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Fenomenologia dell’improcedibilità cronologica

Sommario: 1. L’improcedibilità in funzione acceleratoria. – 2. L’estinzione dell’azione e le norme processuali ad effetti sostanziali. – 3. Il diritto a un giusto processo di durata ragionevole. – 4. Critica al giudicato sostanziale fra improcedibilità e inammissibilità. – 5. Profili di diritto intertemporale. – 6. Il diritto al giudizio di innocenza.

 

  1. L’improcedibilità in funzione acceleratoria.  

Fin dalla sua entrata in vigore, l’improcedibilità cronologica[1] disciplinata dall’art. 344-bis c.p.p. è stata oggetto di un acceso dibattito dottrinale a cui si sono aggiunte, di recente, le prime prese di posizione della giurisprudenza di merito e di legittimità.

L’interesse mostrato per il nuovo istituto[2] appare, tuttavia, eccessivo in rapporto alla prevedibilmente limitata portata applicativa. Si tratta, infatti, di una previsione di carattere acceleratorio, che fissa un tempo limite per la definizione dei giudizi di impugnazione, peraltro già calibrato sui dati forniti dalla prassi giudiziaria, destinata quindi ad operare più sul piano della organizzazione delle attività piuttosto che sul versante propriamente sanzionatorio.

Prendendo in prestito i titoli delle commedie shakespeariane, si è passati dal sogno di una notte di mezza estate[3], indotto da una riforma in controtendenza rispetto al demagogico blocco della prescrizione, al molto rumore per nulla, sollevato da questioni teoricamente rilevanti, ma sterili nella loro incidenza pratica e contestabili nei loro contenuti.

L’impressione è che l’attenzione dedicata all’art. 344-bis c.p.p. abbia assunto, nei fatti e a prescindere dalla volontà di chi vi si è dedicato, la funzione del diversivo rispetto ai ben più gravi problemi che presenta, nel suo insieme, la riforma del processo penale avviata dalla l. n. 134 del 2021.

Quello che più colpisce non è solo l’atteggiamento apertamente critico, per non dire pregiudizialmente ostile, mostrato finora dalla maggior parte della dottrina[4], ma anche il “metodo” impiegato, caratterizzato da un approccio esasperatamente tecnico-giuridico che ha del tutto offuscato i profili assiologici. L’analisi della sistematica delle norme nelle loro interazioni è così sfociata in un formalismo concettuale avulso dai beni giuridici tutelati, soprattutto quelli di rilevanza costituzionale.

In uno sforzo di presunta esattezza dogmatica si è perso di vista il fine ultimo della improcedibilità che, pur nei suoi evidenti limiti tecnici, ha consentito il repentino superamento dello sciagurato blocco della prescrizione introdotto dalla legge n. 3 del 2019 (ed entrato in vigore il 1° gennaio 2020)[5], cancellando la brevissima stagione dell’imputato eterno giudicabile voluta fermamente dalla distopia populista e giustizialista dell’ex Ministro Bonafede[6]. In una visione al tempo stesso pragmatica e valoriale non è invece difficile cogliere l’importanza in sé di questo risultato, tale da giustificare perfino l’impiego di mezzi non perfettamente calibrati sul piano della tecnica normativa.

 

  1. L’estinzione dell’azione e le norme processuali ad effetti sostanziali.

La riprova della appena denunciata deriva concettuale è data dalla ostinata negazione del fondamento processuale della prescrizione del reato.

Storicamente il fenomeno estintivo ha sempre riguardato l’azione, come dimostra, ad esempio, l’art. 91 del codice penale Zanardelli del 1889. E’ solo con la sistematica del codice Rocco che si teorizza l’estinzione del reato, ma questa scelta rappresenta un evidente errore di impostazione.

Il reato, sebbene riferito a una condotta umana, rimane un fatto giuridico che assume esistenza ed efficacia solo con l’accertamento definitivo del medesimo. In altri termini, il fatto-reato sussiste e produce tutti i suoi effetti, a partire dall’esecuzione penale, solo dopo che una sentenza irrevocabile di condanna ne abbia accertato l’esistenza “giuridica” e la relativa responsabilità personale.

Prima del giudicato, il fatto-reato giuridicamente non sussiste e, di conseguenza, non può estinguersi. Nel corso del processo, l’estinzione riguarda necessariamente solo l’azione, ossia la domanda volta all’accertamento della giuridica sussistenza del reato[7].

A conferma di ciò, la decisione che accerta l’estinzione del reato per prescrizione è, non a caso, una sentenza di non doversi procedere (o di non luogo a procedere all’udienza preliminare)[8]. Ciò significa che, prima della formazione del giudicato, il fenomeno estintivo interviene sul procedere[9] e non può che essere rapportato all’azione.

È proprio l’art. 27 comma 2 Cost. che, sancendo la presunzione di non colpevolezza, non consente di ritenere sussistente un reato e la relativa responsabilità prima del giudicato.

Del resto, la miglior dottrina[10] sostiene da sempre che il sistema sia imperfetto e che la sentenza “di non doversi procedere” dichiari estinto per prescrizione solo l’ipotetico reato, non ancora accertato, a fronte, invece, dell’accertamento del fatto estintivo costituito dal decorso del tempo. Una sentenza in ipotesi sul reato, ma di certezza sul fatto estintivo.

Non può sfuggire che dichiarare estinta una ipotesi di reato significa propriamente dichiarare estinta l’azione che ipotizza il reato.

Peraltro, non convince l’ulteriore distinguo per cui all’esito del dibattimento e di una completa fase istruttoria, il reato sarebbe dichiarato estinto previo accertamento dello stesso[11]. Il fatto estintivo, riferito formalmente al reato ma, come detto, sostanzialmente all’azione, impedisce al giudice di pronunciare una sentenza che accerti il reato. Occorre precisare che l’accertamento giudiziale risiede nel dispositivo e non nella motivazione, mentre il reato, finché non venga dichiarato sussistente dal dispositivo di una sentenza irrevocabile, è giuridicamente inesistente. Dunque, la sentenza potrà anche ricostruire in motivazione la sussistenza del reato, ma tale ricostruzione rimarrà pur sempre ipotetica, di fatto un esercizio di stile posto in essere per ragioni “punitive” che nulla hanno a che vedere con l’accertamento processuale, mentre il reato nella sua dimensione giuridica non verrà mai ad esistenza a fronte di una sentenza che nel dispositivo dichiari il non doversi procedere riferito proprio all’accertamento del reato stesso.

