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Recensione di M. Caterini – S. Muleo (a cura), La giustizia al tempo del coronavirus

Francesco Barresi*

Recensione di M. Caterini – S. Muleo (a cura), La giustizia al tempo del coronavirus

Pacini giuridica, Pisa 2020

La giustizia al tempo del coronavirus

Com’è noto, una delle tematiche più ricorrenti nella narrativa del fenomeno epidemico tuttora in corso è quella dell’eccezionalità. Eccezionalità dei numeri e delle statistiche, anzitutto, che continuano a scandire il tempo sospeso di un’emergenza sanitaria senza precedenti. Ma anche eccezionalità dei grandi e piccoli cambiamenti che hanno interessato pressoché tutti gli aspetti della dimensione relazionale dell’esistenza umana, dai processi comunicativi alle implicazioni giuridiche. Un fenomeno non certo nuovo, ma che assume contorni del tutto inediti nella misura in cui venga osservato e filtrato attraverso le maglie del web, laddove s’intrecciano e si confondono le voci dell’opinione pubblica, della comunità scientifica e degli organi istituzionali, rendendo ancor più ardua l’opera di discernimento implicita in ogni “crisi” che si rispetti.

Tra i pregi del volume La giustizia al tempo del coronavirus, a cura di Mario Caterini e Salvatore Muleo, va appunto annoverata la capacità di cogliere e riannodare i frammenti sparsi del dibattito giuridico intorno alla pandemia e ai suoi effetti sul mondo del diritto, senza per ciò svilire la fisiologica diversificazione delle opinioni in campo, a tutto guadagno di una rappresentazione fedele – benché non univoca – della percezione dell’emergenza nella prospettiva del giurista. La scelta di coinvolgere esperti delle più varie discipline giuridiche, d’altro canto, si pone nel segno dell’impostazione pluralista e interdisciplinare che anima l’Istituto di Studi Penalistici “Alimena” – promotore dell’iniziativa – facendo del lavoro di cui si discuteforse l’opera più adatta a inaugurare la collana degli omonimi Quaderni.

La struttura del libro si articola in due sezioni: nella prima sono raccolti gli atti del webinar «Il processo a distanza e le misure dell’emergenza: verso una giustizia virtuale?», che ha visto coinvolta un’ampia platea di relatori chiamati a confrontarsi con una tematica solo in apparenza circoscritta alla fase emergenziale, avvinta com’è ad alcuni dei quesiti fondamentali del diritto contemporaneo. A dar riprova di tale complessità concorrono i contributi dei soci dell’Istituto contenuti nella seconda sezione, che estendono l’orizzonte dell’indagine all’analisi di alcune tra le più importanti problematiche giuridiche scaturite dall’emergenza sanitaria, dal riassetto delle dinamiche costituzionali alla responsabilità penale in ambito sanitario fino alla tutela della libertà religiosa. Ne emerge un quadro estremamente variegato e composito, all’interno del quale dialogano discipline e prospettive metodologiche talora molto distanti tra loro, rendendo ragione del carattere irriducibilmente trasversale delle tematiche oggetto di studio.

In tal senso esemplare è il tema, anzitutto, del rapporto tra diritto, processo e tecnologia. Un rapporto che oramai da tempo non si esaurisce più nel mero tentativo, da parte del diritto, di “disciplinare” unilateralmente e secondo i propri fini l’uso della tecnologia, giacché quest’ultima – in quanto parte integrante dei naturali processi evolutivi dell’umanità – rappresenta ad oggi una variabile fondamentale e pressoché indipendente dello sviluppo di tutti i sistemi sociali e (dunque) giuridici. In tale prospettiva, la stessa distinzione tra “reale” e “virtuale” sembra inesorabilmente destinata a perdere gran parte del suo significato originario, riducendosi ad un’ingenua dicotomia manichea. A ben vedere, infatti, ogni mondo virtuale “prodotto” dalla tecnologia – sia esso rappresentato dalla pagina di un social network o dalla “stanza” in cui si riuniscono (virtualmente, appunto) gli attori di un processo “da remoto” – potrà tutt’al più definirsi non-fisico, o immateriale, ma non certo “irreale”: d’altra parte, sono forse meno reali gli effetti di una sentenza pronunciata a conclusione di un processo celebrato per via telematica? La risposta – scontatamente negativa – a questo interrogativo non sembra tuttavia poter giustificare l’ulteriore inferenza secondo cui, a parità di effetti, processo “reale” e processo “virtuale” possano ritenersi sostanzialmente fungibili, essendo ben noto sin dai tempi di Chiovenda – come ricorda Salvatore Muleo – lo stretto rapporto intercorrente tra forme del procedimento e funzione della prova.

