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IL DOLO SPECIFICO DI PROFITTO NELLA NUOVA SENSIBILITÀ GIURISPRUDENZIALE

RIFLESSIONI E PROSPETTIVE A SEGUITO DELLA RINNOVATA DIMENSIONE DELLA PATRIMONIALITÀ DEL PROFITTO PENALMENTE RILEVANTE

Cass. Pen., Sez. U, sent. 12 ottobre 2023 (ud. 25 maggio 2022) n. 41570 –
Diotallevi Presidente, De Marzo Relatore, Gaeta Sostituto Procuratore Generale

Abstract

Il contributo analizza la recente sentenza della Corte di Cassazione. Dopo una breve dissertazione relativa alle soluzioni in confronto nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale, l’autore mette in luce i diversi argomenti che hanno sostenuto la soluzione proposta dalla corte, evidenziando i punti nodali dell’argomentazione che ha accolto la rinnovata nozione del profitto che costituisce il fuoco del dolo specifico nel reato di furto. A fronte dell’apparente rigore dogmatico del principio di diritto enunciato, si indicano le opzioni che possono consentirne un temperamento, valorizzando la determinazione che ha spinto l’agente a commettere il reato.

Abstract (Trad. Eng.)

The paper analyzes the recent Supreme Court sentence. After a brief dissertation regarding the solutions under comparison in the doctrinal and jurisprudential debate, the author highlights the different evidence that supported the solution proposed by the court, highlighting the nodal points of the argument that accepted the renewed notion of profit constituting the focus of the specific intent in the crime of theft. Despite the apparent dogmatic rigor of the enunciated principle of law, some options are indicated that may allow its tempering, valuing the determination that drove the agent to commit the crime.

Sommario: 1. Introduzione. 2. Caratteri essenziali del dolo specifico nel furto. 3. Il contrasto nella giurisprudenza di legittimità. 4. Il dictum delle Sezioni Unite 5. Considerazioni conclusive

1 – Introduzione

Chiamate a dirimere il contrasto interpretativo insorto nella giurisprudenza di legittimità[1] relativamente alla portata del dolo specifico nel reato di furto, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno avuto modo di pronunciarsi sui confini del profitto penalmente rilevante, precisando la rinnovata funzione selettiva del dolo specifico, con considerazioni che attraversano l’intera trama dei reati contro il patrimonio. 

Invero, benché la pronuncia in commento abbia ad oggetto il dolo specifico di profitto coniugato nello specifico segmento di incriminazione previsto all’art. 624 c.p., già da una prima lettura sommaria del principio di diritto per cui ” “Nel delitto di furto, il fine di profitto che integra il dolo specifico del reato va inteso come qualunque vantaggio anche di natura non patrimoniale perseguito dall’autore”, si evince come gli argomenti affrontati dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione non si limitino a definirne l’esatto ambito di operatività, ma offrano agli interpreti, e più in generale a tutti gli operatori del diritto, un sofisticato statuto di regole che consentono di iscrivere il profitto penalmente rilevante nell’ambito dell’ampio contesto che governa i principi applicabili ai reati patrimoniali, declinandone le caratteristiche in rapporto alla rinnovata individuazione del bene protetto.

2 – Caratteri essenziali del dolo specifico nel furto.

Il delitto di furto apre il titolo XIII del libro II del Codice penale dedicato ai reati contro il patrimonio[2], ossia a quelle figure criminose il cui disvalore si concentra nell’indebita aggressione di beni giuridici a contenuto prevalentemente od esclusivamente patrimoniale. 

L’aggressione al patrimonio altrui, che ne costituisce l’essenza, rappresenta un fatto storico prima ancora che giuridico; è espressione, infatti, di un dato ricorrente in tutte le epoche e che può dirsi connaturale ad ogni forma di aggregato collettivo.[3]

La vocazione patrimoniale del delitto di furto ne informa lo spirito repressivo in una duplice direzione: da un lato, essa intende salvaguardare l’interesse pubblico all’inviolabilità dei diritti e delle facoltà che trovano fonte in un legittimo titolo di disponibilità materiale o giuridica di beni mobili o mobilizzabili; dall’altro, essa impone di subordinare la risposta punitiva a quelle sole condotte che appaiano concretamente rispondenti al paradigma soggettivo richiesto dalla fattispecie astratta, in tal modo selezionando i contenuti punibili della volontà colpevole dell’autore.

La tutela penale del patrimonio esige, oltre alla lesione patrimoniale sofferta dalla vittima, anche un elemento di indebito arricchimento da parte dell’agente, che si atteggia in maniera diversa sul piano tipico a seconda della fattispecie di volta in volta considerata.

Nella fattispecie di furto, la particolare direzione finalistica dell’agire colloca il ruolo del profitto sul piano dell’elemento psicologico, in funzione di connettore tra l’agente e il fatto tipico[4].

Il legislatore ha, quindi, tipizzato la condotta proditoria secondo lo schema del dolo specifico, per cui, per poter rispondere a titolo di furto, è necessario che il momento intellettivo e volitivo in cui si concretizza il giudizio di rimproverabilità soggettiva dell’agente non rimanga circoscritto agli elementi primari della sottrazione e dell’impossessamento della cosa di cui si riconosca l’ altruità, ma si estenda al conseguimento della ulteriore finalità di profitto, la cui effettiva realizzazione materiale non è, tuttavia, necessaria ai fini del momento perfezionativo della fattispecie, potendo essa diversamente rilevare nel successivo giudizio di personalizzazione del trattamento sanzionatorio, alla luce dei criteri orientativi di cui all’art. 133 c.p.

La valorizzazione del profitto in chiave soggettiva ha sollevato diverse riflessioni a livello interpretativo, involgendo considerazioni di più ampio respiro nella prospettiva di verificare l’estensione latitudinale della tutela penale contro azioni volte a turbare il libero uso o godimento di beni mobili.

In particolare, il dibattito dottrinale e giurisprudenziale è nel senso di risolvere l’alternativa se i reati patrimoniali vadano ricostruiti in un’ottica puramente e semplicemente patrimoniale o, piuttosto, secondo una visione che travalichi la patrimonialità in senso stretto[5].

Sull’effettiva portata concettuale del termine profitto si confrontano orientamenti contrastanti.

La dottrina tradizionale[6] intende mettere a riparo da interpretazioni estensive il significato del profitto penalmente rilevante, conferendovi un’accezione giuridica quanto più possibile rispondente al suo significato letterale. A tal fine, facendo riferimento alla portata semantica del profitto nella scienza economica, si accoglie una definizione in senso tecnico che espunga dalla fattispecie penale quel generico vantaggio tipicamente connesso alla manomissione del possesso altrui, che non si converta in un’eccedenza dei ricavi rispetto ai costi della condotta furtiva, secondo una logica squisitamente economica. 

