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IL RAPPORTO TRA POSIZIONE DI GARANZIA E COOPERAZIONE COLPOSA

THE RELATIONSHIP BEETWEEN NEGLIGENT COOPERATION AND GUARANTEE POSITION

Abstract: La sentenza analizza il rapporto tra cooperazione colposa e posizione di garanzia nell’ambito della responsabilità medica. In particolare, la pronuncia offre lo spunto per approfondire il ruolo dell’art. 113 c.p. nel nostro ordinamento e la sua applicabilità anche verso soggetti che non ricoprono una posizione di garanzia. Il tema coinvolge dunque, da un lato, la esatta delimitazione del concetto di posizione di garanzia e, dall’altro, la possibilità di riconoscere la responsabilità penale nei confronti di chi, pur non essendo garante, ha comunque tenuto una condotta agevolatrice dell’operato altrui che ha contribuito alla realizzazione dell’evento lesivo.

The judgment analyzes the relationship between negligent cooperation and guarantee position in the area of ​​medical liability. In particular, it offers an opportunity to deepen the role of art. 113 c.p. in our legal system and its applicability also to subjects who do not hold a guarantee position. The issue involves, on the one hand, the boundaries of the concept of the position of guarantee and, on the other, the possibility of recognizing the criminal responsibility towards those who, despite being not guarantor, have held a facilitating conduct of work of others who contributed to the realization of the damaging event.

Cassazione Penale, Sez. IV, 14 febbraio 2022 (ud. 4 novembre 2021), n. 5117 – Pres. Di Salvo – Red. D’Andrea

Sommario: 1. Premessa. – 2. Le questioni controverse. – La soluzione della Corte di Cassazione. – 4. Osservazioni conclusive.

  1. Premessa

La sentenza n. 5117 del 2022 della Corte di Cassazione presenta profili di particolare interesse perché esamina, sotto un angolo visuale diverso rispetto a quelli solitamente approfonditi, il tema del rapporto tra posizione di garanzia e cooperazione colposa nell’ambito della responsabilità medica.

Le riflessioni sviluppate dalla Suprema Corte traggono origine da una vicenda connotata da una certa drammaticità. La pronuncia affronta infatti il caso di una dottoressa omeopata (A. L.) di fama internazionale che aveva fondato una scuola di pensiero, alternativa alla medicina tradizionale ed ispirata al metodo Hahnemanniano[1], privo di qualsiasi riscontro scientifico. Secondo l’ipotesi accusatoria, avallata prima dai Giudici di merito e poi da quelli di legittimità, la donna avrebbe convinto la paziente di una sua ‘discepola’ (G. D.), con la quale aveva da anni rapporti collaborativi continui tanto da condividerci anche lo studio medico, a seguire trattamenti omeopatici e psicologici e a non farsi asportare chirurgicamente un neo – poi rivelatosi un melanoma – convincendola che se lo avesse asportato non avrebbe risolto il problema ma, anzi, peggiorato la sua situazione, andando incontro alla morte.

Il piano terapeutico così seguito dalla paziente per quasi dieci anni (dal 2005 al 2014) si è rivelato fatale in quanto il melanoma, sul quale le due dottoresse avevano sempre suggerito di non intervenire in base a quanto previsto dai protocolli scientifici tradizionali e di aspettare che uscisse ‘naturalmente’ dal corpo, ha sviluppato numerose metastasi che hanno portato al decesso avvenuto il 24 settembre 2014.

Nonostante l’imputata non fosse il medico curante della paziente la sua responsabilità è stata affermata in virtù del contributo fondamentale fornito dalla stessa alla realizzazione dell’evento. Tale contributo veniva fatto risalire, in particolare, al 2012, anno in cui l’imputata era stata invitata dalla G.D. ad un consulto durante il quale aveva potuto visionare la lesione della paziente e la sua natura cancerogena. Per il periodo successivo al consulto è stato invece dimostrato come la dott.ssa A.L., anche se non aveva più visitato la persona offesa, fosse stata costantemente informata dalla G.D. della sua condizione clinica e del piano terapeutico che stava seguendo. Siffatta circostanza è emersa soprattutto dalla presenza di numerosi scambi di mail intervenuti tra le due dottoresse, aventi ad oggetto lo stato di salute della donna, le visite da effettuarsi, le terapie da seguire e le preoccupazioni legate al possibile ricorso al trattamento chirurgico e chemioterapico.

Ferma restando la responsabilità della dott.ssa G.D., in quanto medico curante, maggiore complessità ha suscitato il riconoscimento della responsabilità penale della A.L. che, pacificamente, non aveva una relazione terapeutica con la paziente. In mancanza di tale rapporto si è posto infatti il problema di capire se anche alla dottoressa in questione potesse essere comunque ascritta una qualche forma di responsabilità in quanto, consapevole delle sue condizioni cliniche, non solo non ha consigliato alla donna di sottoporsi ad un intervento chirurgico ma ha aderito ed acconsentito al nefasto piano della collega che ha portato, in definitiva, al decesso della vittima.

Tale interrogativo offre lo spunto per affrontare due questioni principali.

Innanzitutto, ci si deve domandare se un medico, chiamato ad effettuare un consulto specialistico da un altro medico, possa essere considerato titolare di una posizione di garanzia rilevante ai sensi dell’art. 40 cpv. c.p.

In secondo luogo, ed è questo l’aspetto più interessante, è doveroso chiedersi se possa applicarsi l’art. 113 c.p. a fronte di una condotta agevolatrice di quella del garante, anche in assenza di una posizione di garanzia. 

  • Questioni controverse

L’esatta ricostruzione della posizione di garanzia anima, da sempre, il dibattito dottrinale e giurisprudenziale ed è inevitabilmente destinata ad avere risvolti pratici di notevole importanza. L’art. 40 cpv. c.p., com’è noto, prevede che non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo. Viene quindi cristallizzata, nella citata norma, l’equivalenza tra il ‘non impedire’ e il ‘cagionare’ un determinato evento.

L’art. 40 cpv. c.p. dà luogo, dunque, ad un “fenomeno di estensione della punibilità[2]” in quanto il dovere giuridico di agire, che caratterizza anche i reati omissivi propri, “include nel suo oggetto anche il mancato impedimento dell’evento[3]”. Affinché ciò accada, e cioè sia ravvisabile un obbligo giuridico penalmente rilevante, è necessario che sussistano essenzialmente due elementi: a) non basta la mera possibilità materiale di impedire un evento, essendo necessario che l’azione impeditiva dello stesso sia posta da una norma giuridica; b) la presenza di un obbligo giuridico (o di garanzia) di impedire un evento[4]. Ed è proprio tale obbligo giuridico che “fa del suo destinatario il garante dell’integrità di uno o più beni giuridici, impegnandolo a neutralizzare i pericoli innescati da comportamenti di terzi o da forze della natura[5]”.

Ricostruita in questi termini, la posizione di garanzia è allora configurabile come “uno speciale vincolo di tutela tra un bene giuridico ed il soggetto garante, a cui il bene stesso è affidato, in virtù dell’incapacità del titolare di proteggerlo e salvaguardarlo autonomamente[6]”.

