Cerca
Close this search box.

Parole criptiche: il primo processo penale sul “gergo” del crimine

In un articolo pubblicato dal Wall Street Journal si legge come nei giorni successivi ai noti fatti accaduti a Capitol Hill i sostenitori di Trump avessero adottato strategie per continuare a comunicare senza incorrere nelle varie forme di rimozione dei post attuate da parte delle principali piattaforme di social media[1].

Nell’ambito di questa strategia la parola d’ordine «Stop the steal» (“Fermate il furto”), coniata con riferimento alla teoria secondo la quale nel corso delle elezioni presidenziali americane del 2020 si sarebbe verificata una frode elettorale, è stata oggetto di fantasiosi anagrammi come “Lotta pets”, “Athlete posts”, “Host palettes”. La funzione principale di queste nuove espressioni era, di tutta evidenza, quella di permettere ai sostenitori dell’ex Presidente di continuare a comunicare tra di loro, senza farsi intendere da altri.

Negli studi di linguistica questa è, sostanzialmente, la funzione del “gergo”.

Sotto questa definizione possiamo raggruppare quelle varietà espressive proprie di categorie o gruppi particolari di parlanti che ricorrono a un lessico specifico con lo scopo non solo di dichiarare e consolidare la propria appartenenza al gruppo ma anche, soprattutto quando il gruppo è espressione di una controcultura o anti-cultura rispetto a quella dominante, di impedire che membri estranei possano prender parte alla comunicazione e comprenderla[2]. Dunque la nozione di gergo richiama quella di “segreto”, informazione conosciuta e conoscibile da pochi soggetti. Il gruppo di parlanti ricorre a un linguaggio che è inclusivo ed esclusivo: include e aggrega gli intranei ed esclude la partecipazione degli estranei.

La formazione gergale è legata all’oralità e, come avviene per altre forme di comunicazione popolare, il parlante sente la necessità di comunicare in modo immediato, senza la riflessione e i ripensamenti che la forma scritta concede. L’aspetto dell’oralità rende difficile la registrazione e la documentazione dei termini gergali. Una delle caratteristiche distintive della varietà gergale è la praticità, in quanto «l’invenzione gergale è tutta plastica, strettamente figurativa, visiva: un mondo di “cose”, di colori sgargianti, di sensi spalancati e avidi…un mondo espressionista»[3].

Con specifico riferimento al cd. “gergo della malavita” questo è caratterizzato, oltre all’uso di uno lessico specifico, anche dal ricorso a una semantica prevalentemente metaforica, con una finalità di contrapposizione alla società cd. “per bene” [4].

Il trattato antico Donats proensals, risalente alla metà del sec. XIII circa, contiene un breve ma significativo riferimento al gergo che il testo glossa con l’espressione latina “vulgare trutanorum“, cioè “parlata dei mendicanti” o dei “ladri”[5]. Nel medesimo periodo l’ignoto autore del romanzo Richard li biaus racconta di come il suo eroe, entrando in un covo di ladri, avesse cercato un ben informato scudiero che sapeva tutto sul “gergo” (“gargoun”) dei truffatori e dei rapinatori[6].

Sono, questi, i primi segnali della comparsa dell’idioma artificiale della malavita.

Nel 1484 Teseo Pini di Urbino scrisse lo “Speculum cerretanorum“, un trattato che descriveva le tecniche dei mendicanti che ingannavano chi, ingenuamente, credeva alla loro apparente miseria. Pini identifica trentanove distinte classi di falsi mendicanti e in appendice offre un glossario di molti termini gergali utilizzati per l’inganno.

A distanza di pochi anni viene pubblicata la più approfondita analisi moderna delle astuzie linguistiche messe in atto dai malfattori: il “Liber vagabondorum“. Il trattato contiene sia una classificazione dei truffatori, sia un lungo dizionario delle loro espressioni gergali e fu redatto dopo il 1509 da un autore ignoto, il quale si firmò come un “expertus in truffis“, cioè esperto in furfanteria.

In Italia l’interesse per il gergo dei criminali si attestò fin dal Rinascimento, allorquando nacque l’interesse per lo studio dell’idioma “furbesco”, termine utilizzato per distinguere il gergo dei malviventi da quello delle altre categorie di parlanti che praticavano mestieri diversi prevalentemente ambulanti[7].

Successivamente Lombroso intravide nel gergo una forma di devianza, in quanto espressione di emarginazione malavitosa. Per Lombroso l’attuazione del crimine in forme associative e organizzate determinava la creazione di un proprio linguaggio, la cui conoscenza è requisito indispensabile per accedere al gruppo.

