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Liberazione condizionale agli ergastolani ostativi. L’art. 4 bis torna alla Consulta

Cass., Sez. I, ord. 3 giugno 2020 (dep. 18 giugno 2020), n. 18518

 

Con ordinanza n. 18518/2020, depositata il 18.06.2020, la Prima Sezione della Cassazione ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli artt. 3, 27 e 117 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter della legge n. 354 del 1975, e dell’art. 2 d. l. n. 152 del 1991, convertito, con modificazioni, nella legge n. 203 del 1991, nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale.

Di nuovo alla Consulta, dunque, l’art. 4 bis e l’art. 58 ter dell’ordinamento penitenziario, le norme che sottraggono i condannati per determinati reati, considerati di particolare gravità, all’accesso ai benefici premiali, alle misure alternative al carcere ed alla liberazione condizionale, a meno che non collaborino con la giustizia.

Da alcuni anni si assiste ad un cammino, seppur lento, di erosione dei meccanismi automatici di esclusione, di persone detenute, dal reinserimento in società in virtù del reato che hanno commesso e, nel rispetto dell’art. 27 della Costituzione, si tende a perseguire una valutazione del loro percorso detentivo che non si limiti alla verifica della collaborazione fattiva ed utile con la giustizia ma contempli anche l’osservazione dei tanti segnali concreti di presa di distanza dal crimine e di adesione a comportamenti orientati alla legalità.

In data 13.06.2019, la CEDU ha accolto il ricorso ‘Viola v. Italia’ ritenendo il c.d. ‘ergastolo ostativo’ in violazione dell’art. 3 della Convenzione EDU poiché una pena senza fine si traduce in una menomazione della dignità umana che “è nel cuore del sistema istituito dalla Convenzione e impedisce la privazione della libertà di una persona con la coercizione senza allo stesso tempo lavorare per reintegrarla e per fornirle una possibilità di recuperare questa libertà un giorno”.

La Corte Europea non esclude la legittimità della pena perpetua ma afferma che viola l’art. 3 CEDU, una sanzione che non ammetta la speranza di restituzione in società del detenuto meritevole (prospect of release o possibility of review).

Prosegue la Corte: “La natura della violazione riscontrata ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione indica che lo Stato dovrebbe introdurre, preferibilmente per iniziativa legislativa, una riforma del regime dell’ergastolo che preveda la possibilità di un riesame di pena che consenta: alle autorità di determinare se, durante l’esecuzione, il detenuto si è evoluto così tanto e ha progredito sul sentiero dell’emendamento che nessuna ragione legittima di ordine penologico giustifichi ancora la sua detenzione, e, alla persona condannata, di godere del diritto di sapere cosa deve fare per essere considerato per il rilascio e quali sono le condizioni. La Corte ritiene, pur ammettendo che lo Stato possa richiedere la dimostrazione di “dissociazione” dall’ambiente della mafia, che questa rottura possa essere espressa diversamente che con la collaborazione con la giustizia e l’automatismo legislativo attualmente in vigore”.

La CEDU, dunque, esprime una piena consapevolezza del fenomeno mafioso in Italia e riafferma l’utilità di pratiche che tendano ad ottenere la collaborazione con la giustizia di persone condannate per reati di speciale allarme. Ribadisce la legittimità della pretesa da parte dello Stato italiano di ottenere la prova che il detenuto si sia dissociato dal crimine organizzato e tuttavia specifica che tale dimostrazione può essere fornita anche diversamente.

La pronuncia della CEDU è in linea con il precedente orientamento dell’Organo sovranazionale che già nel 2013, con la pronuncia ‘Vinter contro Regno Unito’ aveva per la prima volta affermato il ‘Diritto alla Speranza’ come valore fondamentale in difetto del quale la pena è contraria al senso di umanità.

In data 22.10.2019, la Consulta si è pronunciata sulla compatibilità con la Carta fondamentale delle preclusioni di cui agli art. 4 bis e 58 ter O.P., riguardo alla concessione dei permessi premio.

La Corte Costituzionale, ha dichiarato illegittima la norma di cui all’art. 4 bis O.P. laddove esclude la concessione di permessi a chi non collabora con la giustizia.

Premessa la persistenza di un giudizio di pericolosità qualificata delle persone condannate per i delitti indicati nella norma in discorso, la Corte ne sancisce una possibilità di superamento diversa dalla collaborazione con la giustizia, ferma la necessità di appurare la interruzione dei collegamenti con i sodalizi di origine e l’ impossibilità di ripristino di essi. In tal modo, contempera esigenze di prevenzione ed esigenze di rieducazione lasciando al detenuto richiedente la responsabilità del proprio percorso trattamentale.