Così definito il concetto di posizione di garanzia, appare evidente come l’art. 40 cpv c.p. crei un problema di contemperamento tra due interessi contrastanti: da un lato l’interesse a proteggere un bene giuridico considerato meritevole di tutela dall’ordinamento e, dall’altro, l’esigenza di non estendere l’area della responsabilità penale al di là dei comportamenti penalmente rilevanti, alla luce del principio di tipicità e tassatività della legge penale sancito dall’art. 25 della Costituzione.

Proprio tale contrasto ha portato la dottrina e la giurisprudenza a formulare nel corso degli anni diverse teorie in ordine all’individuazione delle fonti delle posizioni di garanzia[7].

Alcune di esse hanno valorizzato l’importanza del principio di tipicità della legge penale concludendo per la necessità di una fonte formale che attribuisca ad un determinato soggetto il ruolo di garante[8]. Altre, invece, hanno posto l’attenzione, in omaggio alla necessità di protezione del bene giuridico di volta in volta tutelato, sulla posizione di fatto in cui si trova un determinato soggetto indipendentemente da un suo riconoscimento in una fonte formale[9]. Non sono infine mancate teorie che hanno cercato di sintetizzare il criterio formale con quello sostanziale, attraverso l’individuazione degli obblighi di garanzia sulla duplice base della loro previsione in una fonte formale e della loro corrispondenza alla funzione sostanziale di garanzia[10].

La giurisprudenza sembra da tempo orientata a favore di una concezione anche sostanzialistica della posizione di garanzia, potendo quest’ultima essere generata non solo da un’investitura formale, ma anche dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante, purché l’agente assuma la gestione del rischio mediante un comportamento concludente consistente nell’effettiva presa in carico del bene protetto[11].

Questo atteggiamento favorevole alla ricostruzione delle posizioni di garanzia in termini fattuali è stato sviluppato soprattutto nell’ambito della responsabilità medica, con particolare riferimento a quella dello psichiatra e a quella dei medici in équipe[12].

E non è un caso che proprio in quest’ambito, in cui forse si pone più che in qualunque altro l’esigenza di tutelare il bene giuridico della vita e dell’integrità fisica, la responsabilità del personale sanitario è stata affermata addirittura facendo ricorso alla categoria del contatto sociale qualificato, affermata in campo civilistico[13]. In quest’ottica il contatto sociale si atteggerebbe alla stregua di un atto negoziale atipico da cui scaturirebbero specifici obblighi di impedimento dell’evento[14].

Non sorprende dunque che la giurisprudenza abbia in più occasioni riconosciuto non solo la responsabilità dello psichiatra o quella del medico che lavora in équipe ma anche del medico chiamato ad effettuare un consulto specialistico.

La Corte di Cassazione ha infatti affermato che “anche il medico chiamato per un consulto ha gli stessi doveri professionali del medico che ha in carico il paziente e non può esimersi da responsabilità adducendo il fatto di essere stato chiamato per valutare una specifica situazione[15]”. Si sottolinea, a sostegno di tale conclusione, che il medico specialista assume, in virtù del ‘contatto sociale’ che instaura col paziente a seguito del consulto, una posizione di garanzia “della tutela della sua salute ed anche se non può erogare la prestazione richiesta deve fare tutto ciò che è nelle sue capacità per la salvaguardia dell’integrità del paziente[16]”.

Se, quindi, da un lato l’intervento del medico specialista non esonera da responsabilità il medico che ha chiesto il consulto, per il solo fatto di averlo chiesto, dall’altro lato il medico che si rende disponibile per il consulto assume una posizione di garanzia rilevante ai sensi dell’art. 40 cpv. c.p. ogniqualvolta lo stesso sia in grado di comprendere l’entità della patologia e non faccia tutto ciò che è in suo possesso per curare il paziente ma, al contrario, tenga delle condotte negligenti ed imperite che risultano incompatibili con il ruolo ricoperto e con il fine ultimo della professione medica, vale a dire la salvaguardia della vita e della salute del paziente. In altri termini il medico specialista, chiamato per il consulto, non può invocare a sua discolpa la violazione di regole cautelari da parte dell’altro medico atteso che è proprio sulla violazione di siffatte regole precauzionali che si inserisce la condotta non diligente del medico specialista il quale, resosi conto di una situazione pregiudizievole per la salute del paziente, ha l’obbligo giuridico di attivarsi per impedire la realizzazione dell’evento lesivo[17]

In definitiva “il principio di affidamento non esclude il concorso di colpa tra medico curante e medico chiamato a ulteriore consulto, tranne che in caso di soluzione di continuità diagnostico-terapeutica tra i sanitari: in questa ipotesi la responsabilità per l’evento è congiunta e non esclusiva, salvo che si dimostri un’effettiva e conclamata diversità di valutazione diagnostica e di opportunità terapeutica tra i sanitari convenuti[18]”.

La soluzione adottata dalla giurisprudenza si propone, quindi, di estendere la responsabilità penale anche al medico che non ha instaurato una relazione terapeutica con il paziente ma che, tramite la richiesta di consulto, è stato edotto delle sue condizioni cliniche e, di conseguenza, ha acquisito la capacità di incidere sul decorso terapeutico e sulle scelte mediche del singolo.

Il tutto, a ben vedere, in un’ottica di valorizzazione della consulenza e del ricorso ad esami specialistici in quanto il fine di questi ultimi “è quello di prevenire, tramite il collegiale confronto tra medici, ad una diagnosi e quindi ad un indirizzo terapeutico che permette di fornire al malato la migliore cura e assistenza possibili, cosicché la presenza contemporanea di tutti i medici interessati rappresenta la soluzione migliore per garantire l’esame approfondito ed informato del caso[19]”.

Ferma restando l’individuazione di una posizione di garanzia in capo al medico chiamato per un consulto, ci si deve a questo punto chiedere se si possa riconoscere una responsabilità in capo ad un soggetto che, pur non assumendo un’autonoma posizione di garanzia, pone in essere una condotta agevolatrice di quella del garante.

La questione coinvolge, inevitabilmente, la funzione e la portata applicativa della cooperazione colposa disciplinata dall’art. 113 c.p.

L’art. 113 c.p., introducendo un istituto sconosciuto al Codice Zanardelli[20], stabilisce che nel delitto colposo, quando l’evento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso. La pena è poi aumentata, ai sensi del secondo comma, quando concorrono le condizioni stabilite dall’art. 111 e nei numeri 3 e 4 dell’art. 112 c.p.

L’ambito applicativo dell’art. 113 c.p. è da sempre al centro di un intenso dibattito giurisprudenziale e dottrinale che si sviluppa intorno a due questioni principali.

In primo luogo, ci si chiede quale siano gli elementi che consentono di distinguere l’ipotesi della cooperazione colposa da quella del concorso di cause indipendenti di cui all’art. 41 c.p.[21].

In secondo luogo, è discusso se l’art. 113 c.p. abbia una sola funzione di disciplina o anche una funzione incriminatrice, problema che si pone non tanto in relazione ai reati a forma vincolata quanto, piuttosto, nei reati a forma libera.

Per quanto riguarda la distinzione tra cooperazione colposa e concorso di cause indipendenti, la giurisprudenza e la dottrina sono sostanzialmente concordi nel ritenere che la stessa debba essere individuata sul piano dell’elemento soggettivo. In particolare, l’art. 113 c.p. si ritiene applicabile quando vi sia la consapevolezza di contribuire ad una condotta altrui, anche se si discute in ordine all’esatta entità di questa consapevolezza.