Le teorie lombrosiane hanno avuto un riflesso nelle opere degli epigoni come Alfredo Niceforo, il quale nel 1897 pubblicò il “Gergo nei normali, nei degenerati e nei criminali“, prendendo in esame i tipi di gergo parlati presso alcuni gruppi sociali, tra i quali si contavano la “coppia amante”, la coppia “prostituta e souteneur” e i vari gruppi appartenenti agli strati sociali più bassi. Secondo Niceforo l’individuo che si trova in contrasto con l’ambiente che lo circonda ricorre in primo luogo all’arma del gergo, con la conseguenza che «la lingua si traveste coprendosi di maschere ipocrite, di cenci orridi, di metafore orribili che nascondono il male e la lotta»[8].

D’altronde è proprio in quegli anni, in particolare nel 1861, che in Italia viene attestato per la prima volta il termine “camorra”, il cui etimo è tuttora oggetto di pareri difformi[9].

La prima attestazione di un processo penale che si occupò del gergo della malavita è contenuta in uno studio di Marcel Schowb.

Del francese Marcel Schowb la storiografia ufficiale ci consegna una precisa identità: quella di scrittore erudito di fine Ottocento, dallo stile onirico e sospeso; quella di filologo e di attento traduttore delle opere di Oscar Wilde; quella di un uomo stretto a illustri amici (si ricordi Paul Valéry) ma afflitto da una salute precaria, affetta da malattie mai diagnosticate, che nel 1903 posero fine alla sua breve e tormentata vita.

Nel 1890 Schwob pubblicò sulla rivista “Mémoires de la Socieété Linguistique de Paris” uno studio su un processo penale celebratosi tra l’ottobre e il dicembre del 1455 a Digione, capitale della Borgogna, contro una banda di malfattori, chiamati “Coquillards”[10].  

Secondo il procuratore della città, Jean Rabustel, in quel periodo un gruppo di persone avevano terrorizzato le campagne limitrofe a Digione, mettendo in atto rapine e furti, irrompendo nelle case e nelle locande, assaltando le carrozze.

La composizione del gruppo era eterogenea: accanto a mercenari o vagabondi, si contava anche chi aveva abbandonato professioni e mestieri, alcuni militari, molti ex detenuti e ciascuno di loro, una volta reclutato, forniva all’intero gruppo le proprie capacità e, conseguentemente, vi introduceva espressioni e parole proprie del proprio mondo di provenienza[11].

Il procuratore Rabustel eseguì subito alcune misure cautelari: su circa sessanta soggetti ricercati, riuscì ad arrestarne poco più di dieci. Nei confronti di costoro, dunque, il processo ebbe inizio il 3 ottobre 1455[12].

Nel corso dei numerosi interrogatori nessuno degli arrestati ebbe a confessare, tranne un tale (Domenico “le Loup”) che fornì la chiave per accedere all’idioma secreto, il cd. “gergo” (“jargon”)[13]. La caratteristica principale di questo gruppo di malfattori, infatti, era l’uso di un linguaggio criptico per non farsi intendere dalle autorità di polizia. Avevano attribuito convenzionalmente a vocaboli comunemente in uso significati del tutto diversi da quelli ordinari, trasformando così la lingua comune in un gergo incomprensibile a chi non avesse fatto parte della congrega, vale a dire in un «linguaggio raffinato che gli altri non riescono a comprendere»[14].

La stessa parola “Coquillars” era non solo il nome del gruppo, ma anche il vocabolo segreto usato dagli affiliati per riconoscersi. Il termine “coquillar” è stato tradotto con “Gente della Conchiglia”, “Popolo della Conchiglia” o “Conchiglianti”[15], ipotizzando la derivazione da “coquille” (“conchiglia”), parola tradizionalmente associata ai falsi pellegrini in viaggio a Compostela, i quali portavano con sé quest’oggetto (notoriamente simbolo del pellegrinaggio) per ingannare i benefattori e approfittare indebitamente di cibo e ospitalità lungo il cammino[16].

Schwob nel proprio studio riferiva dunque come uno dei temi principali affrontati nel processo fosse quello relativo al linguaggio usato dal gruppo di criminali, i quali ricorrevano, appunto, a «un certo linguaggio in gergo» («certain langaige de jargon»)[17].

Lo stesso pubblico ministero Jean Rabustel ebbe a riferire nel corso della propria relazione che «ogni trucco di cui essi fanno uso ha un suo nome, nel loro gergo, e nessuno potrebbe comprenderlo se non fosse membro della loro società, o se uno di loro non lo rivelasse all’altro»[18].

