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L’art.5 d.l. 31 ottobre 2022, n.162: tolleranza zero contro le “folle pericolose” degli invasori di terreni ed edifici.

L’art. 5 del decreto-legge 31 ottobre 2022, n.162, rubricato «Norme in materia di occupazioni abusive e organizzazione di raduni illegali», introduce l’art. 434-bis c.p.: «(Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica). – L’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica consiste nell’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica.

Chiunque organizza o promuove l’invasione di cui al primo comma è punito con la pena della reclusione da tre a sei anni e con la multa da euro 1.000 a euro 10.000.

Per il solo fatto di partecipare all’invasione la pena è diminuita.

E’ sempre ordinata la confisca ai sensi dell’articolo 240, secondo comma, del codice penale, delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato di cui al primo comma nonché di quelle utilizzate nei medesimi casi per realizzare le finalità dell’occupazione».

Il secondo comma dell’art.5 dello stesso d.l. sancisce che «All’articolo 4, comma 1, del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, dopo la lettera i-ter), è aggiunta la seguente: «i-quater) ai soggetti indiziati del delitto di cui all’articolo 434-bis del codice penale».

Si tratta di un insieme di disposizioni di stampo autoritario, caratterizzato dalla tutela fortemente anticipata di beni superindividuali noti per la carente determinatezza, nonché dall’eccessiva severità delle sanzioni previste. Per di più, la formulazione tecnica dell’art.5 presenta numerosi difetti tecnici e gravi irragionevolezze.

Preliminarmente, va osservato che l’art.633 c.p., nel testo originario del 1931, prevedeva già il reato di “Invasione di terreni o edifici”: «Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa da lire mille a diecimila.

Le pene si applicano congiuntamente, e si procede d’ufficio, se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, ovvero da più di dieci persone, anche senza armi».

Il codice fascista considerava dunque l’invasione di terreni o edifici quale delitto contro il patrimonio immobiliare e prevedeva sanzioni più lievi di quelle previste per un furto semplice, ossia la reclusione fino a tre anni ed in più una multa. Nell’ipotesi di una radunata sediziosa “di dieci o più persone”, si applicava e si applica tuttora l’art.655 c.p., che «per il solo fatto della partecipazione» prevede l’arresto fino a un anno. In base al terzo comma dello stesso articolo, «non è punibile chi, prima dell’ingiunzione dell’Autorità, o per obbedire ad essa, si ritira dalla radunata»: uno strumento, per così dire, singolarmente dialogico, predisposto dal codice Rocco per indurre ad obbedire, ottenendo attraverso tale condotta ‘recuperatoria’ l’esenzione da pena. Certamente, il regime fascista disponeva di ben altri strumenti di ‘prevenzione della pericolosità’, ovvero, in sostanza, di repressione – anche ante delictum: misure di prevenzione – del dissenso e della ‘devianza’: dai reati di opinione e di associazione e cospirazione politica al manicomio ‘civile’ o criminale ed al confino di polizia.

Il primo “decreto sicurezza” Salvini, d.l. n.113/2018 conv. con modif. dalla l. n.132/2018, ha inasprito le pene nell’ipotesi di cui al primo comma dell’art.633 c.p., prevedendo, in via non più alternativa bensì congiunta, «la reclusione da uno a tre anni e […] la multa da euro 103 a euro 1.032»; in base alla disciplina delle aggravanti di cui ai co.2 e 3, «si applica la pena della reclusione da due a quattro anni e della multa da euro 206 a euro 2.064 e si procede d’ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone o se il fatto è commesso da persona palesemente armata. Se il fatto è commesso da due o più persone, la pena per i promotori o gli organizzatori è aumentata».

Dunque l’invasione di terreni o edifici commessa da più di cinque persone è già punibile con la reclusione da due a quattro anni, e per promotori o organizzatori è aumentata fino ad un terzo, ossia fino a cinque anni e quattro mesi. Tali sanzioni, considerevolmente più severe di quelle originariamente previste dal codice Rocco, possono risultare applicabili, in particolare, a fatti di ‘occupazione’ commessi da lavoratori o da studenti in occasione di proteste sociali; e sicuramente il decreto “sicurezza” mirava pure ad inasprire proprio la repressione dei ‘movimenti’ in rapporto alle occupazioni dei ‘centri sociali’. Si trattasse pure di occupazioni per scopi socialmente utili quali, ad esempio, l’offerta di servizi socio-sanitari, di assistenza e consulenza legale, volta a sopperire alle carenze, sul territorio, della pubblica amministrazione.

