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Il diritto alla salute del detenuto durante la pandemia

Sentenza

Abstract

Il rischio del detenuto di contrarre l’infezione da Covid-19 deve essere valutato dal giudice cautelare per un giudizio di incompatibilità con il regime carcerario, in base ad elementi specifici da cui desumere un pericolo, concreto ed effettivo, del rischio di contagio, tenuto conto non solo dello stato si salute dell’interessato, ma anche delle specifiche misure di prevenzione adottate nell’istituto penitenziario per garantire la distanza di sicurezza tra detenuti “a rischio”, nonché della possibilità di   trasferimento presso atri istituti o strutture sanitarie più adeguate all’interno del circuito penitenziario.

 

The inmate’s risk of contracting Covid-19 infection must be assessed by the precautionary judge for a judgment of incompatibility with the prison regime, based on specific elements from which to infer a concrete and effective danger of the risk of contagion, held taking into account not only the state of health of the person concerned, but also the specific preventive measures adopted in the penitentiary institution to guarantee the safety distance between prisoners “at risk”, as well as the possibility of transfer to other institutions or health facilities more suitable for inside the penitentiary circuit

 

Sommario: 1. Il caso – 2. La questione – 3. Il diritto alla salute del detenuto in vinculis – 4. La tutela del diritto alla salute del detenuto nel panorama internazionale: art. 3 CEDU – 5. Interventi legislativi sull’emergenza carceri durante il COVID-19 – 6. Conclusioni

 

  1. Il caso

L’imputato P.A., sottoposto a misura cautelare custodiale, impugnava il provvedimento con il quale era stata rigettata la richiesta di modifica della misura cautelare in atto ed adiva la Suprema Corte, deducendo la violazione di legge ex artt. 275 e 299 c.p.p., poiché il Giudice della cautela non avrebbe debitamente tenuto conto che il prevenuto era affetto da una grave pancreatite e che, tale patologia, costituiva un concreto fattore di aumento del rischio quoad vitam in caso di infezione da Covid-19.

Il ricorrente, lamentava il mancato riconoscimento di un giudizio di incompatibilità tra il regime carcerario e le sue precarie condizioni di salute, facilmente aggravabili in caso di contagio, malgrado fosse notorio che la diffusione del virus nei penitenziari era, oggettivamente, molto più facile.

Inoltre, il ricorrente lamentava che il Giudice della cautela avesse “concesso” gli arresti domiciliari agli altri coimputati, con i quali condivideva una posizione processuale sostanzialmente sovrapponibile, circostanza a lui, invece, negata.

In merito alla prima questione sottesa alla decisione in esame, la Corte ha chiarito che il rischio epidemiologico all’interno delle carceri può assumere rilevanza per un giudizio di incompatibilità tra il regime penitenziario e le condizioni di salute del recluso “a rischio”, solamente se il pericolo di contagio sia concreto ed effettivo (e non meramente ipotetico). Tale valutazione deve tener conto sia della reale situazione presente nella casa circondariale in cui il soggetto è recluso, sia delle misure preventive adottate dalla direzione, per garantire la distanza tra i detenuti “a rischio”, nonché della possibilità di trasferimento presso altri istituti o altre strutture sanitarie più adeguate del circuito penitenziario.

Enunciato tale principio di diritto, la Suprema Corte dichiarava inammissibile, sul punto, il ricorso proposta da P.A per difetto di specificità, precisando, da un lato, che le censure della difesa si traducevano in una ripetizione dei motivi dedotti in sede di appello; dall’altro, che la motivazione contenuta nel provvedimento impugnato appariva coerente non solo con l’incarto documentale, ma anche con il dettato normativo.

Infatti, emergeva dagli atti che, nella casa circondariale in cui era detenuto il ricorrente, non vi erano particolari criticità sanitarie collegate alla diffusione della pandemia e che, dunque, il rischio di contrarre una infezione da Covid-19 era meramente ipotetico.

Pertanto, nel caso in esame non vi erano i presupposti per un giudizio di incompatibilità tra condizioni di salute del richiedente e l’ambiente carcerario in cui era recluso, poiché non vi era il concreto pericolo di contagio.

In merito alla lamentata disparità di trattamento della sua posizione cautelare rispetto a quella degli altri coimputati, la Corte ha richiamato il suo precedente orientamento giurisprudenziale in tema di misure cautelari, per cui la posizione processuale di ciascun coindagato (o coimputato) è autonoma, non solo in ordine al profilo dei “gravi indizi di colpevolezza” ma anche con riferimento alle esigenze (in questo senso, tra le altre, Sez. 3, Sentenza n. 7784 del 28/01/2020, Mazza, Rv. 278258).