Il Procuratore Rabustel dunque, per provare l’esistenza di queste convenzioni comunicative usate dal gruppo, presentò alla Corte un erudito glossario di parole e frasi criptiche, compilando in relazione a ciascun vocabolo in gergo il corrispondente significato nella lingua comune: “crocheteur” per “scassinatore”, “vendegeur” per “scippatore”, “pipeur” per indicare il truffatore nel gioco dei dadi, “rouhe” per indicare il Tribunale, “gaffres” per indicare il sovrintendente di polizia[19], mentre i “mittenti” erano i sicari, i “piantatori” coloro che “seminavano” nella società soldi falsi, i “raccoglitori” coloro che erano specializzati in furto con scasso[20].

Il ricorso a questo linguaggio “segreto” consentiva agli affiliati di riferirsi in modo riservato ai ruoli gerarchici interni gruppo, che risultava suddiviso tra coloro che erano “apprendisti” denominati “gaschatres” o “coquarts” e coloro che appartenevano alla élite, i più esperti (“fin de la Coquille”)[21].

In alcuni casi il significato delle parole poteva essere dedotto con la metonimia, come nel caso di «rouhe», ruota, che indicava la Corte di giustizia in quanto la ruota era tra gli strumenti di punizione più severi previsti dalle leggi all’epoca vigenti. In altri casi gli affiliati ricorrevano alla metafora, come quando definivano la vittima dei loro inganni con il nome di «dupe» o «huppe», cioè «piccione»[22].

Nell’introduzione al suo rapporto Rabustel individua anche un ruolo apicale nel gruppo criminale, definito “Re delle Conchiglie”[23]. Tuttavia questa pare essere stata una semplice deduzione dello zelante pubblico ministero, smentita da alcuni testimoni, i quali nel corso del processo riferirono come anche il termine “Roy” fosse una parola “criptica”, riservata a più di un componente del gruppo. Per esempio nel corso della propria testimonianza, Perrenet le Fournier indicò la presenza di una guida, tale Regnauld Dambour, che viene indicato come “il padre guida dei detti Coquillars alle fiere, marce e altri luoghi a Bourgoigne[24]. Un altro testimone si limitò a riferire che un certo Nicolas Le Besgue veniva chiamato Nicolas “Le Roy” o “Tartas”, nome che cambiava spesso «come fanno quasi tutti gli altri»[25].

Nei documenti processuali sui “Conchiglianti” questo linguaggio veniva definito con un termine preciso: “jargon”. Questo, peraltro, era la parola usata dallo stesso Schowb nel titolo del proprio saggio: “Le jargon des Coquillars en 1455“.

E’ stato rilevato come questo termine medioevale francese, nonché le forme derivate (jargoun, gargon, ghargun, gergon, gorgon), per molto tempo avesse indicato un modo di parlare non troppo denso di significato, come appunto quel linguaggio usato nella comunicazione tra gli animali o con i bambini[26]. Solo in seguito il termine indicò una lingua incomprensibile, come quella degli stranieri[27].

Dopo il processo e la condanna contro il gruppo criminale che terrorizzava Digione, i “Conchiglianti” scomparvero per riapparire qualche anno dopo: in una lettera indirizzata nel 1464 a Jean Bourré, fidato uomo di Luigi XI, veniva denunciata di nuovo l’esistenza di una banda di ladri che ricorrevano a un lessico segreto simile a quello usato dai Coquillards[28].

Il processo intentato da Rabustel costituì una novità nell’approccio al contrasto con le nuove forme organizzate di crimine. A partire dalla metà del 1400, infatti, qualsiasi attività criminale attuata mediante organizzazioni o gruppi incomincia a essere affrontata senza trascurare l’aspetto linguistico: come non esiste società senza linguaggio, altrettanto non può darsi una “contro-società” senza un proprio codice comunicativo[29]. Il fenomeno gergale, infatti, rivelava l’esistenza di veri e propri gruppi sociali con precise identità collettive consolidate tramite comuni usi linguistici[30].

Nel 1968 Jan Svartvik pubblicò “The Evans Statements: A Case for Forensic Linguistics[31]. In questo studio Svartvik evidenziò come alcune frasi incriminanti rese ai funzionari di polizia da Timothy Evans, sospettato dell’omicidio della moglie e della figlia, fossero caratterizzate da uno stile e da strutture sintattiche del tutto diverse da quelle caratterizzanti la gran parte delle sue dichiarazioni. Per la prima volta fu coniata l’espressione “linguistica forense” e una nuova disciplina nacque.

Potremmo tuttavia riconoscere nel processo ai Coquillards una prima, antica sperimentazione di questa disciplina.