In tale prospettiva, rimarrebbero al di fuori del perimetro della tipicità tutte quelle condotte sottrattive animate da una finalità diversa da quella strettamente lucrativa, e, perciò, non potrebbe ritenersi integrato il furto ex art. 624 c.p., per difetto dell’elemento soggettivo, ove la proiezione finalistica della condotta sia orientata al conseguimento di scopi incompatibili con la volontà di determinare un incremento monetario del proprio patrimonio.

Diverse voci dottrinali sostengono, invece, che debba trovare spazio una concezione maggiormente ampia del profitto, che non si limiti unicamente all’accrescimento pecuniario derivante dalla condotta, ma che valorizzi l’attitudine del bene sottratto a soddisfare un’utilità dell’agente, anche non patrimoniale, in relazione al tipo di interesse di volta in volta coinvolto[7].

3 – Il contrasto nella giurisprudenza di legittimità.

L’orientamento tradizionale[8], e risalente della giurisprudenza di legittimità si attesta su tale ultima concezione, e, pertanto, tende a ricostruire il profitto in senso lato, comprendendovi il conseguimento di una qualsiasi utilità, pure di carattere morale, personale, o spirituale; dunque, indipendentemente dalla destinazione economica che l’autore materiale abbia conferito alla cosa sottratta.

In tali casi[9], valorizzando l’ampiezza letterale della fattispecie, la giurisprudenza ritiene integrato il dolo specifico di profitto osservando, anzitutto, che l’art. 624 c.p, accanto al lemma “profitto”, non specifica se esso debba avere carattere patrimoniale, per cui si ritiene che tale silenzio legislativo sia da intendere come una lacuna involontaria.

Si rivendica, inoltre, l’esigenza di evitare vuoti di tutela nel sistema penale rispetto ad azioni aggressive che insistono su beni che, per loro natura, siano più agevolmente esposti al circuito dell’illecita circolazione[10].

Accedendo a tale concezione, ad avviso della giurisprudenza di legittimità richiamata, si configurerebbe la possibilità di rendere punibili tutte quelle condotte di sottrazione ed impossessamento della cosa mobile altrui accompagnate da finalità emulative o dalla spinta di protezione dell’interesse della vittima.

Con riferimento al furto nell’interesse della vittima, in particolare, il profitto andrebbe ravvisato nella finalità di proteggerne gli interessi di più varia natura.

Si pensi, ad esempio, al docente che si impossessi del cellulare dell’alunno a scopo educativo, o alla condotta dell’agente che sottragga la dose di sostanze stupefacenti ad un amico, allo scopo di impedirne l’assuefazione.

Il dato letterale dell’art. 624 c.p. imporrebbe di escluderne l’operatività, dal momento che il criterio di relazione tra l’agente e il fatto tipico fa riferimento al conseguimento di un profitto per sé o per “altri” e, pertanto, la sussistenza di un’alterità soggettiva, nella struttura tipica del reato di furto, sembrerebbe, allora, suggerirne la relazione sia rispetto all’agente che al soggetto passivo del reato.[11]

Nella cornice disegnata dalla giurisprudenza, la dilatazione del profitto penalmente rilevante porterebbe, invece, a ritenere integrata la fattispecie, verificando, tuttavia, la possibilità di vagliare l’antigiuridicità del fatto, in presenza di una eventuale causa di giustificazione.

A tal fine, si potrebbe ritenere lecita la condotta sottrattiva se accompagnata dal consenso implicito o presunto[12] del soggetto passivo, ex art. 50 c.p.

Tuttavia, il principio di ragionevolezza impone di formulare, al fine di porre nel nulla il profilo di illiceità che normalmente si connette all’indebita aggressione del patrimonio della vittima, uno scrutinio particolarmente rigoroso nell’accertamento del fattore scriminante: occorre che il consenso sia manifestato in forma libera ed espressa da parte del soggetto che possa effettivamente disporre del diritto in una dimensione attuale ed effettiva, assunto che appare arduo da sostenere rispetto ad una condotta predatoria, per sua natura perpetrata contro, o perfino all’insaputa, del soggetto esposto unilateralmente all’azione aggressiva.

Più verosimilmente, il fatto potrebbe essere scriminato dall’adempimento di un dovere ex art. 51 c.p., di carattere pedagogico o protettivo, sempre che quest’ultimo abbia natura pubblicistica e trovi origine in una norma di legge che fondi un obbligo di protezione o di controllo, oppure in un ordine legittimo della pubblica autorità.

Quanto all’ipotesi di furto commesso con finalità emulative, ereditandone la nozione dall’art. 833 del codice civile, devono ascriversi alla categoria tutti quegli atti che non abbiano altro scopo se non quello di nuocere o recare molestia ad altri.

L’azione sottrattiva costituisce, in queste ipotesi, lo strumento volto, ad esempio, ad infrangere la sfera di riservatezza del soggetto passivo, carpire informazioni, turbarne la libertà di locomozione; tutte finalità radicalmente diverse rispetto a quelle più prettamente economico-patrimoniali.

Rivendicandosi l’esigenza di evitare vuoti di tutela nel sistema penale rispetto ad azioni aggressive che insistono su beni che, per loro natura, siano più agevolmente esposti al circuito dell’illecita circolazione, si afferma che “il fine di profitto – nel quale si concreta il dolo specifico del reato – non si identifica necessariamente con l’animus lucrandi, e quindi non ha necessario riferimento alla volontà di trarre un’utilità patrimoniale dal bene sottratto, giacchè deve ritenersi incluso nella previsione della norma il perseguimento di qualsiasi soddisfazione o vantaggio che al soggetto possa derivare dalla cosa sottratta, che può anche consistere in un bisogno psichico e rispondere, quindi, a una finalità di dispetto, ritorsione, vendetta o rappresaglia” [13]

Un polo consistente della giurisprudenza di legittimità, manifestatosi in tempi più recenti[14],  aderisce, invece, alla concezione restrittiva, valorizzando, anzitutto, la collocazione sistematica della fattispecie tra i reati che offendono interessi a contenuto patrimoniale[15].

A sostegno di tale interpretazione, un dato significativo affiora dal raffronto tra il dolo specifico nella fattispecie di furto e quello di altre fattispecie poste a tutela della pubblica fede, come ad esempio l’art. 494 del codice, che punisce la sostituzione di persona ove l’agente, con la condotta volta ad alterare la propria identità, abbia di mira il conseguimento di un generico vantaggio.

Ad avviso di tale orientamento restrittivo[16], non sarebbe casuale la scelta del legislatore di diversificare il profitto dal vantaggio, pur quando tali connotazioni del contributo psicologico si inseriscano nell’ambito della medesima fattispecie, come avviene nell’416 bis c.p., sottendendo tale opzione una chiara diversità di significato da ascrivere al profitto giuridico rispetto al generico concetto di vantaggio conseguente ad una condotta delittuosa, dove la connotazione economica può anche difettare.