Anche su tale punto il ricorso veniva dichiarato inammissibile per carenza di specificità.

La decisione oggetto del presente studio offre all’interprete una occasione per interrogarsi sulle reali condizioni in cui versano i detenuti e verificare se gli strumenti previsti dal nostro codice di rito, in tema di misure cautelari, siano o meno sufficienti per fronteggiare l’emergenza pandemica o se, invece, sia auspicabile un pronto intervento del Legislatore.

 

  1. La questione

La sentenza in esame pone al centro dell’attenzione una tematica in continua evoluzione, oggetto, più volte, del confronto politico e giuridico che coinvolge non solo il panorama nazionale, ma investe anche quello europeo ed internazionale: il diritto alla salute del detenuto o, più precisamente, il corretto bilanciamento tra il dovere dello Stato di garantire l’effettività della misura privativa della libertà (sia essa cautelare o pena detentiva), e quello di assicurare, al detenuto, il concreto godimento del diritto alla salute.

Nella ponderazione dei citati valori di rango costituzionale, il diritto alla salute assume, certamente, un valore preminente[1], capace di limitare il potere coercitivo dello Stato (dovere della esecutività della pena e dovere di garantire le esigenze cautelari) tutte le volte che il regime carcerario risulti incompatibile con le condizioni di salute della persona destinataria della misura privativa della libertà.

Il punto di equilibrio è costituito da quell’assetto di norme che disciplinano i casi tassativi ove la vita inframuraria deve ritenersi “incompatibile” con l’integrità psico-fisica del detenuto, demarcando il confine oltre il quale la reclusione diventa illegittima perché inumana e degradante.

Da qui la disciplina degli artt. 146 e 147 c.p. (differimento obbligatorio e facoltativo della pena); dell’art.275 c.p.p. (esclusione e limitazione della custodia cautelare in carcere); dell’art. 47 – ter e quater Ord. Pen. (detenzione domiciliare e misure alternative alla detenzione nei confronti dei soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria).

Tali prescrizioni costituiscono il principale assetto normativo che regolamentano quando, e in che modo, la potestà punitiva dello Stato può retrocedere in favore della salvaguardia del diritto alla salute in vinculis, quale espressione del combinato disposto degli artt. 32 e 27 co. 3 Cost., secondo cui “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità…”.

La tutela del valore della “salute del detenuto” combinata al concetto di “umanità della pena” si scontra, tuttavia, con la complessa questione legata al sovraffollamento delle carceri, mai completamente risolta dal Legislatore, malgrado i tentativi di riforma post Torreggiani[2].

La diffusione della pandemia COVID – 19 ha accentuato tale problematica connessa alle fragilità del nostro sistema penitenziario che si ripercuote, inevitabilmente, sulla salute dei detenuti.

E’ in questo contesto che si deve collocare la vicenda del presente studio, ossia comprendere quando e se il rischio del contagio da Covid – 19 rappresenti un concreto pericolo per il recluso, tale da rendere incompatibile la sua permanenza nelle strutture penitenziarie. La valutazione dell’interprete non può, tuttavia, prescindere dal quoadro normativo di riferimento e degli interventi emergenziali adottati dal Legislatore per fronteggiare il contagio da Covid – 19 nelle case circondariali.

 

  1. Il diritto alla salute del detenuto in vinculis

La disciplina del diritto in questione, nel nostro ordinamento, deve configurarsi come espressione dell’art. 32 della Costituzione secondo cui il bene salute è concepito come un valore assoluto da cui derivano specifiche posizioni giuridiche soggettive e precisi doveri di intervento da parte dello Stato[3].

Il bene sotteso all’art. 32 Cost. ha una natura complessa[4] (perché confluiscono diverse situazioni giuridiche[5]) ed ambivalente[6]: da un lato, la salute è un “diritto inviolabile all’integrità psicofisica dell’individuo” (da cui discende un dovere erga omnes di non ledere la salute altrui[7]); dall’altro, è “diritto sociale”, secondo cui lo Stato deve garantire, a tutti, l’accesso ad adeguati trattamenti sanitari.

La struttura ambivalente del diritto alla salute è rinvenibile nella legge n. 354 del 1975 (“Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”), con la quale il Legislatore ha riconosciuto, per la prima volta, delle posizioni soggettive in capo al detenuto ed ha regolamentato il bene salute in vinculis nella sua duplice accezione: tutela all’integrità psicofisica e diritto del detenuto di godere delle prestazioni di assistenza sanitaria.