Si torna così all’affermazione inziale che logicamente non ammette alternative: prima del giudicato il reato non ha giuridica esistenza e non può estinguersi, quello che si estingue è la richiesta di accertamento del reato ossia l’azione, sebbene la nomenclatura penalistica riferisca l’estinzione per prescrizione al reato.

Questa precisazione serve per sgombrare il campo dal presunto “scandalo” che susciterebbe la nuova categoria dell’estinzione dell’azione ai sensi dell’art. 344-bis c.p. Si tratta, in realtà, di un ritorno alle origini, alle più precise categorie dei codici pre-fascisti. Come detto, nel corso del processo l’unico atto giuridico che può estinguersi è proprio l’azione e il legislatore (o meglio il Governo) non ha certamente errato nel riferire il fenomeno estintivo alla condotta processuale del pubblico ministero piuttosto che al fatto-reato e alla responsabilità penale che non possono essere giuridicamente affermati, se non dopo la condanna definitiva (art. 27 comma 2 Cost.).

Giungere alla conclusione che la prescrizione del reato estingue, in realtà, l’azione non comporta, però, il disconoscere la rilevanza penale sostanziale del fenomeno.

Il sistema penale è profondamente interrelato ai limiti della inscindibilità, mentre la classica distinzione fra diritto sostanziale e processuale appare artificiosa, trattandosi di due facce della stessa medaglia. Quello che accade nel processo non può non avere una conseguenza immediata sul piano sostanziale, così come ogni modifica riguardante il reato o la pena condiziona inevitabilmente lo sviluppo processuale. Senza la previsione del reato non avrebbe alcun significato la celebrazione del processo, mentre il reato, in quanto entità giuridica, non può prescindere dall’accertamento giudiziale.

Per comprendere la reale dimensione del sistema penale, complessivamente inteso, occorre accedere a nuovo concetto di perseguibilità del reato che fonde in sé tanto la punibilità in astratto (aspetto sostanziale) quanto la punibilità in concreto (aspetto processuale), la quale poggia inevitabilmente sulla procedibilità (e proseguibilità) dell’azione.

I nessi di correlazione fra diritto penale e processo sono tali da richiamare l’attenzione degli studiosi sulle implicazioni sostanziali delle norme processuali. Si può affermare l’esistenza di una vera e propria categoria di norme processuali aventi effetti penali ogniqualvolta la loro applicazione determini direttamente o l’alternativa fra condanna e assoluzione ovvero una diversa articolazione della pena.

Sono norme che si riflettono immediatamente sulla punibilità in concreto e che risultano attratte nella sfera applicativa del principio di legalità che «dà corpo e contenuto a un diritto fondamentale della persona accusata di aver commesso un reato, diritto che – avendo come contenuto il rispetto del principio di legalità – da una parte, non è comprimibile non entrando in bilanciamento con altri diritti in ipotesi antagonisti; si tratta, infatti, di una garanzia della persona contro i possibili arbìtri del legislatore, la quale rappresenta un ‘valore assoluto, non suscettibile di bilanciamento con altri valori costituzionali’ (sentenze n. 32 del 2020, n. 236 del 2011 e n. 394 del 2006)»[12].

L’inscindibile legame fra tempo, procedibilità e punizione è ben presente nella più recente giurisprudenza costituzionale[13] laddove si afferma che dal principio di legalità discendono due precisi corollari: «la non retroattività della norma di legge che, fissando la durata del tempo di prescrizione dei reati, ne allunghi il decorso ampliando in peius la perseguibilità del fatto commesso (corsivo nostro)»; la retroattività della «norma che invece riduca la durata del tempo di prescrizione … applicabile in melius anche ai fatti già commessi in precedenza».  

Non è irrilevante che il concetto di “perseguibilità del reato” venga impiegato proprio per illustrare i due corollari del principio di legalità, in quanto capace di far risaltare la dimensione diacronica della punibilità che abbraccia tanto il versante sostanziale delle cause di estinzione del reato quanto quello processuale delle condizioni di procedibilità.

Al fondo delle questioni definitorie vi sono poi i valori costituzionali, troppo spesso dimenticati da un approccio sterilmente formalistico e nomenclatorio. Chiunque osservi il fenomeno processuale non può rimanere indifferente dinanzi a una durata dei giudizi di impugnazione che superi i termini, in verità in sé comunque eccessivi, stabiliti dal nuovo art. 344-bis c.p.p.[14]

 

  1. Il diritto a un giusto processo di durata ragionevole.

Altro tratto comune delle critiche rivolte all’improcedibilità cronologica è il disconoscimento del valore precettivo del principio costituzionale di ragionevole durata del processo. Si sostiene che, nell’impegnare la legge ad assicurare la ragionevole durata dello svolgimento processuale, l’art. 111 comma 2 Cost. «intenda alludere a interventi positivi di tipo acceleratorio, ossia volti a propiziare, nel rispetto delle garanzie, la tempestiva conclusione del processo – dalla depenalizzazione alla fluidità delle fasi preliminari al dibattimento – interventi dei quali, sia detto di sfuggita, non si vede neanche l’ombra nella riforma Cartabia; non certo ad una mannaia che, per il mero decorso del tempo, si abbatta sul processo, segnandone la fine con la più nichilistica e vuota delle immaginabili conclusioni»[15].

La Costituzione detterebbe una norma puramente programmatica, rivolta al legislatore incaricato di predisporre una disciplina processuale ispirata al contenimento dei tempi, oltre alle strutture necessarie per una rapida celebrazione del giudizio.

Si tratta di una ricostruzione aderente al dato letterale, ma assai riduttiva sul piano assiologico che finisce per contravvenire al consolidato canone ermeneutico per cui il testo costituzionale dovrebbe essere inteso nella sua massima potenzialità, garantendo il più possibile l’espansione delle garanzie.

Tale interpretazione restrittiva appare poi inconciliabile con il contesto in cui è inserito il principio di ragionevole durata: il giusto processo richiede uno svolgimento delle attività di durata ragionevole nel senso che tutte le garanzie previste dallo stesso art. 111 Cost. presuppongono, per la loro effettività, un contenimento dei tempi processuali. La durata ragionevole è, quindi, una garanzia strumentale per la piena realizzazione di tutti i caratteri del giusto processo, così da conseguire l’obiettivo costituzionalmente imposto del giusto processo di durata ragionevole, non trattandosi certo di un valore a sé stante da porre in bilanciamento con i diritti sanciti nella stessa previsione costituzionale. Senza mai dimenticare che «un processo non ‘giusto’, perché carente sotto il profilo delle garanzie, non è conforme al modello costituzionale, quale che sia la sua durata»[16].