Alla luce della menzionata disciplina vigente, l’art.434-bis c.p. appare quale norma prevalentemente simbolica, tutt’altro che necessaria, giacché si limita in sostanza ad aumentare ulteriormente le pene per fatti già preveduti quali reati. Ciò significa che mancano assolutamente i requisiti della “straordinaria necessità ed urgenza” richiesti dall’art.77 co.2 Cost. per l’adozione di un decreto-legge.

Peraltro, sia la struttura della ‘nuova’ figura delittuosa, sia il rilevante inasprimento sanzionatorio risultano inquietanti. Si può parlare di un giro di vite repressivo arbitrariamente posto in essere dall’Esecutivo, confermando le riserve da tempo prospettate da autorevole dottrina in rapporto alla decretazione d’urgenza in materia penale, anche a causa dei suoi possibili effetti irreversibili sulla libertà personale nei sessanta giorni di provvisoria vigenza del decreto.

Il fatto di reato viene descritto dal Governo con farraginosità grottesca, al limite della tautologia: «L’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica consiste nell’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica». I beni tutelati – qualora, nonostante la ripetizione legislativa, residuasse qualche dubbio – sono indifferentemente l’ordine, l’incolumità o la salute pubblici. Ciò che distingue il reato di cui all’art.434-bis c.p. da quello meno grave di cui all’art.633 c.p. – come suggerisce pure la singolare collocazione sistematica della norma, tra il disastro innominato e la fabbricazione o detenzione di materie esplodenti – è dunque il pericolo per uno di tali beni. Ma, mentre incolumità e salute pubblica sono beni almeno parzialmente dotati di un substrato afferrabile, in quanto vengano riferiti ad un numero indeterminato di persone in carne ed ossa, l’ordine pubblico è, com’è noto fin dall’Ottocento, un “ripostiglio concettuale”, secondo l’arcinota definizione di Binding: un concetto pericolosamente vago e manipolabile dal potere punitivo statuale – dal legislatore, alle forze dell’ordine, alla magistratura inquirente e giudicante – per finalità di repressione delle libertà individuali e del dissenso politico. Se l’invasione collettiva è vista, discrezionalmente, quale pericolo per l’ordine pubblico, si può considerevolmente inasprire la pena.

L’indeterminatezza del bene si riflette sul giudizio di pericolo, rendendo anche quest’ultimo manipolabile. Peraltro, l’art.434-bis c.p. anticipa ulteriormente la soglia di intervento penale, perché definisce il raduno pericoloso quale raduno «dal quale può derivare un pericolo»: si punisce, cioè, non la messa in pericolo, ma la possibilità, ovvero il pericolo di un pericolo. Ma non basta: non occorre neppure che il raduno da cui “può derivare” il pericolo si sia realizzato, bensì è sufficiente, ai fini della punibilità, che si invada un terreno o un edificio “allo scopo di organizzare” quel raduno, cioè ci si rende punibili ancor prima di organizzarlo, per il solo fatto di invadere, con la finalità interiore di organizzare un raduno da cui potrà, forse, scaturire un pericolo, ossia una probabilità di offesa ad uno di quei beni.

E l’anticipazione della tutela parrebbe non arrestarsi neppure qui. Infatti, è punibile “chiunque organizza o promuove l’invasione di cui al primo comma”. Non è detto chiaramente, a ben vedere, se l’invasione debba essersi verificata. Ciò, peraltro, costituirebbe un parossistico arretramento della soglia di rilevanza penale, frontalmente contrastante con i principi di materialità ed offensività: bisogna quindi ritenere che la norma richieda l’effettivo verificarsi dell’invasione “promossa” o “organizzata”, sia pure ‘implicitamente’, ossia con una formulazione oscura e, perciò, incompatibile con la necessaria chiarezza e precisione della norma incriminatrice, imposta dal principio costituzionale di legalità.

