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L’ostracismo nell’era digitale. Il caso Trump, la cacciata dai social media ed il diritto positivo

 

 

Sommario: 1. More speech, not less. – 2. Un oceano ci separa. – 3. L’incidenza dei social nella quotidianità. – 4. Libera manifestazione del proprio pensiero. – 5. L’ipotesi dell’hatespeech. – 6. Contenuto e limiti del potere censorio dei social. – 7. Sulla natura giuridica dei social network. – 8. Nuove forme di censura nell’era digitale. – 9. Cenni sulla responsabilità dell’internet service provider.

 

Sono ben accolte (e doverose) tutte le moderne tecniche di blocco immediato dei contenuti violenti e discriminatori veicolati per mezzo dei social network, ma le stesse non devono tradursi in sentenze inappellabili che dispongono censure nei confronti dei protagonisti del dibattito politico anche quando dai toni aspri ed accesi.

All the modern techniques of immediate blocking of violent and discriminatory contents conveyed through social networks are well received (and necessary), but they must not result in final judgments that have censorship against the protagonists of the political debate even when with harsh tones and turned on.

 

  1. More speech, notless

Il recente passaggio di consegne alla Casa Bianca oltre al suo, naturale ed ovvio, carico politico a livello mondiale si sta caratterizzando sin dai primi giorni di questo nuovo anno per i risvolti giuridici connessi alla “cacciata” del Presidente uscente Trump dai social media.

L’aver messo a tacere ([1]) il Presidente degli USA, sì perdente contro il suo rivale Biden, ma comunque ancora in carica, pone il delicato tema della censura nell’era del digitale quando, fino a ieri, era comune opinione accordare alla rete internet la qualifica di spazio libero ([2]).

Censura che, si noti bene, non è scure a danno di una minoranza politica ma colpisce chi occupa la poltrona dello studio ovale rappresentando così un fatto senza precedenti che ha spinto ad intervenire i maggiori esponenti politici mondiali ([3]) e che induce a riflettere sullo stesso concetto di sovranità nazionale.

Di là dai risvolti politici, dall’adesione a questa o a quella corrente di pensiero, nel traghettare gli USA da un Presidente ad un altro occorreva certamente, e comunque, pace sociale, quella stessa pace che l’assalto a Capitol Hill, con la sua espressione di violenza fisica, e con i morti provocati, ha definitivamente compromesso facendo apparire al mondo intero un’America vulnerabile ai moti di piazza.

Il conseguente, fermo ed immediato, blocco dei social di Trump si compendia nella frase “Troppo grandi i rischi se permettiamo al Presidente di continuare a usare il nostro servizio”: quasi un epitaffio quello di Mark Zuckerberg ([4]).

In realtà il rapporto tra Trump e social media è stato molto stretto nel corso di questi ultimi anni. Quando sembrava perdente nel confronto con Hillary Clinton sono stati proprio i suoi interventi sulle piattaforme digitali (capaci di arrivare al nocciolo della questione quanto agli interessi concreti degli elettori ([5])) a decretarne una vittoria agli occhi dei più inaspettata.

Poi nel corso del suo mandato politico, in più di una occasione, il Tycoon ha mostrato segni di nervosismo contro chi lo attaccava sui social cercando, lui per primo, nuove forme di censura. Quella stessa censura che, oggi, contraddistingue la fine del suo mandato politico.

Ricordiamo a tal fine il caso Knight First Amendment Institute, et al. v. Donald J. Trump, et al. (No. 18-1691) che ha portato ad intervenire la United States Court of Appeals For the Second Circuit (Decision Date: July 9, 2019).

La Corte muove dalla premessa, pacifica e non contestata, che i tweet iniziali del Presidente (ovvero quelli che produce lui stesso) sono discorsi del Governo.

Non altrettanto è a dirsi quando un utente di Twitter pubblica una sua risposta a uno dei tweet del Presidente (in tal caso il messaggio viene identificato come proveniente da quell’utente e non dal Presidente).

La questione si pone quanto all’intervento del Governo che tentava di bloccare quegli utenti che esprimevano punti di vista sgraditi al Presidente.

La Corte, in estrema sintesi, ricordando al Governo (e a tutte le parti in causa) la necessità di una “great caution” nel mettere a tacere l’espressione di punti di vista sfavorevoli, conclude nel senso che se il Primo Emendamento – così caro agli Americani – significa qualcosa, allora significa che la migliore risposta ai discorsi sconsiderati su questioni di interesse pubblico è più discorso, non meno ([6]).

E proprio la conclusione “more speech, not less” può essere la chiave di lettura per interpretare la rilevanza giuridica di quanto accaduto durante gli ultimi giorni della presidenza Trump.

  

  1. Un oceano ci separa

La vicenda Trump, come appare con fin troppa evidenza, ha valenza mondiale e pone interrogativi in ogni Stato di diritto le cui risposte, necessariamente, non possono essere univoche in quanto se da un lato internet è naturalmente capace di superare le frontiere nazionali, dall’altro la cultura e la sensibilità giuridica (nonché le spinte politiche ed economiche) mutano notevolmente da una nazione ad un’altra.

Soffermandoci ora esclusivamente sul rapporto tra USA ed EU non può mancarsi di rilevare il diverso approccio dei rispettivi ordinamenti verso la rete internet:da un lato, si percorre la strada della massima libertà, dall’altro si cerca di regolamentare un sistema sicuramente molto complesso.

Andare in fondo alla questione e capire il perché di tali scelte, tra loro così profondamente differenti, significa certamente toccare le corde della politica economica di tali ordinamenti sol che si consideri come i colossi dei social, una vera moderna oligarchia mondiale, sono stati tutti semplici start-up dellaSilicon Valley ed oggi, con la loro capacità di influenzare miliardi di persone,investono ed occupano il vecchio continente alla stregua di invasori dell’era digitale.

 

  1. L’incidenza dei social nella quotidianità

Facendosi beffa dei confini nazionali i social pregnano di sé, senza freno alcuno, la quotidianità dei loro utenti sia quanto alla vita affettiva e relazionale, che quanto alla sfera lavorativa-patrimoniale.

La casistica giurisprudenziale, e i resoconti della cronaca, ci hanno ormai abituati a gravi vicende di illeciti commessi con l’uso della rete, ed in particolare dei social.

Si pensi alla diffamazione fino ad arrivare alla pedopornografia, alle violazioni del diritto di autore, agli atti di concorrenza sleale ([7]), ai rapporti di lavoro in cui la fiducia tra lavoratore e datore è spesso messa in crisi dall’abuso dei social durante l’orario di lavoro ([8]).

Ma non solo. Si istruiscono quotidianamente procedimenti di separazione e divorzio chiedendo al Giudice di valutare la condotta tenuta dal coniuge sui social e si deve fare i conti con nuove questioni di responsabilità civile, penale e disciplinare oltre che con nuovi temi di natura più propriamente processuale ([9]).

Si è così ritenuto corretto il provvedimento disciplinare irrogato ad un appartenente alla Polizia di Stato colpevole di <<avere dato la propria “amicizia” sul socialfacebooka tre noti pregiudicati>> ciò avendo comportato nocumento all’immagine e al prestigio del Corpo di appartenenza (T.a.r. Lazio, Latina, sez. I, 10 giugno 2020, n. 203) ([10]).

Le Sezioni Unite della Suprema Corte (n. 18987/2017), in una vicenda nella quale un Magistrato, sul proprio profilo personale di facebook, aveva offeso la reputazione di un sindaco, hanno affermato in punto di diritto che <<in tema di diffamazione ciò che rileva è l’uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere>> e, ancora, che il bene protetto dalla previsione di cui all’art. 4, comma 1, lett. d), D. Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 è costituito – come è fatto palese dalla stessa formulazione della disposizione – dalla immagine del Magistrato, risultando quindi irrilevante, a tali fini, il fatto che il destinatario di parole oggettivamente diffamatorie (postate sul social network) possa non averle percepite in tal senso ([11]).

Sia pur con una pronuncia resa in via cautelare si è ritenuto, ancora, in punto di diritto che <<l’aggiunta del commento “mi piace” ad una notizia pubblicata sul sito facebook che può comportare un danno all’immagine dell’amministrazione, assume rilevanza disciplinare>> (T.a.r. Milano, sez. III, ord. 3 marzo 2016, n. 246).

Affronta il tema del risarcimento dei danni da provvedimento illegittimo, in una vicenda in cui il provvedimento stesso era stato preannunciato da untweetproveniente da un Ministro, il T.a.r. Liguria,sez. I, 3 gennaio 2019, n. 11 (v. anche T.a.r. Liguria, sez. I, 19 maggio 2014, n. 787; C. Stato, sez. VI, 12 febbraio 2015, n. 769) ([12]).