Il diritto alla conservazione dell’integrità psico-fisica del recluso, oltre ai canonici istituti del codice penale, trova una specifica tutela nell’ art. 41 dell’ordinamento penitenziario[8], data la particolare posizione di vulnerabilità in cui versa il detenuto[9].

Inoltre, la tutela psico-fisica del detenuto si identifica, anche, come diritto a vivere in un ambiente dignitoso[10]; da qui, la previsione di specifiche misure (artt. 5-10 o.p.) che mirano a tutelare il decoro della vita del recluso[11], affinché lo status detentionis non si traduca in una lesione della dignità della persona[12] .

Per quanto concerne la tutela della salute, inteso come diritto sociale ex art. 32 co. 2 Cost., l’accesso alla assistenza medica è garantita al detenuto dall’art. 11 o.p. che assicura, al soggetto in vinculis, la fruizione di adeguate prestazioni sanitarie, sia all’interno della struttura penitenziaria, sia all’esterno, qualora ne sussistano i presupposti[13].

Sotto il profilo sanitario, l’equiparazione della posizione soggettiva del detenuto a quella del soggetto libero, è stata espressamente riconosciuta, altresì, dal D.lgs. 230/99 (“riordino della medicina penitenziaria”), secondo il quale “I detenuti … hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione …” (art. 1), garantendo al soggetto in vinculis (anche straniero), l’accesso e la permanenza al Servizio Sanitario Nazionale per tutto il tempo della sua permanenza negli istituti penitenziari (art. 5 D. lgs. 230/1999).

 

  1. La tutela del diritto alla salute del detenuto nel panorama internazionale: art. 3 CEDU

Il riconoscimento, nell’ordinamento italiano, di posizioni soggettive in capo ai detenuti e, in particolare, del diritto alla salute in vinculis, è avvenuto in modo graduale e su impulso del panorama internazionale che, da un lato, ha promosso l’umanizzazione della pena, vietando trattamenti lesivi della dignità umana; dall’altro, ha elaborato standard specifici di trattamento del soggetto sottoposto a pena detentiva (o misura detentiva) a cui gli ordinamenti penitenziari degli Stati nazionali si sono dovuti conformare[14].

Il concetto di pena (intesa non solo in chiave afflittiva), e quello di detenuto (considerato come individuo titolare di diritti), sono stati trasfusi in numerosi accordi e trattati internazionali[15]; tuttavia, sia il Comitato per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o delle pene inumane o degradanti (CPT), sia la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, hanno svolto un ruolo centrale per l’attuazione delle disposizioni sovrastatali di derivazione europea, nonché per l’adozione, da parte degli Stati membri, di specifiche politiche finalizzate al miglioramento delle condizioni degli stabilimenti carcerari.

Il CPT ha una funzione preventiva, in quanto le sue attività sono finalizzate ad impedire le violazioni di cui all’art. 3 CEDU (tortura e trattamenti inumani e degradanti), attraverso varie attività, tra cui la “visita periodica” nei luoghi di detenzione; la redazione di specifiche raccomandazioni; la predisposizione di rapporti annuali che fungono da linee-guida (o regole penitenziare) e/o da  “standard minimi” di assistenza sanitaria che lo Stato deve garantire al detenuto.

Relativamente alla funzione svolta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, il principale merito dei Giudici di Strasburgo è stato quello di annoverare il diritto alla salute del detenuto tra quelli garantiti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU)[16].

Infatti, sebbene tale diritto non sia espressamente previsto nella CEDU, la Corte ha riconosciuto al bene-salute una tutela “indiretta” [17], nel senso che, sebbene la sua violazione non integri una automatica infrazione della CEDU, assume rilevanza se si traduce in una lesione di una delle disposizioni espressamente riconosciute nella Convenzione.

Il diritto alla salute in vinculis è stato esaminato dai Giudici di Strasburgo, soprattutto, in relazione, all’art. 3 della Convenzione (“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamento inumani o degradanti”) ritenendo che la lesione psico-fisica del detenuto possa integrare una violazione della Convenzione qualora sia superata la cd “soglia minima di gravità”, sulla base di criteri oggettivi e soggettivi, da valutare caso per caso[18].

Dunque, grazie all’ evoluzione interpretativa operata dai giudici di Strasburgo, l’art. 3 CEDU è diventata la norma di riferimento per la tutela del detenuto[19] per cui la giurisprudenza europea ha elaborato uno dei principi fondamentali da cui sono derivati obblighi, a carico dei singoli Stati, sia di carattere negativo (astensione da condotte riconducibili alle fattispecie di tortura o qualificabili  come disumani e/o degradanti)[20]; sia di carattere positivo, tra cui quello di garantire, al detenuto, un adeguato standard di benessere psico-fisico, al fine di evitare che la pena comporti un aumento ingiustificato di mortificazione e sofferenza[21].

