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Giustizia penale e politica: il caso antico dell’inchiesta sui Baccanali

1. Verso l’inizio del II secolo a.C. il sistema del diritto e processo criminale romano appare interessato da una profonda trasformazione che, stando ad una importante testimonianza di Polibio[1], vide il senato farsi carico della salvaguardia dell’ordine costituito, contro fenomeni che noi diremmo di “criminalità organizzata”[2], diretti adversus rem publicam[3].

       Ciò, attraverso l’indizione di quaestiones che, secondo molti studiosi, avrebbero sconvolto il quadro tradizionale della repressione penale, fondato sull’esercizio del potere magistratuale e sulla garanzia della provocatio ad populum[4].

       Si è anche soliti sostenere che il primo, e forse più importante, caso di inchiesta “straordinaria” di questo genere sia stato quello riguardante i tiasi di Bacco del 186, giacché gli adepti di codesto culto avrebbero dato luogo ad una vera e propria coniuratio contro lo stato romano (in Polibio, προδοσία, συνωμοσíα)[5].

       E’ allora opportuno studiare approfonditamente questa vicenda, al fine di accertare la natura dei crimini fondamentalmente perseguiti (assimilabili, a nostro avviso, ad odierni reati associativi[6]) e soprattutto al fine di dimostrare che la procedura adottata, innovativa rispetto al passato, ebbe carattere eminentemente politico, e non di altro tipo.

       2. All’inizio del II secolo, riti bacchici di origine greca[7], organizzati in una nuova forma orgiastica, notturna, segreta e violenta – tale da renderne assai ardua la riconduzione al culto di Liber, divinità tradizionale romana pur ormai identificata, quasi del tutto, nel dio del vino Dioniso[8] -, si erano diffusi rapidamente dall’Etruria e dalla Campania nell’intera penisola, e si erano conquistati numerosi adepti anche a Roma, approfittando del disagio morale e sociale in cui versavano le masse rurali che, per la rovina delle campagne causata dalla seconda guerra punica, erano state costrette ad inurbarsi.

       E’ noto che la reazione dell’aristocrazia romana (nell’ambito della quale adesso, nel secondo decennio del II secolo, prevaleva la figura dell’ultraconservatore M. Porcio Catone[9]) fu addirittura spietata: ciò, come s’intende dimostrare, per ragioni non tanto etiche o religiose – dato che il fenomeno si collocava al di fuori dell’ordinamento cultuale statuale[10] -, quanto piuttosto politiche, dal momento che i Baccanali, per le loro caratteristiche, tendevano effettivamente a sopprimere quelle distinzioni secolari di nascita, rango e ricchezza[11] su cui si fondava l’organizzazione stessa della vita pubblica[12].

       Al 186 risale il famoso senatusconsultum de Bacchanalibus[13], con il quale si attribuivano ai consoli pieni poteri per condurre un’inchiesta straordinaria[14] su tutto il territorio confederale[15], e per perseguire e condannare coloro che, iniziati al culto, si fossero resi colpevoli dei gravi crimini che s’imputavano loro.

       Obiettivo primo della repressione era la coniuratio, il giuramento costitutivo dell’unità sacrale di gruppo, poiché da questo comportamento traeva propriamente origine quella che veniva ormai considerata come un’associazione sovversiva contro la res publica: tutti i tiasi furono dichiarati illeciti e disciolti[16]. Le pene inflitte ai singoli variarono poi a seconda del crimine commesso, di sola congiura e oscenità, o anche di altro[17]: numerose furono le condanne a morte emesse[18].

       Dopodiché, le autorità non proibirono il culto di Bacco, ma lo ridimensionarono, riportandolo alla sua forma originaria[19]: depurato della sua pericolosità sociale, esso fu sottoposto ad una regolamentazione che prevedeva autorizzazioni varie per il suo esercizio[20]. Questo, evidentemente, per dimostrare che s’intendeva distinguere tra la superstizione dilagante e il culto di quel dio che doveva invece essere salvaguardato, per non turbare la pax deorum[21], attraverso la celebrazione dei rituali consueti, e che la repressione era stata condotta esclusivamente sul piano profano, senza che ne fosse per nulla implicato, in quella che era essenzialmente una questione d’ordine pubblico, il sistema statuale sacrale, bensì soltanto quello criminale.

       3. Sulla circostanza che quello contro i Baccanali non fu, in particolare, un processo di tipo religioso, ma appunto di tipo politico, dobbiamo concentrare la nostra attenzione.

       Nelle fonti[22], vi è soltanto un passo, tratto dall’opera di Livio[23] in cui si faccia riferimento alle autorità religiose di Roma, e ci pare che non se ne possa affatto evincere la prova del loro coinvolgimento in questa tormentata vicenda[24]. Ci riferiamo più che altro alla competenza del collegio dei pontefici, supremo organo sacerdotale repubblicano.  

       Il culto romano consisteva per lo più nel compimento di atti che si riteneva fossero oggettivamente dovuti o comunque graditi agli dei: la validità di tali rituali e cerimonie dipendeva dall’osservanza delle formalità da lungo tempo tramandate. Sebbene in passato fossero stati introdotti, sotto lo stretto controllo dell’oligarchia, riti estranei alla tradizione romana[25], aperti alla partecipazione di tutti i cittadini, si può dire tuttavia che le istanze spirituali dei singoli continuassero a non essere prese in considerazione dal sistema sacrale ufficiale e che le modalità, con le quali esse potevano eventualmente estrinsecarsi, si collocassero di necessità al di fuori di esso[26]: a Roma, per tradizione, non v’era tendenzialmente spazio per una religiosità autonoma e spontanea, che instaurando un rapporto diretto con gli dei equiparasse le condizioni umane, annullasse le differenze e i ruoli, rendesse inutile la mediazione delle élites sacerdotali. E’ insomma difficile negare che la religione romana, espletandosi per lo più nello svolgimento di attività pubbliche, riconosciute e regolate dalle autorità, fosse sostanzialmente un fatto politico: la classe dirigente non poteva in alcun modo tollerare che, per libera iniziativa dei privati[27], accanto alle pratiche e ai riti ufficiali se ne affermassero altri, specie nel caso in cui questo non avvenisse sotto il controllo diretto della stessa oligarchia senatoriale, di cui potevano esser messi a repentaglio gli interessi.

       Ora, nel passo sopra riportato in nota[28], ricavato del resto da un’orazione[29] che Livio fa pronunciare al console Sp. Postumio Albino[30], incaricato di condurre l’inchiesta, è contenuto un (ambiguo) riferimento anche all’insegnamento pontificale, che va ben compreso.

       Postumio, subito dopo il pronunciamento del senato[31], arringa la folla (riunita in assemblea informale, non comiziale[32]), per denunciare pubblicamente i tiasi, spiegando fino a che punto i Baccanali rovinassero il cittadino romano, lo devitalizzassero, impedendogli di essere un buon soldato e inducendolo alle turpitudini peggiori[33]. In particolare, egli sembra voler rassicurare la cittadinanza su questo punto: allo smantellamento dei Baccanali ognuno poteva e doveva offrire il proprio contributo senza alcun timore di empietà, senza alcuna paura di offendere gli dei, perché ciò non avrebbe comportato alcuna infrazione del diritto sacro[34].

       Sappiamo infatti che culti stranieri potevano essere introdotti in Roma e ufficialmente riconosciuti nell’ambito dell’ordinamento religioso cittadino solo mediante l’esperimento di una complessa procedura[35], la quale prevedeva l’emanazione di un decreto da parte del collegio dei decemviri sacris faciundis e successivamente di un senatoconsulto che ne disponesse l’esecuzione; ogni pratica, come i Baccanali, che invece non fosse stata ufficializzata dalle autorità politico-religiose e che perciò, collocandosi al di fuori del sistema dell’amministrazione sacerdotale, non fosse regolata dal ius sacrum, non era da considerarsi, giuridicamente, religione, ed anzi poteva, ricorrendo certe esigenze, essere proibita, specie quando finiva per attentare essa stessa, dall’esterno, alla sicurezza del culto romano[36] e, in fin dei conti, dell’intera cittadinanza[37].

       Non vi è allora da stupirsi se pratiche che, come i Baccanali, si sottraevano al controllo spirituale e politico delle classi dirigenti, poterono essere interdette: si trattava infatti di culti non autorizzati, di riti estranei al costume romano e per di più non riconosciuti in alcun modo[38]. L’aristocrazia controllava e sanzionava le innovazioni: esse dovevano essere razionalmente orientate, inserirsi nel quadro religioso istituzionale, innervarsi di diritto. Altrimenti non avrebbero per ciò stesso posseduto alcun connotato sacrale di fronte allo stato romano, e la loro repressione avrebbe rappresentato un fatto di carattere soltanto politico, realizzandosi al di fuori di ogni preoccupazione di ordine religioso.

       Si osservi infatti che nella vicenda dei Baccanali è il senato[39] che, trattando la questione come esclusivamente attinente al sistema criminale romano, gestisce l’intera sanguinosa operazione da solo, senza avvalersi dei servigi dei collegi sacerdotali perché collaborassero alla repressione, senza in particolare – almeno ufficialmente e per quanto ne sappiamo – far consultare i pontefici dai magistrati[40]. È d’altronde probabile che già in precedenti occasioni (come risulta dal pur generico riferimento che il console Postumio, nell’orazione attribuitagli da Livio, fa ad innumerabilia decreta pontificum, senatusconsulta, haruspicum responsa), essendo sorto qualche scrupolo circa la non contrarietà al ius divinum dell’attività repressiva cui ci si accingeva, il collegio pontificale fosse stato interpellato ed avesse emesso il più confortante dei responsi: la questione non riguarda la religione perché quel culto, dal punto di vista giuridico, è come se non esistesse[41].

       A nostro giudizio pertanto i senatori, dopo aver forse saggiato in maniera informale il parere dei pontefici[42] (due dei quali risulteranno poi, non a caso, assistenti-redattori del provvedimento: L. Valerio Flacco, il grande alleato di Catone, e M. Claudio Marcello)[43], constatane la assoluta conformità a quelli già rilasciati in passato[44], tengono la cosa esclusivamente nelle proprie mani[45].

       Sul piano politico, si può anzi ragionevolmente concludere affermando che l’intera vicenda dei Baccanali, per il fatto che si svolse e per come si svolse, segnò un’importante vittoria di M. Porcio Catone e del suo partito nella lotta contro gli influssi esterni, qui debolmente difesi dai tradizionali leadersdel partito filoellenico[46]. Passata la paura della seconda guerra punica e la crisi religiosa che ne era derivata, conclusasi anche l’epoca dell’imperialismo illuminato, incarnato dalla figura di P. Cornelio Scipione, in quegli anni si stava senza dubbio consolidando un orientamento reazionario ed intransigente, deciso ad arrestare l’inquinamento degli usi tradizionali romani da parte di quelli stranieri.

       4. La natura più che altro politica della quaestio in esame implica conseguenze di grande rilievo anche sul piano tecnico-giuridico, sia sostanziale che processuale; conseguenze che, a nostro avviso, come si diceva, segnano un considerevole iato rispetto al passato.

       Il profilo che qui più interessa è, naturalmente, il secondo, ma non si può fare a meno di ribadire come queste inchieste di “nuova generazione” – certamente limitative, fra l’altro, della libertà d’associazione[47] – fossero principalmente dirette a sanzionare un crimine che, come la coniuratio[48], sembra compiutamente strutturarsi proprio a partire da quest’epoca e che, a nostro avviso, è sostanzialmente assimilabile alle odierne fattispecie di reato associativo. Se si ha infatti riguardo agli elementi di cui la dottrina penalistica[49] ritiene che esso debba constare, è difficile negare che nella nostra vicenda sia dato di rinvenirli. Non è per esempio lecito dubitare dell’esistenza di un pactum sceleris, che risulta essere addirittura formalizzato in un giuramento, la coniuratio rituale, richiesta di volta in volta agli aderenti, molto numerosi, e certamente costitutiva dell’unità sacrale di gruppo, oltretutto custodita come segreta[50]. E’ da ritenersi altresì sicuro che i tiasi si fossero dotati di un assetto organizzativo significativo, anche sotto il profilo economico, come si evince dalla circostanza che poi il senato non ne consentirà più la ricostituzione, se non a certe condizioni, tra le quali l’assenza di una cassa comune[51]. Anche l’ulteriore elemento della sussistenza di un programma criminoso indefinito appare senz’altro verificabile nelle fonti, dato che i Baccanali, oltre ad essere avvertiti come una vera e propria minaccia per la sicurezza della res publica[52], formeranno oggetto d’indagine per i molteplici crimini consumati dai singoli adepti, si trattasse, come si diceva, di oscenità, o di violenza, o addirittura di assassinio, falso, od altro[53]. Differenti saranno ovviamente, a seconda dei casi, le pene irrogate; ma è espressamente attestato che la mera partecipazione venne di per sé sanzionata[54].  Infine, si noti che al successo della repressione contribuirono in modo financo determinante le rivelazioni fatte da taluni delatori dissociatisi dai tiasi, che poi vennero per questo anche generosamente premiati, in modo non dissimile a quanto talora prevede la legislazione attuale[55].