Recente è infine la <<Condanna Facebook Inc., Facebook Ireland Ltd. e Facebook Italy s.r.l. a pagare, a titolo di risarcimento del danno, in solido tra loro, a Business Competence s.r.l. la somma di € 3.831.000, con interessi legali dal 17.9.2019 (data della sentenza impugnata) al saldo>> adottata dalla Corte d’Appello di Milano, Sezione specializzata in materia di imprese, in data 5 gennaio 2021, n. 9 ed avente ad oggetto profili inerenti alla violazione del diritto di autore ([13]).

 

  1. Libera manifestazione del proprio pensiero

Il tema in esame, ricondotto nell’alveo della rilevanza giuridica dei social sia quanto al loro utilizzo sia quanto alla fase patologica della rottura del rapporto tra utente e gestore del servizio, impone alcune riflessioni sull’esercizio del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero.

La vicenda Trump impone, più in particolare, di riflettere sul diritto di critica politica ([14]).

Approcciandoci alla questione dal punto di vista del diritto nazionale l’art. 21 Cost. costituisce, oggi, un pilastro dello Stato democratico e della effettiva possibilità per il popolo di esercitare la propria sovranità essendo stato correttamente informato, ed avendo potuto conoscere l’opinione degli esperti in relazione ad ogni settore di rilevante interesse sociale, o pubblico ([15]).

Presupposti per il legittimo esercizio del diritto di cronaca (a partire dalla notissima fissazione del cd. “decalogo del giornalista” da parte della Suprema Corte nella pronuncia n. 5259 del 1984) sono:

  1. a) l’interesse al racconto, ravvisabile anche quando non si tratti di interesse della generalità dei cittadini, ma di quello generale della categoria di soggetti ai quali si indirizza la pubblicazione di stampa;
  2. b) la correttezza formale e sostanziale dell’esposizione dei fatti, nel che propriamente si sostanzia la continenza, nel senso che l’informazione non deve trasmodare in argumenta ad hominem,né assumere contenuto lesivo dell’immagine e del decoro;
  3. c) la corrispondenza tra la narrazione ed i fatti realmente accaduti, nel senso che deve essere assicurata l’oggettiva verità del racconto, la quale tollera solo inesattezze irrilevanti e riferite a particolari di scarso rilievo e privi di valore informativo.

Soffermandoci sui tratti differenziali tra cronaca e critica è appena il caso di precisare che l’una è narrazione obbiettiva dei fatti accaduti, l’altra è attività di tenore valutativo, diretta ad esprimere giudizi, o a manifestare opinioni, sui fatti accaduti, o sull’operato delle persone coinvolte (Trib. Perugia, sez. II, 14 aprile 2020, n. 422).

Il diritto di critica si differenzia dunque da quello di cronaca essenzialmente in quanto il primo non si concretizza, come l’altro, nella narrazione di fatti, bensì nell’espressione di un giudizio o, più genericamente, di un’opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata su un’interpretazione, necessariamente soggettiva, di fatti e di comportamenti (Cass. pen., sez. V, 26 febbraio 2016, n. 26745; Trib. Potenza, 20 maggio 2020).

Nondimeno, anche la critica non è affrancata dall’osservanza dei tre canoni sopra indicati.

Semmai non può esigersi che essa sia rigorosamente obbiettiva ed asettica, ma v’è un limite fondamentale ed immanente, tanto nell’esercizio del diritto di cronaca quanto nell’esercizio del diritto di critica, che è quello del rispetto della dignità altrui, non potendo, né l’uno né l’altro, costituire occasione per gratuiti attacchi alla persona ed arbitrarie aggressioni al suo patrimonio morale (Cass. civ., sez. V, 28 ottobre 2010, n. 4938).

Il rispetto della verità del fatto assume, poi, in riferimento all’esercizio del diritto di critica politica, un rilievo più limitato e necessariamente affievolito rispetto al diritto di cronaca (Cass. pen., sez. V, 26 settembre 2016, n. 25518; Trib. Locri, 2 novembre 2020) ([16]).

Ciò che determina l’abuso del diritto di critica è solo il palese travalicamento dei limiti della civile convivenza, mediante espressioni gratuite, non pertinenti ai temi in discussione, e quindi senza alcuna finalità di pubblico interesse, con l’uso di argomenti che mirano soltanto ad insultare o ad evocare una pretesa indegnità personale ([17]).

La valutazione della continenza, quando si tratti del diritto di critica, non può essere condotta sulla base di criteri solo formali, dovendo lasciare spazio all’interpretazione soggettiva dei fatti esposti (Trib. Roma, 18 agosto 2020) ([18]).

Orbene, tutto ciò detto, resta ineludibile che i social network non hanno quella funzione informativa che è tipica dei giornali o dei telegiornali, luogo per eccellenza di esercizio del diritto di cronaca e di critica ([19]); ma è anche vero che tramite i social network è possibile comunicare con un numero potenzialmente elevatissimo di persone.

In questo senso, anche ad ammettere che il diritto di cronaca (e di critica) sia qualcosa di indipendente dall’attività giornalistica, come tale spettante a chiunque, i limiti al diritto di cronaca (e di critica) elaborati dalla giurisprudenza con riferimento all’attività della stampa possono essere estesi a tutti coloro che utilizzano un mezzo di comunicazione di massa e quindi anche agli utenti dei social (Trib. Perugia, sez. II, 10 giugno 2014) ([20]).

 

  1. L’ipotesi dell’hatespeech

L’incitamento all’odio (hatespeech) è un fenomeno connotato da condotte intenzionalmente dirette a spingere all’intolleranza verso singoli, persone o gruppi (spesso vulnerabili alle discriminazioni), con modalità tali da propagarsi in modo efficace (Trib. Torino, sez. IV, 21 aprile 2020) ([21]).

Mentre la Convenzione EDU non offre un’espressa definizione di incitamento all’odio, la Raccomandazione n. (97)20 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, adottata il 3 ottobre 1997, definisce l’hatespeech come riferito a <<tutte le forme di espressione che diffondono, incitano, promuovono o giustificano l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo o altre forme di odio basate sull’intolleranza>>.

Partendo da tale dato enunciativo, la giurisprudenza della Corte EDU si è espressa nel senso che i pregiudizi rivolti alle persone ingiuriando, ridicolizzando o diffamando talune frange della popolazione e isolandone gruppi specifici – soprattutto se deboli – o incitando alla discriminazione, sono sufficienti perchè le Autorità interne privilegino la lotta contro il discorso razzista, a fronte di una libertà di espressione irresponsabilmente esercitata e che provoca offesa alla dignità e alla sicurezza di queste parti o gruppi della popolazione (Corte Edu, Feret c. Belgio, ric. n. 15615/07, 16 luglio 2009, p. 73).

In secondo luogo, l’identificazione in concreto dell’incitamento alla violenza, sempre secondo la giurisprudenza della Corte EDU, passa attraverso il riscontro di diversi indicatori, tra i quali assume particolare rilevanza il modo in cui la comunicazione è effettuata, il linguaggio usato nell’espressione aggressiva, il contesto in cui è inserita, il numero delle persone cui è rivolta l’informazione, la posizione e la qualità ricoperta dall’autore della dichiarazione e la posizione di debolezza o meno del destinatario della stessa.

Seguendo questo schema la medesima Corte ha statuito che espressioni concrete di incitamento all’odio, offensive per individui e particolari gruppi sociali, non ricadono nello scopo dell’art. 10 della Convenzione e, con riferimento agli standard del secondo paragrafo di tale articolo, ha evidenziato come <<la tolleranza e il rispetto per la uguale dignità di tutti gli esseri umani costituisce il fondamento di una società democratica e pluralista. In considerazione di ciò, può essere necessario come questione di principio in determinate società democratiche sanzionare o anche precludere ogni forma di espressione che diffonda, istighi, promuova o giustifichi il livore basato sull’intolleranza (inclusa quella religiosa)>> (Corte Edu, Gunduz c. Turchia, ric. n. 35071/97, 4 dicembre 2003, p.p. 40-41).

