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Il nodo della “stabile messa a libro paga dell’agente pubblico” in tema di corruzione

A seguito della legge n. 190 del 2012, si è posta la questione se le ipotesi di c.d. “stabile messa a libro paga dell’agente pubblico” debbano essere ricondotte alla riformulata previsione criminosa della corruzione per l’esercizio della funzione ex art. 318 c.p. (figura svincolata dal riferimento a uno specifico atto d’ufficio e tuttora meno grave), o si debbano continuare a punire questi casi tramite la più grave fattispecie di corruzione propria (art. 319 c.p.). L’autore, dopo aver esaminato le diverse posizioni al riguardo, formula una proposta alternativa a quella delle recenti leggi anticorruzione: nel senso di costruire un’unica ipotesi di corruzione.

Following the law n. 190 of 2012, the question arose whether the hypotheses of the so-called “stable public payroll entry” must be traced back to the reformulated incrimination of corruption for the exercise of the function pursuant to art. 318 of the italian criminal code (figure released from the reference to a specific deed and still less serious), or these cases must continue to be punished through the most serious case of own corruption (art. 319 of the criminal code). The author, after examining the various positions in this regard, formulates an alternative proposal to that of the recent anti-corruption laws: in the sense of building a single hypothesis of corruption.

 

 

Sommario: 1. La corruzione per l’esercizio della funzione e la scomparsa dell’atto. – 2. La relazione cronologica tra la corruzione funzionale la previgente corruzione impropria e la corruzione propria. – 3. Il contrasto di giurisprudenza sui rapporti tra corruzione funzionale e corruzione propria. – 4. La legge spazzacorrotti e il mancato ripensamento del sottosistema della corruzione. – 5. Concentrare anziché frammentare. Una proposta alternativa a quella delle recenti leggi anticorruzione: costruire un’unica ipotesi di corruzione

 

 

  1. La corruzione per l’esercizio della funzione e la scomparsa dell’atto

Come sappiamo, a distanza di circa venticinque anni dalle inchieste di “Mani pulite”, una profonda e organica riforma del microsistema normativo della corruzione/concus­sione – volta a un più efficace contrasto e prevenzione all’illegalità e il malaffare nell’attività dell’amministrazione pubblica – è stata posta in essere con la legge “Severino” n. 190 del 2012. La riforma del 2012 ha avuto nuovo impulso: prima tramite la successiva novella anticorruzione del 2015 (l. n. 69 del 2015), poi con la riforma del codice antimafia del 2017 e infine per mezzo della legge c.d. spazzacorrotti del 2019.

Con la legge n. 190 del 2012 si è riformulato il delitto di cui all’art. 318 c.p., sostituito dalla figura della corruzione per l’esercizio della funzione, ipotesi svincolata dal riferimento a uno specifico atto d’ufficio e nella quale sono ormai indistinte le forme antecedente e susseguente.

Nella nuova configurazione del sottosistema dei delitti di corruzione, il legislatore ha così abbandonato il “modello mercantile” in favore del “modello clientelare”. Modello mercantile che consiste nell’accordo tra le parti contraenti, una pubblica e l’altra privata, avente ad oggetto la compravendita illecita di un atto amministrativo sul quale poggiava sino al 2012 la divaricazione tra corruzione impropria (atto d’ufficio legittimo: art. 318 c.p.) e propria (atto contrario ai doveri d’uffi­cio: art. 319 c.p.).

La direttrice percorsa dal legislatore del 2012 è dunque costituita dal distacco dall’esclusivo “modello mercantile” della corruzione basato sulla compravendita dell’atto d’ufficio, schema al quale la tradizione giuridica italiana era saldamente ancorata. Si è giunti oggi a prendere in considerazione anche il “modello clientelare” della corruzione, che si radica nella semplice infedeltà del pubblico agente e postula pertanto l’esclusione del momento sinallagmatico tra la dazione (o promessa) e uno specifico atto d’ufficio [1].

L’abbandono del requisito dell’atto ha provocato un vero e proprio mutamento di paradigma: tramite il distacco dalla “concezione mercantile” il richiamo non è più al singolo atto (o anche ad una pluralità determinabile di atti), ma più genericamente all’esercizio della funzione, col superamento dell’an­coraggio della corruzione ad uno specifico atto quale oggetto di mercimonio [2].

Si tratta di ipotesi in cui vi è la mera accettazione di utilità da parte del­l’agente pubblico in relazione all’esercizio delle sue funzioni o poteri, attività riconducibile perciò ad uno schema corruttivo di tipo “clientelare”. Il contenuto offensivo è qui incentrato essenzialmente sul patto e il pericolo per il corretto funzionamento della pubblica amministrazione è solamente eventuale. L’ogget­to del pactum sceleris non è precisamente determinabile.

La nuova corruzione per “messa a libro paga dell’agente pubblico” ovvero per “asservimento della funzione” sanziona gli accordi tra privato e soggetto pubblico, allorché la dazione o la promessa siano finalizzati al compimento di generici servigi da parte di quest’ultimo a favore del pri­mo; quando cioè il pubblico funzionario, dietro compenso, si impegni a porsi o a restare a disposizione del privato per presenti o future necessità di varia natura [3].

Ebbene, a livello di codice penale, il legislatore ha tentato di conseguire gli obiettivi della “prevenzione” e “repressione” della corruzione indicati espressamente dalla “legge anticorruzione” n. 190 del novembre 2012, sostituendo integralmente il previgente art. 318 c.p. con una nuova disposizione, intitolata “corruzione per l’esercizio della funzione” (art. 1, comma 75, lett. f), l. n. 190 del 2012) [4].

In sostanza, si è omologata alla figura della corruzione per atto conforme ai doveri d’ufficio quella della corruzione per “mero asservimento della funzione pubblica agli interessi del privato” ovvero quella della “messa a libro paga”: assemblando in un nuovo enunciato legislativo le previgenti classi di fattispecie con quelle nuove relative ai casi in cui il pubblico ufficiale si pone a disposizione del corruttore in violazione dei doveri di imparzialità, onestà e vigilanza che in virtù della legge incombono su di lui.

Si è rotta dunque la simmetria sulla quale era stato costruito il minisistema codicistico dei delitti di corruzione: il riferimento binario all’atto d’ufficio legittimo nella corruzione impropria (art. 318 c.p.) e illegittimo nella corruzione propria (art. 319 c.p.) [5].

La scelta di prescindere dal riferimento specifico all’atto è stata giustificata, in primo luogo, in ragione dell’ormai acquisita consapevolezza «del processo di progressiva “smaterializzazione” dell’elemento dell’atto d’ufficio». E soprattutto poi con la necessità di ricostruire in maniera maggiormente precisa i confini tra le diverse figure di corruzione: la corruzione propria, ancorata tutt’oggi in modo espresso all’adozione di un atto amministrativo illegittimo; la nuova corruzione per l’esercizio della funzione che prescinde dal riferimento a un atto dell’ufficio, che tuttavia mantiene il rapporto di corrispettività riferito adesso all’esercizio delle funzioni o dei poteri del pubblico agente [6].