Ma la ragione più pregnante, nella prospettiva ermeneutica della giurisprudenza di legittimità che propende per tale più circoscritta interpretazione, si rinviene nell’intento di preservare la funzione selettiva del profitto soggettivamente rilevante, che svolge sia il compito di limitare il novero delle condotte punibili rispetto a quelle astrattamente conformi al dato normativo, sia quello di evidenziarne la distinzione rispetto a figure delittuose che, pur a fronte della medesimezza del fatto tipico dal punto di vista materiale, non necessitano di tale colorazione soggettiva, come, ad esempio, nei limiti della depenalizzazione, il danneggiamento ex art. 635 cp.

Diversamente opinando, il concetto di profitto, cui il legislatore ha conferito il ruolo di orientamento soggettivo della condotta tipica, degraderebbe surrettiziamente divenendo un elemento in re ipsa, ossia da rinvenirsi genericamente nella condotta di impossessamento, laddove, invece, la desinenza pronominale “trarne” ne evidenzia il necessario collegamento con la cosa oggetto di sottrazione.

4 – Il dictum delle Sezioni Unite

Le ragioni di tale ultima prospettiva si sono, da ultimo, registrate nella giurisprudenza di legittimità più recente[17] che, preso atto del contrasto, mai del tutto sopito, nella sensibilità ermeneutica della giurisprudenza italiana di ultima istanza, ha investito della questione il Supremo Consesso, chiamato a pronunciarsi sul seguente principio di diritto: “Se il fine di profitto del reato di furto, caratterizzante il dolo specifico dello stesso, sia circoscritto alla volontà di trarre dalla sottrazione del bene una utilità di natura esclusivamente patrimoniale, ovvero possa consistere anche in un fine di natura non patrimoniale”.

Dopo aver dato atto dei due contrapposti orientamenti, le Sezioni Unite hanno, anzitutto, messo al riparo da possibili obiezioni il procedimento valutativo che deve guidare l’interprete nello studio delle norme di legge.

Si è, così, voluto precisare che l’attività interpretativa, nel settore penale più che in altri rami dell’ordinamento, costituisce un’irrinunciabile attività obbligata, posta egualmente a tutela dei rapporti orizzontali tra i poteri dello Stato, equilibrandone il coordinamento, e di quelli verticali tra le istituzioni e il cittadino, costituendo essa un’attività di intermediazione delle scelte di politica legislativa tradottesi nei testi normativi, diretta ad assicurare l’effettiva trasparenza della volontà del legislatore ed in tal modo promuovendone, auspicabilmente, la libera adesione da parte dei consociati. [18]

Entro tale primo, preliminare, aspetto si è osservato che, nella questione oggetto di dibattito, non si è trattato di agitare il principio di legalità e di riserva tendenzialmente assoluta di legge (artt. 25, comma secondo, Cost; art. 49 Carta di Nizza; art. 7 CEDU)., posto che l’attività interpretativa relativa alla connotazione del profitto penalmente rilevante non si traduce, nel ragionamento delle Sezioni Unite, “nell’evasione dal dato positivo[19]” che si verifica in caso di travalicamento della formulazione letterale del precetto.

Ed infatti, il risultato interpretativo, qualunque esso sia, dipende dalla corretta applicazione delle regole enunciate dall’art. 12 preleggi, che individua il procedimento al quale l’interprete deve attenersi nell’applicazione della legge, stabilendo che non possa esserle attribuito altro senso se non quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione del legislatore.

La regola iuris individua, pertanto, una dosimetria simmetrica tra l’intenzione e la formulazione del precetto, allo scopo di ricostruire, nella maniera più fedele possibile, il procedimento di traduzione dell’intento nel testo plasticamente visibile e, perciò, accessibile al lettore.

Una lettura costituzionalmente orientata delle regole di ermeneutica giuridica non è, quindi, fine a sé stessa, ma, al contrario, diretta a promuovere le garanzie poste a tutela dei diritti fondamentali del cittadino.

I principi costituzionali consacrati nel testo dell’articolo 25 della Carta costituzionale si traducono nell’affermazione per cui ogni cittadino deve poter confidare che l’an e il quantum della punizione connessa alla trasgressione delle regole di pacifica convivenza alle quali sono ispirati i valori del nostro ordinamento, siano, da un lato, predeterminati in maniera precisa da parte del legislatore e, dall’altro, allo scopo di colmare l’inevitabile deficit di determinatezza connesso all’utilizzo di termini polisensi o clausole generali, correttamente interpretati dal giudice, solo in tal modo assicurandosi che le scelte di azione nella regolazione dei comportamenti umani siano libere e rispondenti a determinazioni consapevoli e volontarie, dipendendo da tale ultima circostanza la legittimità dell’intervento punitivo statuale e l’effettiva tenuta dell’obiettivo rieducativo ultimo della sanzione.

L’utilizzo di clausole generali nella formulazione delle norme di legge costituisce, infatti, sin dall’emanazione del BGB tedesco, un’eredità storico-scientifica profondamente radicata nella tradizione giuridica occidentale, che mira all’obiettivo di evitare che i concetti sui quali deve misurarsi l’azione umana rimangano stretti entro le mura rigide di un codice[20], affidando la loro concreta definizione proprio alla mediazione intellettiva del giudice e confidando nella sua autoresponsabilità. 

Nella delineata prospettiva, le Sezioni Unite osservano, partendo dal dato strettamente letterale[21], che non è dato rinvenire, nella concezione comunemente accolta dalla letteratura linguistica italiana, un significato del termine “profitto” che sia univocamente riconducibile al concetto di lucro patrimoniale strettamente inteso, tale da vincolare l’interprete in modo assoluto a propendere per una soluzione lessicale che espunga incontrovertibilmente il senso del termine dalle più late accezioni del vantaggio o giovamento, sia fisico che intellettuale o morale o pratico.

Viene, a tal proposito, richiamato l’esempio del profitto che si trae da una cura o da una lezione, ma il principio può essere agevolmente esteso al vantaggio riconnesso, per esempio, alle prestazioni d’opera intellettuale.

Non appare inopportuno precisare, a tal proposito, che ogni entità della realtà materiale suscettibile di apprensione, nelle più diversificate forme, presenta all’evidenza l’attitudine alla conversione lucrativa, ma tale dato obiettivo non autorizza a confondere il profitto che si trae dalla cosa in sé considerata con quello che, invece, deriva dalla condotta di impossessamento.

Ed infatti, la formulazione legislativa appare quanto mai chiara: il dolo specifico viene riconnesso dal legislatore alla trazione del profitto dalla condotta illecita espressa dalla coppia concettuale sottrazione-impossessamento e non, invece, in generale, dall’oggetto materiale del reato.

