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Giuseppe Frigo: le parole dell’Avvocato e le parole del Giudice

Avvocato penalista tra gli avvocati penalisti”.

Queste sei parole si immaginino pronunciate con l’accento bresciano di Giuseppe Frigo.

Con una O stretta come quel vicolo di San Zanino, vicino a Piazza del Foro a Brescia, dove aveva lo studio professionale.

Una voce ferma e cortese, la sua, con una inflessione, una sintassi, una dinamica tutte lombarde, coerenti con il linguaggio del corpo: la gestualità misurata, la postura statica e composta, l’ampio diametro coperto dal suo sguardo, che attingevano inevitabilmente ad un repertorio di qualità personali.

E così, riascoltando quella voce, si potranno ricordare gli occhi espressivi dietro le lenti scese sul naso, il volto ampio che girava intorno a quei baffi riservati e ottocenteschi, come quelli dipinti da Giovanni Boldini in certe tele della Belle Èpoque.

Avvocato penalista tra gli avvocati penalisti”, disse.

In queste potenti sillabe, si intende, c’era e c’è tutta la cultura di Giuseppe Frigo.

Questa frase fu pronunciata a Torino, un sabato mattina, il 3 ottobre 2009, dal palco del Congresso Straordinario dell’Unione delle Camere Penali Italiane (l’evento è ancora visibile sul sito web di Radio Radicale).

Da quasi un anno ricopriva la funzione di Giudice della Corte Costituzionale.

Quel giorno, invitato come ospite al Congresso, volle premettere, appunto, che desiderava essere comunque considerato “avvocato penalista tra gli avvocati penalisti”, proprio in ragione di quella identità professionale ventennale che gli aveva consentito, secondo l’art. 135 della Costituzione, di essere nominato dal Parlamento come Giudice della Consulta.

Una identità culturale, quella di avvocato penalista, che in Frigo non si esauriva in una teoria coerente di soli principi giuridici e deontologici. In lui quella identità culturale oltrepassava il diritto e l’esercizio della professione, per estendersi all’area delle sensibilità personali che presidiavano all’esercizio di qualsiasi sua funzione, accademica, forense o giudiziaria che fosse.

Qui occorre l’etimo e l’etimo ci soccorre: perché se la parola “cultura” riflette quella cura umile, remota e continuativa propria del coltivare (colĕre), ecco che la “cultura” di Frigo era un’attenta e costante coltivazione di quella landa liberale e illuministica della tutela dei diritti del singolo e ciò non ammetteva distrazioni, eccezioni, scismi o mutazioni.

Proprio questo humus culturale è stato ininterrottamente alimentato da Giuseppe Frigo in ogni momento della sua partecipazione alla vita civile del nostro Paese: quando nel 1983 fu chiamato dal Ministero di Grazia e Giustizia come componente della Commissione Consultiva per la legge delega alla riforma del codice di rito; quando nel 1989 fondò e venne eletto Primo Presidente della Camera Penale di Brescia e poi della Camera Penale della Lombardia Orientale; quando prese parte alla vita dell’Unione (dapprima dal 1990 al 1992 come componente della Giunta, successivamente dal 1992 al 1994 come Vice-Presidente e, ancora, dal Settembre del 1998 al Settembre del 2002 come Presidente dell’Unione, adoperandosi in tale ultima veste per ottenere la inclusione nel perimetro costituzionale dei principi del “due process of law“); infine quando, a partire dal 21 ottobre 2008, a seguito del 22° scrutinio del Parlamento in seduta comune, assunse la funzione di Giudice della Corte Costituzionale, veste con la quale in poco più di otto anni avrebbe firmato, in qualità di relatore, ben 186 provvedimenti di significativa rilevanza nella giurisprudenza della Consulta (tra le tante, quella sulla disciplina dell’art. 41-bis delle norme sull’Ordinamento Penitenziario).