Nel già citato caso Feret, relativo alla condanna penale di un politico per aver tenuto discorsi attinenti ai fenomeni migratori istiganti all’odio verso le comunità musulmane, la Corte ha ribadito che è cruciale, per i politici che si esprimono in pubblico, evitare commenti che possano favorire l’intolleranza, e ha concluso che, nel caso concreto, a sostegno dell’interferenza con la libertà di espressione era riconoscibile un bisogno sociale impellente di proteggere l’ordine pubblico e i diritti della comunità degli immigrati, per evitare disordini e sfiducia verso le istituzioni.

Sempre, in applicazione dell’art. 10, la Corte ha altresì dichiarato che, in generale, le eccezioni alla libertà di espressione devono essere interpretate in senso restrittivo, e la necessità di ogni restrizione dev’essere adeguatamente motivata, come ribadito in molti casi coinvolgenti la Turchia ([22]).

In estrema sintesi, può affermarsi che la Corte EDU esclude il bisogno di restringere la libertà di espressione in una società democratica quando si tratti della promozione di valori coessenziali alla tutela dei diritti dell’uomo, soprattutto in presenza della loro minaccia o restrizione, ritenendo, invece, legittima e necessaria l’ingerenza statuale punitiva in presenza di manifestazioni d’odio funzionali proprio alla compressione dei principi di uguaglianza e di libertà ([23]).

  

  1. Contenuto e limiti del potere censorio dei social

La vicenda Trump non è la prima ad interessare gli esperti del settore quanto ai provvedimenti per così dire censori dei social registrandosi, già solo nel nostro Paese, diversi interventi della Magistratura ([24]).

Di pochi anni oro sono è la decisione, oltremodo nota alle cronache, del Tribunale capitolino (ord. 12 dicembre 2019) all’indomani dell’oscuramento del profilo Facebook di Casapound ([25]).

Decisione nella quale il Giudicante inquadra il rapporto tra le parti (Facebook – CasaPound) oltre i limiti contrattualmente assunti per rivestirlo di profili pubblicistici avuto riguardo, in particolare, al pluralismo dei partiti quale valore fondamentale della nostra democrazia.

Secondo il Tribunale di Roma è <<evidente il rilievo preminente assunto dal servizio di Facebook (o di altri social network ad esso collegati) con riferimento all’attuazione di principi cardine essenziali dell’ordinamento come quello del pluralismo dei partiti politici (49 Cost.), al punto che il soggetto che non è presente su Facebook è di fatto escluso (o fortemente limitato) dal dibattito politico italiano, come testimoniato dal fatto che la quasi totalità degli esponenti politici italiani quotidianamente affida alla propria pagina Facebook i messaggi politici e la diffusione delle idee del proprio movimento>>.

Il rapporto tra Facebook e l’utente che intenda registrarsi al servizio (o l’utente già abilitato al servizio) – alla luce della prefata decisione del Tribunale di Roma – non è assimilabile al rapporto tra due soggetti privati <<qualsiasi>> in quanto una delle parti, e cioè Facebook, ricopre una <<speciale posizione>>.

Quest’ultima comporta che Facebook,nella contrattazione con gli utenti, debba strettamente attenersi al <<rispetto dei principi costituzionali e ordinamentali>> finché non si dimostri (in fase a cognizione piena) la loro violazione da parte dell’utente.

In punto di diritto si afferma quindi come: <<il rispetto dei principi costituzionali e ordinamentali costituisce per il soggetto Facebook ad un tempo condizione e limite nel rapporto con gli utenti che chiedano l’accesso al proprio servizio>> ([26]).

Non si sono fatte attendere le critiche a questo arresto giurisprudenziale focalizzate sia sull’assenza di ogni qualificazione giuridica della specialità che caratterizzerebbe Facebook (quale ISP),sia sull’aver impropriamente richiamato il pluralismo politico (quale valore fondante la vita democratica del Paese ex art. 49 Cost.) in favore di un soggetto che partito non è.

Di poco successivo è l’intervento del Trib. Trieste, ord. 27 novembre 2020 (sempre in tema di disattivazione di pagine e profili) in cui si precisa, tra l’altro, che l’utente tramite i servizi di Facebook dà <<sfogo a diritti primari, quali l’identità personale, la libertà di espressione e di pensiero, quella di associazione, ed altri. Questi diritti in larga misura trascendono la specifica dinamica contrattuale, integrano – affiancandosi ad esso – l’oggetto dell’ordinaria prestazione contrattuale, intesa quale messa a disposizione del servizio offerto agli utenti in corrispettivo della cessione di dati personali>>.

In conclusione, secondo il Giudice Triestino:<<si impone l’analisi del comportamento complessivo sfociato nel recesso da parte di Facebook, al fine di verificare in concreto se l’agire colposo o doloso sia stato illecito, e poterne quindi rimuoverne gli effetti in vista dell’utile esperimento dell’azione di merito>> ([27]).

Sul punto nodale della natura giuridica pubblica o privata di Facebook si è pronunciato anche Tribunale di Siena (ord. 19 gennaio 2020) che è giunto a soluzioni opposte rispetto a quelle del Tribunale di Roma trattando tale questione in termini piuttosto veloci.

Se è certa, e innegabile, la rilevanza sociale di Facebook, rectius dei suoi servizi, tuttavia ciò non vale ad escludere la natura di soggetto privato del colosso dei social.

Riconducendo quindi la questione nell’ambito del diritto dei contratti, a fronte di un inadempimento dell’utente, il gestore ben può recedere secondo le norme del contratto che lega tra loro le parti.
Né vi è violazione dei diritti costituzionalmente garantiti in quanto l’utente – precisa ancora il Tribunale toscano – ben può liberamente esprimersi su altre piattaforme social.

Altro provvedimento in tema è quello reso (ancora una volta) dal Tribunale di Roma (si tratta dell’ordinanza datata 23 febbraio 2020).

La materia oggetto dell’intervento del Giudice capitolino è, in quest’ultimo caso, quella del diritto alla libera manifestazione del pensiero e dei suoi limiti, in particolare in relazione a taluni messaggi di incitamento all’odio e alla discriminazione.

Richiamate le fonti normative (sia nazionali che sovranazionali) si precisa, in punto di diritto, come tra i limiti alla libertà di manifestazione del pensiero, nel bilanciamento con altri diritti fondamentali della persona, assuma un particolare rilievo il rispetto della dignità umana ed il divieto di ogni discriminazione, a garanzia dei diritti inviolabili spettanti ad ogni persona.

La libertà di manifestazione del pensiero non include, pertanto, discorsi ostili e discriminatori (vietati, a vari livelli, dall’ordinamento interno e sovranazionale) e lo stesso diritto sovranazionale impone di esercitare un controllo sia agli Stati che, entro certi limiti, ai social network (<<come Facebook, che ha sottoscritto l’apposito Codice di condotta>>).

Quanto alla natura giuridica di Facebook, secondo la prefata pronuncia del Tribunale di Roma, si tratta di un soggetto privato che, comunque, svolge <<un’attività di indubbio rilievo sociale>>; il rapporto tra le parti in causa è poi regolato, oltre che dalla legge, anche dalle condizioni contrattuali alle quali l’utente aderisce quando chiede di iscriversi al social network.

Una volta richiamate tali condizioni contrattuali (avuto particolare riguardo agli Standard della Comunità in ordine <<discorsi di incitazione all’odio>>) il Tribunale addiviene al merito della vicenda che può sintetizzarsi nella rimozione di alcuni profili riconducibili alle diverse articolazioni di Forza Nuova.

Tanto perché tale organizzazione è stata ritenuta responsabile di effettuare<<propaganda razzista, xenofoba e antisemita>>nonché di essere <<un movimento neofascista, richiamandosi nelle proprie manifestazioni a simboli del fascismo e ripudiando l’antifascismo, ed i cui aderenti si sarebbero resi responsabili di numerosi episodi di violenza e intolleranza (…)>> ([28]).

Facebook quindi ha ritenuto di non poter concedere il proprio servizio al fine di diffondere e propagandare le idee dell’organizzazione Forza Nuova in quanto in violazione degli standard della comunità.

Il Tribunale, da parte sua, ha giudicato legittima la disattivazione degli account in quanto illeciti da più punti di vista e precisamente:

– per violazione delle condizioni contrattuali,

– per violazione del sistema normativo nazionale e sovranazionale (e della relativa giurisprudenza) in merito alle propagande dell’odio e della discriminazione.

Né Facebook poteva fare diversamente in quanto, una volta venuto a conoscenza del carattere illecito dell’attività svolta per il tramite del suo servizio, aveva <<il dovere legale di rimuovere i contenuti>>.

 

  1. Sulla natura giuridica dei social network

Qualificare la natura giuridica dei social network è tema tanto complesso, quanto utile ai fini del nostro argomentare ([29]).