Ora, l’indispensabile presenza dell’atto d’ufficio in tutte le ipotesi di corruzione ha costituito nel recente passato uno degli aspetti più problematici del rapporto tra il “modello mercantile”, su cui è stata fondata la tutela penale nel codice Rocco, e le trasformazioni empirico-criminologiche subite negli ultimi decenni dal fenomeno corruttivo.

Il requisito dell’atto d’ufficio nella configurazione delle diverse figure di corruzione presenti nel nostro codice penale ha reso poco agevole e talvolta incerto nel recente passato l’utilizzo dello strumento criminale nei confronti delle ipotesi di cosiddetta corruzione “sistemica”; fenomenologia criminosa che prescinde appunto dalla compravendita di un atto d’ufficio. Siffatte vicende dunque hanno luogo allorché la tangente sia pagata in relazione all’e­sercizio della funzione dell’agente pubblico e non per uno specifico atto d’ufficio, come nel caso in cui quest’ultimo sia messo a libro paga dal privato corruttore [7].

Si è trattato quindi di ripensare i delitti di corruzione sulla scorta della realtà criminologica ultimamente emersa: la tendenza dei fatti di corruzione a diventare “sistemici”; fatti penalmente illeciti volti, cioè, non solo a diffondersi capillarmente e in modo diffuso all’interno dell’azione dei pubblici poteri (“la corruzione regolarizzata e istituzionalizzata”), ma in grado di istituire una relazione stabile nel tempo di interdipendenza d’interesse fra privati e funzionari pubblici e politici, anche attraverso la creazione di reti di complicità fra corruttori, corrotti ed eventuali terzi intermediari [8].

La corruzione sistemica produce inoltre ricadute negative di lungo periodo che certo non compaiono fra le poste di bilancio, ma alimenta sfiducia e insoddisfazione verso le istituzioni, premia gli imprenditori intranei al potere, scoraggia gli investimenti produttivi, distorce la competizione a vantaggio dei partecipi agli accordi corruttivi. Trova così conferma l’ampiezza del “differenziale etico” che sembra ormai separare l’Italia dalla maggior parte dei Paesi occidentali [9].

 

  1. La relazione cronologica tra la corruzione funzionale la previgente corruzione impropria e la corruzione propria

Dal punto di vista intertemporale, l’art. 318 c.p. contiene una “norma diacro­nicamente generale” rispetto alla norma speciale espressa dalla versione previgente dell’art. 318 c.p. [10]. Inoltre, il novellato art. 318 c.p. esprime una “norma sincronicamente generale” rispetto alla coesistente norma speciale ricavabile dall’art. 319 c.p. [11].

In tal senso, si è orientata la giurisprudenza, asserendo che la fattispecie di cui all’art. 319 c.p. è in rapporto di specialità unilaterale per specificazione rispetto a quella prevista dall’art. 318 c.p., poiché mentre questa punisce la generica condotta di vendita della funzione pubblica, la prima richiede, invece, un preciso atto contrario ai doveri d’ufficio, oggetto di illecito mercimonio [12].

Quanto ai rapporti tra le due norme ricavabili dall’avvicendamento delle due versioni dell’art. 318 c.p., l’elemento del “generico” esercizio delle funzioni o dei poteri ha sostituito, nella struttura linguistica della disposizione, lo “specifico” compimento dell’atto “non illegittimo”, requisito quest’ultimo ormai scomparso.

Nel significato assegnabile alla nuova formulazione dell’art. 318 c.p., possono quindi essere ricomprese “tutte” le precedenti ipotesi astratte, più delle “altre nuove”. Da non intendersi queste ultime, necessariamente, come classi di fattispecie che costituiscono una “nuova incriminazione” ex art. 2, comma 1, c.p., potendo essere classi di fattispecie già penalmente rilevanti ai sensi di una diversa norma penale [13].

Non si è verificato perciò – in ragione dell’argomento logico-formale – alcun fenomeno abolitivo, neanche parziale [14]. Il nuovo art. 318 c.p., lungi dall’a­bolire, in tutto o in parte, le condotte previste dal testo previgente, ha al contrario determinato l’estensione dell’area di punibilità, in quanto ha sostituito alla precedente causale del compiendo o compiuto atto d’ufficio, oggetto di retribuzione, il più generico collegamento, della dazione o promessa di utilità ricevuta o accettata, all’esercizio delle funzioni o dei poteri dell’agente pubblico, così configurando, per i fenomeni corruttivi non riconducibili all’area dell’art. 319 c.p., una fattispecie di onnicomprensiva monetizzazione del munus pubblico, sganciata in sé da una logica di formale sinallagma [15].

Si è sostenuto così che la nuova figura «è in grado di offrire copertura normativa sia alle ipotesi di corruzione impropria – sino ad oggi ricadenti nella previgente disposizione – sia ai casi di corruzione per l’esercizio della funzione in cui è individuabile un accordo avente ad oggetto “la compravendita” dell’e­sercizio della funzione del pubblico agente senza riferimento dunque ad uno specifico atto» [16].

In questa prospettiva, si è esplicitamente asserito che la “messa a libro paga” del pubblico agente in cambio della disponibilità all’asservimento della sua fun­zione ricade oggi nel nuovo art. 318 c.p., mentre per la configurabilità della più grave figura dell’art. 319 c.p. occorrerà individuare un atto (contrario ai doveri d’ufficio) in senso formale quale oggetto dell’accordo corruttivo [17].

Cerchiamo allora di approfondire quest’ultimo, cruciale, aspetto.

Ebbene, per quanto concerne la tipologia degli astratti casi riconducibili sia alla previgente corruzione per un atto d’ufficio non illegittimo che alla nuova corruzione per l’esercizio della funzione, si è prodotto il fenomeno della successione meramente modificativa; e va applicata, ai sensi dell’art. 2, comma 4, c.p., la legge in successione più favorevole (e dunque, la previgente formulazione del­l’art. 318 che prevedeva la reclusione da sei mesi a tre anni, oggi innalzata ad anni uno nel minimo e sei di reclusione nel massimo) [18]. La piena continuità nor­mativa esclude, dunque, per queste ipotesi qualsiasi intervento in mitius se è già intervenuta una sentenza di condanna irrevocabile [19].

Tra le nuove classi di fattispecie oggi punite mediante la figura di reato della corruzione per l’esercizio della funzione, occorre poi chiedersi se siano effettivamente annoverabili anche quelle prima già sanzionate e ricondotte all’art. 319 c.p.: si pensi alla mera messa “a libro paga” dell’agente pubblico, oppure a quelle ipotesi in cui al momento della stipulazione del patto corruttivo non è specificato con precisione l’atto futuro da compiere o quello già compiuto. Si tratta di sottofattispecie astratte che, seppure svincolate dal riferimento a uno specifico atto, venivano sussunte, a seguito dell’elaborazione giurisprudenziale, all’interno dell’ipotesi criminosa di corruzione propria.

Invero secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità – ante riforma del 2012 – la mancata individuazione in concreto del singolo atto, che avrebbe dovuto essere omesso, ritardato o compiuto dal pubblico ufficiale contro i doveri del proprio ufficio, non fa venir meno il delitto di cui all’art. 319 c.p., qualora sia accertato che la consegna del denaro al pubblico ufficiale sia stata eseguita in ragione delle funzioni esercitate e per retribuirne i favori [20].