Resta il dato per cui la condotta punibile è incentrata sul mero fatto dell’invasione, mentre il pericolo del pericolo per i beni tutelati è oggetto di un dolo specifico, ossia di una mera finalità interiore: il che contrasta con il principio costituzionale della necessaria offensività. Certamente, l’invasione è di per sé offensiva del patrimonio; ma tale offesa è già punibile ex art.633 c.p. e dunque la pena più severa prevista dall’art.434-bis c.p. si basa sul mero atteggiamento interiore.

In effetti, la ratio dell’incriminazione risulta proprio quella della repressione anticipata ed esasperata di “raduni” che possono avere finalità di protesta sociale o anche semplicemente ricreative – è il caso dei cosiddetti rave – per i pericoli che possono derivarne, anche soltanto per “l’ordine pubblico”.

Il vago termine di “raduno” riprende, qui, la terminologia impiegata dal codice fascista nel ricordato art.655 c.p., “radunata sediziosa”, e ci riporta indietro di un secolo. In effetti, nella prassi applicativa dell’art.633 c.p. si era assistito, dal finire degli anni Sessanta, ad un’interpretazione sotto vari profili restrittiva, tendente a riconoscere in sostanza quali socialmente adeguate e, pertanto, non tipiche quelle condotte di ‘occupazione’ che, se da un lato risultavano, in maniera più o meno tenue e temporanea, offensive del patrimonio immobiliare altrui, magari abbandonato, dall’altro costituivano aggregazioni collettive o riunioni di carattere ricreativo o politico-sociale meritevoli di tutela in quanto tali. Si realizzava, in tal modo, un bilanciamento, interno alla fattispecie e costituzionalmente orientato, tra gli interessi patrimoniali di chi subiva l’occupazione – talvolta tollerandola e/o avendo abbandonato l’immobile – e quello a “riunirsi pacificamente e senz’armi” – come recita l’art.17 Cost. – per finalità ricreative e/o di iniziativa e confronto socio-politici.

Da qualche tempo, invece, sull’onda emotiva di un pensiero securitario, si torna a considerare “devianti” – termine manipolabile per eccellenza – i gruppi che promuovono, organizzano o anche solo partecipano a tali “radunate”; si torna all’idea positivistica della repressione anticipata delle “folle pericolose”, dei sediziosi, dei soggetti pericolosi per l’ordine pubblico o soltanto ‘oziosi’ o ‘sbandati’. Le occupazioni e le riunioni ricreative divengono oggetto di una tolleranza zero che esalta, in chiave repressiva, il primato dell’ordine e della sicurezza.

Il riferimento alle folle di “persone pericolose per l’ordine pubblico” non è causale: perché, come abbiamo visto, il secondo comma dell’art.5 d.l. 31 ottobre 2022, n.162 sancisce che tra i soggetti destinatari delle misure di prevenzione di cui all’art.4, co.1, del «codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione» di cui al d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, vengano inseriti «i soggetti indiziati del delitto di cui all’articolo 434-bis del codice penale». Per il solo fatto di essere indiziati di aver promosso od organizzato un’invasione finalizzata ad un raduno potenzialmente pericoloso, o di avervi soltanto partecipato, si potrà essere assoggettati alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza.

A fronte di tutto ciò, assumono un ruolo tutto sommato secondario, ma comunque non trascurabile, gravi difetti tecnici di formulazione come quello che rischia di rendere la norma – in modo involontariamente umoristico – sovente inapplicabile, stando al suo tenore testuale: ma come si dovrebbe interpretare una norma incriminatrice, in un sistema fondato sul principio costituzionale di legalità, se non in base al suo tenore testuale?

Rileggiamo: «L’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica consiste nell’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica».

Dunque, per risultare punibile, l’invasione deve essere “commessa” da più di cinquanta persone, “allo scopo di organizzare un raduno”. Di conseguenza, se l’invasione, come non insovente avviene, è commessa anche da molto meno di cinquantuno persone, con la finalità di organizzare poi un raduno (ad esempio, il famigerato rave) al quale di persone ne parteciperanno migliaia, il fatto non sussiste! Non si dica che, per il solo fatto di radunarsi, quelle migliaia di persone “invadono”, perché l’invasione, secondo il tenore della norma incriminatrice, è quella realizzata “allo scopo di organizzare” il successivo raduno, che diventa una sorta di postfatto non punibile. Del resto, è punibile chi organizza o promuove l’“invasione” – o vi partecipa -, non il successivo raduno.