Nel sistema dei valori costituzionali la ragionevole durata è il predicato del giusto processo, ne diviene un requisito strutturale che segna il punto di equilibrio democratico nei rapporti fra autorità e cittadino: decorso un certo lasso di tempo o lo Stato è in grado di accertare compiutamente la responsabilità, vincendo la presunzione d’innocenza nel contesto di un giusto processo, oppure l’accusato deve essere per sempre liberato dal giogo della pretesa punitiva che fino a quel momento ne ha condizionato l’esistenza.

Si può quindi enucleare dal testo costituzione il diritto soggettivo dell’imputato a beneficiare di un giusto processo di durata ragionevole che, proprio perché contenuto nei tempi, garantisca l’effettività di tutte le componenti del giusto processo. E’ agevole notare come questa conclusione sia ben lontana dalla prospettiva di chi ritiene la durata ragionevole una mera previsione programmatica.

Occorre, però, fare un passo ulteriore rispetto al semplice riconoscimento del diritto costituzionale di ogni imputato a un giusto processo di durata ragionevole.

Negli ordinamenti giuridici, un diritto non può dirsi realmente tale se non è prevista alcuna conseguenza in caso di sua inosservanza. Fino ad oggi la prescrizione – e in futuro anche l’improcedibilità – ha costituito la sanzione per la violazione del principio costituzionale di ragionevole durata del giusto processo. E come tutte le sanzioni ha operato sia sul piano della prevenzione speciale, bloccando il singolo processo di durata irragionevole, sia sul piano della prevenzione generale, come deterrente per l’eccessiva durata dei processi, come stimolo potentissimo al contenimento dei tempi delle attività processuali.

Ovviamente né la prescrizione né l’improcedibilità cronologica sono in grado di garantire da sole la durata ragionevole del processo che dipenderà pur sempre dalla capacità organizzativa e dall’investimento di risorse economiche e umane, ciò nondimeno rappresentano la sanzione per i casi limite in cui comunque tale ragionevole durata sia stata superata, a volte anche ampiamente superata. Una sorta di valvola di sicurezza in grado di attivarsi automaticamente quando ormai si è oltrepassata ogni soglia di tollerabilità civile della pena processuale, sulla base del presupposto, di carneluttiana memoria[17], che la pendenza stessa del processo costituisca una pena per l’imputato.

Questa precisazione non toglie nulla alla portata della previsione costituzionale in ordine alla ragionevole durata del processo. Non solo teleologicamente orientata a scongiurare la appena ricordata pena processuale, ma soprattutto una garanzia strumentale sia per assicurare l’effettività di altri cardini del giusto processo, dal diritto di difesa, al contraddittorio fino alla presunzione d’innocenza, sia per rendere concretamente attuabile la finalità rieducativa della pena che risulterebbe inevitabilmente frustrata se la condanna sopravvenisse in un tempo troppo lontano dal reato, quando la personalità del condannato sarebbe inevitabilmente mutata rispetto al contesto in cui è stata tenuta la condotta deviante.

Considerando, dunque, il profilo strumentale del principio, quale garanzia di secondo grado, volta a soddisfare le primarie esigenze tanto di effettività dei diritti di difesa in senso lato quanto di finalismo rieducativo della pena, non è difficile cogliere il corollario necessitato del diritto a essere giudicati in tempi ragionevoli costituito dal diritto a essere processati entro un tempo ragionevole dalla commissione del reato.

Non avrebbe altrimenti senso predicare la ragionevole durata dello svolgimento processuale, anche quale garanzia di effettività del diritto di difesa e del giusto processo, se ancor prima, non fosse garantito il preciso diritto a un processo per fatti non eccessivamente risalenti. Qualora si registrasse un eccessivo scollamento temporale fra il reato e il processo, tutto il castello delle garanzie processuali, compresa la concentrazione dell’accertamento, finirebbe per crollare, così come sarebbe vanificata la finalità costituzionalmente imposta alla pena.

Si può dunque ritenere, a livello di interpretazione sistematica del dato costituzionale, che il diritto alla ragionevole durata del processo implichi, quale corollario indefettibile, il diritto a che il processo stesso prenda avvio in un tempo tale da non pregiudicare l’esercizio effettivo del diritto inviolabile di difesa. E questo secondo aspetto è tuttora garantito dal solo orologio della prescrizione sostanziale del reato, pur con tutti i limiti di una disciplina dai tempi troppo dilatati (quando non addirittura assente, come nel caso, certamente incostituzionale, dei reati imprescrittibili).

 

  1. Critica al giudicato sostanziale fra improcedibilità e inammissibilità.

La prescrizione del reato (rectius, dell’azione) e l’improcedibilità cronologica nei giudizi di impugnazione sono i presidi di rilevanza costituzionale del diritto a un giusto processo di durata ragionevole, inteso anche quale strumento per garantire l’effettività di tutti i diritti processuali dell’imputato e del finalismo rieducativo della pena. Stando così le cose, non possono esservi dubbi sulla diretta rilevanza costituzionale dell’improcedibilità cronologica, al pari della prescrizione, a prescindere dalle sterili questioni nomenclatorie attinenti alla natura processuale o sostanziale degli istituti, questioni che, come detto, non dovrebbero trovare spazio in un sistema penale integrato e inscindibile.

La diretta rilevanza costituzionale dell’improcedibilità cronologica dovrebbe metterla al riparo dai tentativi di ridurne la portata applicativa operati sia sul piano dei rapporti con l’inammissibilità dell’impugnazione sia sul versante del diritto intertemporale, peraltro oggetto di una specifica previsione transitoria questa sì meritevole di critiche che, invece, le sono state inspiegabilmente risparmiate dai primi commentatori.

Era scontato che la giurisprudenza avrebbe riproposto anche per l’improcedibilità cronologica la teoria utilitaristica del giudicato sostanziale e del rapporto processuale, allo scopo evidente di limitare gli effetti estintivi del tempo nei giudizi di impugnazione[18]. Lo schema adottato dalla Cassazione per questa interpretazione è esattamente quello ben sperimentato con cui le Sezioni Unite hanno regolato i rapporti fra prescrizione del reato e impugnazione inammissibile[19].

Per inciso, va detto che l’horror exstinctionis mostrato tradizionalmente dalla giurisprudenza risulta ancora più accentuato con riferimento all’improcedibilità cronologica che colpisce specificamente i ritardi addebitabili al singolo giudice dell’impugnazione, mentre la prescrizione del reato è “figlia di nessuno” per effetto del cumulo dei ritardi maturati nei diversi stati e gradi del procedimento.