Si prendano due tra gli interventi di Giuseppe Frigo più rappresentativi di questa sua identità culturale: uno pronunciato nel settembre del 1998 come candidato alla Presidenza dell’U.C.P.I., in occasione del VII Congresso Nazionale, cui seguì la sua elezione come Presidente dell’Unione e l’altro pronunciato nell’ottobre del 2009, in qualità di Giudice della Consulta, ospite del Congresso Straordinario dell’U.C.P.I. Entrambi vengono riportati in appendice a questo articolo.

Si tratta di due interventi che, a dispetto della loro lontananza nel tempo e della diversità dei ruoli nei quali Frigo ebbe a pronunciarli, evidenziano la continuità del suo pensiero e dei suoi progetti.

L’intervento programmatico come candidato alla Presidenza dell’Unione viene pronunciato il 19 settembre del 1998, all’indomani della stagione di Mani Pulite e della conseguente tensione tra politica e magistratura.

Nell’occasione Giuseppe Frigo riafferma con forza la natura di soggetto politico sia dell’Unione delle Camere Penali sia dell’avvocato penalista, ζῷον πολιτικόν nel più autentico senso aristotelico. Specifica cioè che la dimensione politica è consustanziale all’attività quotidiana dell’avvocato penalista: se nelle aule di udienza l’esercizio professionale è finalizzato alla tutela giudiziaria dei diritti del singolo, fuori da quelle aule deve essere promossa e diffusa la tutela “politica” di quegli stessi diritti. Tale statuto “politico” dell’agĕre degli avvocati penalisti in seno alla società civile necessariamente travalica “l’autopromozione e l’autoconservazione di categoria” e persegue “interessi generali, muovendo dalla specificità della loro collocazione nel tessuto sociale e dalle funzioni esercitate“.

In tale prospettiva, dunque, l’avvocato penalista non può non prendere atto dell’apertura di una profonda faglia tra il diritto vivente e il diritto formale delle disposizioni normative, “sovente ridotto a diritto morente“, con il rischio, fin troppo spesso inveratosi, che il primo prenda le sembianze di un “diritto costituzionalmente abusivo“. Per contrastare l’arretramento del diritto dei precetti formali e l’avanzamento di un più ambiguo diritto cd. “giurisprudenziale” (“frutto di interpretazioni talora persino platealmente abroganti” e di “prassi che svuotano le norme“), Giuseppe Frigo prospetta una urgenza: quella di un quotidiano impegno dell’avvocato penalista dentro e fuori l’aula di udienza (nella cd. “prassi”), ma anche quella di una “rifondazione costituzionale” che inglobi i principi costitutivi del Giusto Processo.

Le parole pronunciate dall’Avvocato Giuseppe Frigo in quel settembre 1998 sono, anche su questo punto, ferme e prive di ambiguità: il modello accusatorio del processo penale è espressione di una “concezione laica e liberale, che non assegna al processo medesimo altro fine se non quello di attingere un giudizio risolutore di una controversia sulla applicazione della legge penale sostanziale“. E’ un modello caratterizzato dalla “indipendenza e imparzialità del giudice“, dalla “sua soggezione solo alla legge“, dal “suo dovere di applicarla“, dalla “autonomia e libertà del pubblico ministero e del difensore“, dalla “parità delle parti“, dal contraddittorio e dall’oralità.

Con l’enunciazione di questi principi Giuseppe Frigo tratteggia davanti all’assise dei penalisti italiani l’architettura della futura legge di modifica dell’art. 111 della Costituzione, riforma che fu conseguita proprio anche grazie al decisivo intervento dell’Unione delle Camere Penali nel periodo della sua Presidenza.

Dieci anni dopo, il 3 ottobre 2009, le parole del Giudice Costituzionale.

L’ambiente che accoglie Giuseppe Frigo nella nuova veste istituzionale ricorda quello di dieci anni prima: il Congresso Straordinario dell’Unione delle Camere Penali Italiane.