       Quanto agli aspetti processuali, già dicevamo che è proprio in ragione della repressione di questi reati di natura politica che lo stesso processo criminale romano comincia a subire una trasformazione che, come noto, col passare del tempo, avrebbe comportato la istituzione di corti pemanenti deputate a giudicare di singole fattispecie, senza possibilità di impugnazione davanti all’assemblea popolare.

       Certo, per il momento, quella de Bacchanalibus appare un’inchiesta straordinaria – per come, in fin dei conti, lo stesso Livio[56] la definisce -, il che ci conferma nella convinzione che essa in effetti possedesse tratti profondamente innovativi rispetto alla tradizione, secondo quanto d’altronde sostiene la parte a nostro avviso prevalente della dottrina[57].

       Tali caratteristiche possono essere, in questa sede, quanto meno declinate.

       Rappresenta, anzitutto, una deroga alla prassi da lungo tempo invalsa in materia il fatto che la quaestio venga indetta ex senatusconsulto. E’ dunque nuovo il ruolo che il senato si assume, in campo penale[58].

       Stessa cosa si dica in merito alla circostanza che, al fine di condurre la repressione, pieni poteri vengano affidati ad entrambi i consoli, a scapito di ogni altra incombenza[59].

       Ulteriore strappo alle regole fino ad allora applicate, rilevante anche dal diritto internazionale, è costitituito dal fatto che tali poteri fossero esercitabili su tutto il territorio confederale, e non solo nello stato romano[60].

       Ma il dato che più impressiona è il seguente: ossia che, per la repressione dei crimini imputati ai baccanti – alcuni dei quali non propriamente riconducibili ad alcuna normativa pregressa, di origine legislativa o consuetudinaria che fosse[61] – fossero state previste, e poi effettivamente applicate, sanzioni di notevole gravità e varietà, e soprattutto che contro di esse i condannati, financo alla pena capitale, non potessero avvalersi della provocatio ad populum (della quale è in effetti rimarchevole la mancata menzione nelle fonti, a fronte dell’alto numero di sentenze di morte pronunciate).

       E’ dunque plausibile supporre che nel processo politico qui esaminato una garanzia di libertà, ritenuta tra le più importanti dell’ordinamento costituzionale repubblicano, fosse stata soppressa, senza che alcuna legge l’avesse autorizzato[62].


[1] Pol. 6.13.4: ὁμοίως ὅσα τῶν ἀδικημάτων τῶν κατ‘ Ἰταλίαν προσδεῖται δημοσίας ἐπισκέψεως, λέγω δ ̓οἷον προδοσίας, συνωμοσίας, φαρμακείας, δολοφονίας, τῇ συγκλήτῳ μέλει περὶ τοῦτων; cfr. 6.16.2.

[2] Fanno propriamente uso di queste parole P. Cerami, ‘Accusatores populares’, ‘delatores’, ‘indices’. Tipologia dei “collaboratori di giustizia” nell’antica Roma, in AUPA,XLV, 1998,p.170; L. Solidoro Maruotti, La repressione della criminalità organizzata nel diritto romano. Criteri di impostazione della ricerca, in ‘Iuris vincula’. Studi M. Talamanca, vol. VIII, Napoli, 2001, p. 33 ss.

[3] In merito a tale espressione, che ad indicare il bene tutelato arieggia quella presente nel nostro codice penale, v. Ascon. in Pison. 7 C; ma è significativo che essa, ancora prima, compaia in Liv. 9.26.8, a proposito di una quaestio de coniuratione iniziata, anche se non condotta a termine, nel 314. Sul punto v. per esempio D. Mantovani, Il problema d’origine dell’accusa popolare. Dalla ‘quaestio’ unilaterale alla ‘quaestio’ bilaterale, Padova, 1989, p. 16 s. e nt. 40.

[4] E’ opportuno anticipare sin d’ora che, come noto ai romanisti, il problema forse più grave tra quelli inerenti alle c.d. quaestiones extraordinariae di quest’epoca – specie quando disposte ex senatusconsulto e senza che, almeno apparentemente, ai condannati a morte fosse poi data la facoltà di provocare ad populum – è il seguente: ossia se a fondamento di esse potesse individuarsi una legge, di portata quanto meno generale se non proprio, evidentemente, di volta in volta istitutiva di una quaestio. Su tale problema torneremo inevitabilmente infra: v. in particolare § 4 e nt. 62.

[5] Sul reato, certamente politico, di congiura, inteso in generale, non è facile svolgere considerazioni di sintesi. Nondimeno, ci sia consentito osservare come l’imputazione de coniuratione, fattispecie a struttura plurisoggettiva necessaria, affiori, nell’esperienza romana, fin da epoche assai risalenti (v. per esempio, oltre all’episodio ricordato alla nt. 3, anche quello di cui a Liv. 2.3-5; 5.7.1; Dion. Alic. 5.6 ss.; Plut. Publ. 3 ss., relativo al complotto ordito per riportare sul trono Tarquinio il Superbo, sul quale non vale la pena soffermarsi troppo a causa del suo carattere sicuramente in parte leggendario, ma che sembra munito di tutta una serie di caratteristiche per noi interessanti, come il co-giuramento sancito in forma rituale e solenne: in proposito cfr., per tutti, G. Franciosi, La relazione avuncolare in Roma antica (a proposito della congiura degli Aquili e dei Vitelli), in Studi A. Biscardi, vol. IV, Milano, 1983, p. 489 ss.); peraltro, tale crimen ricorre con sempre più frequenza a partire dalla fine del III secolo, tanto da apparire indubbiamente dotato di autonomia rispetto ad altri, il che rende difficile da spiegare una certa noncuranza con cui è stato trattato, in dottrina: a conferma, v. già a suo tempo, per esempio, T. Mommsen, Römisches Strafrecht, Leipzig, 1899, p. 564, nt. 1, secondo il quale, addirittura, il diritto penale romano non conosceva la fattispecie in questione; ma v. i rilievi di D. Mantovani, Il problema, cit., p. 14 ss., 21, per cui il lessico delle fonti pertinenti ha impronta chiaramente criminalistica, tanto da rendere plausibile l’ipotesi che la repressione della coniuratio sia poi confluita nella quaestio maiestatis. In merito alla coniuratio di quest’epoca, da intendersi come reato associativo tale da minacciare l’integrità dello stato, e perciò meritevole di essere severamente punito (specie per quanto riguarda coloro che possano avere in qualsiasi modo assunto un ruolo di leader, nella cospirazione), v. ancora ad esempio, per tutti,  A.H. Mac Donald, Rome and the Italian Confederation (200-186 a.C.), in JRS,XXXIV, 1944, p. 13, 15 s.; E. Manni, Religione e politica nella congiura di Catilina, in Athenaeum, XXIV, 1946, p. 35 ss., e L. Havas, Arrière-plan religieux de la conjuration de Catilina, in Oikumene, II, 1978, p. 191 ss., che riservano particolare attenzione agli aspetti religiosi del giuramento di gruppo; J. Bleicken, Coniuratio, in Jahrbuch für Numismatik und Geldgeschichte, XIII, 1963, p. 51 ss., il quale peraltro ricorda come si abbiano storicamente esempi di un co-giurare collettivo anche per scopi ritualmente leciti; G. Franciosi, La relazione, cit., p. 489 ss.; W. Nippel, Orgien, Ritualmorde und Verschwörung?, in U. Manthe – J. von Ungern Sternberg (a cura di), Grosse Prozesse der römischen Antike, München, 1997, p. 65 ss., specialmente  68, 72, il quale è peraltro tra coloro che ancora sostengono non essere, quello di coniuratio, un concetto ben definito dal punto di vista penalistico, venendo utilizzata l’espressione per indicare la minaccia immediatamente derivante, per la comunità, dagli assembramenti di gruppo; A. Lintott, ‘Provocatio’ e ‘iudicium populi’ dopo Kunkel, in B. Santalucia (a cura di), La repressione criminale nella Roma repubblicana fra norma e persuasione, Pavia, 2009, p. 16 ss.

[6] Della necessità di fornire una risposta affermativa ad un quesito simile, in relazione addirittura a tutte le fattispecie elencate da Polibio, si dice convinto D. Mantovani, Il problema, cit., p. 26, per cui le quaestiones in esame venivano indette quando ricorrevano fatti gravemente turbativi dell’ordine pubblico, difficili da perseguire nelle forme comiziali tradizionali proprio perché tutti reati associativi, «alcuni di diritto, altri comunque di fatto».

[7] Le origini e la provenienza precisa di queste nuove pratiche, frutto di una mutazione rispetto a quelle precedenti, sono, anche a prescindere dalla testimonianza di Liv. 39.8 ss. (cui pur generalmente rinviamo), ampiamente disputate in dottrina. Per una rassegna di opinioni basti qui soltanto richiamare, ad esempio, E. De Ruggiero, voce Bacchus, in Dizionario epigrafico delle antichità romane, vol. I, Roma, 1895,p. 957; G. Wissowa, Religion und kultus der Römer, München, 1912, p. 298; C. Cichorius, Römische Studien, Leipzig, 1922, p. 21 ss.; A. Grenier, Le génie romain dans la religion, la pensée et l’art, Paris, 1925, p. 195; T. Frank, The Bacchanalian Cult of 186 B.C., in CQ, XXI, 1927, p. 128 ss.; F. Cumont, Les religions orientales dans le paganisme romain, Paris, 1929, p. 195 ss.; G. Méautis, Les aspects religieux de l’affaire des Bacchanales, in REA, XLII, 1940, p. 485; A. Piganiol, La conquête romaine, Paris, 1940, p. 404; L. Fronza, De bacanalibus, in Annali Triestini, XVII, 1946-1947, p. 206 s.; H. Jeanmaire, Dionysos. Histoire du culte de Bacchus, Paris, 1951, p. 455, 457 s.; A. Bruhl, ‘Liber pater’. Origine et expansion du culte dionysiaque à Rome et dans le monde romain, Paris, 1953, p. 85 ss., 110; G. Tarditi, La questione dei Baccanali a Roma nel 186 a.C., in PP,IX, 1954, p. 266 ss., 271, 273; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, München, 1960, p. 271; C. Gallini, Protesta e integrazione nella Roma antica, Bari, 1970, p. 32 ss., 36 ss.; M. Castello de Muschietti, Senatus consultum de Bacchanalibus, in Anales de historia antigua y medieval, XVI, 1971, p. 384; R. Turcan, Religion et politique dans l’affaire des Bacchanales, in RHR,XCI, 1972, p. 14, 19 s.; Id., Les cultes orientaux dans le monde romain, Paris, 1992, p. 302; P.V. Cova, Livio e la repressione dei Baccanali, in Athenaeum, LXII, 1974, p. 92; J.J. Urruela Quesada, La represión de los Bacanales en Roma en 186 a. de J.C., in Hispania antiqua, IV, 1974, p. 57 s., 67; G. Franciosi, Clan gentilizio e strutture monogamiche, vol. I, Napoli, 1975, p. 41; G.C. Rascón, A proposito de la represión de las Bacanales en Roma, in Estudios U. Alvarez Suárez, Madrid, 1978, p. 386, 402 e nt. 88; J.A. North, Religious Toleration in Republican Rome, in Proceedings of the Cambridge Philological Society, XXV, 1979, p. 92; A. Ronconi – B. Scardigli, inStorie di Tito Livio (libri XXXVI-XL), ed. Utet,Torino, 1980, p. 524 nt. 7; R.J. Rousselle, The Roman Persecution of the Bacchic Cult, 186-180 b.C., New York, 1982, p. 53 ss.; J.M. Pailler, Caton et les Bacchanales, in PBSR, LIV, 1986, p. 39; Id., Bacchanalia. La répression de 186 av. J.-C. à Rome et en Italie, Rome, 1988, p. 394 ss., 467 ss.; Id., Bacchus. Figures et pouvoir, Paris, 1995, p. 133 ss., 156; Id., Les Bacchanales, dix ans après, in Pallas,XLVIII, 1998, p. 70; A.M. Adam, in Tite-Live, Histoire romaine, vol. XXIX, ed. Les Belles-Lettres, Paris, 1994, p. 25, nt. 7, 104, nt. 1; M.L. Hänninen, Conflicting Descriptions of Women’s Religious Activity in Mid-Republican Rome: Augustan Narratives about the Arrival of Cybele and the Bacchanalia Scandal, in Aspects of Women in Antiquity, Jonsered, 1998, p. 118; S. Takács, Politics and Religion in the Bacchanalian Affair of the 186 B.C.E., in Harvard Studies in Classical Philology, C, 2000, p. 302, 304 ; A. Gallo, ‘Senatus consulta’ ed ‘edicta de Bacchanalibus’: documentazione epigrafica e tradizione liviana, in Bollettino di studi latini, XLVII, 2017, p. 519 s.