L’argine del giudicato sostanziale, oltre ad essere una fictio iuris contraria all’art. 648 c.p.p., sconta un gravissimo vizio di impostazione che è quello di non considerare come ogni atto processuale invalido, compresa l’impugnazione viziata dall’inammissibilità, produca i suoi effetti in via precaria fino a quando l’invalidità non venga dichiarata dal giudice con efficacia ex tunc. Peraltro, in assenza della rilevazione dell’invalidità, l’atto invalido è destinato a consolidare la sua efficacia precaria che, quindi, si stabilizza con il sopraggiungere del giudicato. Fa eccezione a questa regola solo l’inesistenza, trattandosi di una forma patologica così radicale da rendere l’atto processuale tanquam non esset, ossia improduttivo di effetti anche solo in via precaria.

Nel caso dell’inammissibilità, inoltre, la dichiarazione del vizio (art. 591 commi 2 e 4 c.p.p.) comporta solo il tipico effetto sanzionatorio rappresentato dalla preclusione all’esame del merito[20], ma non la caducazione di ogni atto intermedio compiuto fra la proposizione dell’impugnazione e la declaratoria di inammissibilità della stessa[21].

Anche l’impugnazione inammissibile, dunque, produce il suo effetto tipico di dare avvio alla sequenza procedimentale del relativo grado di giudizio. Sarà, infatti, il giudice dell’impugnazione a dover dichiarare l’inammissibilità dell’atto introduttivo, così dimostrando che l’atto stesso ha prodotto l’effetto di dare avvio alla nuova sequenza procedimentale culminata nella sentenza “in rito” a causa della preclusione all’esame del merito.

E’ chiaro che il giudice risulterà investito di una cognizione limitata alla sola declaratoria d’inammissibilità, ma ciò non toglie che una valida attività giurisdizionale debba svolgersi anche solo al fine di dichiarare l’invalidità dell’atto introduttivo. E la declaratoria “ora per allora” della inammissibilità non travolge tutti gli atti procedimentali compiuti medio tempore (si pensi, ad esempio, alla fissazione dell’udienza camerale ex art. 611 c.p.p.), atti che rimangono validi, ma si limita ad affermare l’effetto sanzionatorio tipico rappresentato dalla limitazione della cognizione del giudice che non potrà esaminare nel merito i contenuti della impugnazione.

Dunque, l’impugnazione viziata per inammissibilità è comunque capace di dare avvio alla nuova sequenza di atti rappresentata dal grado eventuale di impugnazione che sfocia nella pronuncia giurisdizionale con cui viene rilevata la stessa inammissibilità (absolutio ab instantia).

Ricostruita in questi termini la reale portata dell’inammissibilità, l’improcedibilità cronologica risulta perfettamente applicabile anche al giudizio di impugnazione che si dovrebbe chiudere con la mera declaratoria di inammissibilità, superando la forzatura teorica del giudicato sostanziale.

L’art. 344-bis comma 1 c.p.p. non indica, infatti, un particolare esito decisionale quale condizione di operatività della causa di improcedibilità: testualmente si afferma che «la mancata definizione del giudizio entro il termine» determina l’improcedibilità dell’azione penale, con ciò facendo riferimento a qualsiasi forma di definizione del giudizio, non solo a quella di merito, ma anche a quella che sfocia nella declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione. Il dato letterale è insuperabile.

Ragionando diversamente, ossia in termini di inefficacia originaria e totale dell’impugnazione viziata, come vorrebbe la teoria del giudicato sostanziale, non avrebbe giustificazione logica e giuridica il fatto che comunque si debba celebrare un valido giudizio, ancorché semplificato, per dichiarare l’inammissibilità dell’atto introduttivo. Sarebbe come affermare che ogni attività processuale successiva, compresa la declaratoria di inammissibilità, sia da ritenersi invalida in quanto introdotta dall’atto inammissibile. Conclusione giuridicamente paradossale, teoricamente insostenibile e smentita dalla realtà processuale.

Chi afferma che il vizio viene dichiarato “ora per allora”, e che tale declaratoria travolgerebbe tutti gli atti intermedi[22], non considera né la portata della inammissibilità che incide solo in termini di limitazione della cognizione del giudice, ma non di invalidità della sequenza procedimentale introdotta dalla impugnazione inammissibile, né il dato empirico e temporale della celebrazione del procedimento che è l’unico aspetto preso in esame dall’art. 344-bis c.p.p.: il tempo della definizione del giudizio abbraccia anche il tempo impiegato per la declaratoria “ora per allora” del vizio dell’atto introduttivo, declaratoria dalla quale consegue, va ribadito, solo l’effetto sanzionatorio di impedire al giudice di affrontare l’esame del merito della impugnazione.

Il fenomeno è ancora più evidente quando l’inammissibilità per manifesta infondatezza dei motivi è dichiarata dalla Cassazione all’esito di una udienza pubblica partecipata. Il procedimento si svolge esattamente con le stesse forme conseguenti a un’impugnazione valida, salvo poi concludersi con una decisione che limita l’efficacia dell’atto di impugnazione, escludendo il merito dalla cognizione del giudice. La declaratoria d’inammissibilità non cancella, tuttavia, il fatto “procedimentale” che un giudizio si è svolto, per di più nel pieno rispetto delle forme ordinarie.

Ciò dimostra come le invalidità processuali, eccetto l’inesistenza, sono trattate alla stregua dell’annullabilità civilistica: l’atto invalido produce effetti provvisori fino a quando non ne vengano dichiarate l’invalidità e la conseguente sanzione. L’inammissibilità, inoltre, ha una sua peculiarità, rappresentata dalla conseguenza sanzionatoria che determina solo la limitazione della cognizione del giudice e non l’invalidità derivata di tutti gli atti successivi.

Se, dunque, un grado di giudizio si celebra, anche solo nelle forme semplificate previste per attestare l’inammissibilità dell’impugnazione, non si può negare l’applicabilità della improcedibilità che maturi prima della definizione dello stesso mediante declaratoria di inammissibilità. Il processo si sta svolgendo e su di esso non può che operare l’improcedibilità legata al decorso del tempo.

