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Lidia Poët – la prima avvocata

Lidia Poët fu la prima donna iscritta all’albo degli Avvocati, lo fu per poco più di otto mesi, durante i quali affrontò una battaglia giudiziaria senza precedenti, la Cassazione di Torino, nell’aprile del 1884, stabilì che ‹‹la donna non può esercitare l’avvocatura››. Benché sia la storia di una battaglia persa, ha il fascino della lotta per i diritti che inevitabilmente travalicano l’individuo.

Ilaria Iannuzzi e Pasquale Tammaro si sono assunti il compito non solo di raccontare, ma di ricostruire con appassionata cura la storia che si leggeva tra le righe di una stringata massima della Cassazione e lo hanno fatto ripercorrendo il cammino della giovane protagonista dai banchi dell’Università sino a quando, il 20 novembre del 1920, ha finalmente ottenuto irrevocabilmente il titolo di avvocato.

La legge che abrogava l’autorizzazione maritale, restituiva alle donna piena capacità di agire e le ammetteva all’esercizio delle professioni ed impieghi pubblici fu approvata il 17 luglio 1919.

La scrupolosa ricerca restituisce un quadro vivo ed interessante come il dibattito che ha accompagnato la vicenda. Tra gli accesi sostenitori il marchese Francesco Flores D’Arcais di cui viene riportata testualmente una divertente lettera aperta diretta ad uno dei consiglieri dell’Ordine di Torino contrario all’ammissione di una donna al quale scriveva pubblicamente ‹‹voi e lo Spantigati avete torto marcio››; sorprendentemente tra le sortite più aspre quella di Matilde Serao alla quale rispose la femminista Emilia Mariani che incrociò la strada di Poët anche nella battaglia a favore del voto alle donne.

In appendice è pubblicata la tesi di Laurea discussa nel 1881 proprio dal titolo “Studio sulla condizione della donna rispetto al diritto costituzionale ed al diritto amministrativo nelle elezioni”, a dimostrazione di una sensibilità pionieristica su diversi fronti. Anche gli atti originali del processo sono riportati con completezza e sono una vera miniera per appassionati di sottili questioni processuali o di linguistica giudiziaria.

È significativo leggere l’arringa del Procuratore generale del Re, V. Calenda di Tavani, che esordiva: ‹‹semmai vi fu causa meritevole di attrarre non che la nostra, la universale simpatia, è certo quella che oggi al vostro esame, o Eccellenze, raccomanda la signorina Lidia Poët: e se il dubbio vi rendeste perplessi circa la soluzione del quesito, che ebbe la virtù di agitare per non breve ora giuristi, Accademie, Consigli Forensi, a farvi inchinevoli alla causa delle Donne avvocate; basterebbe sol esso il fatto di venirne a Voi oratrice una gentile giovinetta la quale, vinti i naturali abiti muliebri, costumanza inveterate, sociali pregiudizi, stette lunghi anni sui banchi delle scuole, fornì il corso universitario, meritò il lauro dottorale, compiè con lode la pratica professionale, e si vide dal tempio dei Temi respinta, quando reputavasi nel diritto di cogliere il frutto di tanto lavoro, di tanta costanza! ›› ma concludeva:‹‹ fino a quando l’organica umana struttura sarà qual essa fu mai sempre e le idee di pudore e di morale, come finora furono intese, reggeranno il mondo, non ci sarà chi sa senno dica che la milizia togata sia uffizio da donna; o dovrà dirsi che tale pure sia la milizia armata. Auguro all’Italia che non debba a sentire mai il bisogno né delle donne soldato, né delle donne avvocate. ››

La voce della protagonista si sente distintamente nella intervista che rese al Corriere della Sera poco dopo la sentenza della Corte di appello, ma il suo ritratto si delinea pagina dopo pagina attraverso un racconto corale.

La storia della prima donna che, osando sfidare le convenzioni sociali, ha conquistato per prima il titolo di avvocata meritava di essere riscoperta per restituire alla caparbia Poët il posto che merita nel lungo percorso delle battaglie per i diritti.

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