Come chiaramente emerge dai contributi pubblicati nel volume, infatti, lo svolgimento di ciascun processo – pur con le dovute differenze – implica necessariamente una componente di realtà che non può (o non dovrebbe) essere utilmente surrogata dall’uso dello strumento telematico: laddove cioè – come pure osserva Alessandro Diddi – la presenza fisica è imposta dall’esigenza che l’interazione tra le parti si svolga con la massima fluidità possibile, consentendo a ciascuna di esse di cogliere il “messaggio” dell’altra al di là della sola componente verbale. Sicché, se da un lato la peculiare conformazione del processo civile e di quello amministrativo potrebbe eventualmente giustificare un impiego più massiccio di tale strumento – sia esso finalizzato a rendere più agile lo svolgimento di alcune udienze “minori”, come afferma Giulio Nardo a proposito del processo civile di cognizione, o ad abbattere i costi di giustizia del processo amministrativo, come rileva Renato Rolli – è pur sempre chiaro che le esigenze di oralità non possono mai essere del tutto accantonate (si pensi, ad esempio, alla prova testimoniale o all’interrogatorio formale nel processo civile).

Guardando, poi, al processo penale e ai principi di oralità e immediatezza che lo ispirano, risulta ancor più evidente come sia lo stesso mezzo di comunicazione a costituire – afferma Aldo Truncè – «un filtro, una barriera, tra signi­ficante e significato» in grado di virtualizzare i contesti comunicativi e di alterare consequenzialmente – come rileva Francesco Iacopino – quel «primato della ragione discorsiva» che la «liturgia» del contraddittorio è chiamata a celebrare e che tanta parte ha, altresì, nello sviluppo dei percorsi “paralleli” all’iter giudiziario: si pensi alle ipotesi di riparazione, diversione e mediazione analizzate da Giovanni Cocco nel suo significativo contributo. Ragion per cui – come giustamente osserva Giorgio Spangher – i successivi sviluppi della fase di “smaterializzazione” del processo, avviata nel corso del lockdown, dovranno essere necessariamente determinati in funzione del raggiungimento di un punto di equilibrio tra esigenze di sicurezza e obiettivi di efficienza della giustizia.

Si assisterebbe, perciò, a un fenomeno di per sé non privo di risvolti positivi (come pure segnala Antonello Talerico) e apparentemente destinato a incidere sulle sole “infrastrutture” processuali, ma che in realtà ridonda sugli stessi principi democratici che presiedono alla funzione giurisdizionale (si considerino sul punto le osservazioni di Vittorio Gallucci e Pietro Perugini in merito alla compatibilità tra principio di pubblicità delle udienze e celebrazione “da remoto” di queste ultime). Un fenomeno che peraltro, come da molti paventato, rischia di “stabilizzarsi” al di là della contingenza emergenziale, segnando l’inizio di una nuova stagione del diritto in cui ad essere messo a repentaglio – afferma Maurizio Riverditi – è forse lo stesso «modello culturale» del giusto processo.

D’altro canto, l’attuale pandemia da coronavirus è pur sempre la prima che l’umanità abbia sperimentato nell’età della sua adolescenza tecnologica, il che, oltre a mettere in evidenza la persistenza di un evidente digital divide (generazionale e territoriale) e dei bassi tassi di alfabetizzazione tecnologica, contribuisce altresì ad aumentare il grado di aleatorietà dei pronostici sugli effetti di lungo periodo che i più recenti eventi globali potranno sortire sulla società e sull’ordinamento giuridico. Cionondimeno, la comprensione di un simile mutamento, che già si appresta ad assumere proporzioni epocali, se per un verso implica necessariamente – come rileva Maristella Amisano – una certa apertura al cambiamento e, di conseguenza, un confronto critico con le resistenze che ‘naturalmente’ vi si oppongono, per altro verso rende ancor più indispensabile uno sforzo comune da parte dell’intera comunità scientifica, che valga a cogliere gli aspetti più complessi della crisi e delle sue possibili implicazioni future.