Diversamente opinando, infatti, la condotta punita all’art. 624 cod. pen. si presterebbe ad una vera e propria deviazione dallo spirito repressivo della disposizione, con evidenti ricadute sul principio di legalità.

La portata semantica del concetto di patrimonio costituisce uno dei temi più controversi della scienza giuridica e proprio l’assenza di una nozione di profitto, patrimonio, e danno unanimemente condivisa impone all’interprete di adoperare cum grano salis opzioni ricostruttive che si arrestino al dato strettamente letterale.

La valenza chiarificatrice di tale assunto si coglie tanto più se si considera che la maggior parte dei concetti impiegati dal legislatore nella descrizione dei reati contro il patrimonio derivano dal diritto civile, in quanto si tratta di punire fatti offensivi di rapporti giuridici meta-soggettivi involgenti la sfera di relazione tra privati.

Ed invero, a dimostrazione di tale dato, la Corte di legittimità osserva che “proprio la voce dottrinale alla quale si deve la nozione di profitto alla quale mostra di aderire l’orientamento minoritario, nel tentativo di tracciare la nozione di patrimonio, indica la propria soluzione in una concezione giuridico-funzionale, personalistica ed economica che finisce per includere il complesso dei rapporti giuridici facenti capo ad una persona ed aventi per oggetto cose dotate di funzione strumentale in quanto idonee a soddisfare bisogni umani, materiali o spirituali”.

La sovrabbondanza concettuale che, in taluni casi, (si pensi, ad esempio, alla fattispecie di associazione mafiosa ex art. 416-bis c.p.), si riscontra nell’accompagnamento del profitto al vantaggio si coniuga, nella ricostruzione delle Sezioni Unite, proprio all’avvertita consapevolezza della relatività nell’individuazione di un unico riferimento concettuale entro il quale sottendere la nozione di profitto penalmente rilevante, essendo tale soluzione interpretativa l’unica compatibile con lo scopo di non lasciare sforniti di tutela beni giuridici di massima istanza protettiva, connessi alla tutela di interessi che trascendano la dimensione squisitamente privata e che si risolvono, nell’associazione mafiosa, come nella sostituzione di persona, nella tutela di interessi superindividuali.

Né, d’altra parte, per la sola circostanza che in altre fattispecie compare il richiamo al più generico concetto di “vantaggio”, come accade, ad esempio, nella sostituzione di persona, si può affermare che il legislatore abbia inteso coniugare il profitto ad una finalità unicamente lucrativa, una volta che si sia preliminarmente chiarito che tale interpretazione risulta disancorata da dati di carattere obiettivo ed incontrovertibilmente indicativi di tale soluzione.

Gli argomenti addotti a sostegno di tale assunto poggiano anche su dati interpretativi di carattere sistematico, in particolare valorizzando il fatto che in alcune norme, sia di parte generale, che di parte speciale, il legislatore ha fatto, invece, riferimento espresso alle connotazioni economiche del profitto.

Si pensi alle previsioni di cui agli artt. 62, n. 4, c.p., 481, secondo comma, c.p. e 707 c.p., nelle quali compare l’apposito richiamo ai delitti determinati da motivi di lucro.

Le considerazioni del vertice allargato si confrontano, nel cuore della pronuncia in commento, sul paventato rischio di elisione della funzione tipicamente selettiva[22] che il dolo specifico ricopre nell’ambito della struttura della fattispecie.

L’elemento soggettivo viene normativamente qualificato, nella fattispecie di cui all’art. 624 c.p, nella forma del dolo specifico: quale finalità ulteriore cui l’agente deve tendere, rispetto alla coscienza e volontà che deve investire il profilo materiale della condotta sottrattiva, la cui empirica realizzazione non è, tuttavia, richiesta ai fini del perfezionamento della fattispecie.

L’orientamento che propugna la necessaria assimilazione del profitto ad un incremento di natura economico-patrimoniale mette in nuce il pericolo di dispersione dell’elemento soggettivo consustanziale all’ampiamento della nozione di patrimonialità.

Ed allora, estendendo il perimetro concettuale del profitto, ne deriverebbe la sostanziale abrogazione, per via interpretativa, di un imprescindibile requisito di fattispecie, con evidenti ricadute sul piano della tipicità penale.

Il Supremo Consesso osserva, a tal fine, che alcun vulnus alla primigenia categoria della tipicità – entro la quale va ricompresa la costruzione strutturale dell’elemento soggettivo del reato –  si verifica per effetto dell’interpretazione che estende la nozione di profitto ai suoi fisiologici riferimenti letterali.

Né la soluzione ermeneutica propugnata dall’orientamento minoritario offre realmente argomenti atti a individuare in concreto quali siano i rapporti oggetto del patrimonio e, soprattutto, il contenuto dello spostamento patrimoniale,

Si è voluto, in tal modo, dimostrare l’isolamento delle premesse di partenza su cui si fonda l’architrave argomentativo dell’orientamento restrittivo, declinate in una prospettiva che, seppur suggestiva, non consente l’agevole esportabilità della soluzione.

Sotto il primo profilo, risulta ormai indubbio, come attesta la risposta giurisprudenziale ormai pacifica[23] che la fattispecie si configura anche nel caso in cui la res oggetto di sottrazione sia priva di intrinseco valore economico[24] e, se tale rilievo vale per il soggetto passivo, non si comprende per quale motivo si debba distorcere l’omnicomprensiva nozione di patrimonio, vulnerandone gli elementi, quando l’angolazione di indagine si sposta sulla verifica dell’integrazione dell’elemento soggettivo dell’agente.

Quanto ai contenuti dello spostamento patrimoniale, si osserva che, nell’ambito della trama codicistica della classe di reati oggetto di analoga costruzione strutturale, il profitto che assume rilievo, intervenendo come finalità ulteriore rispetto al profilo meramente oggettivo della condotta di sottrazione e di impossessamento, è quello che, al di là dell’attitudine alla conversione monetaria, deriva dall’immediata costituzione, sulla res oggetto di sottrazione, di una sfera di signoria esclusiva; sfera che risulta intanto idonea a qualificare normativamente la finalità aggiuntiva pretesa dalla fattispecie in quanto sia diretta alla realizzazione di un’utilità ottenuta direttamente dall’impossessamento della cosa, e non, genericamente, dall’illecito commesso.

La selezione della finalità obiettivata nella condotta si risolve, pertanto, nell’individuazione di un minimo comune denominatore entro il quale deve essere vagliata l’integrazione concreta del requisito di tipicità previsto dalla fattispecie astratta: per poter rispondere di furto, l’agente deve, dunque, avere di mira il vantaggio che concretamente si correla al conseguimento del possesso penalisticamente inteso, che implica la possibilità, da apprezzare in termini di concretezza ed attualità – e, dunque, disancorata da ogni potenzialità reattiva della vittima  – di esercitare sulla res così ottenuta poteri conservativi, atti di godimento, facoltà di uso e, più in generale, atti dispositivi incompatibili con residue possibilità di esercizio di diritti, a qualsiasi titolo, da parte di terzi.