Occorre sul punto, in primis, non confondere tra servizio e gestore (o fornitore) del medesimo.

Il gestore (fornitore) è una società privata ed il suo servizio è <<prettamente privato>>(Trib. Siena, cit.) ma ogni big social ha un indubbio peso sociale a livello mondiale ([30]).

Va poi scartata la tesi di ricorrere agli ordinari strumenti di diritto in tema di associazione in quanto una struttura a base democratica non esiste: a ben vedere, infatti, l’utente non è un associato. Se l’adesione alle condizioni d’uso per l’iscrizione al social non si traduce in adesione ad una associazione allora la disattivazione del profilo, necessariamente, non è un provvedimento espulsivo (non essendoci un’associazione, né associati).

La disattivazione del profilo deve essere qualificata alla stregua di un recesso (Trib. Siena, cit.; Trib. Catanzaro, sez. X, 30 aprile 2012) con le ordinarie coordinate ermeneutiche in ordine all’operatività della doppia sottoscrizione della relativa clausola (art. 1341 c.c.)oltre, eventualmente, alla operatività delle norme del Codice del consumo (d.lgs. n. 206/2005) ([31]).

Orbene, tutto ciò premesso rimane insuperabile il dato normativo, oggi le disposizioni ex Dir. 2019/770/UE ([32]) in conseguenza delle quali può dirsi che tra gestore e singolo utente sia concluso un contratto di fornitura (di un servizio digitale).

L’art. 3, paragrafo 1, alinea 2, dispone: <<La presente direttiva si applica altresì nel caso in cui l’operatore economico fornisce o si impegna a fornire contenuto digitale o un servizio digitale al consumatore e il consumatore fornisce o si impegna a fornire dati personali all’operatore economico, fatto salvo il caso in cui i dati personali forniti dal consumatore siano trattati esclusivamente dall’operatore economico ai fini della fornitura del contenuto digitale o del servizio digitale a norma della presente direttiva o per consentire l’assolvimento degli obblighi di legge cui è soggetto l’operatore economico e quest’ultimo non tratti tali dati per scopi diversi da quelli previsti>>.

Vi è dunque un contratto liberamente concluso tra le parti e quando guardiamo al fornitore del servizio facciamo riferimento ad un soggetto privato, dotato di veste giuridica imprenditoriale che ha, così come qualunque altro soggetto operativo in qualsiasi settore economico:

– l’obbligo di conformarsi ai principi e alle regole del diritto (privato) dei contratti ed anche alle normative di matrice pubblicistica (in primis i principi costituzionali);

– l’obbligo di rimozione (blocco) di tutto ciò che appare ictu oculi illecito per violazione di norma penale ([33]).

  

  1. Nuove forme di censura nell’era digitale

La questione Trump si pone in tutta la sua problematicità in termini non già di rispetto di norme contrattuali, e di qualificazione giuridica dell’atto di disattivazione di un profilo social e dei conseguenti strumenti di tutela (cautelare e di merito), bensì in termini molto più ampi che interessano le stesse fondamenta delle moderne democrazie.

Nessuno può limitarsi ad essere mero spettatore degli eventi dovendosi ognuno interrogare sull’ammissibilità, o meno di interventi censori -posti in essere da una oligarchia di soggetti privati che opera con fine di lucro- sul dibattito politico e sul merito delle idee politiche.

Si può veramente zittire, a livello mondiale, un Presidente in carica che voglia contestare il risultato elettorale che lo vede sconfitto? ([34])

Il caso Trump si regge, dal punto di vista formale, sull’applicazione della sezione 230 Communications DecencyAct ([35]) degli USA che, in estrema sintesi,dispone l’esenzione da responsabilità delle piattaforme quanto ai contenuti ospitati, e caricati da terzi, e quanto alle loro politiche di moderazione anche quando, in buona fede, incidano sui diritti protetti dalla Costituzione (tra cui rientra anche la libertà d’espressione).

Se quindi le piattaforme che hanno bloccato Trump con l’accusa di incitare alla violenza hanno agito conformemente alla legislazione USA ([36]) la questione che comunque ne consegue (come detto, consistente nell’ammettere o meno il potere di pochi di oscurare, a livello mondiale, le opinioni politiche di chicchessia) deve essere inquadrata nei corretti binari sia dal punto di vista soggettivo, che dal punto di vista oggettivo.

Nel senso che, quanto al profilo soggettivo, resta ferma, pur in un confronto sempre serrato, il riconoscimento della natura privata dei gestori dei social. Questi dunque devono essere chiamati a spartirsi un unico mercato mondiale (di fatto un mercato dei dibattiti e degli scambi di opinioni) in un regime di ordinaria concorrenzialità e non, come è adesso, di oligarchia.

Solo una pluralità di piattaforme social può mettere concretamente al riparo dalle conseguenze di scelte (di censura) così dirompenti come quella qui in esame.

Ma non è tutto. I profili degli utenti che occupano ruoli politico-istituzionali devono essere trattati dal gestore del servizio con regole ad hoc tra cui, in primis, il divieto (contrattualmente, meglio ancora, se normativamente) imposto di divieto di ogni intervento di censura (con conseguente irresponsabilità del gestore quanto ai contenuti immessi nel sistema) ([37]).

Naturalmente ad ogni esponente politico, dì la dal condividersi o meno le sue affermazioni, deve darsi la possibilità di esprimersi liberamente e solo l’intervento (secondo il dettato della normativa pubblicistica) dell’autorità pubblica (indipendente) può disporre diversamente ed autorizzare la conseguente chiusura dei profili social.

Quanto al profilo oggettivo della questione, la valutazione del contenuto delle opinioni espresse sui social non può essere rimessa ad una ibrida forma di giustizia dei privati organizzata secondo i moduli dei moderni algoritmi ([38]).

Il ricorso agli algoritmi informatici per l’assunzione di decisioni che riguardano la sfera pubblica e privata si fonda, come noto, su paventati guadagni in termini di efficienza e neutralità.

In molti campi gli algoritmi promettono di diventare lo strumento attraverso il quale correggere le storture e le imperfezioni che caratterizzano tipicamente i processi cognitivi e le scelte compiute dagli esseri umani; in tale contesto, le decisioni prese dall’algoritmo assumono un’aura di neutralità, frutto di asettici calcoli razionali basati su dati.

Tuttavia, non ha tardato ad emergere una lettura critica del fenomeno, in quanto l’impiego di tali strumenti comporta, in realtà, una serie di scelte tutt’altro che neutre: l’adozione di modelli predittivi e di criteri in base ai quali i dati sono raccolti, selezionati, sistematizzati, ordinati e messi insieme, la loro interpretazione e la conseguente formulazione di giudizi sono tutte operazioni frutto di precise scelte e di valori, consapevoli o inconsapevoli.

Da ciò consegue che tali strumenti sono chiamati ad operare una serie di scelte che dipendono, in gran parte, dai criteri utilizzati e dai dati di riferimento utilizzati, in merito ai quali è apparso spesso difficile ottenere la necessaria trasparenza ([39]).

Si pone, inoltre, un problema di imputabilità. La Carta della Robotica, approvata nel febbraio del 2017 dal Parlamento Europeo, afferma sul punto che <<l’autonomia di un robot può essere definita come la capacità di prendere decisioni e metterle in atto nel mondo esterno, indipendentemente da un controllo o un’influenza esterna; (…) tale autonomia è di natura puramente tecnologica e il suo livello dipende dal grado di complessità con cui è stata progettata l’interazione di un robot con l’ambiente; (…) nell’ipotesi in cui un robot possa prendere decisioni autonome, le norme tradizionali non sono sufficienti per attivare la responsabilità per i danni causati da un robot, in quanto non consentirebbero di determinare qual è il soggetto cui incombe la responsabilità del risarcimento né di esigere da tale soggetto la riparazione dei danni causati>>.

Quindi, anche al fine di applicare le norme generali e tradizionali in tema di imputabilità e responsabilità, occorre garantire la riferibilità della decisione finale all’autorità ed all’organo competente (in base alla legge attributiva del potere) o comunque al soggetto utilizzatore.

Si intenda, sono ben accolte (e doverose) tutte le moderne tecniche di blocco dei contenuti violenti e discriminatori veicolati sui social, ma le stesse non devono tradursi, nei fatti, in sentenze che dispongono censure, peraltro di fatto inappellabili (e mettono al riparo il gestore da ogni responsabilità).Devono invece essere strumento di segnalazione all’Autorità pubblica per un pronto suo intervento ([40]).