[8] Si osservi il modo in cui Livio 39 definisce, a più riprese, i Baccanali: pravae et externae religiones (15.3), prava religio (16.6), sacra externa (16.8), externus ritus (16.9), superstitio (16.10). Diamo pure per scontato, dunque, che i due culti fossero rimasti ufficialmente ben distinti, ché se qualche assimilazione si fosse invece prodotta non sarebbe stato poi possibile, per gli organi della repubblica, dare luogo ad una persecuzione legittima. Altro è poi valutare se il processo di identificazione, più o meno avanzato, ma già da tempo in atto, di Libero in Dioniso avesse di fatto favorito commistioni significative – seppur certo ignorate dalle autorità! – con quelle nuove pratiche bacchiche, oppure prevalessero tuttora, senz’altro, i tratti oggettivamente differenzianti.

[9] Ciò, anche a causa del declino dei suoi avversari, gli Scipioni, che avevano dovuto affrontare, l’anno prima, processi e traversie varie (cfr. Liv.38.50-60): v. per esempio H.H. Scullard, Roman Politics 220-150 B.C., Oxford, 1951, p. 145 ss., 153 ss. Sul fatto che questo fosse, sostanzialmente, il clima politico in cui venne a collocarsi lo scandalo del 186, generalmente concordano gli studiosi di quest’ultimo, a prescindere dal fatto che essi riconoscano anche, o non, il monopolio catoniano sulla repressione (cosa su cui ci soffermeremo infra): v. qui, per esempio, G. De Sanctis, Storia dei Romani, vol. IV.1, Torino, 1923, p. 598 ss.; T. Frank, The Bacchanalian Cult, cit., p. 128, 132; S. Accame, Il ‘Senatum Consultum de Bacchanalibus’, in RFIC, LXVI, 1938, p. 231; A.H. Mac Donald, Rome,cit., p. 32 s.; L. Fronza, De bacanalibus, cit., p. 205, 223; A. Bruhl, Liber, cit., p. 115; G. Tarditi, La questione, cit., p. 275 ss., 278 e nt. 2; C. Gallini, Protesta, cit., p. 78; M. Castello de Muschietti, Senatus consultum, cit., p. 385; C. Saulnier, La ‘coniuratio clandestina’, in REL, LIX, 1981, p. 115, 117; J. Briscoe, Livy and the Senatorial Politics, 200-167 B.C.: The Evidence of the Fourth and Fifth Decades, in ANRW, vol.  II.30.2, Berlin-New York, 1982, p. 1100; A. Luisi, La ‘lex Maenia’ e la repressione dei Baccanali nel 186 a.C., in M. Sordi (a cura di), Politica e religione nel primo scontro tra Roma e l’Oriente, Milano, 1982, p. 184; J.M. Pailler, Caton,cit., p. 30, 37; Id., Bacchanalia,cit., p. 594; R.A. Bauman, The Suppression of the Bacchanals: Five Questions, in Historia, XXXIX, 1990, p. 344, nt. 36; R.J. Evans, The Structure and Source of Livy, 38,44,9-39,44,9, in Klio,LXXV,1993, p. 186 s.; contra, per quanto ci risulta, il solo R.J. Rousselle, The Roman Persecution,cit., p. 74 ss., 83, le cui argomentazioni appaiono però, a nostro avviso, viziate da un discutibile processo induttivo, che edifica su dati importanti ma senz’altro parziali (quali ad esempio le appartenenze politiche dei tre assistenti-redattori del senatoconsulto o dei membri del collegio pontificale: v. meglio in proposito infra, § 3 e nt. 43; v. anche la critica espressamente mossa a R. da Bauman, sopra citato).

[10] Come meglio preciseremo in seguito.

[11] Le conventicole, cui pur – secondo quanto attestato da Liv. 39.13.14 – avevano aderito nobiles quidam, insieme a schiavi, erano capeggiate da persone di bassa estrazione sociale: cfr. Liv. 39.18.6-7. Inoltre, sono molti i passaggi (v. per esempio Liv. 39.8.5-7; 13.8-10;14; 16.9;12; 17.6; 18.5-6; Cic. leg. 2.9.21;15.37; Val. Max. 6.3.7) da cui si evince che particolare riprovazione destò il coinvolgimento diretto di donne in riti promiscui, talora orchestrati da loro stesse. E’ evidente che, nella promozione di questa forma degenerata di culto dionisiaco, avevano funzioni di leadership persone cui essa era invece negata, come si sa, nella società romana di quel tempo: ciò, per rendere ulteriormente ragione di quanto preoccupante, sul piano anche propriamente politico, fosse sentito un fenomeno che sovvertiva le tradizionali gerarchie di sesso, classe e censo su cui interamente edificava l’organizzazione della res publica.

[12] La tesi secondo cui la preoccupazione esclusiva, o comunque prevalente, che spinse la classe dirigente alla persecuzione dei tiasi, sarebbe stata di natura profana, e non religiosa, è – al di là delle diverse sfumature d’opinione – per lo più condivisa, in dottrina: v. per esempio S. Reinach, Une ordalie par le poison à Rome et l’affaire des Bacchanales, in Revue Archéologique, XI, 1908, p. 251; C. Cichorius, Römische Studien, cit., p. 22; A.H. Mac Donald, Rome,cit., p. 27; H. Jeanmaire, Dionysos, cit., p. 457 s.; H.H. Scullard, Roman Politics, cit., p. 147; G. De Sanctis, Storia,cit., vol. IV.2.1, Firenze, 1953, p. 366; A. Bruhl, Liber, cit., p. 100, 107, 115 s.; G. Tarditi, La questione, cit., p. 276, 281; J. Bayet, Histoire politique et psycologique de la religion romaine, Paris, 1957, p. 154; G. De Plinval, in Cicéron, Traité des lois, ed. Les Belles-Lettres, Paris, 1959, p. 121; W. Kunkel, Untersuchungen zur Entwicklung des römischen Kriminalverfahrens in vorsullanischen Zeit, München, 1962, p. 68, nt. 256, per cui il sistema usò i culti per i propri fini; C. Gallini, Protesta, cit., p. 11, 24, 35, 38, 44, 60, 63, 73, 77 ss., 87 ss., che, con approccio vagamente marcusiano, interpreta i Baccanali come una manifestazione di protesta dei ceti emarginati, la quale, sebbene priva di finalità politiche coscienti, di fatto tendeva a sovvertire le strutture tradizionali dell’oppressione politico-sociale, fra cui la stessa famiglia; R. Turcan, Religion,cit., p. 3, 6, 8 s., 21, 27 s.; Id., Les cultes,cit., p. 303, il quale, rimarcando come ai Baccanali prendessero parte esponenti di tutte le classi sociali, appare molto critico verso l’impostazione della Gallini; P.V. Cova, Livio, cit., p. 82 e nt. 1, 97, 99, 101, 105 s., 109; J.J. Urruela Quesada, La represión, cit., p. 60, 67, che pur convenendo sulla prevalenza degli aspetti politici su quelli religiosi sostiene che neppure i secondi vanno sottovalutati, ché si trattò pur sempre della prima persecuzione religiosa su base legale della storia di Roma; G. Franciosi, Clan gentilizio, cit., p. 49, 50 e nt. 32, 51 e nt. 35, 52 ss.; G. Dumézil, La religione romana arcaica, trad. it., Milano, 1977, p. 447; G.C. Rascón, A proposito de la represión, cit., p. 386, 402 s.; J.A. North, Religious Toleration, cit., p. 94 ss., in aperto dissenso con la Gallini; A. Ronconi – B. Scardigli, inStorie,cit., p. 530, nt. 3, 538 s., che pur incorrono a nostro avviso in qualche contraddizione, quando ritengono esercitata, qui, la competenza del senato in materia cultuale; C. Saulnier, La ‘coniuratio’, cit., p. 117 s.; J. Scheid, Le délit religieux dans la Rome tardo-républicaine, in Le délit religieux dans la cité antique, Rome, 1981, p. 158 s.; A. Luisi, La ‘lex Maenia’, cit., p. 185; A.J. Toynbee, L’eredità di Annibale, vol. II, trad. it., Torino, 1983, p. 469 ss.; E. Montanari, Identità culturale e conflitti religiosi nella Roma repubblicana, Roma, 1988, p. 125, nt. 72; M. Scarsi, Superstitionis et religionis distantia, in U. Rapallo – G. Garbugino (a cura di), Grammatica e lessico delle lingue ‘morte’, Alessandria, 1988, p. 201; A.M. Adam, in Tite-Live, cit., p. 116, nt. 7; F. Sini, Dai ‘peregrina sacra’ alle ‘pravae et externae religiones’ dei Baccanali, in SDHI, LX,1994, p. 71 ss.; M.L. Hänninen, Conflicting Descriptions, cit., p. 120; S. Takács, Politics, cit., p. 303, 310; A.A. Semioli, Associazioni dionisiache e associazioni di attori a Roma, in SMSR, LXXIX, 2003, p. 97. Di diverso avviso, per esempio, A. Grenier, Le génie, cit., p. 196 s., che non a caso, come vedremo, ritiene i pontefici i veri artefici della repressione; G. Méautis, Les aspects, cit., p. 476 ss.; G. Sciascia, O senatoconsulto das Bacanais, in Varietà giuridiche. Scritti brasiliani di diritto romano e moderno, Milano, 1956, p. 75, 85 ss., le cui generiche argomentazioni si basano, principalmente, sul  fatto che il senato era organo competente in campo religioso; M. Adriani, Tolleranza e intolleranza religiosa nella Roma antica, in Studi Romani, VI, 1958, p. 507 ss., per il quale si trattò di una delle rare, ma autentiche, manifestazioni di intolleranza religiosa, seppur imputabile al fatto che erano stati minacciati valori fondamentali, come il mos pontificius, la morale e l’ordine pubblico.

[13] Malgrado forse si trattasse di disposizioni contenute in due distinte delibere (per cui v. risp.te Liv. 39.14.5-8 e 18.7-9), fra loro complementari, di entrambe le quali sembra tener conto il testo della famosa epigrafe rinvenuta nel XVII secolo a Tiriolo (v. FIRA I, n. 30), in cui si leggono le istruzioni impartite per l’applicazione del senatoconsulto a livello locale. Sull’analisi, anche letteraria, del documento, sui suoi rapporti con la testimonianza liviana (che ne risulta, per lo più, confermata), sulla individuazione dei suoi destinatari, sui problemi, necessariamente connessi, relativi alla esatta natura e alla funzione del testo inviato (che oggi s’interpreta, in prevalenza, non come il senatoconsulto originale, ma come un’epistola inviata dai consoli ai magistrati del luogo, perché ne eseguissero le relative disposizioni), e su ogni ulteriore questione concernente la fonte epigrafica non possiamo, in questa sede, approfonditamente soffermarci. Rinviamo pertanto all’ampia bibliografia esistente in materia, caratterizzata da vivaci dibattiti, accesi sui singoli punti dai diversi studiosi: v. per esempio W. Weissenborn, Titi Livi ab urbe condita libri, II ed., vol. IX.1, Berlin, 1875, p. 25, ntt. 7-8, 35, ntt. 6-9; E. De Ruggiero, voce Bacchus, cit.,p. 957 s.; A. Grenier, Le génie, cit., p. 196; E. Fraenkel, Senatus consultum de Bacchanalibus, in Hermes, LXVII, 1932, p. 369 ss.; J. Keil, Das sogenannte ‘Senatusconsultum de Bacchanalibus’, in Hermes, LXVIII, 1933, p. 306 ss.; J. Lengle, Römisches Strafrecht bei Cicero und den Historikern, Leipzig-Berlin, 1934, p. 59; W. Krause, Zum Aufbau der Bacchanal-Inschrift,in Hermes, LXXI, 1936, p. 214 ss.; M. Gelzer, Die Unterdrückung der Bacchanalien bei Livius, in Hermes, LXXI, 1936, p. 275 ss.; S. Accame, Il ‘Senatusconsultum’, cit.,p. 225 ss.; C.H. Brecht, Perduellio, München, 1938, p. 237, nt. 1; F.M. De Robertis, Il diritto associativo romano, Bari, 1938, p. 53 e nt. 2; F. Pezzella, Il ‘senatus consultum de Baccanalibus’ e l’orazione del console Postumio al popolo romano, in L’Eloquenza, XXXI,1941, p. 163 s.; A.H. Mac Donald, Rome,cit., p. 26, 28 e nt. 134, 29 s.; L. Fronza, De bacanalibus, cit., p. 207 ss.; E.T. Sage, in Livy, vol. XI, ed. Loeb, London-Cambridge, 1958, p. 272, nt. 1; A. Bruhl, Liber, cit., p. 85, 87, 103 e nt. 94, 104, 107; J. Santa Cruz Teijeiro, La narración de Tito Livio y el senado consulto ‘de Bacchanalibus’, in AHDE, XXIII,1953, p. 395 ss.; G. Tarditi, La questione, cit., p. 265, 282; G. Sciascia, O senatoconsulto, cit., p. 75 ss.; H.B. Rosén, Notes on Some Early Latin Inscriptions, in Mnemosyne, X,1957, p. 239 ss.; A. Dihle, Zum ‘SC de Bacchanalibus’, in Hermes, XC, 1962, p. 376 ss.; C. Gallini, Protesta,cit., p. 12; M. Castello de Muschietti, Senatus consultum, cit., p. 388; L. Labruna, Vim fieri veto, Camerino, 1971, p. 72, nt. 119; F. De Martino, Storia della costituzione romana, II ed., vol. II, Napoli, 1973, p. 191, 203 s.; P.V. Cova, Livio, cit., p. 83 ss., 103, pur alquanto restìo alla comparazione tra l’epigrafe e Livio; J.J. Urruela Quesada, La represión, cit., p. 49 s., 62 ss.; G. Dumézil, La religione,cit., p. 94, 442; G.C. Rascón, A proposito de la represión, cit., p. 386 ss., 390 ss.; A. Ronconi – B. Scardigli, inStorie,cit., p. 550, nt. 10, 553, nt. 12;