Il diritto alla salute del detenuto è stato, più volte, attenzionato dalla Corte in relazione alla questione del sovraffollamento delle carceri e, attraverso una interpretazione evolutiva del conetto di “umano e degradante”, si è affermato che il mancato rispetto dello spazio minimo personale riservato al detenuto può, in taluni casi di estrema gravità, integrare, di per sé, una violazione dell’art. 3 CEDU.

Infatti, se in alcune pronunce, la Corte aveva precisato che il sovraffollamento delle carceri non integrava, in sé, una violazione dell’art. 3 CEDU, dovendo necessariamente essere valutato congiuntamente ad altri fattori negativi riguardanti le condizioni del detenuto[22]; in altre, la mancanza di spazio personale del detenuto era stata giudicata così evidente da essere, da sola, qualificabile come trattamento inumano e degradante[23].

Un punto di arrivo è stato segnato, certamente, dal caso Sulejmanovic vs Italia[24], nel quale i giudici di Strasburgo hanno condannato il nostro Paese ravvisando la violazione dell’art. 3 CEDU, per aver costretto il detenuto in uno spazio inferiore a 3 mq.

L’importanza di tale arresto risiede nel fatto che la Corte, ha espressamente indicato, per la prima volta, lo spazio minimo che deve essere riconosciuto al detenuto (3 mq), in mancanza del quale si configura una automatica violazione dell’art. 3 CEDU, residuando le valutazioni degli altri fattori ambientali solamente ai casi in cui il detenuto è costretto in ambienti compresi tra i 3 e 4 mq[25].

L’inadeguatezza del nostro sistema carcerario è stata, poi, ribadita nella nota sentenza Torreggiani, nella quale la Corte ha rilevato il sistematico sovraffollamento delle carceri italiane, obbligando l’Italia a prendere immediati provvedimenti in forza dell’art. 46 CEDU.

Invero, già all’indomani della sentenza Sulejmanovic, il Governo italiano aveva dichiarato “lo stato di emergenza carceraria conseguente all’eccessivo affollamento degli istituti penitenziari ( D.P.C.M del 13.01.2010, poi, prorogato con quello dell’11.01.2011), predisponendo il cd. piano carceri che prevedeva, da un lato, l’ampliamento ed il potenziamento degli istituti penitenziari[26]; dall’altro, la possibilità, per i reati meno gravi, di espiare, nel proprio domicilio, le pene detentive non superiori a dodici mesi (anche come pena residua)[27], limite, poi, aumentato a diciotto mesi con il D.lg 22.12.2011 n. 211(il quale è intervenuto anche sull’art. 558 c.p.p. – arresto in flagranza- sempre con l’intento di ridurre la tensione carceraria).

Tuttavia, è solo dopo la sentenza Torreggiani che l’Italia ha predisposto un vero e proprio piano di azione (presentato a Strasburgo)[28], che si è tradotto in una serie di interventi volti a favorire, da un lato, l’adozione di politiche finalizzate a ridurre il flusso carcerario ed il numero degli ospiti negli istituti penitenziari[29]; dall’altro, l’adozione di misure organizzative all’interno delle carceri, prevedendo forme di ricorso di tipo preventivo e rimedi risarcitori per i detenuti che subiscono trattamenti in violazione dell’art. 3 CEDU[30].

Gli interventi post-Torreggiani, purtroppo, non sono riusciti a risolvere il problema del sovraffollamento, tanto che nel dicembre 2019, gli istituti penitenziari italiani ospitavano 61.174 persone, rispetto a una capienza regolamentare di 50.476.

Alla luce della evoluzione della giurisprudenza europea, ci si domanda se, in caso di pandemia, il sovraffollamento degli istituti penitenziari possa integrare, ex se, una violazione dell’art. 3 CEDU in relazione non solamente allo “spazio vitale” garantito al detenuto, ma all’aumento del fattore di rischio del contagio, ovvero se l’ingiusta esposizione del detenuto al rischio di malattie dovute a ragioni di assembramento, siano qualificabili come condizioni inumani o degradanti.

 

  1. Interventi legislativi sull’emergenza carceri durante il COVID-19

La grave situazione emergenziale causata dalla diffusione del Covid – 19, ha riacutizzato la drammatica situazione nelle carceri, impegnando il Legislatore a trovare soluzioni per preservare la salute del detenuto e per contenere il contagio all’interno degli ambienti di detenzione.