 

  1. Cenni sulla responsabilità dell’internet service provider

In conclusione è utile ricordare, e richiamare sia pur brevemente, due importanti interventi della Magistratura (tra i numerosi resi in questi ultimi anni) sul ruolo e sulla condotta che l’ISP ([41])deve porre in essere a fronte dei contenuti illeciti delle informazioni presenti ([42]).

In particolare, la Corte di Giustizia dell’U.E., sez. III, 3 ottobre 2019, n. 18/2018 ha affermato che la direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’8 giugno 2000(cd. “direttiva sul commercio elettronico”), in particolare il suo art. 15, paragrafo 1, deve essere interpretata nel senso che essa non osta a che un Giudice di uno Stato membro possa:

– ordinare a un prestatore di servizi di hosting di rimuovere le informazioni da esso memorizzate e il cui contenuto sia identico a quello di un’informazione precedentemente dichiarata illecita o di bloccare l’accesso alle medesime, qualunque sia l’autore della richiesta di memorizzazione di siffatte informazioni;

– ordinare a un prestatore di servizi di hosting di rimuovere le informazioni da esso memorizzate e il cui contenuto sia equivalente a quello di un’informazione precedentemente dichiarata illecita o di bloccare l’accesso alle medesime, purché la sorveglianza e la ricerca delle informazioni oggetto di tale ingiunzione siano limitate a informazioni che veicolano un messaggio il cui contenuto rimane sostanzialmente invariato rispetto a quello che ha dato luogo all’accertamento d’illeceità e che contiene gli elementi specificati nell’ingiunzione e le differenze nella formulazione di tale contenuto equivalente rispetto a quella che caratterizza l’informazione precedentemente dichiarata illecita non siano tali da costringere il prestatore di servizi di hosting ad effettuare una valutazione autonoma di tale contenuto;

– ordinare a un prestatore di servizi di hosting di rimuovere le informazioni oggetto dell’ingiunzione o di bloccare l’accesso alle medesime a livello mondiale, nell’ambito del diritto internazionale pertinente ([43]).

Quanto al nostro Paese, sottolinea la Suprema Corte (Cass. civ., sez. I, 19 marzo 2019, n. 7708) ([44]) come per hosting provider attivo si intenda il prestatore dei servizi della società dell’informazione che svolga un’attività che esula da un servizio di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, e ponga in essere una condotta attiva, concorrendo con altri nella commissione dell’illecito, ragion per cui resta sottratto al regime generale di esenzione di cui all’art. 16d.lgs. n. 70 del 2003 (che dà Attuazione della direttiva 2000/31/CE)dovendo la sua responsabilità civile atteggiarsi secondo le regole comuni ([45]).

La responsabilità dell’hosting provider, prevista da tale norma, sussiste in capo al prestatore dei servizi che non abbia provveduto alla immediata rimozione dei contenuti illeciti, nonchè se abbia continuato a pubblicarli, pur quando ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni:

<<a) sia a conoscenza legale dell’illecito perpetrato dal destinatario del servizio, per averne avuto notizia dal titolare del diritto leso oppure aliunde;

  1. b) l’illiceità dell’altrui condotta sia ragionevolmente constatabile, onde egli sia in colpa grave per non averla positivamente riscontata, alla stregua del grado di diligenza che è ragionevole attendersi da un operatore professionale della rete in un determinato momento storico;
  2. c) abbia la possibilità di attivarsi utilmente, in quanto reso edotto in modo sufficientemente specifico dei contenuti illecitamente immessi da rimuovere>> (Cass. civ., n. 7708/2019 cit.) ([46]).

([1]) A bloccare / sospendere / disattivare gli account di Trump sono stati, nell’arco di un brevissimo lasso di tempo, Facebook, Instagram, Twitter e YouTube che hanno agito ritenendo pericolosi e violenti i messaggi del Tycoon.

([2]) Stefano Rodotà, anni or sono, ha proposto di inserire in Costituzione l’art. 21-bis che avrebbe dovuto disporre <<Tutti hanno eguale diritto di accedere alla rete Internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale>>. Proposta che, come noto, non ha visto la luce ma comunque ha contribuito alla <<Dichiarazione dei diritti in Internet>> (elaborata dalla Commissione per i diritti e i doveri relativi ad Internet a seguito della consultazione pubblica, delle audizioni svolte e della riunione della stessa Commissione del 14 luglio 2015) il cui art. 2 (rubricato <<Diritto di accesso>>) espressamente recita <<1. L’accesso ad Internet è diritto fondamentale della persona e condizione per il suo pieno sviluppo individuale e sociale. 2. Ogni persona ha eguale diritto di accedere a Internet in condizioni di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e aggiornate che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale. 3. Il diritto fondamentale di accesso a Internet deve essere assicurato nei suoi presupposti sostanziali e non solo come possibilità di collegamento alla Rete. 4. L’accesso comprende la libertà di scelta per quanto riguarda dispositivi, sistemi operativi e applicazioni anche distribuite. 5. Le Istituzioni pubbliche garantiscono i necessari interventi per il superamento di ogni forma di divario digitale tra cui quelli determinati dal genere, dalle condizioni economiche oltre che da situazioni di vulnerabilità personale e disabilità>>.

([3]) Per un approfondimento del dibattito politico si veda Trump, blocco sui social accende il dibattito. Francia contraria, Merkel: “Problematico”, in <https://tg24.sky.it/mondo/2021/01/11/trump-bloccato-twitter-reazioni>.

([4]) Intervenuto sulla questione il figlio del Presidente, Donald Trump jr, ha twittato:<<So the ayatollah, and numerous other dictatorial regimes can have Twitter accounts with no issuedespitethreatening genocide to entirecountries and killinghomosexuals etc… but The President of the UnitedStatesshould be permanentlysuspended. Mao would be proud>>.

([5]) I messaggi veicolati sui social (Facebook, Twitter, Instagram) si caratterizzano per la loro estrema sinteticità che li rende anche particolarmente idonei a colpire l’attenzione del lettore (confirmationbias).

([6] )Secondo la Corte: <<ItisclearthatifPresident Trump wereengaging in governmentspeechwhen he blocked the IndividualPlaintiffs, he wouldnothavebeenviolating the First Amendment.  Everyoneconcedesthat the President’sinitialtweets (meaningthosethat he produceshimself) are governmentspeech.  

Butthis case does not turn on the President’sinitialtweets; itturns on hissupervision of the interactive features of the Account.  The governmenthasconcededthat the Account “isgenerallyaccessible to the public at large withoutregard to politicalaffiliation or anyotherlimitingcriteria,” and the Presidenthasnotattempted to limit the Account’sinteractivefeature to hisownspeech.

Considering the interactivefeatures, the speech in questionisthat of multiple individuals, not just the President or that of the government.  When a Twitteruserposts a reply to one of the President’stweets, the messageisidentifiedascoming from thatuser, not from the President.  

Thereis no record evidence, and the governmentdoesnotargue, that the Presidenthasattempted to exerciseany control over the messages of others, except to the extent he hasblocked some personsexpressingviewpoints he findsdistasteful. The contents of retweets, replies, likes, and mentions are controlled by the userwhogeneratesthem and not by the President, except to the extent he attempts to do so by blocking.  

Accordingly, while the President’stweets can accurately be describedasgovernmentspeech, the retweets, replies, and likes of otherusers in response to histweets are notgovernmentspeech under anyformulation.  

The Supreme Court hasdescribed the governmentspeechdoctrineas “susceptible to dangerousmisuse.”  

Ithasurged “greatcaution” to prevent the government from “silenc[ing] or muffl[ing] the expression ofdisfavoredviewpoints” under the guise of the governmentspeechdoctrine. Id.  

Extension of the doctrine in the way urged by President Trump would produce preciselythisresult.

The irony in all of thisisthatwewriteat a time in the history of thisnationwhen the conduct of ourgovernment and itsofficialsissubject to wideopen, robustdebate.  Thisdebateencompasses an extraordinarilybroadrange of ideas and viewpoints and generates a level of passion and intensity the likes of whichhaverarelybeenseen.  

This debate, as uncomfortable and as unpleasant as it frequently may be, is nonetheless a good thing.  

In resolving this appeal, we remind the litigants and the public that if the First Amendmentmeansanything, itmeansthat the best response to disfavoredspeech on matters of public concernis more speech, notless>>.

([7]) Scandola, Marchi, piattaforme e motori di ricerca nell’era del capitalismo digitale, Nota a sent. Corte di Cassazione Federale (Bundesgerichtshof) 25 luglio 2019 (Germania); sent. Corte di Cassazione Federale (Bundesgerichtshof) 15 febbraio 2018 (Germania), in Foro it.,2020, IV, 226 ss.