Secondo l’opinione maggioritaria la consapevolezza deve avere ad oggetto la commissione di un fatto materiale da parte di un altro soggetto, non anche il carattere colposo della condotta da questo realizzata[22]. In altre parole, ciò che conta è la coscienza dell’altrui partecipazione allo stesso fatto, intesa come consapevolezza da parte dell’agente che dello svolgimento di una determinata attività anche altri sono investiti. Tale consapevolezza deve, in ogni caso, essere accompagnata da una condotta cooperativa in grado di fornire un contributo causale giuridicamente apprezzabile alla realizzazione dell’evento non voluto da parte dei soggetti tenuti al rispetto delle norme cautelari[23].

Vi è peraltro un’opinione più rigorosa secondo la quale la consapevolezza dovrebbe riguardare non solo la materialità del fatto altrui ma anche il suo carattere colposo[24]. In quest’ottica l’elemento di specificazione della disciplina normativa sarebbe dato proprio dalla consapevolezza di cooperare con altri in un’azione negligente, imprudente o inesperta.

Ad ogni modo ciò che conta è che la cooperazione colposa si sostanzia, a differenza di quanto accade nel concorso di cause indipendenti, nella neutralizzazione di comportamenti colposi altrui, nel senso che “nella cooperazione colposa le cautele che si assumono violate sono rivolte alla condotta altrui, cioè sono tese a neutralizzare il comportamento colposo del terzo, mentre quando concorrono delle cause colpose indipendenti i soggetti coinvolti violano, in modo indipendente l’uno dall’altro, più regole cautelari, realizzando un evento lesivo unico[25]”.

Ricostruita in questi termini la distinzione tra cooperazione colposa e concorso di cause indipendenti, resta da verificare quale sia l’effettiva funzione dell’art. 113 c.p. nel nostro ordinamento.

Questo problema si pone, soprattutto, per i reati colposi puri o di evento. Rispetto a tali reati, a ben vedere, l’art. 113 c.p. potrebbe risultare superfluo in quanto le singole condotte criminose del concorrente sarebbero comunque punite, anche in assenza di una norma sulla cooperazione colposa, ai sensi dell’art. 41 c.p. ogniqualvolta i cooperanti attivassero una condotta tipicamente colposa volta alla realizzazione dell’evento lesivo.

Proprio attorno a siffatta tipologia di reati si è sviluppato un intenso dibattito[26] che ruota, essenzialmente, attorno a due filoni interpretativi. 

Secondo una prima tesi l’art. 113 c.p. andrebbe considerato una norma di mera disciplina, in quanto si limiterebbe a consentire l’applicazione delle norme dettate in materia di concorso di persone anche all’ipotesi di cooperazione colposa[27].

Questa tesi non è peraltro condivisa dalla dottrina maggioritaria, ormai compatta nel ritenere che l’art. 113 c.p. abbia una funzione incriminatrice non solo con riferimento ai reati a forma vincolata ma anche in relazione a quelli a forma libera[28]. In particolare, tale funzione andrebbe riconosciuta non tanto per le condotte che già di per sé violano una regola cautelare ma per quelle che, pur non violando alcuna regola cautelare, si inseriscono in un contesto di rischio agevolandone la realizzazione. In quest’ottica la funzione incriminatrice della norma emergerebbe di fronte ad “un’azione atipica, in quanto mera condicio dell’altrui condotta colposa. Si tratta di condotte dotate di una pericolosità astratta ed indeterminata, che diventa ‘attuale e specifica’ solo incontrando la condotta pericolosa altrui[29]”.

In questo senso si è espressa in diverse occasioni la stessa giurisprudenza di legittimità, la quale ha affermato che “nel riconoscere il ruolo estensivo dell’incriminazione svolto dall’art. 113 c.p. è dato assegnare rilevanza penale a condotte che, sebbene prive di intrinseca compiutezza, di fisionomia definita nell’ottica della tipicità colposa se isolatamente considerate, si integrano con altre dando luogo alla fattispecie della cooperazione nel delitto colposo; e che proprio a tale ambito fattuale si riferisce l’art. 113 c.p., la cui rubrica evoca il concetto di cooperazione colposa distinto da quello di concorso doloso[30]”.

Sulla scia dell’estensione della punibilità che deriverebbe dall’istituto della cooperazione colposa, alcuni autori e gran parte della giurisprudenza hanno osservato che la funzione incriminatrice dell’art. 113 c.p. potrebbe essere riconosciuta anche rispetto al contributo di soggetti estranei alla posizione di garanzia nel reato omissivo improprio, in quanto la stessa posizione di garanzia si porrebbe come vera e propria qualifica alla stregua di quanto accade in ogni reato proprio[31]. In questo senso “l’art. 113 c.p., combinandosi con l’art. 40 cpv. c.p., renderebbe penalmente rilevante il contributo di partecipazione fornito da una persona estranea alla posizione di garanzia[32]”.

Nonostante parte della dottrina sia contraria a questo approccio ermeneutico perché eccessivamente estensivo dell’area della punibilità a discapito del principio di colpevolezza[33], la giurisprudenza è invece costante nel ritenere che può essere considerato responsabile colui il quale “pur non rivestendo alcuna posizione di garanzia, contribuisca con la propria condotta cooperativa all’aggravamento del rischio, fornendo un contributo causale giuridicamente apprezzabile alla realizzazione dell’evento, ancorché la condotta del cooperante in sé considerata, appaia tale da non violare alcuna regola cautelare, essendo sufficiente l’adesione intenzionale dell’agente all’altrui azione negligente, imprudente o inesperta, assumendo così sulla sua azione il medesimo disvalore che, in origine, è caratteristico solo dell’altrui comportamento[34]”.

Ciò che conta, infatti, non è tanto la titolarità di una posizione di garanzia quanto, piuttosto, il fatto che “l’elemento che consente di ascrivere un reato colposo anche ad un soggetto che non abbia posto in essere la violazione della regola cautelare sia la reciproca consapevolezza dei cooperanti della convergenza dei rispettivi contributi”. Ed è proprio in quest’ottica che si giustifica e si coglie la portata dell’art. 113 c.p.: in alcuni casi il soggetto cooperante risponde in virtù di un’autonoma posizione di garanzia ma in altri, ed è questo che rileva, la condotta del cooperante è priva di “connotati tipici se isolatamente considerata ma assume rilevanza penale in quanto dotata di valenza agevolatrice[35].

Tale atteggiamento è, in definitiva, teso a valorizzare al massimo il ruolo dell’art. 113 c.p. Ciò che decide della rilevanza dei comportamenti del cooperante non è né la titolarità di una posizione di garanzia né l’originaria conformità della singola condotta al tipo di fatto vietato dalla norma incriminatrice di parte speciale, “ma il particolare atteggiamento psicologico dei soggetti, ossia la relazione psicologica di accessorietà che unisce queste azioni intrinsecamente indifferenti dal punto di vista giuridico-penale ad altre azioni già di per sé formalmente tipiche, caratterizzate da un’oggettiva nota di negligenza, imprudenza o imperizia[36].

  • La soluzione della Corte di Cassazione

La sentenza in commento si pone in sostanziale continuità con l’orientamento prevalente relativo al rapporto tra cooperazione colposa e posizione di garanzia.