E’ una priorità logica e cronologica: il grado di giudizio è in corso e la sua definizione, ossia la declaratoria di inammissibilità, non può essere raggiunta se medio tempore maturi la causa di improcedibilità. Priorità cronologica, perché l’improcedibilità interviene prima che sia stata dichiarata l’inammissibilità[23], e priorità logica, in quanto l’inammissibilità dell’impugnazione assume giuridica esistenza solo con la pronuncia che la dichiari, ma tale pronuncia è impedita proprio dal fatto che prima di essa l’azione è divenuta improcedibile (o meglio, non proseguibile). Improcedibilità e inammissibilità determinano due decisioni di absolutio ab instantia, ma l’improcedibilità legata al decorso del tempo ha necessariamente la priorità logica e cronologica.

D’altronde, anche nel teorizzare il giudicato sostanziale, le Sezioni Unite hanno dovuto riconoscere che «la porzione di processo che si svolge tra il momento in cui si sollecita l’instaurazione del grado superiore di giudizio e quello in cui tale sollecitazione è dichiarata inammissibile rimane circoscritta al solo accertamento della questione processuale relativa alla sussistenza del presupposto di ammissibilità e, in difetto di questo, non riserva spazio ad altre decisioni»[24]. Questa affermazione, volta ad escludere lo spazio cognitivo per la declaratoria d’ufficio delle cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p., non si oppone, però, alla presa d’atto che l’attività processuale, sia pure rivolta esclusivamente alla declaratoria d’inammissibilità, debba rispettare il termine di durata ragionevole imposto dall’art. 344-bis c.p.p. Qui non viene in rilievo la finalità o la natura della cognizione, limitata o estesa che sia, ma il puro e semplice dato di fatto che si sta svolgendo un grado di giudizio, ancorché a cognizione limitata alla sola rilevazione dell’inammissibilità dell’impugnazione. L’art. 344-bis c.p.p. non distingue in funzione della natura o dell’esito dell’attività giurisdizionale, ma prende in considerazione solo il dato empirico e giuridico della pendenza del procedimento nel grado di impugnazione. Volendo utilizzare le categorie dogmatiche enucleate dalla Cassazione, non conta il giudicato sostanziale, ma quello formale ricalcato su quanto disposto dall’art. 648 c.p.p.

In questa precisa direzione si sono già mosse le stesse Sezioni Unite quando hanno affermato la prevalenza della causa estintiva del reato dovuta a remissione di querela rispetto all’inammissibilità del ricorso. Enunciando tale principio, il supremo consesso ha sottolineato «le connotazioni peculiari di tale causa estintiva rispetto alle altre cause di estinzione; collegandosi essa direttamente all’esercizio dell’azione penale, per di più, in forza dell’esercizio di un diritto potestativo del querelante, diretto, attraverso un contrarius actus, a porre nel nulla la condizione per l’inizio dell’azione penale»[25]. Una causa estintiva incidente sull’azione deve, quindi, prevalere rispetto alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione.

La conclusione che sostiene il primato dell’improcedibilità sull’inammissibilità sembra, infine, rispondere anche alla ratio che ha ispirato l’equilibrio di rapporti fra giudicato sostanziale e art. 129 c.p.p. Le Sezioni Unite non hanno fatto mistero di aver optato per una “politica del diritto” diretta ad assecondare «fondamentali esigenze di funzionalità e di efficienza del processo, che devono garantire – nel rispetto delle regole normativamente previste e in tempi ragionevoli – l’effettivo esercizio della giurisdizione e che non possono soccombere di fronte ad un uso non corretto, spesso strumentale e pretestuoso, dell’impugnazione»[26]. Se l’impugnazione inammissibile non può lasciare spazio all’uso strumentale dell’atto diretto a lucrare la declaratoria di non punibilità ex art. 129 c.p.p., non altrettanto può dirsi per la nuova causa di improcedibilità che misura il tempo dell’attività giurisdizionale anche quando la stessa debba limitarsi alla rilevazione dell’invalidità dell’atto introduttivo del grado di giudizio. La garanzia della ragionevole durata del processo copre inevitabilmente anche tale attività.

Non va, infine, trascurato un ulteriore dato testuale che conferma la prevalenza dell’improcedibilità sull’invalidità della impugnazione. L’art. 344-bis c.p.p. prescinde da ogni riferimento all’impugnazione nel fissare il dies a quo al novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine previsto per il deposito della motivazione della sentenza, senza, quindi, considerare la data del deposito dell’atto di appello o del ricorso per cassazione. Ciò testimonia l’assoluta autonomia dell’improcedibilità rispetto all’impugnazione, ancorché inammissibile, che non viene nemmeno presa in considerazione nella determinazione del termine per la definizione del giudizio[27]. La volontà del legislatore di far decorrere i termini di improcedibilità in una data successiva alla presentazione dell’impugnazione è la miglior riprova dell’irrilevanza di quest’ultima nella considerazione della durata del grado di giudizio.

 

5.– Profili di diritto intertemporale.

Anche sul piano della successione di leggi nel tempo l’atteggiamento giurisprudenziale è particolarmente restrittivo, essendosi la Cassazione già pronunciata nel senso di limitare l’efficacia della nuova previsione ai soli processi per i reati commessi a partire dal 1° gennaio 2020 rispetto ai quali opera il blocco della prescrizione sostanziale imposto dalla l. n. 3 del 2019[28].

Le decisioni finora adottate non si sono, però, adeguatamente confrontate con il tema, peraltro dirimente, delle implicazioni sostanziali delle norme processuali alle quali deve essere estesa la garanzia del principio di legalità (art. 25 comma 2 Cost.).

L’intento del legislatore, espresso dalla norma intertemporale di cui all’art. 2 comma 3 l. n. 134 del 2021, è chiaramente quello di fare intervenire in sequenza diacronica le due discipline, lasciando spazio all’improcedibilità cronologica solo per quei fatti per i quali non opererà più la prescrizione sostanziale nel corso dei giudizi di impugnazione (ex l. n. 3 del 2019).

Tuttavia, se si riconoscesse natura penale sostanziale alla nuova disciplina dell’art. 344-bis c.p.p., la razionalità della scelta intertemporale legislativa passerebbe in secondo piano, dovendo comunque applicarsi in toto il principio che regola la successione nel tempo delle leggi penali, compreso il corollario della estesa retroattività più favorevole.

Il tema, dunque, è quello di stabilire la reale natura della nuova improcedibilità cronologica: se si concludesse per la connotazione penale sostanziale, la norma intertemporale sancita dall’art. 2 comma 3 l. n. 134 del 2021 verrebbe travolta dai principi direttamente discendenti dall’art. 25 comma 2 Cost.