C. Saulnier, La ‘coniuratio’, cit., p. 114 e nt. 2; F. Costabile, Istituzioni e forme costituzionali nelle città del Bruzio in età romana, Napoli, 1984, p. 97 ss.; Id., Il ‘Senatusconsultum de Bacchanalibus’ e la condizione giuridica dell’ ‘ager Teuranus’, in Enigmi delle società antiche dal Mediterraneo al Nilo. Atene, la Magna Grecia, l’impero di Roma, Reggio Calabria, 2007, p. 383 ss.; G. Luraschi, Aspetti giuridici della romanizzazione del Bruzio, in SDHI, LII, 1986, p. 506 s.; J.M. Pailler, Lieu sacré et lien associatif dans le dionysisme romain de la république, in L’association dionysiaque dans les sociétés anciennes, Rome, 1986, p. 263, 268 ss.; Id., Bacchanalia,cit., p. 19 ss., 57 ss., 143, 151 ss., 175, 178 ss., 275 s., 285 ss., 401; Id., Bacchus cit., p. 161 ss., 222, nt. 14; M. Martina, Sul cosiddetto ‘senatusconsultum de Bacchanalibus’,in Athenaeum, LXXXVI, 1988, p. 85 ss.; R.A. Bauman, The Suppression, cit., p. 334 e nt. 2, 335 e nt. 4; F. Sini, Dai ‘peregrina sacra’, cit., p. 70 e nt. 77, 71; H. Cancik–Lindemaier, Der Diskurs Religion im Senatsbeschluss über die Bacchanalia von 186 v.Chr. und bei Livius (B. XXXIX), in H. Cancik–Lindemaier (a cura di), Geschichte – Tradition – Reflexion, vol. II. Griechische und Römische Religion, Tübingen, 1996, p. 77 ss.; W. Burkert, Le secret public et les mystères dits privés, in Ktema, XXIII, 1998, p. 375, 380 s.; O. de Cazanove, I destinatari dell’iscrizione di Tiriolo e la questione del campo d’applicazione del senatoconsulto ‘de Bacchanalibus’, in Athenaeum, LXXXVIII, 2000, p. 59 ss.; B. Linke, ‘Religio’ und ‘res publica’, in B. Linke – M. Stemmler (a cura di), ‘Mos maiorum’. Untersuchungen zu den Formen der Identitätstiftung und Stabilisierung in der römischen Republik, Stuttgart, 2000, p. 269 e nt. 2; B. Albanese, Per l’interpretazione dell’iscrizione con norme del SC ‘De Bacchanalibus’ (186 a.C.), in ‘Iuris vincula’. Studi M. Talamanca, vol. I, Napoli, 2001, p. 1 ss.; A. Gallo, Senatus consulta, cit., p. 519 ss.; C. Minasola, La repressione dei ‘collegia Bacchanalia’ tra fonti epigrafiche e racconto liviano, in SDHI, LXXXVI, 2020, p. 167 ss.

[14] Quale, a nostro avviso, effettivamente era, secondo quanto meglio diremo nel prosieguo.

[15] E non soltanto, dunque, nell’ambito dello stato romano, come, analogamente, diremo meglio in seguito.

[16] V. fin d’ora Liv. 39.16.10; FIRA I, n. 30.3. Sulla coniuratio, intesa anche come reato associativo, v. quanto anticipavamo supra, § 1 e nt. 5; cfr. infra, § 4 e nt. 50.

[17] V. fin d’ora Liv. 39.18.4, ove sono elencati i crimini commessi dai congiurati, i quali potrebbero essere anche interpretati, a nostro avviso, come i reati-scopo di un reato associativo: cfr. infra, § 4 e nt. 53.

[18] Cfr. quel che si è detto supra, circa la probabile sospensione della normale garanzia della provocatio. V. anche più che altro infra, § 4.  

[19] Che le fonti (Liv. 39.18.8; cfr. FIRA I, n. 30.3-4;19-21) definiscono sacrum sollemne et necessarium, alludendo alle cerimonie precedenti la degenerazione del culto (poi divenuto notturno e di massa: v. esattamente Liv. 39.13.7ss.), senza peraltro precisare se il provvedimento in questione segnasse il ripristino di riti già ufficialmente riconosciuti – come in effetti indurrebbe a pensare l’uso di quegli aggettivi – oppure di riti che, almeno a Roma, erano semplicemente invalsi, pur da lungo tempo, nella pratica, e che soltanto ora pertanto avrebbero ottenuto, paradossalmente, accoglimento nel sistema sacrale ufficiale – come farebbe invece supporre l’utilizzo, nello stesso Liv. 39.18.8, della locuzione condizionale ‘si quis tale sacrum sollemne et necessarium duceret’, che non sembra francamente alludere a cerimonie già pubblicamente sanzionate dalle autorità.

[20] Vedile in Liv. 39.18.8-9 e in FIRA I, n. 30.

[21] Solo dal mantenimento dello stato di amicizia con le divinità dipendeva la salvezza della repubblica. Gli scritti pubblicati sul tema della pax deorum sono assai numerosi; v. qui, tra i più recenti, ad esempio F. Sini, ‘Pax deorum’ e sistema giuridico-religioso romano, in C. Cascione – C. Masi Doria (a cura di), ‘Fides Humanitas Ius’. Studii L. Labruna, vol. VII, Napoli, 2007, p. 5165 ss.; F. Santangelo, ‘Pax deorum’ and Pontifss, in J.H. Richardson- F. Santangelo (a cura di), Priests and State in the Roman World, Stuttgart, 2011, p. 161 ss.

[22] In generale, le testimonianze rilevanti, in proposito, sono, oltre ai già citati Liv. 39.8-19 ed epigrafe di Tiriolo, Cic. leg. 2.15.37; Val. Max. 6.3.7; Tertull. apol. 6.7; nat. 1.10; Firm. err. 6.9; Aug. civ. 6.9; 18.13. Qualche eco è forse avvertibile nel coevo Plauto, del quale v., oltre alle Bacchides, per esempio Amph. 2.2.702-705;Aul. 3.1.408;413; Cas. 5.4.980. Riguardo agli strascichi che l’inchiesta ebbe, negli anni successivi in Apulia, v. Liv. 39.29.8-9; 39.41.5-7; 40.19.9-10.

[23] Liv. 39.16.6-11: Ne quis etiam errore labatur, vestrum, Quirites, non sum securus. Nihil enim in speciem fallacius est, quam prava religio. Ubi deorum numen praetenditur sceleribus, subit animum timor, ne fraudibus humanis vindicandis divini iuris aliquid immixtum violemus. Hac vos religione innumerabilia decreta pontificum, senatusconsulta, haruspicum denique responsa liberant. Quotiens hoc patrum avorumque aetate negotium est magistratibus datum, ut sacra externa fieri vetarent, sacrificulos vatesque foro, circo, urbe prohiberent, vaticinos libros conquirerent comburerentque, omnem disciplinam sacrificandi, praeterquam more Romano abolerent? Iudicabant enim prudentissimi viri omnis divini humanique iuris nihil aeque dissolvendae religionis esse, quam ubi non patrio, sed externo ritu sacrificaretur. Haec vobis praedicenda ratus sum, ne qua superstitio agitaret animos vestros, cum demolientes nos Bacchanalia discutientesque nefarios coetus cerneretis. Omnia, diis propitiis volentibusque, ea faciemus.

[24] Per una più ordinata – ma certo non esaustiva – rassegna dell’ampia letteratura esistente sul tema, parte della quale abbiamo già in precedenza citato, v. per esempio qui S. Reinach, Une ordalie, cit., p. 236 ss.; T. Frank, The Bacchanalian Cult, cit., p. 128 ss.; E. Fraenkel, Senatus consultum, cit., p. 369 ss.; J. Keil, Das sogenannte ‘Senatusconsultum’, cit., p. 306 ss.; M. Gelzer, Die Unterdrückung, cit., p. 275 ss.; W. Krause, Zum Aufbau, cit., p. 214 ss.; S. Accame, Il ‘Senatusconsultum’, cit., p. 225 ss.; G. Méautis, Les aspects, cit., p. 476 ss.; Y. Béquignon, Observations sur l’affaire des Bacchanales, in Revue Archéologique, XVII, 1941, p. 184 ss.; F. Pezzella, Il ‘senatus consultum’, cit., p. 157 ss.; L. Fronza, De bacanalibus, cit., p. 205 ss.; A. Bruhl, Liber, cit., p. 49 ss.; J. Santa Cruz Teijeiro, La narración, cit.,  p. 395 ss.; A.J. Festugière, Ce que Tite-Live nous apprend sur les mystères de Dionysos, in MEFRA,LXVI, 1954, p. 79 ss.; G. Tarditi, La questione, cit., p. 265 ss.; G. Sciascia, O senatoconsulto, cit., p. 75 ss.; D.W.L. van Son, Livius’ Behandeling van de Bacchanalia, Amsterdam, 1960; A. Dihle, Zum SC de Bacchanalibus, in Hermes, XC, 1962, p. 376 ss.; M.A. Levi, ‘Bacchanalia’, ‘foedus’ e ‘foederati’, in Klearchos,XI, 1969, p. 15 ss.; M. Castello de Muschietti, Senatus consultum, cit., p. 383 ss.; R. Turcan, Religion,cit., p. 3 ss.; P.V. Cova, Livio, cit., p. 82 ss.; J.J. Urruela Quesada, La represión, cit., p. 49 ss.; G.C. Rascón, A proposito de la represión, cit., p. 386 ss.; C. Saulnier, La ‘coniuratio’, cit., p. 113 ss.; A. Luisi, La ‘lex Maenia’, cit., p. 179 ss.; R.J. Rousselle, The Roman Persecution, cit.; J.M. Pailler, Caton,cit., p. 29 ss.; Id., Bacchanalia,cit. (con ampia rassegna bibliografica a p. 61 ss.); Id., Les Bacchanales, cit., p. 67 ss.; M. Martina, Sul cosiddetto ‘senatusconsultum’, cit., p. 85 ss.; R.A. Bauman, The Suppression, cit., p. 334 ss.; F. Sini, Dai ‘peregrina sacra’, cit., p. 49 ss.; B. Albanese, Per l’interpretazione, cit., p. 1 ss.; H. Cancik–Lindemaier, Der Diskurs, cit., p. 77 ss.; A. Dubourdieu – E. Lemirre, La rumeur dans l’affaire des Bacchanales, in Latomus, LVI, 1997, p. 293 ss.; M.L. Hänninen, Conflicting Descriptions, cit., p. 111 ss.; O. de Cazanove, I destinatari, cit., p. 59 ss.; S. Takács, Politics, cit., p. 301 ss.; A. Gallo, Senatus consulta, cit., p. 519 ss.; nt. 24, D. Tarditi, Il ‘senatus consultum de Bacchanalibus’: l’epigrafe e le sue disposizioni, in QLSD, VII, 2017, p.. 57 ss.; M. Ravizza,  Il ‘senatusconsultum ultimum’: un provvedimento senatorio tra opportunità politica e legittimità costituzionale, in AUPA, LXI, 2018, p. 261 ss.; C. Minasola, La repressione, cit., p. 167 ss.

[25] Tra questi, addirittura il culto della Magna Mater, dal carattere originariamente orgiastico e sfrenato, secondo quanto ci riferisce Liv. 29.10.4-11.8;14.5-14. E’ forse il caso, qui, di fare brevemente cenno di questa vicenda, sia perché recente, rispetto ai Baccanali, sia perché ne costituisce, in un certo senso, l’esatto speculare contrario, avendo portato al pieno riconoscimento nel sistema romano di riti dal contenuto assai simile ai riti bacchici, che invece verranno duramente repressi meno di venti anni dopo. Tutto si svolse nel 205-204, e probabilmente segnò il punto più alto di una crisi religiosa che, durante la seconda guerra punica, aveva fatto sentire, sempre più, ai Romani i loro dei come assenti: per disposizione dei libri sibillini (di cui i decemviri sacris faciundis erano gli interpreti ufficiali), venne importato in città dalla Frigia il culto della dea Cibele, la Grande Madre, rappresentata da una pietra nera, che il re Attalo consegnò alla delegazione romana. L’innovazione fu forse approvata dall’aristocrazia anche per ragioni di vanità nobiliare: agendo scientemente come eredi dei Troiani, i Romani considerarono il riconoscimento di quella divinità come un ritorno alle origini. L’idolo nero, provvisoriamente installato nel tempio della Vittoria, verrà definitivamente onorato in un santuario edificato addirittura sul Palatino, e non fuori dal pomerio come per tutte le altre divinità straniere: la Madre Idea era in un certo senso da ritenersi una divinità nazionale, anzi prenazionale. Tuttavia il senato, favorendo l’inserimento nella religione ufficiale di un culto tanto esotico – proveniente addirittura non dalla Grecia, ma dall’Asia Minore -, non aveva forse tenuto pienamente conto del fatto che i rituali, celebrati in onore della dea Cibele da sacerdoti eunuchi, avevano un carattere orgiastico, del tutto estraneo alle tradizioni di Roma. Occorreva pertanto cautelarsi contro i rischi che questo comportava: il culto, non appena introdotto, venne sottoposto ad un’immediata regolamentazione, i suoi ministri furono tenuti in disparte, le plebaglie, desiderose di emozioni, impedite di parteciparvi; le uniche celebrazioni pubbliche rese in onore della dea Cibele furono i ludi Megalenses, istituiti nel 204, divenuti annuali dal 191, feste romane di rito greco, prive di qualunque connessione col carattere estatico del culto.