La Suprema Corte, infatti, di fronte all’argomentazione difensiva secondo cui l’imputata andava considerata esente da responsabilità non avendo assunto alcuna posizione di garanzia nei confronti della paziente deceduta, ha affermato che tale circostanza non assume, in realtà, alcun rilievo. Invero, all’imputata “pur non potendosi configurare la violazione di una regola cautelare causalmente orientata a determinare l’evento, non trattandosi del medico curante della persona offesa, può comunque essere ascritta una cooperazione colposa nella verificazione del tragico evento[37]”. A ciò si aggiungono anche le condotte direttamente incidenti sul percorso terapeutico seguito dalla paziente che, ad avviso dei Giudici di legittimità, hanno indubbiamente contribuito alle scelte del medico curante della vittima. Le stesse erano infatti volte ad offrire dei rimedi contrari alla medicina tradizionale e particolarmente rischiosi per la situazione di salute in cui la donna versava.

Alla luce di tali considerazioni la Corte di Cassazione ha quindi ritenuto del tutto provata la “piena adesione” ed agevolazione dell’imputata alla condotta della sua collega (nonché allieva) che ha, in definitiva, portato alla morte della paziente.

Viene dunque risolto in questo modo il problema della titolarità o meno di una posizione di garanzia. Ciò che conta, invero, è che l’imputata, con la propria condotta, ha favorito la realizzazione dell’evento lesivo: “è circostanza pacifica che la titolare della posizione di garanzia nei confronti della L. era la D.; cionondimeno, è un dato altrettanto incontroverso che l’A. non si sia attivata, una volta coinvolta dal primo consulto, definito dalla L. come la faticosa seduta, venendo così meno all’obbligo connaturato con la professione medica di attivarsi a tutela della salute e della vita del paziente, tenendo una condotta professionale caratterizzata da grave imprudenza ed imperizia[38]”.

Le conclusioni a cui è arrivato il Supremo Consesso confermano quanto già sostenuto dai Giudici di merito anche se, per la verità, il percorso argomentativo di questi ultimi è in parte diverso e più dettagliato rispetto a quello seguito dalla Corte di Cassazione.

In tal senso l’aspetto del rapporto tra posizione di garanzia e cooperazione colposa è stato analizzato soprattutto dalla Corte di Appello la quale, a ben vedere, non solo ha sottolineato che l’art. 113 c.p. non postula necessariamente l’assunzione di una posizione di garanzia ma ha altresì osservato che, in ogni caso, all’imputata sarebbe comunque possibile muovere un rimprovero a titolo omissivo per non essersi attivata, una volta coinvolta dal primo consulto da parte del medico curante della paziente, per impedire l’evento.

Si legge infatti testualmente che “i titolari della posizione di garanzia devono essere forniti dei necessari poteri impeditivi degli eventi dannosi, idonei ad evitare il verificarsi dell’evento: orbene, detto potere impeditivo l’A. ce lo aveva eccome, attesa la devozione ed il rispetto che la D. provava nei confronti della sua maestra, ma non lo esercitò perché convinta delle scelte dell’allieva…dunque se per posizione di garanzia deve intendersi la titolarità del potere impeditivo, certamente si deve concludere che questa incombeva sull’A. che consapevole del pericolo a cui la donna sarebbe andata incontro nel non rimuovere la formazione cancerosa, avrebbe dovuto prima di tutto informare la paziente di un percorso alternativo tradizionale[39]”.

La Corte sembra quindi accogliere, in questo passaggio, la tesi intermedia volta a riconoscere la posizione di garanzia in capo a tutti coloro che, oltre ad essere considerati garanti da una fonte formale, sono in grado di evitare l’evento dannoso, esercitando i relativi poteri impeditivi.

In questo modo, dunque, i Giudici merito è come se affermassero la possibilità di affermare la penale responsabilità a titolo di cooperazione colposa sotto una duplice veste: da un lato l’imputata potrebbe essere considerata titolare di poteri impeditivi e, di conseguenza, di una posizione di garanzia e, dall’altro, la donna ha in ogni caso tenuto una condotta che, indipendentemente dalla presenza o meno di siffatti poteri, ha agevolato l’altrui comportamento criminoso, questo sicuramente imputabile ad un soggetto che ricopriva la veste di garante.

Il riconoscimento della posizione di garanzia si intreccia, inevitabilmente in materia di reati colposi, con il problema della ricostruzione del nesso causale. Anche questo aspetto è stato affrontato dalla Suprema Corte che, nel caso di specie, ha ritenuto certamente possibile configurare la ricorrenza della ‘causalità della colpa’ in esito all’esperimento di un corretto giudizio controfattuale effettuato in base al metodo delineato dalla sentenza Franzese.

Si è infatti osservato come la condotta negligente dell’imputata, che non ha mai sollecitato la paziente o la collega D. ad abbandonare immediatamente la medicina omeopatica per affidarsi a quella allopatica, ha sicuramente inciso sulla produzione dell’evento lesivo, in quanto “è dato non contestabile che ove la L. fosse stata indirizzata subito, quanto meno nel 2012, al ricorso alla medicina tradizionale, quando ancora non si era manifestato un quadro sintomatologico particolarmente allarmante, con altissima probabilità sarebbe stata ben altra, e migliore, la prognosi di sopravvivenza della vittima, oltre che della qualità della sua vita[40]”.

In definitiva, quindi, la Corte di Cassazione ha riconosciuto la condotta agevolatrice dell’imputata che, attraverso il ricorso alla medicina omeopatica e il rifiuto di quella tradizionale, non ha impedito la morte della vittima ma, anzi, ha contribuito all’adozione di quel piano terapeutico che si è rivelato, purtroppo, fatale.

  • Considerazioni conclusive

La sentenza appena analizzata, e in generale la vicenda ad essa sottesa, si pone indubbiamente in linea con la costante giurisprudenza di legittimità sia per quanto riguarda la ricostruzione della posizione di garanzia sia per ciò che concerne il rapporto tra posizione di garanzia e cooperazione colposa.

In particolare, come già si è avuto modo di sottolineare, è interessante osservare come la vicenda in esame abbia fornito alla Suprema Corte l’occasione per affermare che la cooperazione colposa è un istituto che consente di punire anche le condotte agevolatrici tenute da parte di chi non ricopre una posizione di garanzia: ciò che rileva, in sostanza, è che un soggetto abbia tenuto un comportamento colposo con la consapevolezza che lo stesso si unisce ad una condotta altrui, anch’essa colposa, indipendentemente dal fatto che l’agente sia a conoscenza o meno della sua colposità.

Nonostante le conclusioni alle quali è giunta la Corte di Cassazione siano pienamente condivisibili e coerenti con l’interpretazione prevalente relativa agli artt. 40 cpv. c.p. e 113 c.p., è possibile tuttavia notare come nell’iter motivazionale la Corte finisca in parte per sovrapporre il profilo della cooperazione colposa con quello della posizione di garanzia.

Il Supremo Consesso, infatti, da un lato afferma che la responsabilità dell’imputata va ravvisata nella mera condotta agevolatrice della condotta colposa dell’altro medico (l’unico a cui è possibile ascrivere una vera e propria posizione di garanzia) ma, dall’altro, sostiene espressamente che ciò che le viene contestato è che la stessa sia venuta meno all’obbligo di attivarsi a tutela della salute e della vita del paziente. Ma l’obbligo giuridico di attivarsi, a ben vedere, rientra nell’ambito dell’art. 40 cpv. c.p. che, come detto, punisce una condotta omissiva di impedimento dell’evento tenuta proprio dal soggetto che riveste una posizione di garanzia e che, in virtù del ruolo ricoperto, risponde per non aver tenuto la condotta richiesta e attesa dall’ordinamento.