Non è infatti necessario – secondo la suprema Corte – individuare lo specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, sussistendo la fattispecie di corruzione pro­pria anche quando, pur rispondendo ogni singolo atto ai requisiti di legge, nel­l’insieme del servizio reso dal pubblico ufficiale vi sia stato un totale asservimento della funzione agli interessi del privato, concretizzatosi in una sostanziale rinuncia allo svolgimento della funzione di controllo in cambio di provati pa­gamenti in suo favore [21].

In questo senso, si è osservato in giurisprudenza – prima della novella del 2012 – che per configurare il delitto di corruzione propria non è necessario individuare lo specifico atto contrario ai doveri di ufficio, qualora il pubblico ufficiale abbia ricevuto dall’impresa controllata denaro o altre utilità in misura tale da evidenziare una commistione di interessi atta a vanificare la doverosa funzione di controllo che al pubblico ufficiale è demandata, poiché in tal modo risulta già integrata la violazione dei doveri di fedeltà, di imparzialità e di perseguimento esclusivo degli interessi pub­blici che sullo stesso incombono [22].

L’espressione “atto d’ufficio” non è infatti sinonimo di atto amministrativo, ma designa ogni comportamento del pubblico ufficiale posto in essere nello svol­gimento del suo incarico e contrario ai doveri del pubblico ufficio ricoperto [23].

Insomma, l’“atto d’ufficio” non deve essere inteso in senso strettamente for­male in quanto esso è integrato anche da un comportamento materiale che sia esplicazione di poteri-doveri inerenti alla funzione concretamente esercitata [24].

Bisogna dunque stabilire con esattezza la sorte di tutte queste ipotesi esaminate negli ultimi anni dalla giurisprudenza, in cui si è fatto a meno dell’atto d’uf­ficio [25]. Sono ipotesi che devono essere oggi ricondotte “in blocco” al paradigma della nuova corruzione funzionale ex art. 318 c.p., oppure è necessario sottrarre a tale trasmigrazione normativa una tipologia di casi che continua a risultare penalmente rilevante ex art. 319 c.p. ? [26]

Per tentare di risolvere la questione in modo appagante, occorre – a ben vedere – tener presente tre considerazioni:

(i) Le concrete condotte in esame erano punite dalla prevalente giurisprudenza sulla scorta di una interpretazione sicuramente non “letterale” dell’art. 319 c.p. Si è così pervenuti ad una dilatazione del campo applicativo dell’incri­minazione che riguardo ad alcune ipotesi, probabilmente, travalicando la lettera della legge, è da considerare più vicina alla interpretazione di natura analogica che meramente estensiva.

(ii) La nuova corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.) si adatta molto meglio a quelle condotte in cui non solo non è stato individuato un atto amministrativo illegittimo, ma vi è stata la semplice accettazione di denaro o altra utilità da parte del funzionario in relazione all’esercizio della sua funzio­ne o dei suoi poteri. Come si è giustamente scritto, se sul piano strutturale i rapporti tra artt. 318 e 319 c.p. si connotano oggi in termini di specialità del secondo rispetto al primo; sul piano “funzionale” si caratterizzano in termini di “sussidiarietà” del­l’art. 318 c.p. rispetto all’art. 319 c.p., dato che l’applicazione dell’art. 318 c.p. postula la mancata identificazione dell’atto compravenduto [27].

(iii) La circostanza che genera forti perplessità di aver reputato, in sede di riforma del 2012 (opzione confermata dalla legge spazzacorrotti del 2019), la corruzione per l’esercizio della funzione “oggettivamente meno grave” [28] della corruzione pro­pria, soltanto perché non si fa riferimento ad un determinato atto illegittimo del­l’ufficio quale oggetto del pactum sceleris; con la previsione, dunque, di un trattamento sanzionatorio più mite per la novellata corruzione ex art. 318 c.p. [29]. Come dire che anche quando l’attività corruttiva è circoscritta al mercimonio di un singolo atto, essa è sicuramente più grave della condotta dell’agente pub­blico che stabilmente sottomette agli interessi del privato la sua attività [30]. Né ciò può essere sostenuto semplicemente con l’argomento comparatistico: affermando, cioè, che nelle legislazioni spagnole e tedesche la figura della corruzione per l’eserci­zio della funzione è sanzionata in modo più lieve della corruzione propria [31].

 

  1. Il contrasto di giurisprudenza sui rapporti tra corruzione funzionale e corruzione propria

Già dalle prime decisioni pronunciate dalla Corte di cassazione sui rapporti tra corruzione per l’esercizio della funzione e corruzione propria si è palesato un contrasto di giurisprudenza all’interno della VI sezione della Corte[32].

Peraltro, in dottrina, si è osservato come si è andata disegnando una chiara linea di tendenza giurisprudenziale volta a svalutare, sul piano applicativo, l’operatività della nuova corruzione per la funzione; a fronte, invece, di una “onnivora tendenza applicativa” della corruzione propria. A prescindere dalla individuazione di un atto determinato (o determinabile) qualificabile in termini di contrarietà ai doveri d’ufficio, ciò che appare decisivo è “la contaminazione privata del potere pubblico”: il potere pubblico è inquinato dall’interesse privato veicolato dal­l’intesa illecita. E la contrarietà ai doveri d’ufficio viene individuata nella violazione del principio di non venalità della funzione pubblica [33].

Ora, secondo un primo orientamento giurisprudenziale – che si caratterizza per la valorizzazione della razionalità del sottosistema corruttivo, nonché per l’impiego dei principi costituzionali nel tracciare la linea di confine fra corruzione funzionale e propria – la stabile messa a libro paga o il duraturo asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, attraverso il sistematico ricorso ad atti contrari ai doveri di ufficio non predefiniti, né specificamente individuabili ex post, integra tutt’ora il reato di cui all’art. 319 c.p., e non il più lieve reato di corruzione per l’esercizio della funzione di cui all’art. 318 c.p. Invero, offrirebbe il fianco a possibili rilievi in termini di graduazione dell’offen­sività, di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di proporzionalità della pena (art. 27 Cost.), punire in molti casi con una pena assai più mite di quella stabilita nel­l’art. 319 c.p., un pubblico funzionario stabilmente infedele, che ponga l’intera sua funzione e i suoi poteri al servizio di interessi privati per un tempo prolungato, con contegni di infedeltà sistematici [34].

Ad avviso di questo orientamento, diversamente ragionando, la condotta di un pubblico ufficiale che compia per denaro o altra utilità (“venda”) un solo suo atto contrario all’ufficio (ad esempio rilasci un permesso di accesso in z.t.l. non consentito, ecc.) verrebbe così punita con una cospicua pena ai sensi dell’art. 319 c.p. Laddove un pubblico funzionario stabilmente infedele, che ponga l’intera sua funzione e i suoi poteri al servizio di interessi privati per un tempo prolungato, con contegni di infedeltà sistematici e in relazione ad atti contrari alla funzione non predefiniti o non specificamente individuabili ex post (in caso diverso si rifluirebbe, come è ovvio, nella previsione dell’art. 319 c.p.), si vedrebbe oggi irrazionalmente punito con una pena assai più mite, quale quella prevista dal riformato art. 318 c.p. (da uno a sei anni di reclusione). E ciò malgrado appaiano in tutta evidenza indiscutibili la ben maggiore offensività e il più elevato disvalore giuridico e sociale della seconda condotta, integrata appunto dall’asservimento costante e metodico dell’intera funzione del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi privati [35].

