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Le conclusioni dell’Avvocato generale della Corte di giustizia dell’Unione Europea Pikamäe nella causa C-481/19

Si sottopongono all’interesse del lettore le conclusioni depositate il 27 ottobre 2020 dall’Avvocato generale Pikamäe nella causa C-481/19 promossa su rinvio pregiudiziale della Corte costituzionale italiana,  le quali segnano un passaggio fondamentale nel tracciato che può portare al cambiamento del quadro sanzionatorio fissato dall’art.187-quinquesdecies del Testo unico sulla finanza d.lgs. n. 58 del 24 febbraio 1998 (di seguito, “TUF”) e, per ciò che interessa sottolineare nel presente commento, il godimento del diritto al silenzio nei procedimenti amministrativi che possono sfociare nell’irrogazione di sanzioni amministrative idonee a possedere uno stigma penale.

Al centro della vicenda era uno degli amministratori di una società destinatario di una sanzione pecuniaria, particolarmente elevata, per non aver dato risposta ai solleciti della Consob su talune operazioni finanziarie sospette.

Il rilievo trae origine dalla questione di legittimità costituzionale sollevata dinnanzi alla Consulta in riferimento all’art. 187-quinquiesdecies del TUF promossa dalla Corte di cassazione II Sezione civile, con l’ordinanza interlocutoria del 16 febbraio 2018, n. 3831; in particolare il rimettente dubitava della legittimità della norma de qua nella parte in cui viene prevista la sanzione per la mancata ottemperanza, nei termini stabiliti dalla legge, alle richieste della Consob. La Consulta ha sottoposto alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (“TFUE”), due quesiti: in primo luogo, se il diritto derivato dell’Unione europea – più in particolare le direttive 2003/6 e 596/2014 – consenta agli Stati membri di non sanzionare colui il quale si rifiuti di cooperare, e nello specifico, di rispondere a domande dell’autorità amministrativa competente dalle quali possa emergere la propria responsabilità per un illecito punito con sanzioni amministrative di carattere “punitivo” ovvero che possa essere propedeutico per l’instaurazione di un procedimento penale; in secondo luogo, se, in caso di risposta negativa al primo quesito, una tale lettura del diritto derivato sia compatibile con gli articoli 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (di seguito, “CDFUE”), facendo, altresì, espresso riferimento alla copiosa giurisprudenza della Corte EDU in materia di art. 6 CEDU. Con tale provvedimento, in via preliminare, è stata, altresì, affrontata la precipua questione del doppio rinvio pregiudiziale, emerso in ragione dell’avanzamento – da parte dei Giudici di legittimità – dell’ipotetico contrasto della norma del TUF, inserita nell’ordinamento italiano in ottemperanza al diritto derivato dell’UE, sia con gli articoli 24, 111, e 117 della Costituzione, sia con l’articolo 47 della CDFUE, nonché degli articoli 6 CEDU e 14 del Patto internazionale relativo ai diritti civili.

In un primo saliente passaggio l’Avvocato generale ha tenuto a riformulare la questione precisando il quesito nei seguenti termini: «[q]uale portata si deve attribuire al diritto al silenzio delle persone fisiche, quale si desume dagli articoli 47 e 48 della Carta, alla luce della giurisprudenza della Corte EDU e della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea in materia di illeciti anticoncorrenziali, nell’ipotesi in cui le formulazioni dell’art. 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6 e dell’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 596/2014 permettano di interpretare tali articoli in maniera conforme al suddetto diritto» (§ 47, conclusioni Avvocato generale Causa C-481/19). Se è vero che il diritto derivato impone agli Stati membri di adottare misure di contrasto alle condotte di abuso dei mercati, tra le quali, appunto, la mancata collaborazione con le autorità di vigilanza, lo è altrettanto garantire la tutela dei diritti fondamentali.  Lo snodo centrale dell’argomentazione adottata da Pikamäe è fondato proprio sull’assenza della previsione di un rimprovero penale od amministrativo imposto nelle direttive de quiubus agli Stati membri essendo unicamente richiesto che le sanzioni godano di efficacia, siano proporzionate “e dissuasive” (§. 77 id.). Inoltre, proprio con espresso riferimento al diritto al silenzio esperibile nel caso in cui i procedimenti amministrativi rientrino nel concetto di maitrè penal, Pikämae precisa che, in ossequio alla clausola contenuta nell’art. 52, paragrafo, 3 della CDFUE il significato e la portata dei diritti sanciti dalla stessa devono corrispondere a quelli garantiti dalla CEDU. I diritti tutelati dalla Carta devono, infatti, essere “uguali a quelli conferiti loro dall’omologo articolo della CEDU” (§ 50 id.) pertanto, se ne deduce che, in merito all’art. 47, secondo comma, della medesima, le garanzie derivanti dall’art. 6, paragrafo 1, CEDU “si applicano in modo analogo nell’Unione” (§ 50 id.) e, in merito all’art. 48, paragrafo 2, della Carta, che tale diritto ha “significato e portata identici” a quello garantito dall’articolo 6, paragrafo 2, della CEDU (§.50 id.). Orbene, ne deriva che, avendo i Giudici di Strasburgo interpretato l’art. 6 della Convenzione nella direzione di riconoscere il diritto al silenzio anche d’innanzi all’Autorità amministrativa quando il procedimento sia idoneo ad irrogare sanzioni di natura sostanzialmente penale, in ossequio ai criteri Engel, ed essendo state interpretate in questo senso le normative domestiche in tema di violazioni finanziarie, volte a recepire la direttiva 2003/6 (si veda la vicenda Grande Stevens c. Italia), le conclusioni addotte da Pikamäe constano nel riconoscere il principio del nemo tenetur se ipsum accusare anche dinnanzi agli ispettori della Consob.

Ora non resta che attendere che venga inserito l’ultimo tassello del puzzle per mano dei Giudici di Lussemburgo.

 

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