Per una sorta di coincidenza causale in quel sabato di ottobre cadeva una duplice ricorrenza: il ventennale dall’entrata in vigore del codice di procedura penale e il decennale dal recepimento in Costituzione di quei principi del Giusto Processo di cui Frigo nell’intervento di dieci anni prima aveva difeso la urgente necessità.

Nell’occasione il Giudice, dunque, prende la parola e declina le proprie generalità alla platea: “avvocato penalista tra gli avvocati penalisti“.

Ecco un incipit che è qualcosa di più di un inizio, va oltre la captatio benevolentiae dell’uditorio, non è mera tecnica argomentativa. Quell’incipit è il diapason al quale Frigo accorderà l’intera propria orazione: pronunciare la frase “avvocato penalista tra gli avvocati penalisti” significa riaffermare quei medesimi valori culturali e giuridici già espressi dieci anni prima, fondati su una visione garantista del processo penale.

Il presupposto per ribadire quei valori, dice il Giudice Giuseppe Frigo, è sempre uno: che gli avvocati penalisti si adoperino nella società civile per assicurare una tutela “politica” di quei diritti che quotidianamente essi difendono nelle aule di giustizia. L’avvocato penalista, infatti, “dalla pluridecennale opera nella quotidiana tutela degli interessi dei singoli attinge linfa per quella degli interessi generali“. L’assunto, dunque, è geometricamente identico a quello formulato nel discorso del 1998.

Frigo con una costruzione centripeta del proprio argomentare, attira ogni confine dell’intervento intorno a quell’unico monolite, vale a dire quella identità culturale garantista che permane a prescindere dalle contingenze.    Di epigrammatica chiarezza sono le sue parole: “Questa, con questa storia alle spalle, con queste matrici, è l’identità culturale dell’avvocato penalista cui intendo riferirmi, e che mi propongo di conservare e che deve alimentare la quotidianità dei nostri impegni per progredire. Certo, alla stregua del referente comune i livelli del mio e del vostro impegno sono poi diversi“.

E’ dalla prospettiva di questa comune identità che Frigo muove un ammonimento aspro agli avvocati penalisti, richiamandoli a un maggior impegno nel contribuire al controllo costituzionale delle leggi e nel partecipare alle udienze davanti alla Consulta.

In un vertiginoso detournement lessicale, infatti, Frigo usa d’improvviso una parola forte, sacrilega, quasi di sapore situazionista: “diserzione“. Denuncia pubblicamente la “diserzione dalla Corte costituzionale da parte degli avvocati penalisti” (di “désertion culturelle“, aveva parlato Michel Foucault nelle lezioni parigine).

Le ragioni di quella reprimenda sulla “diserzione” degli avvocati penalisti sono intuibili: la necessità di assicurare sempre, anche nei giudizi davanti alla Corte Costituzionale, il contraddittorio nella rappresentazione e nell’ascolto delle ragioni di tutte le parti coinvolte.

Ecco perché per Giuseppe Frigo la diserzione dalla Corte è una forma di defezione, di esilio dell’avvocato penalista dal proprio originario statuto: perché in tal modo è proprio l’avvocato che, sottraendosi alla Corte, in una sorta di eterogenesi dei fini annichilisce l’attuazione del principio del contraddittorio, impedendo che “la Corte possa sentire la voce delle persone sulle quali prima di tutto è destinata ricadere quella decisione che poi, come si sa, avrà effetti erga omnes“.

Il sonno degli Avvocati, non solo dei Giudici, genera il “degrado del sistema“, il cui arretramento è obiettivo comune.

Diserzione“, “diritto abusivo“, “degrado del sistema“. Il vocabolario di Giuseppe Frigo passa attraverso un poligramma di colori diversi, tanti quante sono le sue sensibilità di Uomo, di Avvocato, di Giudice. La diplomazia, la sintassi accademica possono cedere il posto a energici rimproveri, mai scomposti. Come quando pubblicamente rispose alle parole del Presidente della Repubblica Scalfaro che aveva qualificato come “eversiva” l’astensione proclamata dai penalisti all’indomani della sentenza n. 361/98 della Corte Costituzionale: “Prendiamo atto con grande tristezza che con questo attacco all’avvocatura penalistica associata, cioè agli 8.000 penalisti riuniti nelle Camere Penali, il Capo dello Stato non rappresenta più tutti i cittadini“.