È stata poi ritenuta configurabile la fattispecie di cui all’art. 319 c.p. quando sia possibile individuare, oltre ad un rapporto di stabile asservimento del pubblico ufficiale, uno o più atti dello stesso che, pur se formalmente legittimi, si conformino all’obiettivo di realizzare l’interesse del privato, nonostante questa non sia una soluzione necessaria. In tali casi, infatti, perde completamente rilievo l’obiezione che argomenta dalla natura di danno o di pericolo delle due fattispecie incriminatrici: l’effettivo esercizio di poteri pubblici nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali, salvo i casi limite di attività rigorosamente predeterminata nell’an, nel quando e nel quomodo, determina con immediatezza un pregiudizio per l’im­parzialità ed il buon andamento dell’amministrazione, perché implica l’impie­go di strumenti e funzioni pubblicistiche al di fuori dei presupposti per i quali i medesimi sono stati prefigurati, e, quindi, si traduce in un “attuale” ed ingiusti­ficato trattamento di privilegio in favore del beneficiario dell’azione indebitamente orientata. Si è concluso quindi che si versa nel reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio quando lo stabile asservimento del pubblico ufficiale si sia anche tradotto nel compimento, a vantaggio del privato, di uno o più atti formalmente legittimi, ma non rigorosamente predeterminati nell’an, nel quando o nel quomodo [36].

All’interno di questo orientamento, va segnalata una interessante pronuncia della Suprema Corte che ha reputato legittima la configurazione quale “corruzione propria” della condotta di un rappresentante farmaceutico che aveva corrisposto denaro a un primario ospedaliero in cambio dell’impegno di quest’ul­timo a prescrivere a tutti i pazienti un determinato farmaco antitumorale [37].

Si è chiarito infatti che il comportamento abdicativo del medico (pubblico ufficiale) di fronte al dovere di una corretta comparazione degli interessi rilevanti, integra già di per sé “l’omettere” di cui all’art. 319 c.p., e quindi anche quando l’esito raggiunto risulti coincidere ex post con l’interesse pubblico. Ri­entra allora nell’ambito di applicazione della corruzione ex art. 319 c.p., il com­portamento del primario ospedaliero consistito nell’essersi impegnato a dettare sistematicamente la terapia farmacologica “Nexavar” (antitumorale) ai nuovi pazienti solo perché mosso da finalità speculative, laddove invece la prescrizione del farmaco doveva essere il frutto di un meditato apprezzamento da parte del medico del quadro clinico del paziente, nonché di un’attenta valutazione comparativa tra i benefici perseguiti ed i rischi connessi alla particolare utilizzazione del farmaco che era possibile prevedere sulla base della situazione clinica del paziente medesimo. Altrimenti si verrebbe a configurare, per un verso, una inammissibile abdicazione da parte del medico delle sue funzioni; per altro verso, un automatismo nella prescrizione del farmaco [38].

L’approdo di questo primo orientamento può rinvenirsi nell’affermazione secondo cui configura il delitto di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio – e non il più lieve reato di corruzione ex art. 318 c.p. – lo stabile asservimento dell’agente pubblico a interessi personali di terzi, che si traduca in atti, i quali, pur formalmente legittimi, in quanto discrezionali e non rigorosamente predeterminati, si conformano all’obiettivo di realizzare l’interesse del privato nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali[39].

Ad avviso di un diverso indirizzo – formatosi inizialmente soprattutto in relazione al “caso Mose” , e caratterizzato da una attività interpretativa attenta alla lettera della legge nonché al rispetto della tassatività –, lo stabile asservimento del pubblico ufficiale agli interessi personali di terzi, realizzato attraverso l’impegno permanente a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, integra invece il reato di cui all’art. 318 c.p. (nel testo introdotto dalla l. n. 190 del 2012), e non il più grave reato di corruzione propria di cui all’art. 319 c.p.; salvo che la messa a disposizione della funzione abbia prodotto il compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio (ovvero l’asservimento della funzione sia sfociato nel­l’emanazione di un atto illegittimo). In tal caso, infatti, si determina una progressione criminosa nel cui ambito le singole dazioni eventualmente effettuate si atteggiano a momenti esecutivi di un unico reato di corruzione propria a consumazione permanente [40].

Invero il nuovo art. 318 c.p. non ha coperto integralmente l’area della vendita della funzione, ma soltanto quelle situazioni in cui non sia noto il finalismo del suo mercimonio o in cui l’oggetto di questo sia sicuramente rappresentato da un atto dell’ufficio. Residua tuttora infatti un’area di applicabilità dell’art. 319 c.p., quando la vendita della funzione sia connotata da uno o più atti contrari ai doveri d’ufficio, accompagnati da indebite dazioni di denaro o prestazioni di utilità, sia antecedenti che susseguenti rispetto all’atto tipico, il quale finisce per evidenziare il punto più alto di contrarietà ai doveri di correttezza che si impongono al pubblico agente [41].

In definitiva, per quest’ultimo orientamento, i fenomeni di corruzione sistemica conosciuti dall’esperienza giudiziaria come “messa a libro paga del pubblico funzionario” o “asservimento della funzione pubblica agli interessi privati” o “messa a disposizione del proprio ufficio”, tutti caratterizzati da un accordo corruttivo che impegna permanentemente l’agente pubblico a compiere o ad o­mettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, finora sussunti dalla giurisprudenza nella fattispecie prevista dall’art. 319 c.p., devono a seguito della l. 190 del 2012 essere ricondotti alla nuova previsione del­l’art. 318 c.p., sempre che i pagamenti intervenuti non siano ricollegabili all’a­dozione di uno o più atti contrari ai doveri d’ufficio.

Pertanto, l’art. 318 c.p. punendo genericamente la vendita della funzione si atteggia come reato di pericolo (pone in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione); mentre, l’art. 319 c.p. perseguendo la compravendita di uno specifico atto d’ufficio è reato di danno, perché realizza una concreta lesione del bene protetto ed è quindi più grave [42].

Il contrasto giurisprudenziale – in un primo momento – sul piano pratico non ha determinato tensioni di particolare forza. E ciò perché quest’ultimo orientamento (ben esemplificato dalla pronuncia sul “caso Mose”), pur prestando ossequio formale al legislatore del 2012, che ha esplicitamente richiesto di sussumere i casi in cui non si identifica l’atto dell’agente pubblico nell’art. 319 c.p., nella sostanza ha lasciato immutate le cose.

In realtà, se si prova a leggere attentamente la motivazione della citata decisione sul “caso Mose” si comprende come la Suprema Corte “va alla caccia” di un provvedimento illegittimo (nel caso di specie all’assessore ai trasporti e alle infrastrutture viene contestata l’adozione di alcune delibere illegittime) per tran­sitare dalla figura della corruzione per la funzione a quella più grave di corruzione propria.