A tal fine, appare paradigmatica la circostanza che il legislatore abbia dedicato un’incriminazione autonoma al furto d’uso (art. 626, comma primo, n. 1 c.p.), a dimostrazione del fatto che la paventata abrogazione implicita del dolo specifico non si confronta con la scelta del legislatore positivo di richiedere un coefficiente volitivo che non si esaurisca nel generico vantaggio che, in astratto, possa derivare dalla sottrazione, ma che, invece, valorizzi l’arricchimento (figurativamente inteso) che si ponga come diretta conseguenza dell’impossessamento, inteso quale conseguimento di autonomia gestoria sulla cosa aggredita, protrattasi per un lasso temporale che consenta quantomeno di farne un uso autonomo, sia pure momentaneo.

Così (ri)delineata la nozione del profitto nell’economia complessiva della fattispecie, sono le stesse Sezioni Unite a confrontarsi con il fisiologico effetto riduttivo che ne deriva sul piano della selezione della volontà punibile; risultato che, tuttavia, il giudice nomofilattico ritiene rispondente alla volontà del legislatore che, in virtù del principio di frammentarietà[25] che storicamente caratterizza la materia penale, ben può prevedere un dosaggio differenziato delle disposizioni incriminatrici, curandosi di assicurane sistematicamente il raccordo, tramite il ricorso ai principi generali che governano la materia.

In tale quadro, un ruolo di spicco gioca l’istituto della particolare tenuità del fatto, ex art. 131-bis c.p., nel cui campo oggettivo di applicazione, a seguito della riforma Cartabia, rientra anche il furto monoaggravato.

Ed infatti, il legislatore della riforma è intervenuto, nella materia de qua, non solo dal punto di vista – solo apparentemente – formale, ancorando l’individuazione della soglia di non punibilità al minimo edittale (individuato nella misura di due anni di reclusione), ma anche, e soprattutto, dal punto di vista sostanziale, arricchendo il giudizio di meritevolezza del beneficio attraverso la considerazione della “storia complessiva” della condotta illecita, mediante la valorizzazione della “condotta susseguente al reato”. 

La scelta di misurare i requisiti di accessibilità della misura deflattiva alla stregua del minimo edittale, in uno alla consapevolezza che la tenuità dell’offesa non possa non apprezzarsi anche con riferimento alle conseguenze successive alla perpetrazione dell’illecito, rendono l’istituto, ad avviso del massimo vertice giurisprudenziale, particolarmente pregnante al caso che occupa, nell’obiettivo di restituire coerenza ed equilibrio complessivo al sistema pure dal punto di vista dell’offensività del fatto in concreto.

Sempre in tema di offensività, e nell’ottica di assicurare la funzione di garanzia di prevedibilità in cui si esprime la funzione nomofilattica della Corte Suprema di Cassazione, la tenuta epistemica della soluzione adottata intende superare il vaglio di resistenza dogmatica della categoria del dolo di profitto, così delineata, attraverso un confronto strutturale con le fattispecie di rapina[26] e di ricettazione, reati ricompresi nel medesimo titolo XIII del codice e tipizzati secondo il medesimo schema ricostruttivo del furto, al di là delle note diversificatorie attinenti alla materialità delle fattispecie (che si iscrivono negli elementi della violenza o minaccia – sub specie rapina – e della ricezione del prodotto frutto dell’altrui acquisizione patrimoniale, sub specie ricettazione. )

La pronuncia osserva, in proposito, che l’orientamento costante della giurisprudenza di massima istanza, mai messo in discussione e, perciò, pacifico, aderisce alla nozione onnicomprensiva del profitto pur quando, come nelle fattispecie di rapina e ricettazione, le note di offensività del fatto siano, in concreto, ben più rilevanti.

Il risultato interpretativo si confronta, poi, con l’ulteriore riflessione relativa al pericolo di confusione tra il dolo specifico di profitto e il momento volitivo primario che qualifica la condotta nella forma del movente.

Le Sezioni Unite osservano, sul punto, che trattasi di problema più apparente che reale, poiché il dolo specifico altro non è che un “movente normativamente qualificato” che va al di là della coscienza e volontà del fatto e si risolve nella mera selezione normativa, tra i plurimi impulsi propulsivi che possono qualificare soggettivamente la condotta nella fattispecie concreta, di quelli destinati ad integrare la tipicità dal punto di vista soggettivo, rimanendo confinati gli altri nella sfera dell’irrilevanza penale.

Da ultimo, viene affrontata la questione relativa agli scopi ‘mediati’ della condotta che, a partire dalla sentenza Stawika (Sez. 5, n. 40488/2019) si inseriscono nello scopo di profitto economicamente inteso, in tal modo temperando il rigore applicativo della soluzione ermeneutica restrittiva.

Si è trattato di un tentato mutamento di paradigma, innescato dal divisamento minoritario fedele alla nozione totalizzante del profitto calcolabile e volto a ricomprendere nella sfera del profitto, in funzione tuttavia accessoria, anche gli scopi ulteriori, di carattere non patrimoniale, che consentano all’agente di soddisfare un bisogno umano, materiale o spirituale.

La citata pronuncia afferma, sul punto, che “[…] esso può dirsi integrato ove sia accertato che l’autore del fatto materiale abbia agito per conseguire un ampliamento del proprio patrimonio, quale fine diretto e immediato dell’azione, sia pure con l’intento di ottenere per tale via il soddisfacimento di un bisogno ulteriore anche solo di ordine spirituale.

Il Supremo Consesso osserva, tuttavia, che tale affinata soluzione appare intrisa di notevole ambiguità dal punto di vista ricostruttivo, determinando notevoli incertezze applicative, poiché, se nella prima parte dell’assunto rimane fedele all’orientamento originario, introduce, poi,  un elemento che, al di là dell’apparenza, appare privo di alcun significativo rilievo, poiché, una volta che si muova da una nozione restrittiva di profitto, ogni ulteriore profilo personalistico “a valle” resta di fatto assorbito e rimane irrilevante, una volta procedutosi, con esito positivo, all’accertamento che l’agente “abbia agito per conseguire un ampliamento del proprio patrimonio”.

Detto in altri termini, anche la versione “temperata” dell’orientamento restrittivo, nella misura in cui tenta di dedicare all’elemento personalistico un ruolo mediato mediante la preposizione concessiva “sia pure con l’intento di ottenere”, introduce, in realtà, un elemento assolutamente superfluo, poiché, al di là della declamazione, pur suggestiva, ciò che rimane essenziale è il conseguimento (rectius: il fine di conseguimento) di un ampliamento del patrimonio, il ché equivale alla originaria formulazione della tesi restrittiva e cioè percepire dalla cosa aggredita un profitto economico immediato e diretto.