([8]) De Petris,La tutela contro le discriminazioni dei lavoratori tramite piattaforma digitale (Discrimination within digital platforms: anti-discrimination protection for riders in law 128/19), intervento al Convegno “Le norme antidiscriminatorie del lavoro nell’Unione europea”, Università degli Studi del Sannio di Benevento, 3 settembre 2019, in dirittifondamentali.it, 2020, 1099- ss.

([9]) Alfano,Social network e pubblicità occulta. Riflessioni in tema di influencer marketing a margine dei primi interventi dell’Agcm, in Rivista di diritto dell’impresa, 2020, 129 ss.; Belvederi – Di Maio, Stalking e cyber crime tra nuove insidie dei social network e consenso della vittima, Nota a sent. Cass. pen. sez. V 6 novembre 2019 n. 45141, in Riv. pen., 2020, 735 ss.; Bonini,L’autoregolamentazione dei principali “Social Network”. Una prima ricognizione delle regole sui contenuti politici (The self-regulation of the main Social Networks. A first recognition of policies on political contents), in federalismi.it, 2020, 265 ss..

([10]) Per la rilevanza disciplinare della pubblicazione, da parte di un appartenente alla Polizia di Stato, su un social network di alcune foto ritraenti sé stesso in abbigliamenti “succinti” v. C. Stato, sez. III, 21 febbraio 2014, n. 848). Nel senso che l’amicizia su Facebook non può essere causa di incompatibilità (ex art. 51 c.p.c.) di un componente di una commissione di pubblico concorso v. T.a.r. Sardegna, sez. I, 3 maggio 2017, n. 281. Sulle opinioni dei sentori espresse a mezzo delle <<nuove forme di tecnologia comunicativa (siti web, blog, twitter, facebook, etc.)>> v. Corte cost., 17 dicembre 2013, n. 313.

([11]) In dottrina v. Nocera, Il magistrato al tempo dei social tra libertà di espressione e doveri di riserbo, correttezza, equilibrio ed imparzialità, in Corr. giuridico 12/2020, 1514 ss.; Stella, Le colonne d’ercole del diritto all’onore: rimozione globale vs. blocco geografico paneuropeo di post diffamatori su facebook, in Diritto di Internet, 2020, 677 ss.; Crescioli,Profili penali della creazione di un falso profilo facebooka scopo diffamatorio, in Diritto di Internet, 2020, 703 ss.

([12]) In dottrina v. Pellegatta, Responsabilità da comunicazioni politiche viatweet, in Contratto e impresa, 2019, 2, 423 ss.

([13]) Si segnala ancora: <<A seguito della segnalazione di due profili fake sulla piattaforma Facebook, denominati “Tar Campania e Tar Napoli” non autorizzati (e già rimossi), il Segretario Generale della Giustizia Amministrativa, Mario Torsello, ha invitato i Segretari Generali dei Tar a verificare eventuali altri profili su Facebook, riconducibili alla voce Tar/Tribunale amministrativo regionale e a segnalare qualsiasi anomalia, in quanto non esistono profili autorizzati riconducibili alla Giustizia amministrativa. Il Segretario Generale ha poi precisato che qualsiasi profilo che usi denominazioni riconducibili alle parole Tar (Tribunale amministrativo regionale) o Consiglio di Stato è un profilo “fake”, quindi non attendibile>> (Comunicati Stampa n. 598/2018 – CDS: Rimossi Due Profili Fake da Facebook – Giustizia Amministrativa Invita TAR a Segnalare Anomalie).

([14]) Bruno, Pluralismo dell’informazione politica sui media. Criticità ed esigenze di regolazione del web, in Diritto di Internet, 2021, 3 ss..

([15]) La disciplina contenuta nella legge sulla stampa (L. n. 47 del 1948) è applicabile anche in caso di articoli pubblicati su testate on-line, in quanto medesima è la provenienza e la finalità dell’informazione resa, cambiando unicamente il mezzo di diffusione (quotidiano on-line e non anche carta stampata), con l’ulteriore considerazione che in caso di diffusione di una notizia su una testata on-line la capacità divulgativa – e contestualmente anche la potenzialità lesiva – dell’articolo pubblicato sono maggiormente accresciute (Cass. pen., sez. V, 11 dicembre 2017 n. 13398).

([16]) In una vicenda di asserita diffamazione quanto ad a un post pubblicato su Facebook di critica ad un’attività gastronomica la Suprema Corte (sez. V penale, 19 novembre 2011, n. 3148) ha osservato che <<al fine di valutare la giustificazione di una dichiarazione contestata è sempre necessario distinguere tra dichiarazioni di fatto e giudizi di valore, perchè, se la materialità dei fatti può essere provata, l’esattezza dei secondi non sempre si presta ad essere dimostrata>> ritenendo, all’esito, che il fatto non costituisse reato.

([17]) Osserva Trib. Rimini, sez. unica, 29 ottobre 2019: <<Ancora, la giurisprudenza ha sottolineato che: “La sussistenza dell’esimente del diritto di critica presuppone, per sua stessa natura, la manifestazione di espressioni oggettivamente offensive della reputazione altrui, la cui offensività possa, tuttavia, trovare giustificazione nella sussistenza del diritto; l’esercizio di tale diritto consente l’utilizzo di espressioni forti e anche suggestive al fine di rendere efficace il discorso e richiamare l’attenzione di chi ascolta” (Cassazione civile sez. III – 27/05/2019, n. 14370). Secondo quanto affermato di recente dal Tribunale di Roma, “Il diritto di critica, quale declinazione della libertà di manifestazione del pensiero, è da ritenersi un ineludibile presidio democratico, garanzia della genuinità di ogni forma dibattito pubblico, non solo politico, ed a prescindere dagli spazi in cui viene in concreto esercitato; l’argomentazione critica, il dissenso, la confutazione, incontrano tuttavia dei limiti che in linea generale non consentono di giustificare atteggiamenti di eccessiva violenza verbale o di istigazione alla brutalità fisica, e più in particolare sono dettati dallo specifico contesto personale ed ambientale entro il quale la comunicazione avviene”(Tribunale – Roma, 09/08/2019, n. 16263).

Sempre secondo il Tribunale di Roma, “Il diritto di critica può essere esercitato utilizzando espressioni di qualsiasi tipo anche lesive della reputazione altrui, purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall’opinione o comportamento preso di mira e non si risolvano in un’aggressione gratuita e distruttiva dell’onore e della reputazione del soggetto interessato”. (Tribunale sez. XVII – Roma, 15/02/2019, n. 3512)>>.

([18]) È sicuramente da accogliersi, e tutelarsi, anche il diritto di critica giudiziaria. Deve invero essere riconosciuto nel modo più ampio possibile il diritto di critica dei provvedimenti giudiziari e dei comportamenti dei Magistrati  non solo perché  la cronaca e la critica possono essere tanto più larghe e penetranti, quanto più alta è la posizione dell’uomo pubblico oggetto di censura e più incisivi sono i provvedimenti che può adottare, ma anche perché la critica è l’unico reale ed efficace strumento di controllo democratico dell’esercizio di una rilevante attività istituzionale che viene esercitata in nome del popolo italiano da persone che, a garanzia della fondamentale libertà della decisione, godono giustamente di ampia autonomia e indipendenza (Cass. pen., sez. V, 9 maggio 2019, n. 19960; v. anche Trib. Milano, sez. I, 27 gennaio 2021, n. 539).

([19]) Il tema delle sanzioni in conseguenza delle opinioni espresse è solitamente ricondotto nell’alveo della responsabilità del giornalista (v. da ultimo Cass. pen., sez. V, 22 settembre 2020, n. 26509). La sentenza della Grande Camera della Corte di Strasburgo del 17 dicembre 2004 Cumpn e Mazre contro Romania (concernente il ricorso di due giornalisti condannati per diffamazione per aver scritto un articolo in cui accusavano di corruzione un Giudice)  ha ritenuto che l’imposizione di una pena detentiva per un reato a mezzo stampa è compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti, garantita dall’art. 10 CEDU, soltanto in <<circostanze eccezionali>>, segnatamente quando altri diritti fondamentali siano stati seriamente offesi, come ad esempio nel caso di diffusione di discorsi d’odio (hate speech) o di istigazione alla violenza.