Nel solco di quest’ultimo indirizzo, sembra invece costituire una vera e propria svolta giurisprudenziale la sentenza pronunciata nell’ambito del procedimento relativo alla costruzione del nuovo stadio di calcio della Roma[43]. Tale decisione restituisce un reale spazio applicativo all’art. 318 c.p., tramite una interpretazione fedele della riforma del 2012, senza alcuna considerazione tuttavia per il sottosistema delle figure corruttive nel suo complesso, tralasciando completamente il reale disvalore dei fatti e valorizzando piuttosto un criterio del tutto formale, quale quello del pericolo/danno per il bene giuridico tutelato (oltretutto limitato al “corretto svolgimento dei poteri pubblici”).

Ad avviso di tale ultima pronuncia il discrimine tra la due ipotesi corruttive è segnato dalla progressione criminosa dell’interesse protetto in termini di gravità (che giustifica la diversa risposta punitiva): da una situazione di pericolo presunto (il generico asservimento della funzione) a una fattispecie di danno, in cui si realizza la massima offensività del reato (con l’individuazione di un atto contrario ai doveri d’uffiicio). Nel primo caso (art. 318 c.p.) la dazione indebita, condizionando la fedeltà e impazialità dell’agente pubblico che si mette genericamente a disposizione del privato, pone in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione; nell’altro caso (art. 319 c.p.) la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto, meritando quindi una pena più grave[44].

 

  1. La legge spazzacorrotti e il mancato ripensamento del sottosistema della corruzione

Le diverse opzioni ermeneutiche sulla corretta ripartizione dell’ambito di applicazione degli attuali artt. 318 e 319 c.p. appena esaminate, devono tener conto delle nuove misure in tema di lotta alla illegalità nella pubblica amministrazione introdotte dalla l. n. 3 del 2019[45].

Dal punto di vista del sottosistema degli illeciti penali di contrasto alla corruzione sono solo due le vere novità contenute nella legge spazzacorrotti del 2019: l’aumento delle pene principali per il delitto di corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.); la riformulazione della figura del traffico di influenze illecite (art. 346-bis c.p.) e la contestuale abrogazione espressa del delitto di millantato credito (art. 346 c.p.).

La legge n. 3/2019 appare trascurare il sottosistema delle incriminazioni in materia di corruzione, la sua razionalità e soprattutto la sua “giustizia”. Essa sembra dimenticarsi o comunque disinteressarsi della esigenza primaria nel diritto penale: che si sappia chiaramente, in via preventiva, quale siano le fattispecie penali, i loro elementi costitutivi e l’esatta linea di demarcazione tra le stesse fattispecie, per attingere a quella “frammentarietà” indispensabile a garantire la libertà personale del cittadino[46].

Eppure, dal microsistema dei reati di corruzione dobbiamo muovere per cercare in tutti i modi di prevenire e reprimere questo grave fenomeno. Non produce effetti significativi mettere mano alle pene accessorie, agli strumenti di indagine, o, tantomeno, fare modifiche mirate alle cornici edittali di specifiche figure criminose nel sistema corruttivo (come nel caso della corruzione funzionale), senza ripensare funditus il sotto-sistema dei reati di in materia di corruzione.

Si corre un rischio altissimo, non facendo questo ripensamento globale: ratificare, legittimare, cristallizzare, definitivamente l’impianto scaturito dalla legge n. 190 del 2012 nell’ambito delle incriminazioni in materia di corruzione.

Ma si tratta di un sistema quello della legge n. 190 del 2012, che non tiene conto del reale disvalore delle condotte. È profondamente ingiusto a meno che non si lasci mano libera a una parte della giurisprudenza – come sta avvenendo – di adattarlo ai principi costituzionali del nostro ordinamento. Tuttavia più che un adattamento è in corso una riscrittura da parte del “diritto vivente”. Con tutte le preoccupazioni che ciò può destare in una architettura costituzionale fondata sulla soggezione del giudice alla legge (art. 101 Cost.).

Occorre, in primo luogo, pensare alla corruzione come reato, o meglio ai reati in materia di fenomeno corruttivo, costruendo in proposito un sistema quanto più razionale, efficiente e giusto; e poi alle pene accessorie e agli strumenti investigativi.

Nella legge spazzacorrotti tanto l’inasprimento delle pene per la corruzione funzionale quanto la riformulazione del traffico di influenze illecite sembrano avere il paradossale effetto di ratificare definitivamente l’impianto della legge n. 190 del 2012, piuttosto che discostarsene segnando un punto di svolta nella lotta alla corruzione[47].

Queste due modifiche rappresentano, involontariamente, una legittimazione di quanto prodottosi a seguito della l. n. 190 del 2012; novella quest’ultima che ha in parte mancato il suo obiettivo, sul campo strettamente penale, di costituire un salto di qualità nel contrasto al malaffare e all’illegalità nell’attività della pubblica amministrazione.

La vera legittimazione all’esistente, a nostro avviso assolutamente da evitare, avviene nella legge spazzacorrotti con l’esplicito innalzamento della forbice edittale del delitto di cui all’art. 318 c.p.; cornice oggi compresa tra 1 e 6 anni di reclusione e dalla novella inasprita: da 3 a 8 anni di reclusione. Un inutile (e controproducente) inasprimento delle pene per la corruzione funzionale.

Ciò che lascia subito perplessi è l’aver reputato in sede di riforma nel 2012 – e aver comunque confermato tale scelta nella novella spazzacorrotti del 2019 – la corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.) oggettivamente meno grave della corruzione propria (art. 319 c.p.), soltanto perché in quella non si fa riferimento ad un determinato atto illegittimo dell’ufficio quale contenuto del pactum sceleris. Come dire che, pure quando l’attività corruttiva è circoscritta al mercimonio di un singolo atto, essa è sicuramente più grave della condotta dell’agente pubblico che stabilmente sottomette agli interessi del privato la sua attività[48].

Ma la corruzione sistemica non può essere punita tramite la figura più mite di corruzione.

Come accennato, prima della riforma del 2012 (l. n. 190) le ipotesi di messa a libro paga, di asservimento continuativo della funzione pubblica ad interessi privati, di mancata individuazione dello specifico atto compravenduto, seppur svincolate dal riferimento ad uno specifico atto, venivano ricondotte dalla giurisprudenza di cassazione all’interno dell’ipotesi criminosa di corruzione propria ex art. 319 c.p.

È mai possibile, allora, che le condotte di c.d. corruzione sistemica, le quali ruotano intorno alla c.d. stabile messa a disposizione del funzionario ovvero a patti corruttivi nei quali non è individuabile lo specifico atto concreto contrario all’ufficio, prima del 2012 sussunte dalla giurisprudenza nel più grave reato di corruzione propria, siano adesso punibili mediante la più mite figura della corruzione funzionale (art. 318 c.p.)?