[26] Cfr. per esempio, in rapporto al dilagare del fenomeno dei Bacchanalia, A. Grenier, Le génie, cit., p. 194, 197; A. Bruhl, Liber, cit., p. 116; J. Bayet, Histoire, cit., p. 147, 154; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., p. 264 ss., 270 ss.; C. Gallini, Protesta, cit., p. 60, 78 s., 88 ss.; G. Franciosi, Clan gentilizio, cit., p. 56 s.; G. Dumézil, La religione,cit., p. 444 s.; J. Scheid, Le délit,cit., p. 157; A.J. Toynbee, L’eredità, cit., p. 460 s., 470; R. Turcan, Les cultes, cit., p. 299.

[27] Il culto dei quali, fra l’altro, era a sua volta sottoposto alla disciplina pontificale.  

[28] V. supra, alla nt. 23.

[29] Il discorso del console, che occupa ben due capitoli (Liv. 39.15-16), non è certamente, nei suoi dettagli, autentico, ma ciò non toglie che Livio, per la documentazione cui attinse o per la tradizione cui si ispirò, possa averne, fondamentalmente, rispettato il tenore. Ciò, almeno, secondo un’opinione oggi sempre più diffusa, fra gli studiosi, i quali comunque già da lungo tempo, esaminando l’orazione di Postumio e la sua struttura, s’interrogavano circa l’esistenza, o non, di una fonte specifica da cui lo storico patavino potesse aver tratto esempio. Per una sintesi dei vari orientamenti assunti dalla dottrina, ci permettiamo di rinviare al nostro Aspetti giuridici del pontificato romano. L’età di P. Licinio Crasso (212-183 a.C.), Napoli, 2008, p. 474 ss., nt. 1142, anche in merito alla attendibilità complessiva del resoconto liviano sui Baccanali, che, nonostante qualche divagazione romanzesca, trova, come si è detto, per lo più conferma in altre fonti.    

[30] Già pretore nel 189 (cfr. T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, vol. I, New York, 1951, p. 361), ed in seguito augure (dal 184: cfr. Liv. 39.45.8), Sp. Postumio Albino gioca, nello svolgimento dell’inchiesta, un ruolo di primo piano, rispetto al collega Q. Marcio Filippo. D’altronde, sia in tempi precedenti (nel 496, allorché un A. Postumio, console o dittatore, offrì in voto alla triade plebea il tempio sull’Aventino: v. Dion. Alic. 6.17.2-4;94.3; cfr. T.R.S. Broughton, The Magistrates, cit., p. 12), sia in tempi immediatamente successivi (nel 185-184, quando L. Postumio Tempsano represse gli spasimi dei Baccanali in Apulia: v. Liv. 39.29.8;41,6), la gens Postumia sembra essersi sempre messa particolarmente in evidenza, quando si trattasse di garantire la conformità alla tradizione romana del culto di Liber-Dionysus. Ad integrazione di quanto detto sopra, ed anche in merito alla collocazione politica del nostro console (che pur appartenendo, con ogni probabilità, ad un partito intermedio fra scipioniani e catoniani, potrebbe aver risentito, in quei frangenti, della temperie conservatrice allora dominante), v. per esempio G. Wissowa, Religion, cit., p. 298; F. Münzer, Römische Adelsparteien und Adelsfamilien, Stuttgart, 1920, p. 212 ss.; S. Accame, Il ‘Senatusconsultum’, cit., p. 229; F. Pezzella, Il ‘senatus consultum’, cit., p. 167, per cui Postumio era “un conservatore alla Catone”; H.H. Scullard, Roman Politics, cit., p. 135 s., 147 s., 190, specie riguardo alla militanza nel partito intermedio fulviano; A. Bruhl, Liber, cit., p. 13; R. Turcan, Religion,cit., p. 22, nt. 3, 24; Id., Les cultes,cit., p. 303 s.; P.V. Cova, Livio, cit., p. 89 s., tra i pochi a sostenere che la prevalenza di Postumio sul collega è frutto, più che altro, di un artificio retorico di Livio; J. Briscoe, Livy,cit., p. 1103, secondo cui Postumio militava certamente nel partito fulviano; A. Luisi, La ‘lex Maenia’, cit., p. 181, per il quale era invece un alleato di Catone; R.J. Rousselle, The Roman Persecution, cit., p. 16 ss., 72, 86, 200, nt. 7, che contesta recisamente questa tesi; J.M. Pailler, Caton,cit., p. 38; Id., Bacchanalia,cit., p. 11, 148, 222, 299, 313, 360, 390, 447 ss., 597 ss., 820, 825; Id., Bacchus, cit., p. 138, 166, 222 s., ntt. 13-14, secondo cui il console, forte delle sue tradizioni di famiglia, ed ora particolarmente in auge all’interno del partito fulviano, fu l’autentico ispiratore della repressione; E. Montanari, Identità,cit., p. 126 s.; R.A. Bauman, The Suppression, cit., p. 345 s., 347 e nt. 48; A.M. Adam, in Tite-Live, cit., p. 103, nt. 8, 109, nt. 4, 114, nt. 4, 143, ntt. 9-10, 164, nt. 5.

[31] Per il quale v. ancora Liv. 39.14.5-8.

[32] Si tratta di una contio: cfr. Liv. 39.15.1. D’altronde, come può evincersi da quanto già si diceva sopra, in ordine alla provocatio, il populus come tale non risulta mai, nelle fonti, formalmente chiamato in causa. Ciò, nonostante l’insistenza sulla pericolosità della massa dei baccanti in quanto alter populus (cfr. Liv. 39.13.14) rispetto al primo, che poteva essere normalmente convocato in assemblee regolari, e non clandestine e sediziose.   

[33] Sulla radicale incompatibilità che, nell’ottica del console oratore, esisteva tra i valori fondativi della civitas e quelli che ispiravano l’agire dei congiurati, si soffermano – con particolare attenzione alla dialettica delle espressioni contrapposte, presenti nel testo liviano -, per esempio A. Bruhl, Liber, cit., p. 91; C. Gallini, Protesta, cit., p. 86; P.V. Cova, Livio, cit., p. 100; G. Franciosi, Clan gentilizio, cit., p. 53 s.; A. Ronconi – B. Scardigli, inStorie,cit., p. 544 s., nt. 13; C. Saulnier, La ‘coniuratio’, cit., p. 116, nt. 2; J.M. Pailler, Bacchanalia,cit., p. 12, 557 ss., 565 s.; Id., Bacchus, cit., p. 168, che espressamente parla di «retorica dell’alterità»; E. Montanari, Identità,cit., p. 119, 121 s.; A.M. Adam, in Tite-Live, cit., p. 111, ntt. 9-10 e 15, 116, nt. 7; F. Sini, Dai ‘peregrina sacra’, cit., p. 65, 67, 69 ss., che punta molto sull’antitesi religiosuperstitio; A. Dubourdieu – E. Lemirre, La rumeur, cit., p. 303 s.; B. Linke, Religio, cit., p. 270 ss.; S. Takács, Politics, cit., p. 306; A. Gallo, Senatus consulta, cit., p. 520.

[34] Non c’è dubbio che nell’orazione di Sp. Postumio tutto, a un certo punto, si incentri sulla questione se, sul piano tecnico-formale, norme del diritto sarebbero state violate o meno, nonché sull’opinione che, in proposito, avrebbero potuto esprimere i giurisperiti (v., nel nostro passo, in aggiunta alla menzione dei decreti e responsi, espressioni come divini iuris aliquid immixtum o prudentissimi viri omnis divini humanique iuris). Il che non deve stupire, rappresentando anzi un tratto tipico della mentalità romana. 

[35] Per la quale ci sia nuovamente consentito di rinviare a L. Franchini, Aspetti, cit., p. 205, nt. 370. Essa era stata esperita anche per l’introduzione di altre pratiche (pur) a sfondo orgiastico, come quelle della dea Cibele: cfr. supra, alla nt. 25, con le fonti ivi richiamate.

[36] Il rischio di compromettere la pax deorum non derivava qui, ovviamente, dalla scorretta celebrazione dei riti patrii, ma dall’eventualità che essi, per il diffondersi in forma massiccia di altro genere di cerimonie, fossero trascurati o del tutto abbandonati (cfr. Cat. in Fest. s.v. stata sacrificia 466 L): ciò che avrebbe forse comportato, in ultima analisi, responsabilità a carico della stessa res publica, nell’ipotesi che le autorità nel frattempo non fossero, semmai, intervenute (anche se su un piano eminentemente profano, come si è detto, data la mancanza di una violazione attuale dell’ordinamento sacrale).

[37] Ciò, come si è chiarito, per la natura intrinsecamente criminosa tanto della pratica associata del culto quanto degli atti singoli compiuti dai congiurati: da qui la repressione dello stato che si svolge, propriamente, sul piano criminale.

[38] Sulla scorta delle fonti a nostra disposizione è forse lecito affermare, non senza qualche appesantimento tautologico, che un mos affatto estraneo alle tradizioni della civitas – come tale contrapposto sia al patrius ritus (inteso come mos comprobatus in administrandis sacrificiis: cfr. Fest. 364 L) sia al peregrinus ritus già accolto nel sistema romano (cfr. Fest. s.v. Peregrina sacra 268 L; 365 L: Receptus mos est, quem sua sponte civitas alienum adscivit) – può essere combattuto, come superstitio, dalle autorità deputate a riconoscerlo come religio, in quanto non ancora da esse riconosciuto come religio; e che tutto potrà pertanto avvenire senza offendere le divinità della città, ed anzi, semmai, col loro favore (diis propitiis volentibusque: espressione, questa, tipica delle precationes, che compare in Liv. 39.16.11). Cfr. per esempio A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l’ancienne Rome, Paris, 1871, p. 27; A. Grenier, Le génie, cit., p. 194; G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices, Berlin, 1936, p. 139; A. Bruhl, Liber, cit., p. 104 s.; C. Gallini, Protesta, cit., p. 67; E. Montanari, Identità,cit., p. 129 e nt. 90; M. Scarsi, Superstitionis et religionis distantia, cit., p. 196, nt. 8, 202; R.D. Draper, The Role of the Pontifex Maximus and its Influence in Roman Religion and Politics, Diss. Brigham Young University Provo, Utah, 1988, p. 225; F. Sini, Dai ‘peregrina sacra’, cit., p. 62, 65 ss.; H. Cancik–Lindemaier, Der Diskurs, cit., p. 91.

[39] Le cui direttive sarebbero tuttavia rimaste lettera morta, senza la collaborazione e l’azione successiva dei magistrati: com’era normale, anche per le quaestiones ex senatusconsulto (di cui quella de Bacchanalibus rappresenta forse, come si è detto, l’esempio più significativo).

[40] V. per esempio F. Cumont, Les religions, cit., p. 306, nt. 24; H. Siber, Römisches Verfassungsrecht in geschichtlicher Entwicklung, Lahr, 1952, p. 246; H. Jeanmaire, Dionysos, cit., p. 457; G. De Sanctis, Storia,cit., vol. IV.2.1, p. 204, che fa espressamente salva l’ipotesi che i pontefici, almeno come senatori, siano stati coinvolti; G. Tarditi, La questione, cit., p. 281; J. Scheid, Le délit,cit., p. 158; Id., Il sacerdote, in A. Giardina (a cura di), L’uomo romano, Bari, 1989, p. 61; A.J. Toynbee, L’eredità, cit., p. 471, 501, nt. 151, 505, nt. 219; J.M. Pailler, Caton,cit., p. 34 s.; Id., Bacchanalia, cit., p. 90, il quale, come De Sanctis, prende in parte le distanze dagli altri autori, che considerano i sacerdoti del tutto esclusi dall’attività decisionale; R.D. Draper, The Role, cit., p. 223. Contra, soprattutto A. Grenier, Le génie, cit., p. 194 ss., che addirittura intitola un capitolo alla “reazione pontificale” ai Baccanali, ponendo formalmente il collegio al centro delle operazioni; cfr. per esempio A.D. Nock, A Feature of Roman Religion, in HThR,XXXII, 1939, p. 93; A. Gallo, Senatus consulta, cit., p. 522.