Conclusivamente, il massimo formante giurisprudenziale afferma il seguente principio di diritto: “Nel delitto di furto, il fine di profitto che integra il dolo specifico del reato va inteso come qualunque vantaggio anche di natura non patrimoniale perseguito dall’autore”.

5 – Considerazioni conclusive

Alla luce dell’insegnamento nomofilattico possono formularsi talune osservazioni.

Gli approdi della giurisprudenza di legittimità mostrano lo sforzo nel voler ricercare una soluzione compromissoria che, da un lato, non atrofizzi la tutela delle aggressioni ai diritti patrimoniali, nella loro ridisegnata dimensione, e, dall’altro, assicuri e difenda la categoria della tipicità penale, nella quale si radica la preminente funzione di garanzia in ordine alla calcolabilità delle scelte di comportamento dei singoli.

In tale cornice, la soluzione adottata dal massimo vertice riflette, all’evidenza, un diverso modo di concepire la tutela penale del patrimonio, giustificato, anzitutto, dall’osservazione di un mutamento del contesto socioculturale che ha attraversato la trama delinquenziale negli ultimi anni rispetto al terreno ispiratore del codice del 1930, epoca in cui la commissione dei delitti predatori costituiva per lo più il riflesso di diseguaglianze sociali conseguenti ad inique distribuzioni della ricchezza tra i consociati.

Nell’attuale mutato contesto, si osserva che le condotte sottrattive si svolgono spesso nell’ambito di rapporti qualificati tra il colpevole e l’offeso, a dispetto della prassi registrata all’origine dell’incriminazione, ove il reato si perpetrava in assenza di un qualsiasi rapporto sociale pregresso che potesse in qualche modo qualificare la condotta in termini diversi rispetto a fini squisitamente locupletativi.

Appare, dunque, ragionevole la scelta di pretendere, in armonia con un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione di cui all’art. 624 c.p., doverosa e prioritaria rispetto a qualunque altra possibile, un coefficiente elastico di ascrizione della responsabilità dal punto di vista dell’elemento psicologico che connota – e distingue – la fattispecie di furto, senza, tuttavia, snaturarne la funzione selettiva.

In tale prospettiva, il ruolo di selezione delle condotte punibili assegnato al dolo specifico varrà, in ogni caso, ad escludere che possa rispondere di furto chi abbia realizzato la condotta ioci causa, oppure al solo fine di distruggere o deteriorare la cosa altrui, o, ancora, abbia agito nell’interesse dello stesso detentore, venendo in gioco, in quest’ultimo caso, l’esistenza di una scriminante, da vagliare attraverso il rigoroso accertamento circa la serietà ed effettività del consenso.

In riferimento, in particolare, al furto nell’interesse della vittima ed ai limiti del consenso scriminante,  dal quadro del panorama interpretativo rassegnato, appare incontestabile che il giudizio di liceità del fatto vada misurato con estrema cautela con riferimento al valore da attribuire al consenso dell’avente diritto, posto che il risultato di offensività delle condotte sottrattive verrebbe, in tali ipotesi, a neutralizzarsi, in nome della garanzia di unità dell’ordinamento giuridico, per effetto della valorizzazione di specifici fattori che, rispondendo ad un’obiettiva finalità di protezione, nell’interesse della persona offesa, concorrano ad escludere l’antigiuridicità.

In tale prospettiva, appare condivisibile il timore manifestato dalla giurisprudenza con riferimento ai possibili effetti distorsivi del consenso presunto che, diversamente dal consenso putativo – idoneo, ai sensi dell’art. 59, comma 4, del codice, ad escludere il dolo – non è nemmeno oggetto di effettiva rappresentazione.

La presunzione di consenso, coniugata entro la specifica finalità di profitto perseguibile, urta con il requisito di effettività che deve necessariamente accompagnarsi all’atto di delega di interesse che fonda l’in sè dell’effetto esimente della condotta.

Per tale via, la possibilità di ritenere il fatto sic et simpliciter scriminato ex art. 50 c. p. offrirebbe all’autore materiale un agevole schermo di protezione per una condotta che si consuma contro la volontà, sia pure non espressamente manifestata, del titolare.

Per altro verso, essa risulta incompatibile con la salvaguardia della libertà di autodeterminazione della vittima, nella misura in cui la pur benevola finalità altruistica dell’azione sottrattiva non appaia condivisa dall’unico soggetto titolare del diritto di regolare le proprie scelte di vita, pur dannose; fatte salve le ipotesi in cui, per effetto del concorso di fattori indicativi di una volontà contraria, il silenzio dell’offeso possa in qualche modo colorarsi di effettività.

In definitiva, come efficacemente osservato nella memoria redatta del Procuratore generale presso la Corte di Cassazione, “il meccanismo del dolo specifico conserverà ruolo selettivo nel senso di escludere dal novero dell’incriminazione le condotte connotate da appropriazione “fine a sé stessa”.

In ogni caso, la rigorosa impostazione seguita dalle Sezioni Unite nell’accogliere la omnicomprensiva nozione di profitto sopra delineata può trovare un correttivo – invero prospettato dallo stesso Supremo Consesso – nell’applicazione della speciale causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis del codice penale, viepiù nella attuale e più ampia declinazione dell’istituto, quando il fatto possa ragionevolmente qualificarsi di speciale tenuità in considerazione del contesto entro il quale si situa la condotta, in tal modo reindirizzando la valutazione sull’opportunità della punizione in considerazione del coefficiente concreto di offensività della condotta, e sempre che sussistano le condizioni stabilite dalla legge.

Per altro verso, l’apparente rigore interpretativo della soluzione trova oggi adeguato contrappeso nello statuto della procedibilità del reato di furto disegnato dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, che ha rimesso all’iniziativa della persona offesa la determinazione riguardo l’effettiva necessità della risposta punitiva.

Infatti, l’ultimo comma dell’articolo 624 prevede ora che il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo che la persona offesa sia incapace, per età o per infermità, ovvero se ricorra taluna delle circostanze di cui all’articolo 625 n. 7, salvo che il fatto sia commesso su cose esposte alla pubblica fede, e 7-bis.

Ancora, l’introduzione degli strumenti di giustizia riparativa, e gli effetti penali che ne conseguono, possono consentire la composizione dei conflitti da cui origina la spinta dell’azione, rivalutando il rapporto tra l’agente e la vittima su un piano di risoluzione della contrapposizione che, in larga misura, si rintraccia nelle ipotesi che hanno in concreto generato il contrasto giurisprudenziale.

La lettura complessiva del principio di diritto, calato nel contesto delle disposizioni recentemente introdotte per temperare la funzione meramente repressiva della sanzione penale, rimette, in definitiva, alla prudente valutazione del giudice l’indagine relativa alla scelta della misura più idonea nell’ampio ventaglio degli strumenti di tutela disponibili.