Detti principi sono stati poi costantemente ribaditi dalla Corte EDU nella propria successiva giurisprudenza, ivi comprese le sentenze 24 settembre 2013, Belpietro contro Italia e 7 marzo 2019, Sallusti contro Italia. In tali ultime pronunce, i Giudici di Strasburgo, da un lato, hanno ritenuto legittima l’affermazione di responsabilità penale in capo ai ricorrenti da parte dei Giudici italiani, stante la non veridicità e la gravità degli addebiti rivolti alle persone offese, in assenza dei doverosi controlli da parte del giornalista (ovvero del direttore responsabile), e tuttavia, dall’altro lato, hanno reputato sproporzionata l’inflizione nei loro confronti di una pena detentiva, ancorché condizionalmente sospesa ovvero cancellata da un provvedimento di grazia del Presidente della Repubblica.

([20]) Secondo un orientamento costante in giurisprudenza la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca facebook integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 comma terzo c.p. sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone e tuttavia non può dirsi posta in essere “col mezzo della stampa”, non essendo i social network destinati ad un’attività di informazione professionale diretta al pubblico (Cass. pen., sez. V, 1 febbraio 2017, n. 4873; Trib. Pen. Nola, 5 maggio 2020; Trib. Vicenza, 15 ottobre 2020, n. 1673). Si segnalano in dottrina: Origgi, La democrazia può sopravvivere a “Facebook”? Egualitarismo epistemico, vulnerabilità cognitiva e nuove tecnologie (Can Democracy survive Facebook? Epistemic Egualitarism, Cognitive Vulnerability, ICTs [Information and Communications Technology]), in Ragion pratica, 2018, 445 ss.; Monti,La disinformazione “online”, la crisi del rapporto pubblico-esperti e il rischio della privatizzazione della censura nelle azioni dell’Unione Europea (“Code of practice on disinformation”) (The spread of fake news on the Internet, the crisis of the public-experts relationship and the problem of the privatization of censorship in the actions of the European Union (“Code of practice on disinformation”)), in federalismi.it, 2020, 282 ss.; Monti,Le “Internet platforms”, il discorso pubblico e la democrazia(Internet Platforms, Public Discourse and Democracy), inQuaderni cost., 2019, 811 ss.; Monti,Privatizzazione della censura e Internet platforms: la libertà d espressione e i nuovi censori dell’agorà digitale (Private censorship and Internet platforms: the freedom of expression and new censors of the digital agora), in Rivista italiana di informatica e diritto, 2019, 35 ss.; Allegri, Alcune considerazioni sulla responsabilità degli intermediari digitali, e particolarmente dei “social network provider”, per i contenuti prodotti dagli utenti (Some Considerations about the Liabilities of Digital Intermediaries, and Particularly of Social Network Providers, for User-generated Contents), in Inf. e dir., 2017, 69 ss.; Colangelo, Piattaforme digitali e servizi della società dell’informazione: il caso “Airbnb Ireland”, Nota a sent. CGUE grande sez. 19 dicembre 2019 (causa c-390/18), in Dir. inf. e inform., 2020, 291 ss.; Meola, Tecnologie digitali e “neuro-marketing” elettorale. A proposito di una possibile regolamentazione delle nuove forme di propaganda politica, in Costituzionalismo.it, 2020, III, 88 ss.

([21]) Abbondante,Il ruolo dei social network nella lotta all'”hate speech”: un’analisi comparata fra l’esperienza statunitense e quella europea (The Role of Social Networks in the Fight Against Hate Speech: A Comparative Analysis between the USA and the European Experience), in Inf. e dir., 2017, 41 ss.

([22]) In tali casi la Corte ha escluso il bisogno di restringere la libertà di espressione in una società democratica e ha negato che articoli di stampa o creazioni di fantasia letteraria costituissero istigazione all’odio, anche quando vi fosse offerta un’immagine particolarmente negativa delle atrocità commesse dalle autorità interne, al punto da provocare un forte risentimento nel lettore, ma senza ricadere in istigazione all’odio (Corte Edu, Alinak c. Turchia, ric. n. 34520/97, 29 marzo 2005).

([23]) Cass. pen., sez. V, 30 luglio 2019, n. 34815; Corte Cost., ord, 26 giugno 2020, n. 132; App. Lecce, 13 ottobre 2020; Trib. Roma, ord., 23 febbraio 2020.

([24]) Il Tribunale di Pordenone, dec. 10 dicembre 2018, n. 2139, ha ritenuto che <<il prolungarsi del “congelamento” di una pagina Facebook determina l’assoluta perdita di interesse degli utenti nei confronti della stessa e, di conseguenza la vanificazione di tutto il tempo speso e l’attività svolta dal ricorrente per la sua implementazione, con l’irrimediabile perdita dei followeers finora acquisiti>>.

([25]) Mazzolai, La censura su piattaforme digitali private: il caso “Casa Pound c. Facebook”, Nota a sent. Trib. civ. Roma 11 dicembre 2019, in Dir. inf. e inform., 2020, 109 ss.; Vigorito,Piattaforme digitali e ‘politicalspeech’: dal caso Facebook-CasaPound alla vicenda Twitter-Trump, in giustiziacivile.com, 2020, 1 ss.; Quarta, Disattivazione della pagina Facebook. Il caso CasaPound tra diritto dei contratti e bilanciamento dei diritti, in Danno e resp., 2020, 498 ss..

([26]) Mazza, L’esperibilità del rimedio ex art. 700 c.p.c. a seguito della disattivazione dell’account su Facebook: l’ultimo episodio della saga chiude (ma non del tutto) le porte alla concessione della tutela d’urgenza, in Diritto di Internet, 2021, 97 ss.; Stella, Disattivazione ad nutumdel profilo facebook: quale spazio per la tutela cautelare ex art. 700?, in Diritto di Internet, 2020, 286 ss..

([27]) Si è precisato ancora in giurisprudenza: <<i social network in particolare Facebook non possono essere considerati come siti privati, in quanto non solo accessibili ai soggetti non noti cui il titolare del sito consente l’accesso, ma altresì suscettibili di divulgazione dei contenuti anche in altri siti. In sostanza, la collocazione di una fotografia o di un testo su Facebook implica una sua possibile diffusione a un numero imprecisato e non prevedibile di soggetti e quindi va considerato, sia pure con alcuni limiti, come un sito pubblico>> (T.a.r. Friuli-Venezia Giulia, Trieste, sez. I, 12 dicembre 2016, n. 562).

([28]) Si consideri che la XII disposizione transitoria recita: <<È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista>> e che il contenuto di tale disposizione è ulteriormente chiarito dalla L. 20 giugno 1952, n. 645 che, in materia di apologia del fascismo, sanziona <<chiunque fa propaganda per la costituzione di una associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità>> di riorganizzazione del disciolto partito fascista, e <<chiunque pubblicamente esalta esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche>>. Peraltro l’insieme dei principi fondamentali, delle libertà costituzionali e, più in generale, dei diritti e doveri del cittadino di cui alla Parte I della Costituzione esclude del tutto la tollerabilità, da parte dell’ordinamento italiano, di comportamenti riconducibili all’ideologia fascista. Sulla base di tali osservazioni si è ritenuto che la richiesta fatta pervenire da una P.A. ad un soggetto privato di dichiarare di ripudiare l’ideologia fascista non può essere qualificata come <<lesiva della libertà di pensiero e di associazione, dal momento che se tale libertà si spingesse fino a fare propri principi riconducibili all’ideologia fascista sarebbe automaticamente e palesemente in contrasto con l’obbligo e l’impegno al rispetto della Costituzione italiana>> (T.a.r. Lombardia, Brescia, sez. II, Ord., 8 febbraio 2018, n. 68).

([29]) Tedesco, Ban di Trump: i social sono pubblici o privati? La risposta non è così scontata, in <https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/01/12/ban-di-trump-i-social-sono-pubblici-o-privati-la-risposta-non-e-cosi-scontata/6062166/>.

([30]) <<La circostanza che la fruizione (gratuita) di un servizio digitale di norma presuppone una registrazione e profilatura dell’utente (generando dati poi oggetto di sfruttamento commerciale, anche surrettizio, da parte del provider) pone i servizi digitali a cavallo tra i beni pubblici e privati>> (Moro Visconti, La valutazione delle piattaforme digitali, in Dir. ind., 4/2020, 372).