E la magistratura, come visto, talvolta ha supplito alla scelta del legislatore del 2012 (ratificata da quello del 2019), il quale, sul piano politico-criminale, non ha rispettato il disvalore astratto delle condotte; evenienza quest’ultima che non può non precedere la codificazione. Il caso astratto più grave è stato tipizzato all’interno della ipotesi di corruzione sanzionata in modo più mite. Il sistema penale (con i suoi principi costituzionali) si è im­posto talora sulla “nuda” interpretazione della disposizione incriminatrice, riconducen­do, sotto la più grave figura di corruzione, la condotta di stabile messa a libro paga (dell’asservimento duraturo) dell’agente pubblico, anche se non s’indivi­dua un atto determinato e preciso contrario ai doveri dell’ufficio.

 

  1. Concentrare anziché frammentare. Una proposta alternativa a quella delle recenti leggi anticorruzione: costruire un’unica ipotesi di corruzione

La corruzione sistemica, anche se non si individua lo specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, ha un disvalore immenso; è letale per la crescita economica, incide sul costo delle opere pubbliche e sul morale della gente comune[49].

La corruzione sistemica non deve allora essere ricondotta, in linea astratta, nella figura più lieve di corruzione, come previsto dalla legge n. 190 del 2012. Né il compito di sovvertire tale esito, nel singolo caso concreto, può essere lasciato al lavoro di supplenza della magistratura.

Bisogna avere il coraggio di riformulare in modo organico il minisistema della corruzione, senza dimenticare che di esso fanno parte oggi pure il delitto di cui all’art. 319-quater c.p. (l’induzione indebita a dare o promettere utilità), nonché il reato ex art. 346-bis c.p. (il traffico di influenze illecite).

Il primo che origina dallo sdoppiamento nel 2012 del delitto di concussione in due figure autonome: la concussione vera e propria (ormai solo “per costrizione”, rimasta nell’art. 317 c.p.) e appunto l’inedito reato di induzione indebita (art. 319-quater c.p.). Quest’ultimo nell’intenzione del legislatore, con la punibilità del privato, doveva assumere una posizione intermedia tra i due modelli classici di incriminazione della concussione/corru­zione. Mentre, l’esito effettivo della riforma del 2012, nella lettura fornita dal “diritto vivente” (e in particolare dalle Sezioni unite Maldera del 2013), è stato che la “vecchia” sottofattispecie di concussione per induzione è divenuta oggi una ipotesi più prossima alla corruzione che alla concussione.

Quanto al traffico di influenze illecite, esso mira a soddisfare l’esigenza di avere una apposita previsione volta a reprimere le attività di quelle figure denominate nella prassi: faccendieri, portaborse, facilitatori ecc., le quali, avvalendosi di contatti, entrature e relazioni, condizionano indebitamente le scelte dei pubblici poteri (al di fuori della legittima attività di lobbying). L’incriminazione di cui all’art. 346-bis c.p. punisce condotte prodromiche al vero e proprio accordo corruttivo tra pubblico agente e privato, anticipando dunque l’intervento della sanzione penale in questo ambito[50].

Ebbene, nella riformulazione del sottosistema corruttivo, occorre assegnare alle ipotesi di stabile messa a libro paga e di duraturo asservimento delle funzioni pubbliche agli interessi privati – anche se non si individua uno specifico atto illegittimo compravenduto – il giusto posto come ipotesi di maggior disvalore di corruzione: minando, queste ultime condotte illecite penalmente, le fondamenta dell’etica pubblica[51].

Converrebbe dunque nel prossimo futuro cercare di costruire una ipotesi generale di incriminazione di corruzione, comprensiva delle figure di corruzione per l’esercizio della funzione, per un atto contrario ai doveri d’ufficio e dell’ipotesi di induzione indebita (ormai, come detto, ascrivibile al paradigma della corruzione in senso stretto). E dislocare tutte queste fattispecie in un’unica disposizione (articolo), rubricata come corruzione tout court; andando in senso opposto rispetto all’assetto attuale, reso ancora più caotico dalla frammentazione delle condotte corruttive operata dalla novella del 2012[52].

Una proposta che, come sappiamo, trova la sua matrice nel “Progetto milanese” del 1994: un’unica macro-figura criminosa nella quale far confluire le diverse tipologie di illecito di natura corruttiva; con una fattispecie talmente ampia da includere tanto il modello mercantile quanto quello clientelare. Nel Progetto del 1994, la concussione veniva dislocata all’interno dell’estorsione quale aggravante ad effetto speciale[53].

Si tratta di una semplificazione indispensabile alla prassi e che potrebbe concorre a garantire al cittadino una maggiore certezza e uguaglianza nell’applicazione giudiziaria del diritto nel campo dei reati contro la pubblica amministrazione.

L’uso del rasoio di Occam, con la creazione di un’unica ipotesi generale di corruzione, permetterebbe oltretutto di evitare profili abolitivi, sempre in agguato in presenza di riformulazioni legislative.

Il diverso disvalore penalistico delle tipologie di fatti, all’interno della medesima disposizione, potrebbe essere designato tramite differenti cornici edittali; con pene talora diversificate per i correi.

Una progressione criminosa che dovrebbe muovere dalla meno grave fattispecie di autentica corruzione funzionale, incentrata sulle “vecchie” corruzioni per atto dell’ufficio conforme o legittimo (non illegittimo) e su quelle corruzioni funzionali in cui vi è una mera e circoscritta nel tempo dazione per una generica ed episodica infedeltà del pubblico agente (che prescinde dal concreto atto contrario dell’ufficio).

Dovrebbero qui essere prese in considerazione ipotesi più lievi di corruzione che si riferiscono ad atti legittimi dell’agente pubblico (attività conforme dell’ufficio nella forma e nella sostanza), o ad attività dovute e prive di spazi di discrezionalità ovvero ad attività insindacabili (come per l’ipotesi affrontata dalla Corte di cassazione riguardo alla corruzione del Parlamentare ricondotta alla corruzione “impropria” ex art. 318 c.p.[54]).

Al secondo livello della piramide punitiva, si dovrebbe includere, nell’unico articolo sulla corruzione, le condotte di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio.

Al terzo gradino, quale forma più grave di corruzione, si dovrebbe prevedere la c.d. corruzione sistemica, distinta dalla più lieve corruzione funzionale nella quale, come detto, vi è una mera infedeltà episodica (od occasionale) dell’agente pubblico a cui è collegata l’isolata (o al più la sporadica) dazione indebita.

Le figure di corruzione sistemica da tipizzare al culmine della piramide dovrebbero essere quelle di stabile e duratura messa a libro paga dell’agente pubblico e di asservimento continuativo nel tempo della funzione pubblica esercitata dallo stesso agli interessi di privati. Figure criminose quest’ultime che si configurano sia quando i pagamenti siano ricollegabili all’adozione di atti contrari ai doveri d’ufficio (illegittimi), sia là dove non si rinvenga uno specifico e concreto atto dell’agente pubblico, nonché ove vengano adottati atti che pur formalmente legittimi risultino in realtà orientati alla realizzazione di interessi privati (o comunque diversi da quelli istituzionali). Detto in altre parole, la stabile e duratura messa a libro paga e l’asservimento per un tempo prolungato possono essere poste in relazione ad atti di ufficio illegittimi, ma possono anche prescindere da singoli atti d’ufficio.