Il D.l n. 18/20 del 17.03.2020 rappresenta la prima risposta del Governo alla pandemia, prevedendo specifiche misure dedicate alla cd. “questione carceraria”, finalizzate ad alleggerire la pressione nei penitenziari italiani.

La prima misura, contenuta nell’art. 123, promuove l’esecuzione domiciliare per le pene non superiori a 18 mesi, la cui concessione è subordinata ad una valutazione del giudice che attiene non tanto alla “meritevolezza” del detenuto, quanto all’assenza dei presupposti ostativi espressamente previsti dalla

stessa norma[31]. La seconda (ndr. art.124), invece, prevede licenze premio straordinarie per i detenuti in regime di semilibertà, ed è finalizzata a ridurre il rischio di contagio dall’esterno verso l’interno[32].

A ben vedere, le soluzioni introdotte con il D.l. 18/2020, sono tutt’altro che innovative in quanto, l’art. 124 estende, sotto un profilo temporale, la disciplina dall’art. 52 O.p.; mentre, l’art. 123 (detenzione domiciliare per le pene fino a 18 mesi) ripropone, per grandi linee, una soluzione legislativa già adottata con la L. n. 199/2010 introdotta dal Legislatore all’indomani della Sentenza Sulejmanovic vs Italia[33].

Inoltre, la concessione della misura alternativa alla detenzione inframuraria, oltre alle preclusioni espressamente previste nell’ art. 123, è subordinata ad una ulteriore valutazione da parte del giudice competente, il quale concede la misura domiciliare salvo non ravvisare “gravi motivi ostativi”.  L’estrema genericità della previsione normativa e la mancata tipizzazione, da parte del Legislatore, dei “motivi” ostativi alla concessione della misura alternativa, nonché l’assenza di indicazioni in merito ai criteri da applicare per un “giudizio di gravità”, ha sollevato diverse perplessità in ordine alla effettiva capacità deflattiva dell’art. 123 Dl. 18/20[34]. Perplessità maggiormente avvalorate dalla scelta del Legislatore di vincolare la concessione dei domiciliari all’utilizzo obbligatorio di mezzi di controllo elettronico[35] senza, tuttavia, prevedere, sul punto, specifici impegni di spesa[36].

Le criticità nonché i dubbi in ordine all’effettiva efficacia di tali soluzioni, sono rimasti invariati anche all’indomani del D.l. del 28.10.2020 n. 137/2020[37] il quale, sulla questione carceri, ripropone, in grandi linee, le medesime soluzioni già adottate in precedenza: da una parte il potenziamento dei permessi-premio; dall’altro, la concessione della misura domiciliare per pene inferiori a 18 mesi.

Tuttavia, entrambe le discipline sull’emergenza non hanno previsto strumenti ad hoc per il “detenuto non definitivo”.

L’interprete, aveva denunciato tale vulnus già in sede di conversione del D.l. 18/2020, auspicando, tra le varie proposte, l’introduzione di una disciplina temporanea che imponeva al giudice della cautela di dover calibrare il provvedimento de libertate (di convalida e/o di modifica) tenendo conto, anche, dell’attuale emergenza sanitaria legata al coronavirus[38].

Tale proposta (unitamente a tante altre pure finalizzate a diminuire la popolazione carceraria) non è stata recepita dal legislatore né in sede di conversione del D.l. 18/2020; tantomeno in sede di conversione del D.l. 137/2020 (le cui disposizioni in materia carceraria sono state, poi, prorogate con il D.l. 7/2021 sino al 30.04.2021) .

Resta, dunque, da comprendere l’effettiva portata degli interventi nomativi adottati dal Legislatore per arginare il contagio nelle carceri e se, tali strumenti, siano idonei a garantire il  rispetto della salute e della dignità del detenuto in vinculis, atteso che, già nel marzo 2020, per prevenire il contagio da Covid-19 negli istituti penitenziari, l’European Committee for the Prevention of Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment (CPT) aveva esortato gli Stati membri, da un lato, a trovare soluzioni alternative alla misura carceraria; dall’altro a garantire che le misure adottate non esponessero il recluso a trattamenti inumani e degradanti, valutabili secondo i parametri dell’art. 3 della CEDU[39].

 

  1. Conclusioni

In assenza di una disciplina ad hoc¸ i giudici chiamati a decidere sulle misure cautelari e, in particolare, sulla concessione delle misure custodiali extramurarie per ragioni connesse alla pandemia, devono necessariamente rifarsi al dettato normativo di cui all’art. 275 c.p.p..