[41] Del resto anche aliunde, ossia da frangenti che, per la materia oggettivamente discussa, appaiono assai diversi, come quello relativo al finanziamento dei ludi votati da M. Fulvio Nobiliore, possono trarsi spunti circa le modalità con cui il collegio pontificale usava, per così dire, liquidare questioni giudicate irrilevanti sul piano giuridico-sacrale: cum pontifices negassent, ad religionem pertinere, quanta impensa in ludos fieret… (Liv. 39.5.7-10).

[42] Livio non riferisce del dibattito che, con ogni probabilità, si svolse tra i senatori, presi da pavor ingens (39.14.4), ma solo della relatio del console (39.14.3) e dei provvedimenti conseguentemente adottati (39.14.5-8;18.8-9). Non è facile capirne il perché: forse l’autore patavino voleva dare il massimo risalto alla prontezza d’intervento e alla determinazione di Sp. Postumio e alla compattezza e allo spirito di corpo rivelati, nella circostanza, dalla classe dirigente romana, senza dei quali non si sarebbe potuta condurre, poi, una repressione tanto incontrastata e feroce. Questo però a nostro avviso non esclude che una simile comunanza d’intenti fosse l’effetto di una discussione comunque tenutasi, in senato, durante la quale potrebbero essersi, come al solito, confrontati i diversi punti di vista, fino al prevalere dell’orientamento favorevole alla risoluzione più dura, perfettamente comprensibile alla luce della temperie politico-culturale di quegli anni. D’altronde ci sembrano difficilmente eludibili testimonianze, contenute nelle fonti, come quella relativa alla pronuncia da parte di Catone, già allora consularis (cfr. T.R.S. Broughton, The Magistrates, cit., p. 339), di un’orazione de coniuratione (Fest. 280 L), o come quella di cui riferiamo alla nt. 43, che effettivamente denota il coinvolgimento dei pontefici, seppur uti singuli, in quanto membri del senato. Sul ruolo che ebbe Catone, censore due anni dopo, nella persecuzione delle associazioni bacchiche, v. meglio infra, con la dottrina riportata alla nt. 46; v. qui, invece, a conferma di quanto detto sopra, per esempio G. De Sanctis, Storia,cit., vol. IV.2.1, p. 204; G. Tarditi, La questione, cit., p. 282; G. Sciascia, O senatoconsulto, cit., p. 82, 85 s.; P.V. Cova, Livio, cit., p. 86, 88, 89 e nt. 17, per cui Livio omette di citare Catone e la discussione in senato per ragioni di mera economia narrativa, preferendo piuttosto dare spazio alla contio; J. Briscoe, Livy,cit., p. 1100, che parla di classe dirigente non divisa; A. Luisi, La ‘lex Maenia’, cit., p. 182 e nt. 15, 184 s.; J.M. Pailler, Bacchanalia,cit., p. 171, il quale, pur negando, come vedremo, a Catone il ruolo di prim’attore, ragionevolmente suppone che il console abbia dapprima ottenuto l’appoggio dei conservatori, e poi degli stessi moderati filoellenici, disposti a cedere purché non si attaccasse tutto il rito greco.

[43] Questo dato, ricavabile dalla ricostruzione che si legge in FIRA I, n. 30.2 (Scribendo arfuereunt M. Claudius M. f., L. Valerius P. f., Q. Minucius C. f.), è meritevole della massima considerazione: se dei tre incaricati di collaborare alla redazione del senatoconsulto ben due sono da identificare, con tutta probabilità, nei pontefici sopra menzionati, consolari, rispettivamente appartenenti al partito conservatore ed intermedio (lo stesso del console Postumio), e se il terzo, Q. Minucio Rufo, di parte scipioniana, risulta essere l’unico non-sacerdote, potrebbe forse ipotizzarsi che, ai fini della decisione presa dal senato, e certo in ultimo accolta da tutte le fazioni, un contributo importante sia stato fornito, anche al di là delle questioni di ordine giuridico-sacrale, dai membri non filoellenici del collegio pontificale (tanto che completamente in ombra sembra essere rimasta, in questo frangente, la figura del pontefice massimo P. Licinio Crasso, amico di Scipione). Più in generale, a conferma di quanto sopra sul ruolo dei senatori chiamati ad aiutare il relator nella redazione ufficiale del testo (scribendo adesse), scelti solitamente fra coloro che avevano in precedenza partecipato alla discussione, esprimendo la sententia poi ritenuta meritevole di accoglimento, o comunque appoggiandola, v. innanzi tutto, per esempio, Cic. har. resp. 7.13; prov. 11.28;Att. 1.19.9; fam.9.15.4;12.29.2;v. anche, per tutti, ad esempio P.G.H. Willems, Le Sénat de la république romaine, vol. II, Louvain-Paris, 1883, p. 204 ss., 207 e nt. 4, 208 e ntt. 3-4, 209 e nt. 3, 210, 216, il quale rammenta come dei redattori – il cui numero a quest’epoca non superava mai i due-tre – fosse affatto usuale riportare il nome nel preambolo del senatoconsulto; T. Mommsen, Römisches Staatsrecht, III ed., vol. III, Leipzig, 1888, p. 1104, 1105, nt. 5, 1106, 1108; M. Bonnefond-Coudry, Le sénat de la république romaine de la guerre d’Hannibal à Auguste: pratiques deliberatives et prise de décision, Rome, 1989, p. 570 ss.

[44] Il che avrebbe reso, fra l’altro, inutile il ricorso alla procedura ufficiale di consultazione del collegio pontificale, per la risoluzione di una quaestio che, sul piano strettamente giuridico, data la sussistenza di precedenti, era probabilmente priva del requisito della novità.

[45] Diversamente non risulta né dall’opera di Livio né da nessuna altra fonte; ma anche nell’ipotesi, per noi senz’altro improbabile, che il collegio sia stato, qui, effettivamente consultato, è facile immaginare quale sarebbe stata, quasi certamente, la risposta: nessuna violazione del ius sacrum potrà prodursi, né da parte degli adepti che recedano dal giuramento e abbandonino le associazioni bacchiche, né da parte delle autorità che le reprimano, né da parte di coloro che a ciò offrano il loro apporto (cfr., in ordine a questi, Liv. 39.16.7-13, nell’ambito dell’orazione del console.). I pontefici, sommi custodi delle regole sacrali, ne negavano l’applicabilità a culti ufficialmente sconosciuti alla comunità, e pertanto anche la possibilità che qualcuno potesse violarle.

[46] Conclusione, questa, che sebbene oggi in parte avversata dalla dottrina ci sentiremmo, qui, di riproporre, sulla base dei rilievi svolti: di essi, alcuni offrono spunti nuovi alla riflessione (alludiamo, in particolare, alle argomentazioni relative all’apporto dato dai pontefici non filoellenici alla redazione del senatusconsultum de Bacchanalibus), altri sono confortati dal sostegno di studiosi di età più o meno recente. Per una rassegna di opinioni, v. comunque, tra coloro che tradizionalmente riconoscono a M. Porcio Catone la regia politica dell’intera operazione contro i tiasi, anche al di là dell’orazione de coniuratione da lui probabilmente pronunciata, per esempio W. Weissenborn, Titi Livi ab urbe condita libri, cit., p. 15, ntt. 1-2; S. Reinach, Une ordalie, cit., p. 251, per il quale l’iniziativa fu intrapresa da una coalizione antiellenica; G. De Sanctis, Storia,cit., vol. IV.1, p. 599 s.; T. Frank, The Bacchanalian Cult, cit., p. 128 s., 132; E. Fraenkel, Senatus consultum, cit., p. 387, nt. 1; M. Gelzer, Die Unterdrückung, cit., p. 283 s.; S. Accame, Il ‘Senatusconsultum’, cit.p. 229, nt. 2; F. Pezzella, Il ‘senatus consultum’, cit., p. 168 s.; A.H. Mac Donald, Rome,cit., p. 32 s.; L. Fronza, De bacanalibus, cit., p. 205, 223; H. Jeanmaire, Dionysos, cit., p. 457; H.H. Scullard, Roman Politics, cit., p. 147 s., 154 s.; A. Bruhl, Liber, cit., p. 115 s.; G. Tarditi, La questione, cit., p. 275 ss., 286 s., per cui da Catone derivò l’orientamento persino terminologico della repressione, visto il titolo dato al discorso da lui pronunciato; J. Bayet, Histoire, cit., p. 152; D.W.L. van Son, Livius, cit., p. 50 s., 68 ss., pur con molte incertezze, specie in merito all’orazione sulla coniuratio; M. Castello de Muschietti, Senatus consultum, cit., p. 385; P.V. Cova, Livio, cit., p. 86, 88, 89 e nt. 17; J.J. Urruela Quesada, La represión, cit., p. 61, nt. 104; G.C. Rascón, A proposito de la represión, cit., p. 390, 402 s.; A. Ronconi – B. Scardigli, inStorie,cit., p. 524 s., nt. 8, 542 s., nt. 1; A. Luisi, La ‘lex Maenia’, cit., p. 182 e nt. 15, 184 s.; R.A. Bauman, Lawyers in Roman Republican Politics, München, 1983, p. 200 e nt. 340, 209 e nt. 389; Id., The Suppression,cit., p. 336, 344 e nt. 36, 347 s., che sostanzialmente considera Catone il vero ispiratore della quaestio (anche se poi, nel suo secondo scritto, alquanto contraddittoriamente si dice concorde con Rousselle, sotto citato, nel negare carattere antiellenico alla stessa); E. Montanari, Identità,cit., p. 125, nt. 72; Id., Il dinamismo della tradizione: Roma e la ricezione del dionisismo, in Storiografia, II, 1998, p. 143; D. Mantovani, Il problema, cit., p. 17 s.; S. Takács, Politics, cit., p. 307; C. Minasola, La repressione, cit., p. 167 ss., che parla di «ombra politica di Catone»; tra coloro i quali, negli ultimi decenni, hanno disconosciuto a Catone un ruolo di primo piano, che non troverebbe alcun fondamento nelle fonti, v. per esempio C. Saulnier, La ‘coniuratio’, cit., p. 115, 117 s.; R.J. Rousselle, The Roman Persecution, cit., p. 71 ss., 200, nt. 7, che recisamente nega l’ispirazione conservatrice della repressione; J.M. Pailler, Caton,cit., p. 29 ss.; Id., Bacchanalia, cit., p. 9 s., 147 ss., 820, secondo cui il vero artefice dell’operazione fu in realtà il console Sp. Postumio Albino, mentre Catone – del quale non appare indispensabile l’intervento neppure al fine di intitolare la quaestio (ché in alternativa egli potrebbe aver pronunciato l’orazione sulla congiura di schiavi etruschi di cui a Liv. 33.36.1-3) -, probabilmente si limitò ad aderire all’iniziativa, senza ancora esercitare quella leadership, di cui forse, ora, stava soltanto maturando le premesse, e che, rivelatasi appieno nella censura di due anni dopo, non può essergli retrospettivamente attribuita. 

[47] Sotto questo profilo, va rimarcato il fatto che con il nostro senatoconsulto si fosse intervenuti, per la prima volta in maniera tanto rilevante, a dichiarare illecite delle associazioni e a scioglierle. Al riguardo, v. ad esempio, per tutti, T. Mommsen, De collegiis et sodaliciis Romanorum, Kiliae, 1843, p. 32 ss.; Id., Strafrecht, cit., p. 875 ss.; U. Coli, ‘Collegia’ e ‘sodalitates’. Contributo allo studio dei collegi nel diritto romano, Bologna, 1913, p. 100; F.M. De Robertis, Il diritto, cit., p. 53 ss.; Id., Storia delle corporazioni e del regime associativo nel mondo romano, Bari, s.d. (ma 1971), p. 56 ss., il quale peraltro precisa che la libertà d’associazione, intesa nel suo complesso, non ne risentì affatto in quanto la misura restrittiva, pur di notevole momento, non aveva carattere legislativo; A. Groten, ‘Corpus’ und ‘Universitas’, Tübingen, 2015, p. 208 ss.; C. Minasola, La ‘lex Licinia de sodaliciis’ e i ‘collegia illicita’ elettorali alla luce di una rilettura della ‘pro Plancio’ di Cicerone, in Iuris antiqui historia, VIII, 2016, p. 172, 176; D. Tarditi, Il ‘senatus consultum’,cit., p. 85 s.

[48] Sui caratteri generali della quale si rivia a quanto già anticipato supra, § 1 e nt. 5.