La pronuncia del Giudice delle leggi dà seguito a numerosi arresti precedenti con i quali aveva già dal 1993 affermato il principio secondo cui “inibire l’accesso ai benefici penitenziari ai condannati per determinati gravi reati, i quali non collaborino con la giustizia, comporta una rilevante compressione della finalità rieducativa della pena” (sent. Corte Cost. 306/1993) e aveva manifestato preoccupazione per la tendenza alla configurazione di ‘tipi di autore’ irredimibili, per i quali la rieducazione non potrebbe essere neppure perseguita.

L’ordinanza con la quale i Supremi Giudici rimettono oggi alla Consulta le norme che precludono a determinati ‘tipi di autore’ l’accesso alla liberazione condizionale salvo che offrano agli inquirenti un’utile collaborazione, è la naturale evoluzione del percorso tracciato.

Assai importante appare la cristallizzazione di alcuni principi: la mancata collaborazione con la giustizia non può costituire indice legale della persistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata e, quindi, della mancanza del sicuro ravvedimento del condannato; non può sempre essere ricondotta ad una scelta libera e volontaria o, comunque, al fatto che siano mantenuti i legami con il gruppo criminale di appartenenza. Numerosi sono gli elementi che possono fare apprezzare l’acquisizione di progressi trattamentali del condannato all’ergastolo nel suo percorso di reinserimento sociale e la dissociazione dall’ambiente criminale. Il detenuto non può essere coartato dalla minaccia di non potere accedere alla speranza di essere reinserito in società attraverso l’obbligo di favorire l’attività investigativa dello Stato. La presunzione assoluta di permanenza dei legami criminali è incompatibile con una caratteristica propria della fase esecutiva, ossia col fatto che il trascorrere del tempo, durante la lunga detenzione, ben può determinare trasformazioni rilevanti sia della personalità del soggetto ristretto che del contesto esterno al carcere. Le presunzioni di permanenza dei legami criminali non possono, allora, che essere relative, dovendo sempre ammettersi la possibilità di una valutazione in concreto dell’incidenza avuta dal trattamento penitenziario sulla personalità del detenuto, proprio in conformità alle previsioni di cui all’art. 27, comma 3, cost.

In ragione di tali approdi giurisprudenziali, espressamente richiamati, secondo la Suprema Corte, sarebbero in conflitto con la Costituzione le norme indicate poiché violerebbero l’uguaglianza sostanziale di tutti i cittadini davanti alla legge; l’aspirazione alla riabilitazione per tutti i condannati; i vincoli convenzionali del nostro Paese.

La questione sollevata, tuttavia, afferisce esclusivamente ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste.

Restano fuori dalla censura di incostituzionalità i reati ex art. 416 bis c.p.

L’esclusione, in vero, appare incoerente con il percorso motivazionale e trova elemento giustificativo nelle premesse argomentative e, tuttavia, non convince.

Il ricorrente è detenuto in virtù di un cumulo di pene per i reati di 416 bis c.p; omicidio tentato; detenzione e porto illegale di armi, lesioni personali e rapine aggravate, omicidio aggravato dall’art. 7, L. 203 del 1991.

Le doglianze prospettate ai Supremi Giudici riguardano l’inammissibilità della richiesta di inesigibilità della collaborazione nonché l’inammissibilità della richiesta di liberazione condizionale poiché la pena in espiazione sarebbe relativa al reato di omicidio aggravato dall’art. 7 dl. 152 del 1991, delitto incluso nell’art. 4 bis O.P., mentre le pene ulteriori sarebbero già state interamente espiate.

Unicamente sul reato di omicidio aggravato, dunque, afferma di doversi soffermare la Corte di Cassazione.

È noto, tuttavia, il costante indirizzo giurisprudenziale dei Giudici di legittimità in materia di inesigibilità della collaborazione con la giustizia in ragione del quale l’impossibilità o inesigibilità deve essere dimostrata per tutti i reati posti in esecuzione ovvero per tutti i reati avvinti dal vincolo della continuazione seppur estromessi dal cumulo o, addirittura, non eseguibili perché, ad esempio, indultati (Cass., Sez. I, sento. 43391/2014).

Insomma, ove la Corte Costituzionale accogliesse la questione prospettata con riferimento ai delitti commessi appannaggio delle associazioni sodali, il ricorrente si troverebbe ancora davanti a una preclusione normativa derivante dalla presenza, nel proprio cumulo di pene, del reato ex art. 416 bis c.p. e di nuovo non vedrebbe valutata la sua richiesta nel merito. La questione, allora, rischia il baratro del’irrilevanza poiché l’accoglimento di essa non sarebbe idoneo a rimuovere gli ostacoli normativi che non consentono ai Giudici di Sorveglianza di entrare nel merito del percorso trattamentale compiuto dal ristretto al fine di verificare l’eventualità che lo stesso abbia maturato un sicuro ravvedimento nonostante non abbia prestato una collaborazione utile con la giustizia.

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