Al contrario, la condotta agevolatrice che può essere tenuta dal soggetto che non ricopre una posizione di garanzia non può che essere una condotta attiva, un comportamento che contribuisce all’aggravamento della situazione di rischio, fornendo un contributo causale giuridicamente apprezzabile alla realizzazione dell’evento lesivo[41]. È la stessa Corte di Cassazione, non a caso, a parlare di ‘piena adesione’ al fallimentare piano terapeutico elaborato dal medico curante della paziente, adesione connotata da ‘una manifesta attitudine agevolatrice’.

Proprio nell’ottica del contributo causale atipico di agevolazione dell’altrui condotta si giustifica l’inquadramento giuridico del comportamento tenuto dall’imputata nell’ambito dell’art. 113 c.p. senza ricorrere alla posizione di garanzia. Affermare, invero, che l’art. 113 c.p. ha una funzione incriminatrice rispetto a fattispecie causalmente orientate ha senso solo se si riconosce al comportamento del cooperante una condotta attiva di agevolazione la cui rimproverabilità consiste, in definitiva, nel non aver impedito un comportamento colposo altrui incentivandone, anzi, la sua realizzazione[42].

Da questo punto di vista la Corte sembra, in parte, risentire della motivazione data dalla Corte di Appello che, come già osservato, aveva in parte sovrapposto il piano della posizione di garanzia con quello della cooperazione colposa. Con l’importante differenza però che, mentre i Giudici di merito erano giunti ad affermare che sarebbe stato comunque possibile affermare la posizione di garanzia in capo all’imputata essendo la stessa titolare di poteri impeditivi dell’evento, i Giudici di legittimità arrivano alla conclusione che la condotta agevolatrice si sostanzierebbe proprio nell’obbligo impeditivo dell’evento, tipico della posizione di garanzia, senza però riconoscere la titolarità in capo alla stessa del ruolo di garante.

In altre parole, è come se la Corte finisse per affermare che la condotta agevolatrice sia consistita semplicemente nel mancato obbligo giuridico di attivarsi e non anche nell’ulteriore atteggiamento fattivo di piena ed attiva partecipazione alla condotta colposa altrui.

Ad ogni modo la sentenza in commento appare apprezzabile per la valorizzazione dell’art. 113 c.p. e per l’autonomia che viene ad esso riconosciuta non solo rispetto all’istituto, affine, del concorso di cause indipendenti ma anche, e soprattutto, dalla posizione di garanzia.

Si afferma infatti, a chiare lettere, che la cooperazione colposa è volta a punire anche chi non riveste il ruolo di garante ma comunque coopera, con la sua condotta connotata da negligenza imprudenza o imperizia, con coloro che invece sono sicuramente garanti, proprio perché consapevole di inserire il suo comportamento all’interno di un contesto connotato e creato da una condotta altrui.

Si tratta della strada sicuramente più corretta da un punto di vista giuridico ma anche, forse, della più coraggiosa, dal momento che la Suprema Corte avrebbe ben potuto riconoscere in capo all’imputata un’autonoma posizione di garanzia, allargando le maglie del concetto di garante ed accedendo, in particolare, alle tesi sostanzialistiche che vedono tanti possibili garanti quanti sono i soggetti che in via di fatto assumono, anche solo volontariamente, una posizione di garanzia collegata all’assunzione di poteri impeditivi dell’evento. E questo anche nell’ambito della stessa cooperazione colposa visto che l’art. 113 c.p. può essere applicato sia a soggetti che ricoprono un’autonoma posizione di garanzia sia a soggetti che invece non hanno alcun potere impeditivo dell’evento[43]. Tale soluzione sarebbe stata, tra l’altro, ipotizzabile anche valorizzando il ruolo della consulenza e della conseguente assunzione della relativa posizione di garanzia.

La sentenza in commento sembra dunque confermare quanto già da tempo osservato in dottrina e cioè che “sono ben lontani i tempi in cui la cooperazione colposa veniva considerata istituto “inutile” per la sua dubbia funzione incriminatrice e “pericoloso” per il suo preteso contrasto col principio di frammentarietà: già da qualche anno la prassi applicativa conferisce una precisa fisionomia all’istituto, contraddistinto da un intreccio cooperativo “soggettivo” ed “oggettivo” che eleva la qualità del rischio sotteso alle singole regole cautelari direttamente o indirettamente violate, rendendolo “comune” a tutti i compartecipi[44]”.


[1] Hahneman è considerate il padre fondatore dell’omeopatia. La sua teoria si basava, essenzialmente, su 4 capisaldi: 1) la legge dei simili, secondo la quale una malattia può essere curata con quel farmaco o veleno che ne riproduce il piu’ possibile i sintomi: similia similibus curentur (il simile sia curato dal simile) o similia similibus curantur (il simile è curato dal simile); 2) L’ipotesi vitalistica, secondo la quale l’organismo vivente è tale grazie ad una forza di natura spirituale che lo abita, la dynamis o forza vitale; 3) La necessità dell’individualizzazione assoluta della terapia: ogni caso clinico è sostanzialmente unico e non assimilabile a nessun altro; 4) la legge degli infinitesimi, secondo la quale il rimedio omeopatico rimane attivo, o aumenta la sua attività se la dose viene ridotta o addirittura annullata grazie ad un procedimento di diluizioni seriali.

[2] G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale parte generale, Sesta edizione, Milano, 2009, p. 594.

[3] G. Marinucci – E. Dolcini, Manuale di Diritto Penale Parte Generale, Nona edizione, Milano, 2020, p. 269.

[4] In questo senso si esprime F. Mantovani, Diritto penale. Parte Generale, Decima edizione, Padova, 2017, p. 155. Rispetto all’entità dell’obbligo giuridico che fa scattare la posizione di garanzia v. anche M. Siniscalco, voce Causalità (rapporto di), in Enc. dir., vol. VI, Milano, 1960, pp. 650-651.

[5] G. Marinucci – E. Dolcini, Op. cit., p. 271.

[6] S. Anzillotti, La posizione di garanzia del medico. Uno studio giuridico, bioetico e deontologico, Milano, 2013, p. 41.

[7] In generale per una ricostruzione delle varie teorie e delle varie critiche che sono state ad esse mosse si rinvia, tra i tanti, a: F. Mantovani, Op. cit., p. 156 ss.; S. Prandi, Alla ricerca del fondamento: posizioni di garanzia fattuali tra vecchie e nuove perplessità, in Diritto penale e processo, n.5/2021, p. 654 ss.; F. Tabacco, Responsabilità omissiva e posizione di garanzia: la responsabilità ex art. 40 cpv. c.p. può estendersi sulla base di meri indici di fatto?, in Cass. Pen., n. 1/2021, p. 187 ss.; F. Giunta, La posizione di garanzia nel contesto della fattispecie omissiva impropria, in Diritto Penale e Processo, n. 5/1999, p. 620 ss.; C. Grosso – M. Pelissero – D. Petrini – P. Pisa, Manuale di diritto penale parte generale, Milano, 2020, p. 223 ss.; A. Massaro, La colpa nei reati omissivi impropri, Roma, 2011; I. Leoncini, Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di sorveglianza, Torino, 1999; C. Brusco, Il rapporto di causalità prassi e orientamenti, Milano, 2012, p. 49 ss.; D. Pulitanò, Torino, 2017, p. 210 ss.; L. Bisori, L’omesso impedimento del reato altrui nella dottrina e nella giurisprudenza italiane, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 4/1997, p. 1339 ss.