Bisognerebbe prevedere, infine, l’introduzione di una specifica circostanza attenuante a effetto speciale o modificare l’art. 323-bis c.p. (attenuante per fatti di particolare tenuità), per tener conto ancora con più attenzione dei casi di corruzione c.d. “pulviscolare” (o minori), con un basso disvalore e rendere così la sanzione proporzionata alla condotta criminosa commessa.

Non pare peregrina allora l’idea di rimettere mano al sottosistema della corruzione, andando però in controtendenza rispetto al recente passato (concentrando anziché frammentando). Nel senso di razionalizzare, ridurre le disposizioni incriminatrici, allocando in esse quelle tipologie di condotte che appaiono espressive di un disvalore omogeneo; e che frammentandole come si è fatto con la novella del 2012, rende difficile garantire al cittadino (che rivesta una qualifica soggettiva pubblica o meno) l’indispensabile certezza e uguaglianza nell’applicazione giudiziaria del diritto.

Ma tutto ciò senza però dimenticare quanto giustamente messo in risalto dalla dottrina. La soluzione per i fenomeni corruttivi non può risiedere integralmente nella coniazione di “buone leggi” né nella equiparazione “mafioso-corrot­to” del nuovo codice antimafia e neppure nello “spazzar via i corrotti”, perché la corruzione rappresenta prima di tutto una “questione morale”: deve perciò essere affidata anche al costume, alla cultura, all’educazione civica collettiva e alla fiducia nei pubblici po­teri [55].

* Il presente contributo è stato sottoposto alla valutazione di un revisore, con esito favorevole.

[1] Sulle due diverse concezioni: mercantile e clientelare della corruzione, cfr. A. Spena, Il «turpe mercato», Giuffrè, 2003, p. 20 ss., p. 564 ss.

[2] Cfr. M. Gambardella, Condotte economiche e responsabilità penale, Cap. 16, Giappichelli, 2020.

[3] In tal senso, espressamente, M. Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, artt. 314-335 bis, Giuffrè, 2019, p. 208 ss.

[4] Cfr. M. Pelissero, I delitti di corruzione, in Reati contro la pubblica amministrazione, a cura di C.F. Grosso e M. Pelissero, Giuffrè, 2015, p. 284 ss.; C. Benussi, I delitti contro la pubblica amministrazione, Tomo I, I delitti dei pubblici ufficiali, Cedam, 2013, p. 653 ss. Segnala che si tratta di una fattispecie espressiva di una “logica di autore”, V. Manes, Corruzione senza tipicità, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2018, p. 1138 ss.

[5] Cfr. F. Cingari, La corruzione per l’esercizio della funzione, in La legge anticorruzione, a cura di B.G. Mattarella-M. Pelissero, Giappichelli, 2013, p. 406 ss.; M. Ronco, L’amputazione della concussione e il nuovo delitto di induzione indebita: le aporie di una riforma, in Arch. pen., 2013, fasc. 1, p. 47 ss.

[6] Così P. Severino, La nuova legge anticorruzione, in Dir. pen. proc., 2013, p. 8.

[7] In tal senso, cfr. F. Cingari, Repressione e prevenzione della corruzione pubblica, Giappichelli, 2012, p. 104 ss.; M. Pelissero, I delitti di corruzione, cit., p. 247 ss.

[8] Cfr. A. Spena, Il «turpe mercato», cit., p. 578 ss.; G. Forti, Il diritto penale e il problema della corruzione, dieci anni dopo, in AA.VV., Il prezzo della tangente, a cura di G. Forti, Vita e Pensiero, 2003, p. 73 ss.; P. Davigo-G. Mannozzi, La corruzione in Italia, Laterza, 2007, p. 272 ss.; A. Vannucci, La corruzione in Italia: cause, dimensioni, effetti, in La legge anticorruzione, a cura di B.G. Mattarella-M. Pelissero, Giappichelli, 2013, p. 46 ss.

[9] Così A. Vannucci, Atlante della corruzione, Edizioni Gruppo Abele, 2012, p. 249 ss.

[10] Cfr. T. Padovani, La messa a “libro paga” del pubblico ufficiale ricade nel nuovo reato di corruzione impropria, in Guida dir., 2012, n. 48, Inserto 13, p. X; M. Pelissero, I delitti di corruzione, cit., p. 306.

[11] Cfr. M. Gambardella, Profili di diritto intertemporale della nuova corruzione per l’esercizio della funzione, in Cass. pen., 2013, p. 3866 ss.

[12] Cass., sez. VI, 25 settembre 2014, n. 49226, C.E.D. Cass., n. 261354.

[13] Cfr. M. Gambardella, Dall’atto alla funzione pubblica: la metamorfosi legislativa della corruzione “impropria”, in Arch. pen., 2013, fasc. 1, p. 62 ss.

[14] M. Gambardella, Profili di diritto intertemporale della nuova corruzione per l’esercizio della funzione, cit., p. 3866.

[15] Così Cass., sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 19189, in Cass. pen., 2013, p. 3856.

[16] P. Severino, La nuova legge anticorruzione, cit., p. 8.

[17] Così T. Padovani, La messa a “libro paga”, cit., p. X. In senso decisamente contrario, cfr. P. Ielo, Prime note sulla riforma dei reati contro la PA, in Resp. amm. soc., n. 1, 2013, p. 16 ss.

[18] Cfr. G. Andreazza-L. Pistorelli, Novità legislative: l. 6 novembre 2012, n. 190 recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, in Dir. pen. cont., p. 2 ss., p. 5.

[19] Cfr. E. Dolcini-F. Viganò, Sulla riforma in cantiere dei delitti di corruzione, in Dir. pen. cont., n. 1, 2012, p. 237.

[20] Cass., sez. VI, 15 febbraio 1999, n. 3945, in Cass. pen., 2000, p. 1223; Cass., sez. VI, 5 febbraio 1998, n. 2894, ivi, 1999, p. 3405, con nota di R. Rampioni; Cass., sez. VI, 5 marzo 1996, ivi, 1997, 1338; Cass., sez. VI, 29 ottobre 1992, ivi, 1994, 1518.

[21] Cass., sez. VI, 9 dicembre 2003, n. 2622, in C.E.D. Cass., n. 227246. In dottrina, in tal senso, cfr. le osservazioni di P. Davigo-G. Mannozzi, La corruzione in Italia, cit., p. 294 ss.

[22] Cass., sez. VI, 26 febbraio 2007, n. 21192, in C.E.D. Cass., n. 236624. Nello stesso senso, cfr. Cass., sez. VI, 15 maggio 2008, n. 34417, ivi, n. 241081; Cass., sez. VI, 16 gennaio 2008, n. 20046, ivi, n. 241184; Cass., sez. VI, 28 marzo 2001, in Cass. pen., 2002, p. 580. Per una ricostruzione della vicenda anche dal punto di vista storico e comparatistico, cfr. V. Manes, L’atto d’uf­ficio nelle fattispecie di corruzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, p. 924 ss.

[23] Cass., sez. II, 25 novembre 2015, n. 47471.

[24] Così Cass., sez. VI, 28 febbraio 2017, n. 17586, in C.E.D. Cass., n. 269830.

[25] Cfr., in proposito, G. Fornasari, Il significato della riforma dei delitti di corruzione (e incidenze “minori” su altri delitti contro la P.A.), in Giur. it., 2012, p. 2691 ss.