Se si trattava di difendere principi non negoziabili, insomma, Frigo sapeva usare parole che, lontane dall’esser la scomposta amplificazione d’una fiammata, eran sempre misurate eppure ferme come il granito. Della medesima tempra espressiva d’un altro grande lombardo, il quale infatti ebbe a scrivere: “La sfiammata della paglia non serve, ci vuole ceppo di rovere. Allora l’anima è veramente entusiasta, cioè pronta a reagire in ogni momento, capace di durare in tutti i momenti” (C.E. Gadda, “Elogio di alcuni valentuomini“, in Romanzi e racconti I, Garzanti, 2007, p.128).

Infine, nel discorso del 3 ottobre 2009 anche il Giudice Costituzionale, al pari di ciò che aveva ammonito dieci anni prima l’Avvocato penalista, mette in guardia dal prepotente spazio occupato dal diritto vivente alternativo e “abusivo” del precetto formale, con il conseguente rischio della formazione di una “Costituzione materiale alternativa”.

Giuseppe Frigo sollecita una reazione precisa: l’avvocato deve tornare protagonista della procedura di controllo costituzionale. “Il modello processuale prefigurato dall’articolo 111″, afferma Frigo, “al pari di quello penale sostanziale, finalmente coerente con il primo, si promuovono con singole e indispensabili riforme normative comprese quelle, se necessaria, della Costituzione, ma anche, prima di tutto, impegnandosi a difendere in sede giudiziaria e in modo particolare davanti alla Corte Costituzionale il quadro costituzionale di riferimento, ostacolando il rischio di formazione di nuovo di una Costituzione materiale alternativa, impegnandosi a promuovere questioni di incostituzionalità di leggi ordinarie con esso contrastanti e, infine, a difendere da pretesa incostituzionalità quelle coerentemente attuative”.

A piangere la scomparsa di Giuseppe Frigo siamo tutti.

Quella forza dei convincimenti, quella nitidezza di pensiero, quella compostezza nei toni, quella passione nelle idee, oggi queste qualità sono monili preziosi e rari.

Ecco perché a distanza di tanti anni quelle parole di Giuseppe Frigo ci appaiono come la parresìa coraggiosa d’un antico pensatore ateniese, che esorta a difendere senza tregua quei principi non negoziabili nell’architettura portante dello Stato di diritto.

Adesso la sua voce è sbarrata da un filo di silenzio, che è solo assenza di suono ma non carenza di messaggio. Quel filo lo possiamo rimuovere continuando a difendere i principi e le idee ai quali Giuseppe Frigo ha dedicato l’intera esistenza, votata a contrastare la “continua caduta verticale, nelle prassi e nella giurisprudenza  delle c.d. garanzie” e a promuovere “una visione, alta, nobile, forte dì ciò che dovrebbe essere un sistema penale in un paese di democrazia liberale“: un sistema, ricordiamolo con le stesse parole di Frigo in questa epoca di smarrimento culturale e giuridico, che sia “vicino ai diritti e alle attese dei cittadini, specialmente di quelli che sono deboli, perché non sono inseriti in quei gruppi o corporazioni che riescono quotidianamente a strappare privilegi particolari; insomma, ai diritti di quelle persone che con i loro valori o i loro disvalori, con le loro storie di miserie o di virtù, colpevoli o innocenti, imputati o vittime di reati, sono soli – ma noi siamo accanto alla loro solitudine – davanti al Potere“.

Intervento al VII Congresso nazionale UCPI del 1998

Intervento al Congresso straordinario UCPI del 2009

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