[8] Si fa riferimento, in particolare, alla c.d. teoria del trifoglio così denominata in quanto, secondo i fautori di questa tesi, tre possono essere le fonti dell’obbligo di garanzia: la legge, il contratto e la precedente attività pericolosa. Tra i sostenitori di questa posizione formale si possono ricordare: F. Antolisei, L’azione e l’evento nel reato, Milano, 1928, p. 26; F. Grispigni, Diritto penale italiano, Vol. I, Milano, 1952, p. 55; I. Caraccioli, Omissione (dir. pen.), in Nss Dig. It, 1965, XI, p. 897.

[9] I fautori delle teorie materiali o sostanziali ritengono che ciò che conta non sia tanto l’atto formale quanto la posizione fattuale di garanzia. Affinché quest’ultima possa essere individuata è però necessario che sussistano alcuni elementi. Innanzitutto, il garante deve essere titolare di poteri impeditivi dell’evento e non di semplici obblighi di sorveglianza. Inoltre, la posizione di garanzia deve sempre precedere la situazione di pericolo. Infine, è necessario che la posizione di garanzia riguardi beni specifici. In questo senso v. F. Sgubbi, La responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, Padova, 1975; G. Fiandaca, Il reato commissivo mediante omissione, Milano, 1979; F. Giunta, Op. cit.

[10] Sostengono tale teoria: G. Fiandaca – E. Musco, Op. cit., p. 609 ss.; G. Grasso, Il reato omissivo improprio, Milano, 1983; F. Mantovani, L’obbligo di garanzia ricostruito alla luce dei principi di legalità, di solidarietà, di libertà e di responsabilità personale, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 1/2001, p. 337 ss.

[11] Per una rassegna delle pronunce giurisprudenziali più rilevanti si rinvia a: A. Gargani, Le posizioni di garanzia, in Giur. It., n. 1/2016, p. 214 ss. A titolo esemplificativo si riporta la massima di una recente sentenza della Corte di Cassazione (Sez. II, 1° ottobre 2020, n. 4633)  che, emblematicamente, afferma che: “Si configura una posizione di garanzia a condizione che: (a) un bene giuridico necessiti di protezione, poiché il titolare da solo non è in grado di proteggerlo; (b) una fonte giuridica – anche negoziale – abbia la finalità di tutelarlo; (c) tale obbligo gravi su una o più persone specificamente individuate; (d) queste ultime siano dotate di poteri atti ad impedire la lesione del bene garantito, ovvero che siano ad esse riservati mezzi idonei a sollecitare gli interventi necessari ad evitare che l’evento dannoso sia cagionato”.

[12] Con riferimento al problema della responsabilità dello psichiatra si vedano, ex multis, C. Cupelli, Non tutto ciò che si può si deve anche fare. I rapporti tra obblighi impeditivi, consenso e regole cautelari: il caso dello pscihiatra, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., n. 1/2014, p. 226 ss. nonché, dello stesso Autore, La responsabilità penale dello psichiatra: nuovi spunti, diverse prospettive, timide aperture, in Diritto penale e processo, n. 3/2017, p. 370 ss. e Concorso colposo nel reato doloso (nota a Cassazione penale, Sez. IV, 14 febbraio 2019 (ud. 19 luglio 2018), n. 7032, in Giur. It., Agosto-Settembre 2019, p. 1919 ss.; A. Massaro, Colpa penale e attività plurisoggettive nella più recente giurisprudenza: principio di affidamento, cooperazione colposa e concorso colposo nel delitto doloso, in La legislazionepenale.eu, 8 maggio 2020; M. Baraldo, Gli obblighi dello psichiatra, una disputa attuale: tra cura del malato e difesa sociale, in Cass. Pen., n. 12/2008, p. 4638 ss.; A. Marchini, Il concorso colposo mediante omissione nel delitto doloso, in Cass. Pen., n. 6/2016, p. 2438 ss.

Bisogna dare atto che il tema della responsabilità dello psichiatra ha posto l’ulteriore questione dell’ammissibilità nel nostro ordinamento della figura del concorso di persone a titoli diversi, in particolare del concorso colposo nel delitto colposo. Dopo una certa apertura nei confronti di questa figura la Corte di Cassazione, con sentenza 7032 del 2019, è ritornata sui suoi passi escludendo che si possa parlare, in ipotesi siffatte, di concorso potendosi, al massimo, configurare un concorso di cause indipendenti ex art. 41 c.p. Per un commento della sentenza si rinvia, tra tutti, alla nota di A. Esposito, La Cassazione ritrova il ‘filo di Arianna’ per il concorso di persone nel reato, in Cass. Pen., 10/2019, p. 3551 ss.

In merito invece al problema della responsabilità medica in équipe si rinvia a: a, L. Risicato, L’attività medica di équipe tra affidamento ed obblighi di controllo reciproco. L’obbligo di vigilare come regola cautelare, Torino, 2013, p. 9 ss.; A. Massaro, Principio di affidamento e “obbligo di vigilanza” sull’operato altrui; riflessioni in materia di attività medico-chirurgica in équipe, in Cass. Pen., n. 11/2011, p. 3860 ss.; A. Salerno, Responsabilità medica in équipe: cooperazione colposa, posizione di garanzia degli organi apicali e principio di auto-responsabilità dei singoli cooperanti, Riv. It. Med. Leg., n. 2/2014, p. 593 ss. (nota a Cass. Sezione III Pen., sentenza n. 5684 del 12 dicembre 2013 – 5 febbraio 2014); G. Fortunato, Ancora sui rapporti tra il principio di affidamento e responsabilità medica, in Diritto Penale Contemporaneo, n. 5/2017, p. 31 ss.; P. F. Poli, Attività medica in équipe: c’è spazio per il principio di affidamento?, in Giur. It., p. 1204 ss.; C. Silva, Responsabilità colposa e principio di affidamento. La controversa applicazione nell’attività medica di équipe, in E.M. Ambrosetti, Studi in onore di Mauro Ronco, Torino, 2019, p. 463 ss.

[13] Per una ricostruzione del contatto sociale qualificato nell’ambito della responsabilità medica e, in generale, del diritto penale, offre interessanti spunti S. Prandi, Op. cit., p. 659 ss. nonché R. Calcagno, Reato omissivo improprio e responsabilità contrattuale, tra ‘contatto sociale’ e contratto: riflessioni sul principio di legalità, in Cass. Pen., n. 10/2014, p. 3559 ss. e C. Piemontese, Fonti dell’obbligo giuridico di garanzia: un caso enigmatico tra contratto e fatto, in Cass. Pen., n. 3/2008, p. 989 ss. (nota a Cass. Pen., Sez. IV, 22 maggio 2007, n. 25527).