Di conseguenza, le condizioni di salute del prevenuto ed il rischio del contagio da Covid-19, possono assumere rilevanza per escludere la detenzione carceraria, solamente se essa rappresenti un reale e concreto pericolo quoad vitam, dopo una attenta valutazione delle misure di prevenzione adottate dalla struttura penitenziaria e dopo aver escluso la possibilità di trasferire il detenuto in altre strutture sanitarie più adeguate del circuito penitenziario.

E’ questo il ragionamento sotteso alla sentenza in esame, nella quale i giudici della Suprema Corte, malgrado abbiano dato atto che la detenzione carceraria possa facilitare la diffusione del virus (attese le condizioni in cui i detenuti vivono connesse alle note difficoltà di assicurare il mantenimento delle distanze di sicurezza) e nonostante abbiano riconosciuto che la patologia di cui era affetto il prevenuto rappresentasse un fattore di aumento del rischio quoad vitam in caso di infezione da Covid-19, ha ritenuto non sussistere, nel caso in esame, una incompatibilità con il regime carcerario ex art. 175 c.p.p., non sussistendo i requisiti di “concretezza” e di “effettività” del pericolo di contagio.

L’orientamento giurisprudenziale che, sul punto, si è affermato in merito ai presupposti della scarcerazione preventiva per motivi di salute del detenuto in concomitanza della pandemia Covid-19[40]  se, da un lato, risente dell’assenza di una specifica disciplina, dall’altro non esclude possibili ricorsi al Giudice di Strasburgo.

Alla luce della continua evoluzione del diritto alla salute in vinculis nel panorama europeo, appare quantomeno auspicabile un intervento risolutivo da parte del Legislatore volto a sensibilizzare e migliorare le condizioni in cui versano i detenuti negli istituti penitenziari italiani, in modo da garantire l’esecuzione di una pena che sia dignitosa della persona e che non si traduca più, in futuro, in condotte inumane e degradanti.

[1] RUOTOLO M., Diritti dei detenuti e Costituzione, Torino, 2002, p. 140;

[2] URBAN F., Il diritto del detenuto a un trattamento penitenziario umano a quattro anni della sentenza Torreggiani c. Italia, in rivista di Diritti Comparati n. 3/17, 2017, p. 29

[3] BACCARO L., Carcere e salute, Padova, 2003, pag. 9

[4] PRINCIPATO L., Il diritto costituzionale alla salute: molteplici facoltà più o meno disponibili da parte del legislatore o differenti situazioni giuridiche soggettive?, in Giur. cost., fasc. 4, 1999, p. 2513.

[5] FERRARA R., Il diritto alla salute: i principi costituzionali, in (a cura di) FERRARA R., SARTORETTI C., Trattato di Biodiritto. Salute e sanità, Milano, 2010, p. 18

[6] VIGNUDELLI A., Il rapporto di consumo, Rimini, 1984, p. 93.

[7] PENNISI A., Diritti del detenuto e tutela giurisdizionale, Torino, 2002, pag. 84. Sul punto, anche, la Sentenza n. 88 del 1979 della Corte Cost. per cui la salute deve essere considerata “non solo come interesse della collettività, ma anche e soprattutto come diritto fondamentale dell’individuo”.

[8] M.G. COPPETTA, sub art. 41. Impiego della forza fisica e uso dei mezzi di coercizione, in Ordinamento penitenziario commentato, a cura di F. DELLA CASA – G. GIOSTRA, Cedam, 2015, p. 440.

[9] PENNISI A., Diritti del detenuto e tutela giurisdizionale, Torino, 2002, pag. 86: l’art. 41 Ord Pen. sancisce, da un lato, l’esplicito divieto di utilizzare la forza fisica nei confronti dei detenuti; dall’altro, limita l’intervento della forza fisica, da parte del personale carcerario, solamente in casi eccezionali e tassativamente previsti dalla legge

[10] RUOTOLO M., Diritti dei detenuti e Costituzione, Torino, 2002, p. 146; DE FERRARI F., ROMANO C. A., Sistema penale e tutela della salute, Milano, 2003, p. 44.

[11] RUOTOLO M., Diritti dei detenuti e Costituzione, cit., p. 146.

[12] FIORENTIN F., MARCHESELLI A., Il giudice di sorveglianza; la giurisprudenza dei tribunali e dei magistrati di sorveglianza, Milano 2008, p.5

[13] CANEPA M., MERLO S., Manuale di diritto penitenziario, cit., p.134.