[26] M. Pelissero, I delitti di corruzione, cit., p. 284 ss.; M. Gambardella, Profili di diritto intertemporale della nuova corruzione per l’esercizio della funzione, cit., p. 3866 ss.

[27] Così T. Padovani, La messa a “libro paga”, cit., p. X.

[28] In tal senso P. Severino, La nuova legge anticorruzione, cit., p. 8 ss. In senso critico, invece, P. Ielo, Prime note sulla riforma dei reati contro la PA, in Resp. amm. soc., n. 1, 2013, p. 15.

[29] Sulla stessa linea, v. P. Ielo, Prime note sulla riforma dei reati contro la PA, cit., p. 15.

[30] Cfr. P. Davigo-G. Mannozzi, La corruzione in Italia, cit., p. 294 ss.

[31] Sui modelli di lotta alla corruzione spagnoli e tedeschi, cfr. F. Cingari, Repressione e prevenzione della corruzione, cit., p. 55 ss.

[32] Cfr. M. Gambardella, Condotte economiche e responsabilità penale, Cap. 16, cit.

[33] Così F. Palazzo, Le norme penali contro la corruzione tra presupposti criminologici e finalità etico-sociali, in Cass. pen., 2015, p. 3396 ss.

[34] Cass., sez. VI, 15 ottobre 2013, n. 9883, in C.E.D. Cass., n. 258521; in senso adesivo, Cass., sez. II, 25 novembre 2015, n. 47471.

[35] Cass., sez. VI, 15 ottobre 2013, n. 9883, cit.

[36] Cass., sez. VI, 20 ottobre 2016, n. 3606/2017, in C.E.D. Cass., n. 269347. In senso conforme, v. Cass., sez. VI, 15 settembre 2017, n. 46492, ivi, n. 271383.

[37] Cass., sez. VI, 15 settembre 2017, n. 46492, cit.

[38] Cass., sez. VI, 15 settembre 2017, n. 46492, cit.

[39] Così Cass., sez. VI, 5 aprile 2018, n. 29267, in C.E.D. Cass., n. 273448. Nello stesso senso, cfr. Cass., sez. VI, 15 settembre 2017, n. 46492, cit.; Cass., sez. VI, 20 ottobre 2016, n. 3606/2017, cit.

[40] Cass., sez. VI, 25 settembre 2014, n. 49226, in Cass. pen., 2015, p. 1415, con osservazioni di G. Stampanoni Bassi. In senso adesivo, Cass., sez. VI, 7 luglio 2016, n. 40237, in C.E.D. Cass., n. 267634, secondo cui lo stabile asservimento dell’agente pubblico ad interessi personali di terzi, con episodi sia di atti contrari ai doveri d’ufficio che di atti conformi o non contrari a tali doveri, configura l’unico reato, permanente, previsto dall’art. 319 c.p., rimanendo assorbita la meno grave fattispecie di cui al precedente art. 318 c.p.; e successivamente in tal senso Cass., sez. VI, 20 giugno 2019, n. 32401, ivi, n. 276801; Cass., sez. VI, 19 settembre 2019, n. 45184.

[41] Cass., sez. VI, 27 novembre 2015, n. 3043/2016, in C.E.D. Cass., n. 265619.

[42] Cfr. Cass., sez. VI, 25 settembre 2014, n. 49226, cit.

[43] Cfr. Cass., sez. VI, 11 dicembre 2018, n. 4486/2019, Palozzi, in C.E.D. Cass., n. 274984; in Cass. pen., 2019, p. 3495, con nota critica di L. Furno, Riflessioni a margine di Sez. VI n. 4486/2018, nel prisma della recente legge c.d. spazza-corrotti e delle tre metamorfosi dello spirito. In realtà leggendo la motivazione non sembrerebbe, nel caso di specie, rinvenirsi una ipotesi di stabile e duratura messa a libro paga: trattandosi di una sola dazione di denaro, mascherata da contributo elettorale.

[44] Cass., sez. VI, 11 dicembre 2018, n. 4486/2019, Palozzi, cit.

[45] Al riguardo S. Seminara, I reati di indebita percezione di erogazioni, corruzione pubblica e corruzione privata, in Una nuova legge contro la corruzione, a cura di R. Orlandi e S. Seminara, Giappichelli, 2019, p. 88 ss.

[46] Cfr. sull’importanza della frammentarietà nel diritto penale T. Vormbaum, Saggi di storia nel diritto penale moderno, ESI, 2018, p. 145 ss.

[47] Cfr. M. Gambardella, Il grande assente nella nuova “legge spazzacorrotti”: il microsistema delle fattispecie di corruzione, in Cass. pen., 2019, p. 61 ss.

[48] In tal senso, ad es. L. Furno, Riflessioni a margine di Sez. VI n. 4486/2018, nel prisma della recente legge c.d. spazza-corrotti, cit., p. 3501 ss.

[49] M. Gambardella, Il grande assente nella nuova “legge spazzacorrotti”, cit., p. 67 ss.

[50] La nuova figura delittuosa del traffico di influenze illecite è stata collocata dal legislatore del 2012 topograficamente in sequenza con il delitto di millantato credito (art. 346 c.p.), il quale ne rappresenta l’evidente matrice dal punto di vista strutturale. Ciò ha però subito posto nella prassi giudiziaria la questione di tracciare una linea di distinzione fra le due incriminazioni (emblematico il c.d. “caso Temparossa”). Proprio siffatti problemi interpretativi e di coordinamento hanno condotto il legislatore del 2019 (c.d. legge spazzacorrotti) ad intervenire in modo drastico. Per un verso espressamente abrogando la disposizione “matrice” dell’art. 346 c.p. (millantato credito); per altro verso, riformulando il delitto di cui all’art. 346-bis c.p. (traffico di influenze illecite) in modo da ricomprendere la fattispecie formalmente (e sincronicamente) abrogata.

[51] Sui rapporti tra corruzione ed etica pubblica, cfr. M. Donini, Il diritto penale come etica pubblica, Mucchi editore, 2014, p. 46 ss.

[52] Cfr. T. Padovani, La spazzacorrotti. Riforma delle illusioni e illusioni della riforma, in Arch. pen. web, 2018, p. 9 ss.

[53] Cfr. le “Proposte in materia di prevenzione della corruzione e dell’illecito finanziamento dei partiti” elaborate da parte di un gruppo di magistrati della Procura di Milano e professori di diritto e procedura penale delle Università milanesi, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1994, p. 1025 ss.

[54] Cfr. Cass., sez. VI, 2 luglio 2018, n. 40347.

[55] In tal senso, cfr. M. Donini, Il diritto penale come etica pubblica, cit., p. 46 ss. L’indice di Percezione della Corruzione 2019 (CPI) (pubblicato il 23 gennaio 2020) da Transparency International vede l’Italia al 51° posto nel mondo con un punteggio di 53 punti su 100, migliore di un punto rispetto all’anno precedente. L’Italia, pur segnando un lieve miglioramento, rallenta la sua scalata alla classifica globale della corruzione, lasciando la sufficienza ancora lontana e molti problemi strutturali irrisolti.

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