[14] La dottrina penalistica si è sempre mostrata alquanto critica alla possibilità di applicare la figura del contatto sociale in ambito penalistico in quanto essa contrasterebbe col principio di tipicità e di tassativa della legge penale. Si veda in tal senso R. Calcagno, Op. cit., p. 3572, che afferma: “gli obblighi in parola si presentano come totalmente a-specifici e privi della determinatezza richiesta dal diritto penale, incapaci di delineare con chiarezza chi è obbligato ad impedire l’evento, così lasciando pienamente libero il giudice di valutare – con buona pace del carattere garantistico della tipicità quale regola di condotta e con una potenzialità espansiva enorme – quando nelle dinamiche interpersonali tra due soggetti vi sia stato, o meno, un affidamento penalmente sufficiente ad integrare la fattispecie criminosa”. Per una ricostruzione della posizione di garanzia in base alla teoria del contatto sociale cfr. anche C. Sale, La posizione di garanzia del medico tra fonti sostanziali e formali, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 21 giugno 2013 (nota a Cass. pen., Sez. IV, ud. 29 gennaio 2013 – dep. 19 febbraio 2013, n. 7967).

[15] Cass. Pen., Sez. IV, ud. 18 dicembre 2009 – depositata il 26 gennaio 2010, n. 3365. Per un commento della pronuncia v. A. Panetta, Sulla responsabilità del medico chiamato per un consulto specialistico, in Cass. Pen., n. 7-8/2011, p. 2590 ss.

[16] Si esprimono in questo senso: Cass. Pen., Sez. 4, 2 dicembre 2011, n. 13547; Sez. 4,11 dicembre 2002, n. 4827; Sez. 4, 15 febbraio 2018, n. 24068; Cass. Pen., Sez. 4, 30 giugno 2021, n. 24895. In relazione a quest’ultima sentenza si veda il commento di P. Molino, Colpa medica d’équipe e nesso di causalità: un complicato ma doveroso accertamento, in www.altalex.it, 19 luglio 2021.

[17] Questa affermazione coinvolge, più in generale, il problema del principio di affidamento nell’ambito della responsabilità medica quando l’attività richiesta è svolta da più garanti. Per un esame approfondito di questa tematica si rinvia a L. Risicato, L’attività medica di équipe, cit.; A. Massaro, Colpa penale e attività plurisoggettive, cit.; F. Lombardi, Il principio di affidamento nel trattamento sanitario d’équipe, in www.giurisprudenzapenale.com, 18 febbraio 2016; G. D’arca, Profili problematici della responsabilità penale del medico per attività in équipe: successione nella posizione di garanzia e principio di affidamento, in Riv. It. Med. Leg., 2/2019, p. 671 ss. (nota a Cass. Pen., Sez. IV, 23 gennaio 2018, n. 22007); V. Amendolagine, La responsabilità professionale dell’équipe sanitaria derivante da medical malpractice, in Danno e responsabilità, n. 4/2021, p. 517 ss.; M. Mantovani, Alcune puntualizzazioni sul principio di affidamento, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., n. 3/1997, p. 1087 ss.; M.L. Mattheudakis, Prospettive e limiti del principio di affidamento nella “stagione delle riforme” della responsabilità penale colposa del sanitario, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 3/2018, p. 1220 e ss.; L. Ramponi, Concause antecedenti e principio di affidamento: fra causalità attiva ed omissiva, in Cass. pen., n. 2/2008, p. 566 ss (nota a Cass. Pen., Sez. IV, 26 maggio 2006, n. 31462).

 [18] L. Risicato, L’attività medica di équipe, cit., p. 67. In questo senso si è espressa Cass. Pen, Sez. 4, n. 5555 del 17/02/1981.

[19] A. Panetta, Op. cit., p. 2590.

[20] Per una ricostruzione del dibattito sulla configurabilità della cooperazione colposa sotto la vigenza del Codice Zanardelli si rinvia a: M. Borghi, Nodi problematici e incertezze applicative dell’art. 113 c.p. In particolare, la controversa configurabilità di un concorso colposo in reato doloso, in https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/, 14 marzo 2016, p. 2 ss.; M. Di Florio, La cooperazione nel delitto colposo: una fattispecie con una (problematica) funzione incriminatrice, in Archivio Penale, n. 1/2021, p. 2 ss.

[21] La distinzione tra le due figure ha delle conseguenze pratiche di notevole rilevanza in quanto, solo in caso di cooperazione colposa, si possono applicare le principali norme dettate in tema di concorso, la previsione di cui all’art. 123 c.p. nonché l’art. 187 c.p. dettato in tema di risarcimento del danno. Per un esame più approfondito delle conseguenze cfr. L. Cornacchia, Concorso di colpe e principio di responsabilità penale per fatto proprio, Torino, 2004, p. 136 ss.

[22] In questo senso si esprimono: F. Mantovani, Op. cit., p. 527; L. Risicato, Il concorso colposo tra vecchie e nuove incertezze, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1998, p. 153; F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2000, p. 586-587; M. Gallo, Lineamenti di una teoria sul concorso di persone nel reato, Milano, 1957, p. 95 ss. In giurisprudenza l’idea secondo cui la cooperazione colposa implica la consapevolezza dell’altrui condotta ma non della sua colposità è espressa da diverse sentenze, tra le quali: Cass. Pen., Sez. IV, 2 dicembre 2008, n. 1768; Sez. IV, 29 aprile 2009, n. 26020; Sez. IV, 12 aprile 2013, n. 16978. In generale, per un esame delle varie pronunce che hanno sposato tale orientamento, v. M. Borghi, Op. cit., p. 9 ss.; F. Piquè, La funzione estensiva dell’art. 113 c.p. in relazione ai delitti causali puri, in Cass. Pen., n. 3/2014, p. 885.

[23] L. Trizzino, voce Art. 113 c.p. – Cooperazione nel delitto colposo, in M. Ronco – B. Romano, Codice penale commentato, Milano, 2012.

[24] Sostengono questa impostazione: A.R. Latagliata, voce Cooperazione colposa, in Enc. dir., vol. X, Milano, 1962, p. 609 ss.; M. Spasari, voce Agevolazione colposa, in Enc. dir., vol. I, 1958, p. 897, secondo il quale “Come si sa, è regola generale del concorso personale che, mentre l ‘autore può ignorare la presenza dell’ausiliatore senza che la fattispecie plurisoggettiva eventuale venga meno, è viceversa indispensabile che il partecipe sappia di collaborare all’altrui condotta. E, nel concorso colposo, se non può richiedersi la rappresentazione dell’evento finale tipico, è almeno necessario che il partecipe si renda conto di accedere ad un comportamento imprudente, negligente, ecc., dell’autore”. Nello stesso senso sembra esprimersi A. Massaro, Colpa penale, cit., p. 15 ss., quando afferma che “Nel caso in cui, invece, la condotta inosservante non risulti inserita in un contesto preventivamente organizzato, il solo modo per “specializzare” l’istituto della cooperazione colposa rispetto a quella di una congiunta realizzazione monosoggettiva resterebbe quello dell’effettiva rappresentazione dell’altrui condotta inosservante”. Questa tesi è stata fortemente criticata in quanto si è sottolineato che se ci fosse la consapevolezza del carattere colposo dell’altrui condotta, e quindi della violazione della regola cautelare, si limiterebbe la responsabilità del concorrente alle sole ipotesi di colpa con previsione. In questo senso si veda, tra tutti, F. Piquè, Op. cit., p. 884 e L. Risicato, Cooperazione nel delitto colposo – Colpa e colpevolezza in un caso particolare di concorso in omicidio, in Giur. It., n. 2/2015, pp. 463-464.