L’importante opera di glossa curata da Rabustel, infatti, è l’opera di un pubblico ministero che indagò le condotte criminali con le lenti del giurista e del filologo, è la fatica di un uomo di legge che indossò i panni del linguista, evidenziando forse per la prima volta nella storia quell’ampia terra di confine tra il linguaggio e il diritto, che avrebbe dovuto attendere il Novecento per costituire oggetto di una disciplina specifica, la linguistica forense.


[1]  https: //www.wsj.com/articles/facebook-says-it-is-removing-all-content-mentioning-stop-the-steal-11610401305.

[2] Berruto, Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, Carocci, 2018, 28.

[3] Ferrero, I gerghi della malavita dal 500 ad oggi, Mondadori, 1972, 14.

[4] Berruto, op. cit., 185.

[5] Trumper, Slangs and Jargons, in Maiden, Smith e Ledgeway (a cura di), The Cambridge History Of The Romance Languages, Cambridge University Press, Vol. 1, 660.

[6] Richars li Biaus: Roman du XIIIe siècle (Les Classiques français du Moyen Age), Libraire Honoré Champion, 1983, vv. 3333-3353, 92.

[7] Borello, Le parole dei mestieri. Gergo e comunicazione, Alinea, 2001, 11.

[8] Niceforo, Il gergo nei normali, nei degenerati e nei criminali, Forni, 1972, 82.

[9] Per approfondimenti, cfr. Nocentini Camorra e ma(f)fia in Archivio Glottologico Italiano, 2009, vol. 94, 79-87.

[10] Schwob, Le jargon des Coquillars en 1455, in Mèmoires de la Société Linguistique de Paris, 1890, 168-183, ristampato in Schwob, Etudes sur l’argot francais, Allia, 2004, 61-150.

[11] Sainéan, Les sources de l’argot ancien. Des origines à la fin du XVIIIe siècle, Honoré et Edouard Champion Ed., 1912, 110 in https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k2993546/f100.item

[12] Toureille, Une contribution à la mythologie des monarchies du crime: le procès des coquillards à Dijon en 1455, in Association Revue du Nord, 2007/3 n° 371, 497 e segg.

[13]  Toureille, op. cit. 500.

[14] Schwob, op. cit, 61: «un langaige exquis, que aultres gens ne seuvent entendre»; cfr. altresì Delaplace, Le Jargon des Coquillars à Dijon au milieu du xve siècle selon Marcel Schwob (1892), in Classiques de l’argot et du jargon, Classiques Garnier, n. 5, 2011, 406.

[15] Heller-Roazen, Dark Tongues. The Art of Rogues and Riddlers, Zone Book, 2013; Guiraud, Le jargon de Villon, ou Le gai savoir de la Coquille, Gallimard, 1968, 8.

[16] Chereau, Le Jargon ou Langage de l’Argot reformé, Delaplace (a cura di), Champion, 2008.

[17] Schwob, op. cit., 82.

[18] Schwob, ibid.

[19] Schwob, op. cit., 86-90.

[20] Toureille, op. cit. 500.

[21] Toureille, op. cit. 501.

[22] Guiraud, L’argot, Presses Universitaires de France, 1956, 49, secondo il quale questo termine sarebbe la prima parola in gergo mai registrata.

[23] Toureille, op. cit., 501: «lesquels, comme l’en dit, ont ung Roy, qui se nomme le Roy de la Coquille».

[24] Toureille, ibid.: «le pere conduiseur desdits Coquillars es foires, marchiez et aultres lieux de Bourgoigne».

[25] Toureille, ibid: «a dit qu’il congnoit bien ung nommé Nicolas de Besgue : et aulcunes fois s’appelle Nicolas le Roy, et aulcuns fois Tartas. Et change souvent son nom, ainsi que quasi tous les aultres font».

[26] Godefroy, Dictionnaire de l’ancienne langue francaise et tous les dialects du IX au XV siecle,. Ed. Viewig, vol. 10, 1881-1902.

[27] Heller-Roazen, op. cit., 23.

[28] Lettre rédigée au Puy et signée par Guillaume de Varye, Bibliothèque Nationale de France, fr. 20600, n° 53, 16 avril 1464: «Ilz ont jargon que autres n’entendent».

[29] Schmitt, Mort d’une hérésie. L’Église et les clercs face aux béguines et aux béghards du Rhin supérieur du XIVe au XVe siècles, in Revue du Nord, 1982, 951-953.

[30] Toureille, op. cit., 504.

[31] Svartvik, The Evans Statements: A Case for Forensic Linguistics, Gothenburg Studies, 1968.

Condividi su:

Articoli Correlati
Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit, sed do eiusmod tempor incididunt ut labore et dolore
Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit, sed do eiusmod tempor incididunt ut labore et dolore