Qualora, in senso contrario a quanto poc’anzi osservato, si volesse insistere nel ritenere punibili tutti coloro che partecipano al raduno, in quanto eo ipso partecipi all’“invasione”, ne deriverebbe la minaccia di una criminalizzazione indiscriminata, di massa.

In effetti, l’art.434-bis c.p. “lancia un segnale”, rectius un messaggio ‘terroristico’ ai giovani potenzialmente interessati a feste non autorizzate – perché questo sono i famigerati “rave” – o all’attivismo politico-sociale dentro scuole od Università. D’ora in poi, si rischiano arresti e procedimenti penali – e di prevenzione – di massa, oppure, magari più realisticamente, arbitrariamente selettivi. In tal senso, sì, ad essere concretamente minacciate di pena sono attività di riunione finora considerate socialmente adeguate, o anche solo tollerate, ma non represse penalmente. Il messaggio è “la pacchia è finita”: manganello e manette per i giovani “devianti”.

Sia chiaro, nessuno nega che in occasione di feste e riunioni – autorizzate o meno, in discoteca o all’aperto – possano essere commessi reati; ad esempio, in materia di sostanze stupefacenti. Ma allora, è sui singoli fatti di reato che si deve intervenire. Quando, invece, si vuol criminalizzare indiscriminatamente gruppi numerosi di giovani, anziché, com’è avvenuto finora, superare i conflitti mediante il dialogo o, comunque, con mezzi meno invasivi, ciò significa fare di tutti i partecipanti al “raduno” un… fascio.

Neppure il codice penale del 1930 si era spinto a prevedere che l’invasione di terreni od edifici potesse essere punita severamente; il pacchetto sicurezza, come ricordato, ha aumentato considerevolmente le pene. Ora le si inasprisce ulteriormente – con finalità dichiaratamente ed esasperatamente intimidatorie – allorché il fatto assume, sia pure molto alla lontana vista l’anticipazione della tutela, connotati di pericolo per beni superindividuali tra cui l’ordine pubblico: l’occupazione o il rave diventano una grande “radunata sediziosa o pericolosa”. Si è detto che l’inasprimento sarebbe strumentale a consentire le intercettazioni: in tal caso, si assisterebbe, ancora una volta, alla perversione per cui il massimo edittale non corrisponde affatto all’effettiva gravità del fatto, ma viene strumentalizzato per scopi relativi al procedimento. Pare che nella compagine governativa vi sia stato un sussulto di ragionevolezza, allorché si è esclamato in chiave critica: «Non possiamo metterci ad intercettare i ragazzini». Si tratta tuttavia di un curioso garantismo a corrente alternata: non li si vorrebbe intercettare… – ma li si intercetterà! -; però li si può arrestare in flagranza, porre in custodia cautelare in carcere – l’art.280 c.p.p. prevede infatti che essa sia ammessa quando la pena massima non è inferiore a cinque anni – e poi rinchiudere in galera, quali condannati a titolo definitivo, da tre a sei anni! E va posto in evidenza che il ricorso ad intercettazioni, arresto in flagranza e custodia cautelare in carcere saranno possibili anche per la mera partecipazione, che è – curiosamente, ma non tanto – concepita come mera circostanza attenuante comune e, dunque, non incide sulla loro applicabilità.

Tutto ciò risulterebbe accettabile soltanto all’interno di una “democrazia illiberale”, come quelle recentemente teorizzate e praticate da alcune criptodittature. In un ordinamento costituzionale come il nostro, fondato sul primato della persona e non dell’autorità, l’intervento penale deve rimanere, invece, l’extrema ratio; dev’essere fondato su fatti offensivi, descritti in modo chiaro e preciso – principio di legalità, art.25 co.2 Cost. – e su responsabilità personali, art.27 co.1 Cost.; dev’essere proporzionato e tendere non a funzioni repressivo-deterrenti, bensì verso finalità di rieducazione, art.27 co.3 Cost.

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