[14] RUOTOLO M., Diritti dei detenuti e Costituzione, Torino, 2002, p. 36.

[15] Tra i più importanti:  art. 5 Dichiarazione universale dei Diritti Umani (1952) “Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti”;

art. 10 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 1966 ed entrato in vigore nel 1976 “Qualsiasi individuo privato della propria libertà deve essere trattato con umanità e col rispetto della dignità inerente alla persona umana …Il regime penitenziario deve comportare un trattamento dei detenuti che abbia per fine essenziale il loro ravvedimento e la loro riabilitazione sociale”;

art. 3 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (1974): “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamento inumani o degradanti”;

art. 4 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamento inumani o degra­danti”; art. 35 “Ogni individuo ha il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche alle condizioni stabilite dalle legislazioni e prassi nazionali. Nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana”;

Risoluzione A/RES/70/175 del 2015 che ha adottato le “Nelson Mandela Rules”, riguardanti gli standard minimi da rispettare per il trattamento dei prigionieri – regola 1: “tutti i prigionieri devono essere trattati con il rispetto dovuto alla loro sostanziale dignità e valore come esseri umani. Nessun prigioniero potrà essere sottoposto …a tortura e ad altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti, per i quali nessuna circostanza può essere invocata come giustificazione”.

[16] CECCHINI F., La tutela del diritto alla salute in carcere nella giurisprudenza della corte europea dei diritti dell’uomo, in www.penalecontemporaneo.it, 23 gennaio 2017, p. 3.

[17] A. ESPOSITO, Il diritto penale “flessibile”. Quando i diritti umani incontrano i sistemi penali, Torino, 2008, p. 222.

[18] Corte EDU, 18 gennaio 1978, Ireland v. the United Kingdom, ric. n. 5310/71, § 162 («a minimum level of severity» nell’originale inglese ; Corte EDU (Grande Camera), 1 giugno 2010, Gäfgen v. Germany, ric. n. 22978/05, § 107; Corte EDU (Grande Camera), 21 gennaio 2011, M.S.S. v. Belgium and Greece, ric. n. 30696/09, § 216

[19] COLELLA A., La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti (art. 3 CEDU), in Dir. pen. cont., 2011, 1, p. 222

[20] NICOSIA E., Trattamento penitenziario e diritti fondamentali alla luce del diritto sovranazionale, in GABOARDI A., GARGANI A., MORGANTE G., PRESOTTO A., SERRAINO M., Libertà dal carcere, libertà nel carcere. Affermazione e tradimento della legalità nella restrizione della libertà personale, Torino, 2013, p. 13.

[21] MANNOZZI G., Diritti dichiarati e diritti violati: teoria e prassi della sanzione penale al cospetto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in (a cura di), MANES V, Milano, 2011, pag. 349

[22] Corte EDU, 6 marzo 2001, Dougoz v. Greece, ric. n. 40907/98; Moisseiev c. Russia, n. 62936/00, 9 ottobre 2008 ; Vlassov c. Russia, n. 78146/01, § 84, 12 giugno 2008 ; Babouchkine c. Russia, n. 67253/01, § 44, 18 ottobre 2007 ; Trepachkine, già citato, e Peers c. Grecia, n. 28524/95, sentenza del 19 aprile 2001, §§ 70-72

[23] leksandr Makarov c. Russia, n. 15217/07, § 93, 12 marzo 2009 ; Lind c. Russia, n. 25664/05, § 59, 6 dicembre 2007 ; Kantyrev c. Russia, n. 37213/02, §§ 50-51, 21 juin 2007 ; Andreï Frolov c. Russie, n. 205/02, §§ 47-49, 29 mars 2007 ; Labzov c. Russie, n.  62208/00, § 44, 16 giugno 2005, e Mayzit c. Russie, n. 63378/00, § 40, 20 gennaio 2005

[24] Corte EDU, 16 luglio 2009, Sulejmanovic v. Italy, ric. n. 22635/03

[25] Adele Alberi, Sentenze sulla Sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo nei casi Sulejimanovic c. Italia (6/11/2009) e Torreggiani e altri c. Italia (8/01/2013),06.2016 in www.dirittointernazionaleincivicawordpress.com, 6.06.2016;

[26] Piano carceri: quattro pilastri per affrontare l’emergenza, www.governo.it.

