il patibolo, la guerra, Firenze 2010, 114-115.

[5] Cass., Sez. V, 4 agosto 2021, n. 30538, reperibile in: https://ovd.unimi.it/

[6] Pagina 6 della motivazione.

[7] C. Grandi, I reati contro la famiglia, cit., 6 e ss.

[8] A. Rauti, “A che punto è la notte?” L’approccio interculturale all’immigrazione fra capacità e accomodamenti, Consulta online, n. 1/2022, 266-297, 296; D.Zolo, La strategia della cittadinanza, in Id. (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Roma-Bari, 1994, 3-46; e nello stesso volume: L.Ferrajoli, Dai diritti del cittadino ai diritti della persona, 263-293.

[9] R. Pirosa, La prospettiva pluralistica e multiculturale in Danilo Zolo, Jura Gentium 1/2021, In mare aperto. Pensare il diritto e la politica con Danilo Zolo, 216 – 229, 219.

[10] M. Pelissero, Il ruolo incerto del fattore culturale-religioso nel sistema penale. Il caso islam, Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1/2019, 155-174, 157.

[11] Id., Il ruolo incerto del fattore culturale-religioso, 158.

[12] F. Basile – M. Giannoccoli, Il coltello kirpan, i valori occidentali e gli arcipelaghi culturali confliggenti. A proposito di una recente sentenza della Cassazione, Dir. imm. citt., 3/2017, 1-7; A. Bernardi, Populismo giudiziario? L’evoluzione della giurisprudenza penale sul kirpan, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2017, 671-709.

[13] C. Grandi, I reati contro la famiglia, cit., 16 ss.

[14] Leyla Şahin v. Turkey 10/11/2005: https://hudoc.echr.coe.int/fre?i=001-70956; Eweida and others v. The United Kingdom: https://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-115881

[15] Pagina 9 della motivazione.

[16] Il popolo rom è la più numerosa minoranza etnica «transnazionale e non territoriale» d’Europa: L. Piasere, I Rom d’Europa. Una storia moderna, Bari 2004, IV rist.2009; S. Romano, Dall’inclusione sociale forzata alla costruzione della marginalità. I rom nell’Europa post-socialista tra inclusione ed esclusione, Autonomie locali e servizi sociali, 1/2016, 3-21, 8 ss.; G. Laino, Superare i campi rom: cosa e come fare, Autonomie locali e servizi sociali, 1/2016, 45-64, 47. Dalla prospettiva giuridica: I. Ruggiu, Il giudice antropologo: costituzione e tecniche di composizione dei conflitti multiculturali, Milano 2012; Id., Il giudice antropologo e il test culturale, www.questionegiustizia.it, n. 1/2017, 1-17.

[17] S. Tosi Cambini, Matrimoni romane e interpretazioni gagikane nello spazio pubblico, giuridico e scientifico dei gage, L’Uomo Società Tradizione Sviluppo, 1/2015, 55-75, 59.

[18] L’ambito più adeguato a dare rilievo ai conflitti culturali: P. Scevi, Riflessioni su reati culturalmente motivati e sistema penale italiano, Arch.pen. 3/2016, 1- 32, 24 ss.

[19] G. Canzio, Multiculturalismo e giurisdizione penale, disCrimen, 19.11.2018, 1-12, 12.

[20] https://www.savethechildren.it/blog-notizie/giornata-internazionale-delle-ragazze-facciamo-luce-sui-pericoli

[21] Il rapporto è stato pubblicato il 22 febbraio 2022: https://www.interno.gov.it/sites/default/files/2022-02/induz_matrimoni.pdf

[22] Al contrario, si esprime in termini più fiduciosi: G. Pepè, Matrimoni forzati e “prezzo della sposa”: la cassazione ribadisce l’irrilevanza di tradizioni e culture lesive della libertà individuale, https://www.sistemapenale.it/, 15 febbraio 2022, 1-13, 10.

[23] Cass., Sez. I, 1° marzo 2022, n. 7140, https://i2.res.24o.it/pdf2010/Editrice/ILSOLE24ORE/QUOTIDIANI_VERTICALI/Online/_Oggetti_Embedded/Documenti/2022/03/29/cassa71402022.pdf

[24] Pagina 3 della motivazione.

[25] Sia consentito un rinvio a: F. Curi, Il reato di accattonaggio: “a volte ritornano”. Il nuovo art. 669-bis c.p. del d.l. 113/2018, convertito con modificazioni dalla l. 132/2018, https://www.penalecontemporaneo.it/upload/8914-curi2019a.pdf, 1-12, 11.

[26] Cass. Sez. 5, n. 3967 del 13/07/2015, Rv. 265888.

[27] Pagina 4 della motivazione.

[28] G. Prosperetti, Ripensiamo lo stato sociale, Milano 2019.

[29] Lăcătus c. Svizzera, 19 aprile 2021, https://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22itemid%22:[%22001-207377%22]}

[30] E. Robotti, Corte EDU: Lăcătuş c. Svizzera, 29 gennaio 2021, https://www.unionedirittiumani.it/news/corte-edu-la%CC%86ca%CC%86tus%CC%A7-c-svizzera/ 

[31] F. Vitarelli, “Non è un delitto il mendicare quando si ha fame”. la corte edu estende l’ambito di operatività dell’art. 8 Cedu riconoscendo il diritto alla mendicità in assenza di alternative di sussistenza come intrinseco alla dignità umana, Riv.it.dir.proc.pen. 2/2021, 742-746, 746.

[32] Sul grado di grado di inefficacia e di difficoltà che hanno incontrato anche amministrazioni che pure dichiaravano e hanno avuto buone intenzioni, valide competenze messe in campo, animate da forti intenzionalità: G. Laino, Superare i campi rom, cit., 57.

[33] V. Piergigli, Politiche migratorie e integrazione: quali indicazioni dalla Corte di Giustizia UE?, Democrazia e sicurezza, n. 1/2018, 3-36, 7.

[34] Un interessante banco di prova è quello rappresentato dal codice del terzo settore, entrato in vigore nel 2017. Lì sembra si sia avviato un sostanziale ripensamento degli equilibri “orizzontali” del sistema di accoglienza, ossia dei rapporti tra amministrazioni pubbliche responsabili del servizio e privati a cui esso viene esternalizzato. L’articolato meccanismo di accoglienza “parallela” sorto in risposta alla crisi ucraina apre, d’altro canto, a nuove riflessioni sui corretti equilibri “verticali” interni al sistema, ovvero sull’individuazione del livello amministrativo (centrale o locale) a cui attribuire un ruolo preminente nell’assistenza dei richiedenti protezione: L. Galli, I rapporti “pubblico-privato” e “centro-periferia” nel sistema di accoglienza dei richiedenti asilo: quale futuro alla luce delle recenti riforme?, ADiM Blog, Analisi & Opinioni, novembre 2022, 1-7, 2.

[35] M. Pelissero, Il ruolo incerto del fattore culturale-religioso, 156.

[36] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A32021H0319%2801%29

[37] Nel maggio 2021 è stata approvata la dichiarazione di Porto, che contiene il Piano d’azione sul pilastro europeo dei diritti sociali, proposto dalla Commissione UE. Per ora si tratta di 20 principi generali, che andranno gradualmente trasformati in disposizioni legislative: https://commission.europa.eu/strategy-and-policy/priorities-2019-2024/economy-works-people/jobs-growth-and-investment/european-pillar-social-rights/european-pillar-social-rights-20-principles_it.

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