([31]) La Corte di Giustizia, da parte sua, ha precisato che un organismo può avere sostanza di diritto pubblico pur rivestendo una forma di diritto privato, perché non è tanto la veste giuridica che conta, quanto l’effettiva realtà interna dell’ente e la sua preordinazione al soddisfacimento di un certo tipo di bisogni, cui anche le imprese a struttura societaria sono in grado di provvedere, senza che venga in rilievo al riguardo la maggiore o minore quantità di spazio ad essi dedicato, visto che per la qualificazione di un ente come organismo di diritto pubblico non è necessario che il perseguimento di finalità generali assurga a scopo esclusivo, potendo coesistere con lo svolgimento, anche prevalente, di attività industriali o commerciali (sentt. 10 novembre 1998 in C-360/1996; 22 maggio 2003 in C-18/2001; 15 maggio 2003, in causa C-214/2000; per la giurisprudenza nazionale v, Cass. civ., sez. un, ord. 7 ottobre 2008, n. 24722; Cass. civ., sez. un., ord., 26 ottobre 2009, n. 22584).

([32]) Relativa a determinati aspetti dei contratti di fornitura di contenuto digitale e di servizi digitali.

([33]) Nel senso che deve <<ritenersi sussistente una responsabilità per le informazioni oggetto di memorizzazione durevole od ‘‘hosting’’ laddove, …, il provider sia effettivamente venuto a conoscenza del fatto che l’informazione è illecita (art. 16, comma 1, lettera b citato) e non si sia attivato per impedire l’ulteriore diffusione della stessa>> v. Trib. Napoli, Nord, sez. II, 3 novembre 2016 – Pres. Sinisi – Rel. Buffardo che peraltro sottolinea <<la non indispensabilità di un ordine specifico dell’autorità per la rimozione dell’attività e/o dell’informazione illecita>> (con nota di Bocchini, La responsabilità di Facebook per la mancata rimozione di contenuti illeciti, in Giur.it. – Marzo 2017, 632 ss.). Vedi anche Cantone:La responsabilità diFacebookper la mancata rimozione di contenuti illeciti,in Giur. it., 2017, 629 ss.

([34]) Agnoli, Trump, I social network e gli abusi di potere nella democrazia di Popper, in <https://www.corriere.it/economia/opinioni/21_gennaio_13/trump-social-network-abusi-potere-democrazia-popper-a2102910-55bd-11eb-a877-0f4e7aa8047a.shtml>; Gaggi, Attacco a Capitol Hill e Trump fuori dai social: chi decide la legge marziale del web?, in <https://www.corriere.it/esteri/21_gennaio_13/attacco-capitol-hill-trump-fuori-social-chi-decide-legge-marziale-web-72eb50fa-55e1-11eb-a877-0f4e7aa8047a.shtml>; Simonetta, Da macchina del consenso a censura: la storia di Trump sui social network, in <https://www.ilsole24ore.com/art/da-macchina-consenso-censura-storia-trump-social-network-ADYpJ7BB>.

([35]) Dispone la sezione 230: <<“No provider or user of an interactive computer service shall be treated as the publisher or speaker of any information provided by another information content provider”>>. Si osserva in <https://www.eff.org/issues/cda230>: <<In other words, online intermediariesthathost or republishspeech are protectedagainst a range of lawsthatmightotherwise be used to holdthemlegallyresponsible for whatotherssay and do. The protectedintermediaries include notonly regular Internet Service Providers (ISPs), butalso a range of “interactive computer service providers,” includingbasicallyany online service thatpublishesthird-party content. Thoughthere are importantexceptions for certaincriminal and intellectualproperty-basedclaims, CDA 230 creates a broadprotectionthathasallowedinnovation and free speech online to flourish>>. In dottrina v. Ròciola, Cos’è la 230, le ventisei parole alla base di Internet che Trump vuole cancellare, in <https://www.agi.it/estero/news/2020-05-29/sezione-230-ventisei-parole-base-internet-trump-vuole-cancellare-8763498/>.

([36])Nicita, Caso Trump e casi (e doveri) europei. Odio e falsità ci riguardano, in https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/odio-e-falsit-ci-riguardano.

([37]) Si stimano ammontare a ben 88 milioni di followers che seguivano Trump su Twitter: <https://www.avvenire.it/mondo/pagine/il-presidente-usa-fuori-da-tutti-i-social-lo-strapotere-di-bigtech-smuove>; in dottrina v. Capilli, Social network e rilevanza dei “followers” ai fini della rappresentatività degli enti, in Diritto di Internet, 2019, 590 ss..

([38]) Bellan, Piattaforme, obblighi di monitoraggio e risoluzione delle controversie “online” Relazione al Convegno “La grande innovazione e le sue regole: Intelligenza artificiale, “Data analysis”, “Tecnologia blockchain”, Parma, 25 ottobre 2019, in Dir. ind., 2020, 184 ss.

([39]) C. Stato, sez. VI, 13 dicembre 2019, n. 8472. Nel senso che <<l’utilizzo di procedure “robotizzate” non può, …, essere motivo di elusione dei princìpi che conformano il nostro ordinamento e che regolano lo svolgersi dell’attività amministrativa>> v. C. Stato, sez. VI, 8 aprile 2019, n. 2270.

([40]) Si è suggerito in dottrina di <<modificare radicalmente l’approccio verso i gestori delle grandi piattaforme: non chiediamo loro più di tenere la rete pulita amministrando pseudo-giustizia privata ma chiediamo loro di fornire ai nostri Giudici e alle nostre Autorità risorse tecnologiche e, eventualmente, anche economiche per amministrare vera giustizia anche in via sommaria e d’urgenza>> (LongoScorza, Blocco di Trump e Parler, a rischio la democrazia: ecco una possibile, soluzione in <https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/blocco-di-trump-e-parler-a-rischio-la-democrazia-ecco-una-possibile-soluzione/>. Si veda anche Bucalo, I servizi delle piattaforme “online” fra giurisprudenza sovranazionale e interna e necessità di regolazione dell’economia collaborativa. Riflessioni a partire dal caso Airbnb,in federalismi.it, 2020, 66 ss.

([41]) Tripodi, Pubblico e privato dei Media-Social-Network.Un breve promemoria sulle responsabilità, in Diritto di Internet, 2021, 11 ss..

([42]) In dottrina v.: Accinni, Profili di responsabilità dell’hosting provider “attivo”, in Arch. pen., 2017, 2, 1 ss.; Di Ciommo, Google/Vivi Down, atto finale: l’hosting provider non risponde quale titolare del trattamento dei dati, in Giur. it., 2014, 2016 ss.; Macrillò, Punti fermi della Cassazione sulla responsabilità dell’internet provider per il reato ex art. 167, d.lgs. n. 196/03, in Corr. giuridico, 2014, 798 ss.; Picotti, Fondamento e limiti della responsabilità penale dei service-providers in Internet, in Dir. pen. e proc., 1999, 379 ss.; Resta, La rete e le utopie regressive (sulla conclusione del caso Google/Vividown), in Cass. penale, 2014, 2052 ss.; Seminara, La responsabilità degli operatori su Internet, in Dir. inf. e inform., 1998, 745 ss.; Troncone, Il caso Google (e non solo), il trattamento dei dati personali e i controversi requisiti di rilevanza penale del fatto, in Dir. fam. e pers., 2014, 674 ss.

([43]) Per una riflessione critica vedi Iaselli, Donald Trump VS Social Network: una questione complessa, in <https://www.altalex.com/documents/news/2021/01/15/donald-trump-vs-social-network-una-questione-complessa>.

([44])Sul concetto di hosting attivo si vedano anche, con riferimento alla giustizia comunitaria, Corte di giustizia UE, 7 agosto 2018, Cooperative Vereniging SNB-REACT U.A. c. Deepak Mehta, C-521/17; Corte di giustizia UE, 11 settembre 2014, C-291/13, Sotiris Papasavvas, spec. 44; Corte di giustizia UE, 12 luglio 2011, C-324/09, L’Oréal c. eBay; Corte di giustizia UE, 23 marzo 2010, da C-236/08 a C-238/08, Google c. Luis Vuitton.

([45]) Si rinvia a Comunicazione della Commissione europea COM (2017) 555 del 28 settembre 2017, <<Lotta ai contenuti illeciti online. Verso una maggiore responsabilizzazione delle piattaforme online>>.

([46]) Secondo la Suprema Corte è poi affidato al giudice del merito l’accertamento in fatto se, sotto il profilo tecnico-informatico, l’identificazione di video, diffusi in violazione dell’altrui diritto, sia possibile mediante l’indicazione del solo nome o titolo della trasmissione da cui sono tratti, o, invece, sia indispensabile, a tal fine, la comunicazione dell’indirizzo “url”, alla stregua delle condizioni esistenti all’epoca dei fatti.

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