[49] V. per esempio M. Boscarelli, voce Associazione per delinquere, in Enc. dir., vol. III, Milano, 1958, p. 865 ss.; V. Patalano, L’associazione per delinquere, Napoli, 1971; G. Insolera, L’associazione per delinquere, Padova, 1983; A. Antonini, Le associazioni per delinquere nella legge penale italiana, in Giust. pen., 1985, 2, p. 286 ss.; M. Anetrini, voce Associazione per delinquere, in Eng. giur. Treccani, vol. III, Roma, 1988, p. 1 ss.; F. Iacoviello, Ordine pubblico e associazione per delinquere, in Giust. pen., 1990, 2, p. 37 ss.; G. Fiandaca, Criminalità organizzata e controllo penale, in L’indice penale, 1991, p. 5 ss.; G. Conso, La criminalità organizzata nel linguaggio del legislatore, in Giust. pen., 1992, p. 385 ss.; G. De Vero, Tutela dell’ordine pubblico e reati associativi, in Riv. ital. dir. proc. pen., 1993, p. 93 ss.; Id., I reati associativi nell’odierno sistema penale, in Riv. ital. dir. proc. pen., 1998, p. 385 ss.; S. Aleo, Sistema penale e criminalità organizzata. Le figure delittuose associative, III ed., Milano, 1999; V. Militello, Partecipazione all’organizzazione criminale e standards internazionali d’incriminazione. La proposta del Progetto comune europeo di contrasto alla criminalità organizzata, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, p. 184 ss.; A. Cerulo, Il trionfo dei reati associativi e l’astuzia della ragione, in L’indice penale, 2004, p. 1007 ss.; L. Picotti – G. Fornasari – F. Viganò – A. Melchionda (a cura di), I reati associativi: paradigmi concettuali e materiale probatorio, Padova, 2005; G. Spagnolo, voce Reati associativi, in Enc. giur. Treccani, vol. XXIX, Roma, 2006, p. 1 ss.; C. Grasso, La “conspiracy” negli ordinamenti di common law, in Giust. pen., 2006, p. 161 ss.; V. Plantamura, Reati associativi e rispetto dei principi fondamentali in materia penale, in L’indice penale, 2007, p. 389 ss.; M. Romano – G. Grasso, Commentario sistematico del codice penale, vol. II, Milano, 2012, p. 199 ss.; L. Simeone, I reati associativi, Santarcangelo di Romagna, 2015.

[50] In proposito, v. soprattutto Liv. 39.18.3-4: Qui tantum initiati erant et ex carmine sacro praeeunte verba sacerdote precationes fecerant,  quibus nefanda coniuratio in omne facinus ac libidinem continebatur, nec earum rerum ullam, in quas iure iurando obligati erant, in se aut alios admiserant, eos in vinculis relinquebant: qui stupris aut caedibus violati erant, qui falsis testimoniis, signis adulterinis, subiectione testamentorum, fraudibus aliis contaminati, eos capitali poena afficiebant; cfr. 39.8.1;3; 13.13; 14.4;8; 15.10;13; 16.3-5; 17.6; v. anche FIRA I, n. 30.3. Per una rassegna di opinioni in merito alla coniuratio in esame, intesa anche come reato associativo, v. per esempio T. Mommsen, Strafrecht, cit., p. 875; H. Siber, Verfassungsrecht, cit., p. 245 s., secondo cui la coniuratio adversus rem publicam potrebbe integrare gli estremi della perduellio, pur non menzionata come tale dalle fonti; C.H. Brecht, Perduellio, cit., p. 234, 242 s., per cui si tratta senz’altro di perduellio; F.M. De Robertis, Il diritto, cit., p. 53 ss., 64, nt. 43; Y. Béquignon, Observations, cit., p.188, che ricorda come i tiasi già di per sé violassero il divieto di coetus nocturni, di cui a XII Tab. 8.26; A. Bruhl, Liber, cit., p. 100; G. Tarditi, La questione, cit., p. 280, 286, che scioglie il termine coniuratio in “associazione per delinquere”; C. Gallini, Protesta, cit., p. 19, 56, 66, 82; F. De Martino, Storia, cit., p. 204, che contesta il citato Siber; P.V. Cova, Livio, cit., p. 98 s., 101, che a sua volta richiama la norma sui coetus nocturni; J.J. Urruela Quesada, La represión, cit., p. 60, che ritiene legittimo, ma non sufficiente invocare la norma di Tab. 8.26, dato il gran numero di condanne a morte emesse; J.A. North, Religious Toleration, cit., p. 95, che, in polemica con la Gallini e con la sua tesi di una protesta di tipo anarchico e destrutturante, rileva come proprio la complessa organizzazione associativa dei Baccanali sia stata, in un certo senso, la causa ed insieme l’obiettivo principale della repressione; J. Scheid, Le délit, cit., p. 158 s.; R.A. Bauman, Lawyers, cit., p. 38, nt. 131; Id., The Suppression,cit., p. 340; J.M. Pailler, Lieu, cit., p. 262 ss.; Id., Caton, cit., p. 36; Id., Bacchanalia, cit., p. 22, 258, 325 ss., 602, 804 s., per cui il senato conia qui una nuova fattispecie delittuosa, non riconducibile alla perduellio, e consistente nella organizzazione di un gruppo il cui fine è il nihil nefas ducere, di cui a Liv. 39.13.11; D. Mantovani, Il problema, cit., p. 5 s., 17 s., 19 e nt. 52, 20, 21 e nt. 59, 22, 34, nt. 85, secondo il quale, se il vero scopo del senato era certo la persecuzione della congiura, il bersaglio immediato era tuttavia il coetus nocturnus (come in particolare emergerebbe da Liv. 39.16.4), già sanzionato dal precetto di Tab. 8.26, che propriamente limitava l’esercizio del diritto di riunione, non di associazione;C. Venturini, ‘Quaestiones’ e accusa popolare, in Labeo, XXXIX, 1993, p. 98; B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma, Milano, 1990, p. 56; Id., Processi “fuori turno” e ‘quaestiones extra ordinem’, in R. Feenstra et al. (a cura di), ‘Collatio iuris Romani’. Etudes H. Ankum, vol. II, Amsterdam, 1995, p. 437, che parla di «associazioni per delinquere diramate in più città»; A.M. Adam, in Tite-Live, cit., p. 14, nt. 1, 119, nt. 5; H. Cancik Lindemaier, Der Diskurs, cit., p. 89; P. Cerami, Accusatores, cit., 170, che usa l’espressione “criminalità organizzata”; E. Montanari, Il dinamismo, cit., p. 143; B. Linke, Religio, cit., p. 271 ss.; G. Freyburger, Associations religieuses et collèges de prêtres dans le monde romain, in REL, LXXX, 2002, p. 10; A.A. Semioli, Associazioni, cit., p. 96 ss.; P. Lepore, Introduzione allo studio dell’epigrafia giuridica latina, Milano, 2010, p. 65; C. Russo Ruggeri, ‘Indices’ e ‘indicia’, Torino, 2011, p. 34 s.; C. Minasola, La ‘lex Licinia’, cit., p. 172 e nt. 2; Id., La repressione, cit., p. 178 ss.;  D. Tarditi, Il ‘senatus consultum’, cit., p. 77, 80 s.; M. Ravizza,  Il ‘senatusconsultum’, cit., p. 282.

[51] Sul punto, cfr. Liv. 39.18.8-9: In reliquum deinde senatus consulto cautum est, ne qua Bacchanalia Romae neve in Italia essent; si quis tale sacrum sollemne et necessarium duceret nec sine religione et piaculo se id omittere posse apud praetorem urbanum profiteretur, praetor senatum consuleret; si ei permissum esset, cum in senatu centum non minus essent, ita id sacrum faceret, dum ne plus quinque sacrificio interessent, neu qua pecunia communis neu quis magister sacrorum aut sacerdos esset; v. anche FIRA I, n. 30.11. Con senso pratico tipicamente romano si vieta, dunque, alle associazioni di ricostituire una cassa comune, ma anche, si noti, di strutturare gerarchicamente la compagine dei partecipanti ai culti, di cui si cerca, ovviamente, di limitare il numero: a commento v. in particolare M.P. Nilsson, The Dionysiac Mysteries of the Hellenistic and Roman Age, Lund, 1957, p. 18 s.; J.A. North, Religious Toleration, cit., p. 95, i rilievi del quale sono riportati alla nt. precedente; A.M. Adam, in Tite-Live, cit., p. 103, nt. 11, 119, nt. 7, 120 nt. 12,secondo cui alcuni dei reati commessi dai singoli aderenti avevano anzi lo scopo di finanziare l’attività delle conventicole; B. Albanese, Per l’interpretazione, cit., specialmente p. 18 ss.; A. Groten, Corpus, cit., p. 224 ss.; C. Minasola, La ‘lex Licinia’, cit., p. 176; Id., La repression, cit., p. 181 ss.; D. Tarditi, Il ‘senatus consultum’, cit., p. 77 ss.

[52] Cfr. supra, § 2 e nt. 33. Come si è detto, l’agire dei congiurati era da ritenersi un crimine politico perché ispirato a valori radicalmente incompatibili con quelli fondativi della civitas. Cfr. per esempio D. Mantovani, Il problema, cit., p. 5 s., 17 s.

[53] I reati commessi dai congiurati sono tecnicamente elencati in Liv. 39.18.4 (stupra, caedes, falsa testimonia, signa adulterina, subiectio testamentorum); ma v. anche per esempio Liv. 39.8.6-8 (corruptelae; stupra promiscua ingenuorum feminarumque, falsi testes, falsa signa testamentaque, indicia; venena; caedes); 10.6-7 (corruptelae; stuprum); 13.10;13 (facinus, flagitium, stupra); 14.8 (stuprum, flagitium); 16.1;3;5 (flagitia, facinora, fraudes); 17.7 (facinora, flagitia). Cfr. per esempio M.P. Nilsson, The Dionysiac Mysteries, cit., p. 16; M. Gelzer, Die Unterdrückung, cit., p. 285; F.M. De Robertis, Il diritto, cit., p. 63; Y. Béquignon, Observations, cit., p. 187 s.; A. Bruhl, Liber pater, cit., p. 99; C. Gallini, Protesta,cit., p. 19; J.B. Ungern Sternberg, Untersuchungen zum spätrepublikanischen Notstandsrecht, München, 1970, p. 34 ss.; A. Lintott, ‘Provocatio’. From the Struggle of the Orders to the Principate, in ANRW, vol. I.2, Berlin-New York, 1972, p. 244; P.V. Cova, Livio, cit., p. 101 s.; M. Le Glay, Magie et sorcellerie à Rome au dernier siècle de la république, in Mélanges J. Heurgon, vol. I, Rome, 1976, p. 537; J. Scheid, Le délit,cit., p. 159; J.M. Pailler, Les matrones romaines et les empoisonnements criminels sous la République, in Comptes rendus des séances de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres, CXXXI, 1987, p. 124 e nt. 45; Id., Bacchanalia, cit., p. 588, 605; F. Marino, Cic. ‘Verr.’ II,1,42,108 e la repressione del falso, in A. Burdese (a cura di), Idee vecchie e nuove sul diritto criminale romano, Padova, 1988, p. 147 e nt. 31, 148 s.; A. Dubourdieu – E. Lemirre, La rumeur, cit., p. 299, 303. Alquanto convincente ci sembra poi l’affermazione di A.M. Adam, in Tite-Live, cit., p. 103, nt. 11, 119, nt. 7, 120, nt. 12, riferita supra, alla nt. 51.

[54] V. ancora Liv. 39.18.3-4 (trascritto supra, alla nt. 50); cfr. per esempio D. Mantovani, Il problema, cit., p. 21, nt. 59, 22; W. Nippel, Orgien, cit., p. 68, 72. Condanne a morte furono d’altronde emesse, in numero addirittura superiore alle altre sanzioni. (cfr. Liv. 39.18.5), non contro i meri affiliati, ma contro chi si fosse reso responsabile degli altri crimina; in merito, v. anche quanto si è anticipato sopra, e tra breve meglio si dirà, circa la probabile sospensione della normale garanzia della provocatio.

[55] Si trattava di P. Ebuzio e della liberta Ispala Fecennia, e per la verità anche di qualche altro: v. Liv. 39.9.1-14.3;6; 17.1; 19.1-7. Sul tema dei delatori, affiliati alle associazioni criminose e poi dissociatisi, che è di straordinaria attualità, perché ricorda quello odierno dei “pentiti” o “collaboratori di giustizia”, hanno come noto fermato l’attenzione soprattutto T. Spagnuolo Vigorita, ‘Utilitas publica’. Denunce e pentiti nel mondo romano, in Panorami. Riflessioni discussioni e proposte sul diritto e l’amministrazione, VI, 1994, p. 265 s., 272; P. Cerami, Accusatores, cit., p. 141 ss., specialmente 170 s.; Id., La collaborazione processuale: le radici romane, in Profili processualistici dell’esperienza giuridica europea, Torino, 2003, p. 249 ss., specialmente 272 ss.; M. Varvaro, ‘Certissima indicia’. Il valore probatorio della chiamata in correità nei processi della Roma repubblicana, in AUPA, LII, 2008, p. 369 ss., specialmente 397 ss., e C. Russo Ruggeri, Indices, cit., p. 32 ss.; ma v. anche per esempio già T. Mommsen, Strafrecht, cit., p. 384 e nt. 2; M.P. Nilsson, The Dionysiac Mysteries, cit., p. 16 ss.; G Luraschi, Il ‘praemium’ nell’esperienza giuridica romana, in Studi A. Biscardi, vol. IV, Milano, 1983, p. 268; J.M. Pailler, Bacchanalia, cit., p. 326 s.; D. Nörr, Marginalien zu den Bacchanalien: Das Pseudo-‘Senatusconsultum’ in Liv. 39.19, in C. Cascione – C. Masi Doria (a cura di), Fides, Humanitas, Ius, cit., vol. VI, p. 3829 ss.

[56] Liv. 39.14.6;16.12: extra ordinem.