Non si tratta solo di riallacciarsi idealmente a quanto acutamente osservato da tempo in dottrina, ossia che la previsione costituzionale dell’art. 25 co. 2 Cost. «ci offre un suo parametro, per così dire autosufficiente, proprio perché la proibizione costituzionale cade su ogni norma che determini l’essere o non esser condanna»[29]. Argomenti interpretativi altrettanto solidi sono offerti dalla più recente giurisprudenza costituzionale. Anzitutto, dalla sentenza che, soffermandosi sulla interazione fra tempo e processo, ha finalmente ammesso come la prescrizione del reato possa «assumere una valenza anche processuale» in quanto concorre «a realizzare la garanzia della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.)»[30]. Ancora più rilevante è la presa di posizione con cui la Corte costituzionale non ha esitato a qualificare norma processuale ad effetti sostanziali l’art. 656 comma 9 c.p.p., in tema di cause ostative alla sospensione dell’ordine di esecuzione[31]. Se, dunque, una disciplina processuale che incide sulle modalità esecutive della pena viene attratta nella nozione autonoma di materia penale enucleata dalla giurisprudenza costituzionale, a maggior ragione la stessa sorte va riconosciuta a una norma, come quella dell’art. 344-bis c.p.p., che segna il discrimine fra una sentenza di condanna e una di proscioglimento per non doversi procedere ossia fra il punire e il non punire.

Gli argomenti utilizzati dalla giurisprudenza costituzionale per una complessiva rimeditazione della portata del divieto di retroattività sancito dall’art. 25 comma 2 Cost. si adattano perfettamente alla improcedibilità cronologica. Il principio di legalità, con i suoi corollari in materia intertemporale della irretroattività sfavorevole e della retroattività favorevole, «non può non valere anche rispetto alle norme collocate nel codice di procedura penale, allorché incidano direttamente sulla qualità e quantità della pena in concreto applicabile al condannato … Tanto basta per riconoscere alla disposizione in questione [l’art. 656 comma 9 c.p.p.] un effetto di trasformazione della pena inflitta, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale, rispetto al quadro normativo vigente al momento del fatto; con conseguente sua inapplicabilità, ai sensi dell’art. 25, secondo comma, Cost. alle condanne per reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della novella legislativa, che ne ha indirettamente modificato l’ambito applicativo, tramite l’inserimento di numerosi reati contro la pubblica amministrazione nell’elenco di cui all’art. 4-bis ordin. penit.»[32].

Quanto affermato per le modalità esecutive della pena non può non valere, a fortiori, per le disposizioni processuali che, incidendo sulla perseguibilità del reato o, se si preferisce, sulla punibilità in concreto, segnano il discrimine fra il punire e il non punire. Disposizioni che devono applicarsi anche retroattivamente se più favorevoli per l’imputato, lasciando che siano i due orologi a segnare sincronicamente il tempo della prescrizione e della improcedibilità.

 

  1. Il diritto al giudizio di innocenza.

L’innesto del nuovo istituto solleva l’ulteriore quesito circa i rapporti fra improcedibilità cronologica e cause di non punibilità ex art. 129 comma 2 c.p.p. riferite, in particolare, al caso in cui l’imputato sia già stato assolto nel precedente grado di giudizio. Ciò si verifica quando l’impugnazione ammissibile del pubblico ministero (o della parte civile) avverso una sentenza di assoluzione instauri validamente il grado di giudizio nel corso del quale maturi il superamento del termine imposto dall’art. 344-bis c.p.p.[33]. Tale evenienza non è stata però disciplinata dal legislatore che avrebbe dovuto opportunamente fare salva l’applicazione del secondo comma dell’art. 129 c.p.p., garantendo così l’assoluzione nel merito in presenza della già accertata infondatezza dell’accusa. Si pensi, ad esempio, all’imputato assolto in primo grado che vedrebbe chiudersi il suo processo con una sentenza “in rito” di improcedibilità per eccessiva durata del grado d’appello introdotto dall’impugnazione del pubblico ministero. Chiaramente l’absolutio ab instantia non farebbe venir meno il dato storico rappresentato dalla sentenza di assoluzione nel merito pronunciata nel grado precedente, ma si è correttamente sottolineato come la pronuncia in rito sarebbe comunque quella destinata a passare in giudicato.

Il difetto di coordinamento della nuova disciplina con la sistematica codicistica è incontestabile e si sarebbe potuto mitigare escludendo in radice almeno l’appello dell’accusa contro le sentenze di assoluzione, ma la lacuna legislativa può agevolmente essere colmata da una interpretazione analogica in bonam partem ammessa in un sistema di legalità processuale volto alla tutela dei valori costituzionali. Il favor innocentiae, sotto forma di diritto al giudizio d’innocenza, discende direttamente dall’art. 27 comma 2 Cost.[34] e ha una portata tale da superare anche il limite imposto dall’improcedibilità cronologica. Del resto, se l’imputato è presunto innocente e al giudice risulta evidente che tale presunzione non solo non è stata superata, ma addirittura ha trovato pieno riscontro negli atti processuali, essendo già consacrata nella sentenza assolutoria di primo o di secondo grado, il dato formale dell’improcedibilità per eccessiva durata del procedimento di impugnazione non può essere ostativo alla conferma di una pronuncia di merito più ampiamente liberatoria che venga deliberata allo stato degli atti, ossia senza procedere oltre e senza scalfire il bene giuridico del contenimento dei tempi processuali tutelato dall’art. 344-bis c.p.p. Quando matura l’improcedibilità cronologica il procedimento deve arrestarsi, ma se in quel momento vi sono già tutti i presupposti per una sentenza di assoluzione nel merito, il giudice, nello scegliere la formula terminativa, deve preferire quella più ampiamente liberatoria, senza che questa scelta possa dirsi impedita dall’improcedibilità. Del resto, anche la causa di improcedibilità cronologica sopravvenuta deve essere dichiarata con una sentenza, si tratta solo di far prevalere la formula più favorevole.

A differenza della declaratoria d’inammissibilità, che comunque comporta un accertamento giurisdizionale reso impossibile proprio dalla improcedibilità maturata medio tempore, ragion per cui il giudice deve arrestarsi al sorgere dell’improcedibilità e dichiarare immediatamente il superamento del termine di legge prima ancora di poter affrontare il tema dell’inammissibilità della impugnazione, la scelta della formula più ampiamente liberatoria è un’alternativa che si pone al momento stesso in cui matura l’improcedibilità: le due soluzioni sono già “sul tavolo” del giudice e la decisione non implica un ulteriore accertamento, ma solo la riaffermazione di quanto stabilito dalla sentenza di assoluzione impugnata, in ossequio all’art. 27 comma 2 Cost.