Può, a tal proposito, formularsi la ragionevole aspettativa che il rapporto tra giustizia punitiva e giustizia riparativa volga senz’altro in favore di quest’ultima nei casi in cui la lesione al patrimonio sia alimentata da conflitti o sia orientata da scopi diversi rispetto a quello della mera locupletazione economica.


[1] La questione è stata rimessa, con ordinanza della V sezione penale della Corte di cassazione n. 639 del 18/11/2022; a riguardo, vedi M. BIANCHI, “Sei distinzioni sul profitto nel furto” in Sistema penale, 28 febbraio 2023; N. GRANOCCHIA, “La rinnovata vitalità del fine di profitto del delitto di furto. Il contrasto nella giurisprudenza di legittimità”, Archivio Penale, 2023, I; A. AIMI, “La nozione di dolo specifico di profitto al vaglio delle Sezioni Unite”, in Sistema Penale, 2023, II, A. NATALINI, “Dubbi sul fine di trarre profitto nel delitto di furto”, in Guida al diritto il Sole 24ore, 2022, 33, 60;

[2] A dispetto dell’origine civilistica del concetto di patrimonio, esso, dal punto di vista dogmatico, ha una portata più ampia e costituisce oggetto di tutela in diverse branche dell’ordinamento giuridico; nell’ambito penalistico, esso incarna il bene giuridico di categoria protetto dalle norme incriminatrici che ne reprimono l’aggressione.

[3] Sull’evoluzione storica del reato di furto, si veda B. ALBANESE, voce Furto (storia), in Enc. dir. XVIII, Milano, 1969, 313; CARMONA, Tutela penale del patrimonio individuale e collettivo, Bologna, 1996, 151; V. MANZINI, Trattato del furto e delle varie sue specie, Torino, 1926; P. PRODI, Settimo non rubare, furto e mercato nella storia dell’occidente, il Mulino, 2009;

[4] In ulteriori figure delittuose a vocazione patrimoniale, come l’estorsione e la truffa, l’elemento del profitto assurge, invece, a requisito di fattispecie sul piano oggettivo dell’evento, con la conseguenza che, ove questo non venga compiutamente a realizzarsi, potrà eventualmente residuare un coefficiente di imputazione a titolo di tentativo ex art. 56 c.p.

[5] così, G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale, parte speciale, I delitti contro il patrimonio, Torino, 2019, 70.

[6] In dottrina, la tesi della natura economica del fine di profitto è sostenuta da G. LEONE, Per una revisione del concetto di “profitto” nel delitto di furto, in Scritti giuridici in onore di Vincenzo Manzini, 1945, 286 ss.; L. PICOTTI, Il dolo specifico, un’indagine sugli elementi finalistici delle fattispecie penali, Milano, 1993, 221 ss.; M. GELARDI, Il dolo specifico, Palermo, 1990, 102 ss; F. SGUBBI, Uno studio sulla tutela penale del patrimonio, Milano, 1980, 152, 158 ss., 203 ss; G. PECORELLA, voce Furto, in Enc. dir. (dir. pen.), XVIII, Milano, 1969,347 ss. G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale. Parte speciale. I delitti contro il patrimonio, Bologna, 2019, 70 ss.; E. MEZZETTI, Reati contro il patrimonio, in C.F. GROSSO, T. PADOVANI, A. PAGLIARO (diretto da), Trattato di diritto penale, Milano, 2013, 111-115;  F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte speciale. Delitti contro il patrimonio, Padova, 2021, 42-43; 

[7] I sostenitori dell’orientamento estensivo sono, in particolare, V. MANZINI, Trattato di diritto penale, vol. IX, Torino, 1986, 191; G.D. PISAPIA, Reati contro il patrimonio, Milano, 1953, 33; F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte speciale, I, Milano, 2002, 305 ss. C.F. GROSSO (a cura di), Manuale di diritto penale. Parte speciale. I, Milano, 2016, 389-390; C. BACCAREDDA BOY, S. LALOMIA, I delitti contro il patrimonio mediante violenza, in G. MARINUCCI, E. DOLCINI (diretto da), Trattato di diritto penale – Parte speciale, Padova, 2010, 148-149; nonché la quasi totalità della dottrina antecedente agli Settanta del secolo scorso (con l’eccezione di G. LEONE, Per una revisione del concetto di profitto nel delitto di furto, in Riv. it. dir. pen., 1954, 425- 427): v., sul punto, l’accurata ricostruzione di G. PECORELLA, voce Furto comune, in Enc. dir., XVIII, Milano, 1969, 348-350.

[8] In questo senso, già Cass., sez. II, 12 febbraio 1985, n. 4471, Bazzani; Cass., sez. II, 26 aprile 1983, n. 9983, Lo Nardo; Cass., sez. II, 6 marzo 1978, n. 9411, Sessa; Cass., sez. II, 13 gennaio 1976, n. 7263, Erbaggi;  Cass., sez. II, 22 giugno 1983, n.10978, Artusa; Cass., sez. V, 8 aprile 2015, n. 21579, B.; da ultimo, conformemente, Cass., sez. IV, 6 ottobre 2021, n. 4144, Caltabiano, in DeJure; Cass., sez. V, 14 dicembre 2020, n. 4304, Cirmena, in DeJure; Cass., sez. IV, 26 novembre 2019, n. 13842, Saraceno, in DeJure; Cass., sez. V, 16 gennaio 2019, n. 11225, Dolce, in DeJure; Cass., sez. II, 9 ottobre 2012, n. 40631, Sesta, in DeJure; Cass., sez. IV, 19 settembre 2012, n. 30, Caleca, in DeJure; Cass., sez. V, 16 febbraio 2012, n. 19882, Aglietta, in DeJure;

[9] Cass., sez. IV, 19 settembre 2012, n. 30, Caleca, cit.; fattispecie nella quale dell’imputato si era impossessato di un apparato di videoregistrazione installato dalla polizia giudiziaria, sostenendo di volerlo danneggiare ed impedire così le attività di p.g Cass., sez. V, 14 dicembre 2020, n. 4304, Cirmena, cit., fattispecie in cui l’azione dell’imputato era finalizzata ad impedire lo scatto di fotografie.

[10] Cass., sez. IV, 26 novembre 2019, n. 13842, Saraceno, cit., fattispecie in cui si contestava all’imputato l’impossessamento di banconote al solo fine di controllare la compagna e l’esistenza di una sua relazione con un terzo. In tale pronuncia la Suprema Corte ha specificato che “la limitazione della punibilità̀ delle condotte di volontaria sottrazione ed impossessamento di cose mobili altrui alle sole ipotesi di sottrazione dettata da finalità̀ economiche priverebbe di tutela penale il possesso delle cose mobili in caso di lesioni dettate da motivazioni non eco- nomiche, laddove invece il possesso di tali cose, per via della sua agevole possibilità̀ di aggressione determinata dalla natura «mobile» di tali beni, comporta la necessità di una tutela completa e non circoscritta alle sole sottrazioni dettate da fini di locupletazione.”