[57] Non mancano, per la verità, neppure coloro che cercano tendenzialmente di ricondurre la quaestio ad un quadro conforme alla tradizione costituzionale romana, la quale imponeva il rispetto delle garanzie accordate ai cittadini (come soprattutto il ius provocationis): v. per esempio T. Mommsen, Staatsrecht, cit., vol. II, p. 112, nt. 2, 115, nt. 3; vol. III, p. 1208 s.; Id., Strafrecht, cit., p. 19, nt. 2, 147, 152, nt. 1, 156, nt. 2, 305, nt. 2, 324, nt. 3, 384, nt. 2; Id., Der Religionsfrevel nach römischem Recht, in Gesammelte Schriften, vol. III, Berlin, 1907, p. 408 e nt. 5; S. Accame, Il ‘Senatum Consultum’, cit., p. 226 s.; A. Bruhl, Liber pater, cit., p. 100 ss.; G. Tarditi, La questione, cit., p. 278 e nt. 4, 279; F. De Martino, Storia,cit., p. 203 s.; G.C. Rascón, A proposito de la represión, cit., p. 398 ss.; R.A. Bauman, Lawyers, cit., p. 281, nt. 360, 376 e ntt. 231-232; Id., The Suppression, cit., p. 335, 337, 338 e nt. 11; C. Venturini, Quaestio extra ordinem, in SDHI,LIII, 1987, p. 75 ss., 87 s., 91, 108; Id., ‘Quaestiones’ e accusa, cit., p. 98; Id., Quaestiones ex senatusconsulto, in F. Serrao (a cura di), Legge e società nella repubblica romana, vol. II, Napoli, 2000, p. 262 s., 275, 278 ss.; J.M. Pailler, Bacchanalia, cit., p. 172 s., 175, 253 ss., 315; M. Ravizza, Il ‘senatusconsultum’, cit., p. 280 ss.  Ma più persuasivi ci paiono gli argomenti di coloro che considerano l’inchiesta sui Baccanali come l’evento più storicamente significativo del mutamento in corso nell’ordinamento criminale romano, d’ora in poi non più, tendenzialmente, fondato sulla competenza giudiziaria popolare, bensì su quella di giudici istituiti di volta in volta (dal senato, per il momento) con funzioni ad hoc: v. per esempio J.L. Strachan Davidson, Problems of the Roman Criminal Law, vol. I, Oxford, 1912, p. 227, 229 s., 232 ss., 239, 242; J. Lengle, Strafrecht, cit., p. 57 ss.; E. Fraenkel, Senatus consultum, cit., p. 383, 386 s.; H. Siber, Analogie, Amtsrecht und Rückwirkung im Strafrechte des römischen Freistaates, Leipzig, 1936, p. 8 s., 49; Id., Verfassungsrecht, cit., p. 245 s.; C.H. Brecht, Perduellio, cit., p. 237 ss., 240 e nt. 2, 241 s.; Y. Béquignon, Observations, cit., p. 187 s., 193 ss.; L. Fronza, De bacanalibus, cit., p. 205 ss., 216 e nt. 73, 222; A. Lintott, ‘Provocatio’. From the Struggle, cit., p. 244, 253 ss.; C. Saulnier, La ‘coniuratio’, cit., p. 117, nt. 3; E. Montanari, Identità, cit., p. 124 e nt. 70; B. Santalucia, Diritto, cit., p. 56; Id., Processi, cit., p. 437, 442 e nt. 18; P. Cerami, Accusatores, cit., p. 170 s.; C. Russo Ruggeri, Indices, cit., p. 32 ss.

[58] Di questa funzione, assolta dal senato al fine di salvaguardare la sicurezza pubblica, già si è in parte detto commentando, al § 1, il testo di Pol. 6.13.4. Ad ogni modo, sulle c.d. quaestiones ex senatusconsulto generalmente intese, si rinvia qui alle riflessioni di sintesi condotte, per esempio, da T. Mommsen, Staatsrecht, cit., vol. II, p. 114, 115 e ntt. 2-3, 116 ss.; vol. III, p. 1066 s., 1208 s.; J.L. Strachan Davidson, Problems, cit., p. 162, 225 ss.; A.H. Mac Donald, Rome, cit., p. 13 ss.; F. De Martino, Storia, cit., vol. I, 1972, p. 432; vol. II, p. 202 ss.; D. Mantovani, Il problema, cit., passim; Id., Il pretore giudice criminale in età repubblicana, in Athenaeum,LXXVIII, 1990, p. 34 ss.; V. Giuffré, Recensione a D. Mantovani, Il problema,cit., in Iura, XL, 1989, p. 115 ss.; Id., Repressione criminale e garanzie del cittadino fra Repubblica e Principato, in Poder político y derecho en la Roma clásica, Madrid, 1996, p. 39 ss.; C. Venturini, La repressione degli abusi dei magistrati romani ai danni delle popolazioni soggette fino alla’ lex Calpurnia’ del 149 a.C., in BIDR,LXXII, 1969, p. 21; Id., Quaestio, cit., p. 24 ss.; Id., Quaestiones’ non permanenti: problemi di definizione e di tipologia, in A. Burdese (a cura di), Idee, cit., p. 85 ss.; Id., ‘Quaestiones’ e accusa, cit., p. 95 ss.; Id., Quaestiones ex senatusconsulto, cit., p. 211 ss.; B. Santalucia, Diritto, cit., p. 437 ss.; G. Garofalo, Il pretore giudice criminale in età repubblicana?, in Appunti sul diritto criminale della Roma monarchica e repubblicana, III ed., Padova, 1997, p. 252, 270 e nt. 130, 281; P. Cerami, Accusatores, cit., p. 141 ss., specialmente 160, 170, 173; A. Lintott, ‘Provocatio’ e ‘iudicium populi’, cit., p. 16, 19 ss.; C. Russo Ruggeri, Indices, cit., p. 28 ss.; cfr. F.M. De Robertis, Il diritto, cit., p. 147 ss.

[59] Rilevano per lo più questa peculiarità, certo riferibile, tra le quaestiones del periodo, soltanto ai Bacchanalia, gli autori riportati supra, alla nt. 57 (tra quelli, s’intende, favorevoli al carattere straordinario dell’inchiesta).

[60] Sulla facoltà, riconosciuta ai magistrati romani, di ingerirsi nella giurisdizione degli stati alleati – dei quali venne sostanzialmente violata l’autonomia -, sulle ragioni politiche e, soprattutto, sul fondamento giuridico possibile di una simile ingerenza (anche in rapporto all’elenco di crimini di cui a Pol. 6.13.4), non possiamo qui, diffusamente, soffermarci. Rinviamo pertanto ai numerosi autori espressisi sul tema: per esempio, W. Weissenborn, Titi Livi ab urbe condita libri, cit., p. 25, ntt. 5-8; T. Mommsen, Staatsrecht, cit., vol. II, p. 115, nt. 4, e vol. III, p. 1209 e nt. 1, che per spiegare l’intrusione, non di per sé ammissibile in termini di stretto diritto, invoca ragioni di pubblica sicurezza, oltre al carattere ramificato e complesso dell’attività criminosa perseguita; G. De Sanctis, Storia,cit., vol. IV.1, p. 599, che parla di scarso riguardo per i trattati; E. Fraenkel, Senatus consultum, cit., p. 384 e nt. 1, 391, che si rifà a Mommsen; M. Gelzer, Die Unterdrückung, cit., p. 281; S. Accame, Il ‘Senatusconsultum’, cit., p. 229 s., per il quale formalmente si trattò solo di un invito alle autorità locali a procedere, ma certo, in buona sostanza, di una pesante intromissione nel loro ambito (la prima, fra l’altro, a non essere giustificata da uno stato di guerra); C.H. Brecht, Perduellio, cit., p. 237 s., nt. 1, che, per l’accusa di alto tradimento, logicamente ritiene più che altro perseguiti, qui, i cives, anche fuori Roma; A.H. Mac Donald, Rome, cit., p. 11, 15 s., 26 ss., per cui il tentativo di salvaguardare, nella forma, l’autonomia delle giurisdizioni locali, non vale a nascondere la sostanza politica della vicenda, nella quale Roma, per far fronte ad una situazione di emergenza, manifestò in modo drastico la propria supremazia sugli alleati, pur preoccupandosi forse di salvaguardare, in Italia, gli equilibri oligarchici consolidati; L. Fronza, De bacanalibus, cit., p. 215 ss., che esclude repressioni in territorio non romano (quale invece era, a suo avviso, quello teurano, cui era indirizzato il documento rinvenuto a Tiriolo); H.H. Scullard, Roman Politics, cit., p. 147; G. Sciascia, O senatoconsulto, cit., p. 88, che parla di condotta illegale; G. De Plinval, in Cicéron, cit., p. 121, per il quale l’obiettivo principale dell’intera repressione era proprio sedare i movimenti autonomistici dell’Italia del sud; M.A. Levi, Bacchanalia, cit., p. 15 ss., secondo cui il fondamento andrebbe ricercato nella natura sacrale del foedus, il cui rispetto avrebbe potuto essere, anzi, compromesso dalla tolleranza di pratiche che violavano la pax deorum; C. Gallini, Protesta, cit., p. 44, per la quale si trattò di una operazione arbitraria; E. Rawson, Prodigy Lists and the ‘Annales Maximi’, in CQ, XXI, 1971, p. 163, che richiama la pratica di espiazione dei prodigi per totam Italiam, disposta talora dal senato; A. Lintott, ‘Provocatio’. From the Struggle, cit., p. 244; R. Turcan, Religion,cit., p. 22 s., che invoca il carattere ramificato e diffuso dei crimini perseguiti; P.V. Cova, Livio, cit., p. 95 e nt. 27, che si rifà a Levi e alla sua interpretazione religiosa; G.C. Rascón, A proposito de la represión, cit., p. 401; C. Saulnier, La ‘coniuratio’, cit., p. 117 e nt. 4; R.J. Rousselle, The Roman Persecution, cit., p. 64; A.J. Toynbee, L’eredità, cit., p. 476; F. Costabile, Istituzioni,cit., p. 96 ss.; Id., Il ‘Senatusconsultum’, cit., p. 386 ss., il quale, non ritenendo sufficiente spiegare la violazione dell’autonomia in base a ragioni politiche, né in base al mero successivo inserimento, da parte di Pol. 6.13.4, dei crimini in questione fra quelli perseguibili dal senato (ché si tratterebbe pur sempre di un potere che questo si sarebbe autoattribuito), individua il fondamento dell’ingerenza nella deditio in fidem delle comunità interessate; G. Luraschi, Aspetti,cit., p. 506 ss., che pur apprezzando l’impostazione rigorosa di Costabile ne critica la soluzione infine proposta, che non darebbe ragione del trattamento riservato alle città non deditae; J.M. Pailler, Bacchanalia, cit., p. 260 s., 330 ss., per il quale i poteri d’indagine si estendono da Roma all’Italia per la natura stessa della quaestio; E. Montanari, Identità, cit., p. 129, che invoca a sua volta la natura religiosa del foedus; A.M. Adam, in Tite-Live, cit., p. 121, nt. 14; O. de Cazanove, I destinatari, cit., p. 67, 68 e nt. 50, secondo cui il senatoconsulto fu per la verità più che altro applicato nel territorio di municipi e colonie, da poco sottratto ad altri stati; C. Venturini, Quaestiones ex senatusconsulto, cit., p. 293; S.W. Rasmussen, Public Portents in Republican Rome, Rome, 2003, p. 231 ss.

[61] Della coniuratio in particolare si è già detto: v. specialmente supra, § 1 e nt. 5. Se poi i singoli membri dei tiasi potessero essere processati penalmente, o meno, per aver posto in essere altri comportamenti, sarebbe dipeso dalla discrezionalità del magistrato e dell’organo a cui quegli chiedeva consiglio, ossia il senato; ciò perché, lo ricordiamo, nell’ordinamento romano di allora non vigeva l’odierna regola nullum crimen sine lege, nulla poena sine lege: cfr. ad esempio, per tutti, F.M. De Robertis, Il diritto, cit., p. 149 s.; M. Scognamiglio, Nullum crimen sine lege, Salerno, 2009, p. 64 ss.

[62] Come già si diceva, è forse proprio questo il problema più grave tra quelli inerenti alle c.d. quaestiones extraordinariae dell’epoca, delle quali la nostra è probabilmente la più importante. Su di esso non possiamo qui fermare approfonditamente la nostra attenzione, e dunque ci limitiamo a rinviare, in generale, alla bibliografia citata supra, alla nt. 58; ma per addurre un esempio del dibattito accesosi in dottrina, su questi temi, v. qui, per tutti, D. Mantovani, Il problema, cit., p. 17 ss., 26, nt. 61, 33 s., nt. 85; Id., Il pretore, cit., p. 34 ss.; L. Garofalo, Il pretore, cit., p. 241 ss., 252, 270, nt. 130, 281; cfr. per esempio V. Giuffré, Recensione a D. Mantovani, Il problema cit., p. 115 ss.; Id., Repressione, cit., p. 43, 46 s., 39 ss.; A. Guarino, I Romani, quei criminali, in Labeo, XXXIX, 1993, p. 34 ss.

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