Chi esclude tale possibilità non coglie la diversa e originale natura della improcedibilità cronologica rispetto alle condizioni classiche di procedibilità (querela, istanza, richiesta e autorizzazione) che rappresentano i presupposti per giungere a una decisione di merito, in assenza dei quali è consentita solo la pronuncia di una sentenza meramente processuale che constata l’impossibilità di una indagine sul merito[35]. L’improcedibilità cronologica, invece, non postula una limitazione della cognizione del giudice, ma richiede solo che non si proceda oltre, senza quindi impedire la mera rilevazione, allo stato degli atti, di una causa prevalente di proscioglimento nel merito rappresentata dall’assoluzione emessa nel precedente grado di giudizio.

 

[1] La definizione “improcedibilità cronologica” sembra la più adatta a descrivere il fenomeno rappresentato dal limite temporale entro cui possono svolgersi le attività processuali nei giudizi di impugnazione.

[2] Si vedano, per tutti, P. FERRUA, La singolare vicenda della “improcedibilità”, Il Penalista, 27 agosto 2021; G. SPANGHER, Questioni in tema di sistema bifasico (prescrizione/improcedibilità), in Dir. pen. proc., 2021, p. 1444 ss.

[3] Cfr. O. MAZZA, A Midsummer Night’s Dream: la riforma Cartabia del processo penale (o della sola prescrizione?), in Arch. pen., n. 2, 2021.

[4] Anche per D. NEGRI, Dell’improcedibilità temporale, pregi e difetti, in Sistema pen., n. 2/2022, p. 51, il nuovo istituto «non sembra meritare l’ostilità riservatagli dai primissimi interpreti».

[5]  L’art. 1 comma 1, lett. e) l. 9 gennaio 2019 n. 3 ha inserito, al secondo comma dell’art. 159 c.p., la seguente disposizione: «il corso della prescrizione rimane altresì sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto di condanna». Non va dimenticato che, pure in dottrina, la scelta radicale del blocco della prescrizione aveva trovato insospettabili consensi: v., ad esempio, G. GATTA – G. GIOSTRA, Sul dibattito in tema di prescrizione del reato e sul vero problema della giustizia penale: la lentezza del processo, in Sistema pen., n. 2, 2020.

[6] Per una impietosa analisi di quel particolare contesto politico, v. F. PETRELLI, Critica della retorica giustizialista, Milano, 2021, p. 69 ss.

[7] Chi non coglie questo aspetto, ritiene che «l’estinzione del processo si risolv[a] in un tipico caso di giustizia denegata», con conseguente violazione degli art. 101 e 112 Cost. (così P. FERRUA, Improcedibilità e ragionevole durata del processo, in Pen. dir. proc., 2022, p. 7).

[8] Non risponde, pertanto, alle formule terminative previste dal codice di rito l’affermazione per cui «la dichiarazione di estinzione del reato coinvolge il merito» (P. FERRUA, Improcedibilità e ragionevole durata del processo, cit., p. 12).

[9] In tal senso, escludendo però la possibilità di riferire all’azione l’improcedibilità maturata nei giudizi di impugnazione, D. NEGRI, Dell’improcedibilità temporale, pregi e difetti, cit., p. 52.

[10] V., per tutti, F. CORDERO, Procedura penale, Roma, 2012, 985-986.

[11] F. CORDERO, Procedura penale, cit., 986.

[12] Sent. cost. n. 278 del 2020, § 10 del considerato in diritto, in cui si afferma ulteriormente che «nello statuto delle garanzie di difesa dell’imputato, il principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., esteso fino a comprendere anche la determinazione della durata del tempo di prescrizione dei reati, ha un ruolo centrale, affiancandosi al principio di non colpevolezza dell’imputato fino alla condanna definitiva (art. 27, secondo comma, Cost.) e a quello della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.). Da ultimo, esso si proietta finanche sull’esecuzione della pena quanto al regime delle misure alternative della detenzione (sentenza n. 32 del 2020)».

[13] V. ancora sent. cost. n. 278 del 2020, § 11 del considerato in diritto.

[14] Il vero difetto della improcedibilità cronologica risiede proprio nel sistema delle proroghe discrezionali e nell’ennesima applicazione della logica, palesemente incostituzionale, del doppio binario. Questi aspetti, peraltro di estrema rilevanza, non possono essere compiutamente affrontati in questa sede, dovendosi, perciò, rinviare alla condivisibile analisi critica di D. NEGRI, Dell’improcedibilità temporale, pregi e difetti, cit., p. 56 ss. e a quanto già detto in O. MAZZA, A Midsummer Night’s Dream: la riforma Cartabia del processo penale (o della sola prescrizione?), cit., p. 5 ss.

[15] P. FERRUA, Improcedibilità e ragionevole durata del processo, cit., p. 6-7.

[16] Sent. n. 317 del 2009, § 8 del considerato in diritto.

[17] F. CARNELUTTI, Principi del processo penale, Napoli, 1960, 55; ID., Pena e processo, in Riv. dir. proc., 1952, I, 161.

[18] Condivide questa soluzione anche G. CANZIO, Il modello “Cartabia”. Organizzazione giudiziaria, prescrizione del reato, improcedibilità, in Sist. pen., p. 9.

[19] All’esito di un lungo percorso interpretativo si è riconosciuta, salvo alcune specifiche deroghe, l’efficacia preclusiva dell’inammissibilità dell’impugnazione rispetto alla possibilità di dichiarare eventuali cause di non punibilità: cfr. Sez. U, n. 23428 del 22/03/2005, Bracale, Rv. 231164; Sez. U, n. 24246 del 25/02/2004, Chiasserini, Rv. 227681; Sez. U, n. 33542 del 27/06/2001, Cavalera, Rv. 219531; Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266; Sez. U, n. 30 del 30/06/1999, Piepoli, Rv. 213981; Sez. U, n. 11493 del 24/06/1998, Verga, Rv. 211469; Sez. U, n. 21 del 11/11/1994, dep. 1995, Cresci, Rv.199903.

[20] R. FONTI, L’inammissibilità degli atti processuali penali, Padova, 2008, p. 172-174, nonché, sia pure con una diversa sfumatura, N. GALANTINI, Vizi degli atti processuali penali, in Dig. disc. pen., XV, Torino, 1999, p. 350. Sotto la vigenza del c.p.p. 1930, v. T. DELOGU, Contributo alla teoria dell’inammissibilità nel diritto processuale penale, Milano, 1938, p. 51.