[11] In questo senso in dottrina: G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale, cit. 72; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit. 43; G. PECORELLA, voce, Furto, cit, 353;

[12] Per una più articolata analisi dei profili compatibilità del consenso presunto con la scriminante di cui all’art. 50 c.p., si veda F. MANTOVANI, Diritto penale, IX ed., Padova, 2015, 250; M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I V ed., Torino, 2015, 539 F. GRISPIGNI, Il consenso dell’offeso, Roma, 1924; in giurisprudenza, il tema è stato affrontato da Cass. sez. II, 13 ottobre 1987 n. 3675, Pecoraro, Cass. VI, 8 gennaio 2003, n. 20950, Attolino;

[13] sez. V, 14 dicembre 2020, n. 4304, Cirmena, cit;

[14] La prima sentenza che si è affrancata dall’orientamento tradizionale, restringendo la nozione di dolo specifico di profitto è, Cass., sez. V, 13 dicembre 2006, n. 4975, Gobetti, in DeJure. In precedenza, una possibile restrizione della nozione di “dolo di profitto” era stata paventata da Cass., sez. VI, 19 settembre 2001, n. 40351, Baldi, in DeJure, ove, tuttavia, si propendeva per l’assorbimento del delitto di furto in quello di danneggiamento. Ancor prima, un’isolata pronuncia aveva escluso l’integrazione del dolo specifico del delitto di furto in un caso in cui l’intento dell’autore, che aveva sottratto un estintore per scaricarlo verso alcuni amici nel corso della notte di Capodanno, era stato considerato «puramente scherzoso»: v. Cass, sez. II, 25 giugno 1991, n, 11027, Zancan.

[15] Cass., sez., V, 23 ottobre 2018, n. 30073, Lettina, nella quale si manifesta la preoccupazione per l’elusione del senso letterale della locuzione “patrimonio” e dal suo rilievo sistematico nell’impianto codicistico.

[16] Cass. sez. V, 5 aprile 2019, n. 25821, PTM c. El Sheshtawi Omar, Cass., sez. V, 1 luglio 2019, n. 40438, Stawika Beata; Cass., sez. V, 17 maggio 2022, n. 26421, E.

[17] Vedi nota 1.

[18] Per un approfondimento sui limiti dell’interpretazione del giudice penale, vedi Cass., sez. V, 20 settembre 2023, n. 40719, K.;

[19] A tal fine, viene richiamato il pronunciamento n.8544 del 24 gennaio 2019, dep. 2020, Genco, con il quale le Sezioni Unite stabilivano che i principi affermati dalla sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015, Contrada contro Italia, relativi all’accertamento di violazioni strutturali dell’art. 7 della Cedu da parte dello Stato italiano con riferimento al delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, non si estendono nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione quanto alla prevedibilità della condanna per il reato di concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso, in quanto la sentenza non è una sentenza pilota e non può considerarsi espressione di una giurisprudenza europea consolidata. In particolare, quando al tema dell’interpretazione della legge penale, veniva sottolineato “il ruolo evolutivo e specificativo da assegnare all’interpretazione giurisprudenziale, quale fattore ineliminabile di progressiva chiarificazione delle regole legislative e di possibile violazione dell’art. 7 CEDU soltanto quando non congruente con l’essenza del reato e sviluppo non conoscibile rispetto alla linea viluppo non conoscibile rispetto alla linea interpretativa già affermata”, ed ancora, veniva sottolineato il ruolo centrale della “mediazione accertativa della giurisprudenza, nel senso che deve riconoscersi ai giudici un margine di discrezionalità̀, che comporta una componente limitatamente ‘creativa’ della interpretazione”

[20] In argomento, v. P. GROSSI, Nobiltà del diritto. Profili di giuristi, Milano, 2008, 726;

[21] Una conferma della natura non risolutiva degli argomenti che muovono dalla ricostruzione del significato letterale del termine “profitto”, si consideri che la stessa dottrina che propugna un’interpretazione del dolo di profitto in senso strettamente economicistico ritiene che, in altri delitti, di tale requisito debba essere data un’interpretazione più lata: v. G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, cit., 37; Contra, invece, F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., 42.

[22] In questo senso, in dottrina: F. BRICIOLA, Dolus in re ipsa, Osservazioni in tema di oggetto e accertamento del dolo, Milano, 1960, 52-53; G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, cit. 70-71; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., 42; E. MEZZETTI, Reati, cit. 112-113; G. PECORELLA, voce Furto, cit., 350-351; L. PICOTTI, Il dolo specifico. Un’indagine sugli ‘elementi finalistici’ delle fattispecie penali, Milano, 1993, 221; F. SGUBBI, Uno studio, cit., 160;

[23] ex multis, Cass. Sez. I, 10 aprile 1981, n. 5818 Marocco (fattispecie di furto di cosa dotata di mero valore affettivo); Sez. II, 08 luglio 1980, n. 2667, Corucci, a proposito del furto di fogli per ricetta da un ospedale, ritenuta penalmente rilevante in base al rilievo che il valore della cosa non può essere preso in considerazione sotto un profilo puramente economico, ma è necessario anche tenere conto dell’interesse del detentore alla conservazione della cosa); Cass. Sez.V, 5 novembre 1982, in Cass. pen. mass. Ann., 1983, 227 (fattispecie di sottrazione di un documento considerata penalmente rilevante a condizione che l’agente si riprometta un’utilità di carattere estetico, materiale, scientifico ecc); qualche rilievo di segno contrario è, invece, espresso, nella giurisprudenza più risalente, da Cass., 29 marzo 1965, in Cass. pen. mass. ann. 1965, 914; Cass. 16 aprile 1969 , in Giur. it., 1971, II, 80.

[24] Ritengono, al contrario, che “Se l’agente s’impossessa di cose insuscettive di valore di scambio […] viene meno quella prospettiva di abusivo profitto economico, che costituisce lo scopo tipico cui per l’appunto tende l’azione furtiva”, F. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, cit. 71. Ravvisano un legame tra interesse tutelato e ricostruzione dell’elemento soggettivo del delitto in parola anche E. MEZZETTI, Reati, cit., 111-112 e G. PECORELLA, voce Furto, cit., 352;

[25] Nella medesima prospettiva, v. G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, cit., 13; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., 10-11; F. SGUBBI, Uno studio sulla tutela penale del patrimonio, cit. 94-95.

[26] I. SICCARDI, “Il fine di profitto nei delitti contro il patrimonio” ,in Diritto penale e processo, 2016, III, 357.

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