In gioco, come già anticipato, c’è infatti ben più della rapsodica esegesi di una produzione legislativa (non da ora) a carattere emergenziale e (non di rado) confusa: è lo stesso modo di interagire dei cittadini e delle istituzioni, lo stesso modello democratico ad essere messo in discussione. Carlo Petitto ha parlato, con riferimento alla fase immediatamente successiva alla dichiarazione (per molti aspetti ‘inedita’) dello stato di emergenza nazionale, di una vera e propria «rottura costituzionale», che facendo leva su un’organizzazione statuale di stampo «liberal-paternalistico» è forse riuscita – seppure a tempo determinato – a mutare il volto della democrazia, trasfigurandolo alla sinistra luce di un’ideologia para-autoritaria che vede accresciuto il peso politico del premier a scapito della funzione parlamentare e, in senso più lato, dell’equilibrio dei poteri costituzionali.

Il quadro complessivo che se ne trae è per molti aspetti preoccupante: ai numerosi dubbi suscitati dalla copiosa produzione normativa di fonte governativa in punto di gerarchia delle fonti – resi ancor più pressanti in materia penale, come efficacemente rileva Mario Caterini nel suo scritto introduttivo – si associa il sospetto di una sostanziale inadeguatezza delle scelte del potere esecutivo nella prospettiva di un efficace bilanciamento degli interessi costituzionali coinvolti nella gestione dell’emergenza sanitaria, sì da lasciar spazio all’ipotesi – sia pur solo «immaginaria» secondo Vito Plantamura – di una responsabilità penale del Governo. Scelte che, inoltre, si dimostrano spesso non solo intrinsecamente contraddittorie sul piano politico-ideologico (in tal senso si vedano le osservazioni di Sabato Romano su processo da remoto e prescrizione sine die), ma altresì profondamente influenzate – come acutamente evidenzia Antonio Cavaliere – da una retorica scandalistico-securitaria che oramai da tempo condiziona il dibattito pubblico sui temi centrali della salute, della sicurezza, dei diritti di libertà: persuasive, in tal senso, le osservazioni di Gianluca Ruggiero sul tema della gestione dell’emergenza carceraria nel corso dell’epidemia e quelle di Maria D’Arienzo in materia di libertà religiosa e autonomia confessionale.

A complicare ulteriormente il quadro appena tratteggiato, vi è poi il difficile e controverso ruolo della comunità medico-scientifica, che seppur assurta agli onori della cronaca per gli “eroici” sforzi profusi a tutela della salute collettiva, si è tuttavia trovata perplessa e divisa dinanzi a una patologia quasi del tutto ignota. Cionondimeno, l’appello talora “fideistico” dei cittadini e delle istituzioni al sapere scientifico si è non di rado tradotto – afferma Antonio Cavaliere – in una vera e propria “delega” a favore di quest’ultimo della «reazione ordinamentale al virus»: una scelta che si appalesa ancor più incongrua in considerazione della complessità degli effetti “di sistema” dell’epidemia, la cui gestione rende in ultima analisi indispensabile un più ampio confronto politico. D’altra parte – come pure avverte Giandomenico Salcuni – non è forse da escludere l’ipotesi di un brusco cambiamento di rotta nella narrativa post-Covid, che all’immagine «epica» del “medico-eroe” finisca col sostituire quella a tinte più fosche del “medico-untore”. Non a caso, infatti, tra i contributi pubblicati nel volume trova ampio spazio una tematica, quella della responsabilità dei medici e delle strutture sanitarie, già da tempo cruciale nel dibattito penalistico, ma che all’indomani dell’emergenza sanitaria sembra destinata ad arricchirsi di nuovi spunti. Si pensi, per esempio, alla possibile valorizzazione della misura soggettiva della colpa in relazione all’incidenza di quelli che Andrea Di Landro definisce «fattori situazionali potenzialmente discolpanti», quali stanchezza, concitazione, carenze strutturali e organizzative, che non di rado condizionano l’attività professionale degli operatori sanitari, anche al di là dei contesti “emergenziali” di questi ultimi tempi (in tal senso parrebbero muoversi, tra l’altro, le proposte di riforma della responsabilità medica contenute in alcuni emendamenti, successivamente ritirati, al DDL S. 1766 di conversione del d.l. 17 marzo 2020, n. 18 “Cura Italia”).

In un contesto così straordinariamente complesso, il volume in commento si conferma dunque un sicuro punto di riferimento per orientarsi nel dedalo delle varie questioni giuridiche evocate dall’epidemia, attraverso una proficua interazione tra discipline scientifiche e prospettive metodologiche diverse ma, cionondimeno, parimenti indispensabili per una più chiara comprensione delle sfide della modernità.

* Dottore di ricerca, Università degli Studi di Teramo.

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