[21] In tal senso, è opportuno ricordare che anche G. CONSO, I fatti giuridici processuali. Perfezione ed efficacia, Milano, 1955, ha distinto i c.d. presupposti processuali, intesi come «i requisiti richiesti per la pronuncia di una qualsiasi decisione, anche non di merito» (p. 170), quali «l’esistenza del potere giurisdizionale in materia penale del soggetto investito della cognizione della causa, e la presenza di un imputato fornito della capacità ad essere parte, cioè esente da immunità» (p. 171), dalla cui mancanza deriva «l’inesistenza del rapporto processuale, e, quindi, di tutti gli atti che vi si innestano» (p. 178), dai «presupposti di una [valida] decisione sul merito» (178), dalla cui mancanza discende «l’inammissibilità degli atti relativi alla trattazione del merito» (178). La distinzione fra presupposti processuali di esistenza, i presupposti veri e propri, e i presupposti di validità ricalca sostanzialmente la contrapposizione fra inesistenza e inammissibilità. L’impugnazione inammissibile, priva dei presupposti di validità per la decisione di merito, non travolge tutti gli atti successivi, che rimangono validi, ma comporta solo la preclusione, appunto, all’esame del merito.

[22] In tal senso P. FERRUA, Improcedibilità e ragionevole durata del processo, cit., p. 16, secondo il quale «l’inammissibilità impedisce l’apertura della fase, invalidando quanto fosse già stato compiuto a seguito dell’atto inammissibile, inclusa l’eventuale dichiarazione di improcedibilità». Se così fosse, l’inammissibilità dell’impugnazione invaliderebbe anche la declaratoria della stessa inammissibilità, conclusione paradossale che dimostra l’erroneità della premessa, ossia che l’impugnazione inammissibile impedisca la valida apertura della fase.

[23] Ancora P. FERRUA, Improcedibilità e ragionevole durata del processo, cit., p. 16, contesta la priorità cronologica della improcedibilità, ritenendo che «ad assumere rilevanza non è il momento in cui l’inammissibilità è accertata, ma quello in cui si è realizzata; la circostanza che sia dichiarata dopo l’improcedibilità non esclude che logicamente la preceda ogni qualvolta la fase, protratta oltre i termini massimi, fosse stata aperta da un atto inammissibile». Questa impostazione non considera che tutte le invalidità, ad eccezione della inesistenza, sono in realtà pure e semplici annullabilità (in tal senso, fra i tanti, F. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 1172 ss.), di modo che anche l’inammissibilità assume giuridica esistenza solo con la sentenza che la dichiari, sentenza che sarebbe impedita proprio dalla improcedibilità cronologica maturata in precedenza. Non è quindi corretto fare riferimento al tempo in cui l’inammissibilità si sarebbe realizzata in quanto, mancando la relativa declaratoria, l’invalidità non può ritenersi realizzata e, soprattutto, non risulta produttiva di conseguenze sanzionatorie. Del resto, anche una impugnazione inammissibile, se tale vizio non venisse rilevato dal giudice, potrebbe generare una decisione di merito destinata a consolidarsi con il passaggio in giudicato. 

[24] Cfr. Cass., Sez. U, Sentenza n. 12602 del 17/12/2015 Ud.  (dep. 25/03/2016 ) Rv. 266818, in motivazione.

[25] Cass., Sez. U, Sentenza n. 24246 del 25/02/2004 Ud.  (dep. 27/05/2004 ) Rv. 227681, in motivazione, decisione che ha enunciato il seguente principio di diritto: «la remissione di querela, intervenuta in pendenza del ricorso per cassazione e ritualmente accettata, determina l’estinzione del reato che prevale su eventuali cause di inammissibilità e va rilevata e dichiarata dal giudice di legittimità, purché il ricorso sia stato tempestivamente proposto».

[26] V. ancora Cass., Sez. U, Sentenza n. 12602 del 17/12/2015 Ud.  (dep. 25/03/2016 ) Rv. 266818, in motivazione.

[27] In tal senso, efficacemente, D. NEGRI, Dell’improcedibilità temporale, pregi e difetti, cit. p. 62.

[28] Cfr. Cass., Sez. 7, Ordinanza n. 43883 del 19/11/2021, Cusmà Piccione, non massimata, secondo cui «l’impossibilità di far valere l’improcedibilità per i reati commessi prima del 1° gennaio 2020 trova il suo ragionevole fondamento nella circostanza che per tali reati non opera la normativa della citata legge n. 3/2019, relativa alla sospensione del termine prescrizionale dopo la sentenza di primo grado, per cui non può ritenersi che vi sia una disparità di trattamento ingiustificata tra soggetti che si trovano nella medesima situazione». Tale impostazione, ritenendo parimenti infondata la correlata questione di legittimità costituzionale, è stata confermata da Cass., Sez. 3, sent. n. 1567 del 14/12/2021, Iaria, non massimata.

[29] M. NOBILI, Prescrizione e irretroattività fra diritto e procedura penale, in Foro. it., 1998, 318-319.

[30] Corte cost., sent. n. 278 del 2020, § 10 del considerato in diritto.

[31] Corte cost., sent. n. 32 del 2020 e n. 183 del 2021.

[32] Corte cost. sent. n. 278 del 2020, § 4.4.4. del considerato in diritto.

[33] La stessa questione si porrebbe, mutatis mutandis, anche nel caso di impugnazione inammissibile, accogliendo l’impostazione della prevalenza dell’improcedibilità sull’inammissibilità.

[34] V., fra gli altri, O. DOMINIONI, Le parti nel processo penale, Milano, 1985, p. 258 ss.

[35] E’ sempre P. FERRUA, Improcedibilità e ragionevole durata del processo, cit., p.  13, ad affermare che «l’improcedibilità … interrompe e dissolve il processo, precludendo ogni esame del merito da parte del giudice, il quale può solo dichiarare il non doversi procedere, a meno che l’imputato vi abbia rinunciato». L’evaporazione del processo, citando l’espressione usata sempre dall’Autore, è però l’effetto della mancanza delle condizioni di procedibilità, non dell’improcedibilità cronologica che ontologicamente è ben diversa dalla mancanza originaria delle condizioni del procedere e non inficia l’intero svolgimento processuale, ma impone solo la chiusura del processo stesso allo scadere del tempo limite, con una sentenza in rito, ma anche, se possibile, con una sentenza di merito che sia adottabile allo stato degli atti senza richiedere attività ulteriori rispetto alla declaratoria stessa.

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