[27] LEGGE 26 novembre 2010, n. 199

[28]Action report (29/11/2013) “Communication from Italy concerning the case of Torreggiani and others against Italy (Application No. 43517/09)”, www.coe.int

[29] DECRETO-LEGGE 31 maggio 2010, n. 78 , convertito in LEGGE 9 agosto 2013, n. 94; DECRETO-LEGGE 23 dicembre 2013, n. 146  convertito in LEGGE 21 febbraio 2014, n. 10; LEGGE 28 aprile 2014, n. 67

[30] DECRETO-LEGGE 26 giugno 2014, n. 92

[31]  D.l del 17.03.2020 n. 18 art 123.: “(Disposizioni in materia di detenzione domiciliare)

  1. In deroga al disposto dei commi 1, 2 e 4 dell’articolo 1 della legge 26 novembre 2010, n. 199, dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 30 giugno 2020, la pena detentiva è eseguita, su istanza, presso l’abitazione del condannato o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, ove non sia superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena, salvo che riguardi:
  2. a) soggetti condannati per taluno dei delitti indicati dall’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni e dagli articoli 572 e 612-bis del codice penale;
  3. b) delinquenti abituali, professionali o per tendenza, ai sensi degli articoli 102, 105 e 108 del codice penale;
  4. c) detenuti che sono sottoposti al regime di sorveglianza particolare, ai sensi dell’articolo 14-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, salvo che sia stato accolto il reclamo previsto dall’articolo 14-ter della medesima legge;
  5. d) detenuti che nell’ultimo anno siano stati sanzionati per le infrazioni disciplinari di cui all’articolo 77, comma 1, numeri 18, 19, 20 e 21 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230;
  6. e) detenuti nei cui confronti sia redatto rapporto disciplinare ai sensi dell’articolo 81, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230, in quanto coinvolti nei disordini e nelle sommosse a far data dal 7 marzo 2020;
  7. f) detenuti privi di un domicilio effettivo e idoneo anche in funzione delle esigenze di tutela delle persone offese dal reato.
  8. “Il magistrato di sorveglianza adotta il provvedimento che dispone l’esecuzione della pena presso il domicilio, salvo che ravvisi gravi motivi ostativi alla concessione della misura”.

[32]D.l del 17.03.2020 n. 18 art 124 “(Licenze premio straordinarie per i detenuti in regime di semilibertà)-Ferme le ulteriori disposizioni di cui all’art. 52 della legge 26 luglio 1975, n. 354, anche in deroga al complessivo limite temporale massimo di cui al comma 1 del medesimo articolo, le licenze concesse al condannato ammesso al regime di semilibertà possono avere durata sino al 30 giugno 2020”.

[33] A. Pulvirenti: covid-19 e diritto alla salute dei detenuti: un tentativo, mal riuscito, di semplificazione del procedimento per la concessione dell’esecuzione domiciliare della pena (dalle misure straordinarie degli artt. 123 e 124 del d.l. n. 18/2020 alle recenti novità del d.l. n. 29/2020)

[34] F. Soviero, Il carcere ai tempi del coronavirus, in www.penaledp.it

[35] Ad eccezione del minore condannato e di quelli che, a prescindere dall’età, abbiano un residuo di pena di soli 6 mesi;

[36] F. Galluzzo, È veramente attuabile lo “svuotacarceri” da coronavirus?, in www.penaledp.it, 18.3.2020;  F. Martin, Brevi spunti di riflessione sul c.d. “Decreto Cura Italia”, in www.dirittopenaleuomo.org, 8.4.2020, 7. ; A. Pulvirenti, covid-19 e diritto alla salute dei detenuti: un tentativo, mal riuscito, di semplificazione del procedimento per la concessione dell’esecuzione domiciliare della pena dalle misure straordinarie degli artt. 123 e 124 del d.l. n. 18/2020 alle recenti novità del d.l. n. 29/2020, cit, pag. 16;

[37] convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176;

[38] Dolcini-G.L. Gatta, op. cit., p. 9; cfr. AIPDP, Osservazioni e proposte del Consiglio direttivo dell’AIPDP sull’emergenza carceraria da coronavirus, ivi, 23.3.2020, p. 2..

[39] https://www.sistemapenale.it/pdf_contenuti/1584794857_cpt-covid-statement-of-principles.pdf

[40] Si segnalano anche le pronunce n. 35012/2020 e n. 35013/2020, in cui la Suprema Corte ha ribadito che, ai fini di un giudizio di incompatibilità della misura carceraria e lo stato di salute del prevenuto, è necessario accertare, non solo “il grave stato di salute” del detenuto ma, altresì, l’effettivo rischio di contagio del coronavirus nella struttura in cui il pervenuto è ospite e l’impossibilità di poter adottare le precauzioni finalizzate a ridurre il pericolo di contagio

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