[25] R. Orlandi, Concorso nel reato e tipicità soggettiva eterogenea. Il concorso colposo nel reato doloso, in Arch. Pen., n. 2/2020, p. 16.

[26] Per la ricostruzione di questo dibattito v.: F. Piquè, Op. cit., p. 888 ss.; M. Zincani, La cooperazione nel delitto colposo. La portata incriminatrice dell’art. 113 c.p. nei reati a forma libera, in Cass. Pen., n. 1/2014, p. 173 ss.; A. Massaro, Colpa penale e attività plurisoggettive, cit., p. 14 ss.; M. Borghi, Op. cit., p. 12 ss.; M. Di Florio, Op. cit., p. 7 ss.; L. Cornacchia, Op. cit., p. 122 ss.; A. Salerno, Op. cit., p. 596 ss.; C. Brusco, L’effetto estensivo della responsabilità nella cooperazione colposa, in Cass. Pen., n. 9/2014, p. 2881 ss.; D. Padrone, Osservazioni a Cassazione Penale Sez. IV, 3/10/2013, n. 43803, in Cass. Pen., n. 7-8/2014, pp. 533-534.

[27] In questo senso si esprimono, innanzitutto, G. Fiandaca – E. Musco, Op. cit., p. 577: “La supposta funzione incriminatrice può essere fortemente messa in dubbio almeno in relazione alla categoria degli illeciti c.d. causalmente orientati…nell’ambito di questo tipo di reati il disvalore penale si accentra tutto nella causazione dell’evento lesivo, mentre appaiono indifferenti le specifiche modalità comportamentali che innescano il processo causale: onde, la condotta assume rilevanza penale innanzitutto per il fatto di contribuire alla produzione dell’evento…ne deriva allora che, in presenza delle suddette condizioni, l’istituto della cooperazione può apparire superfluo, essendo ciascun fatto causalmente orientato punibile alla stregua della norma incriminatrice di parte speciale incentrata sull’autore singolo”. Condividono questa impostazione anche: M. Gallo, Lineamenti, cit., p.  113; F. Angioni, Il concorso colposo e la riforma del diritto penale, in Arch. Pen., 1983, 72-74.

[28] In questo senso si esprimono: G. Cognetta, La cooperazione nel delitto colposo, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 1/1980, p. 71 ss.; P. Severino Di Benedetto, La cooperazione nel delitto colposo, Milano, 1988, p. 127 ss.; ; L. Risicato, Il concorso colposo, cit., p. 173 ss.; A.R. Latagliata, I principi del concorso di persone nel reato, Napoli, p. 180; F. Piquè, Op. cit.; C. Brusco, Op. cit., p. 2882 il quale afferma: “Il problema sorge invece nei casi in cui la condotta del cooperante non si ponga in contrasto con alcuna regola cautelare ma si inserisca in un contesto di rischio agevolandone la realizzazione. Insomma: può essere chiamato a rispondere del reato colposo plurisoggettivo anche chi abbia posto in essere una condotta non colposa che abbia però agevolato la consumazione di un delitto colposo (uno dei cui concorrenti deve, ovviamente, aver violato una regola cautelare)?

Io credo che la risposta al quesito debba essere positiva e che dunque possa essere affermato l’effetto estensivo della responsabilità dell’art. 113 anche nelle fattispecie causalmente orientate. È vero, infatti, che in queste ipotesi la condotta inosservante dell’agente non è descritta dalla norma incriminatrice che si limita a indicare l’evento vietato ma il problema va diversamente posto perché la tipicità, in queste fattispecie, è tendenzialmente garantita dalle regole cautelari violate, non dalle condotte che hanno cagionato l’evento, e dunque solo la forza espansiva dell’art. 113 può garantire il rispetto della tipicità”.

[29] M. Zincani, Op. cit., p. 176.

[30] Cass. Pen., Sez. IV, 21 giugno 2012, n. 36280 (v. commento di E. D’ippolito, La sentenza “Aldrovandi”: un eccesso di errori non troppo colposi, in Cass. Pen., n. 9/2013, p. 3042 ss. Nello stesso senso si pone Cass. Pen., Sez. IV, 2 novembre 2012, n. 1478 (con nota di E. Conforti, Il fuoco non l’ha acceso lui? Scatta comunque la cooperazione colposa, in Diritto e giustizia, 20 gennaio 2012). Particolarmente significativa è poi la sentenza Tomaccio (Cass. Pen., Sez. IV, 2 dicembre 2018, n. 1786) in cui la Suprema Corte afferma: “che la disciplina della cooperazione colposa eserciti una funzione estensiva dell’incriminazione rispetto all’ambito segnato dal concorso di cause colpose indipendenti, coinvolgendo anche condotte atipiche, agevolatrici, incomplete, di semplice partecipazione, che per assumere concludente significato hanno bisogno di coniugarsi con altre condotte”. Di conseguenza la cooperazione colposa comprende anche condotte di modesta significatività e, in questo modo, “sembra attagliarsi perfettamente al caso di condotte prive di autonomia sul piano della tipicità colposa e quindi non autosufficienti ai fini della fondazione della responsabilità colpevole”. Si vedano, per un esame di questa pronuncia, le note di: L. Risicato, Cooperazione in eccesso colposo: concorso “improprio” o compartecipazione in colpa “impropria”?, in Dir. Pen. Proc., n. 5/2009, p. 571 ss. e di C. Cantagalli, Il riconoscimento della funzione incriminatrice dell’art. 113 c.p. ed il concetto di “interazione prudente” quale fondamento e limite della colpa di cooperazione, in Cass. Pen., n. 6/2010, p. 2210 ss.

[31] M. Zincani, Op. cit., p. 174 (nota n. 31).

[32] F. Piquè, Op. cit., p. 893. La tesi dell’estensione dell’art. 113 c.p. anche a soggetti che non rivesto alcuna posizione di garanzia è sostenuta, tra tutti, da F. Albeggiani, I reati di agevolazione colposa, Milano, 1984. P. 183 e da L. Risicato, La partecipazione mediante omissione a reato commissivo, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., n. 4/1995, p. 1267.

[33] Sottolineano il rischio di una ‘incontrollabile dilatazione’ della responsabilità penale: P. Insolera, voce Concorso di persone nel reato, in Dig. Disc. Pen., vol. II, Milano, 1988, p. 480; F. Piquè, Op. cit., p. 893; M. Borghi, Op. cit., p. 17-18. In particolare, l’autrice sottolinea che “…così opinando, si determina una incontrollabile dilatazione delle posizioni di garanzia, contraria ad una ragionevole operatività del principio di equivalenza di cui all’art. 40, cpv., c.p. Si consideri, inoltre, che una posizione di garanzia sorge solo quando in capo ad un determinato soggetto è posto, da norme penali o extrapenali (o da un contratto e, per altri, anche per

effetto di una precedente attività pericolosa), un obbligo di protezione di beni altrui o di controllo di fonti di pericolo. La posizione di garanzia può quindi gravare solo su persone determinate, individuate in relazione alla particolare vicinanza al bene da proteggere o alla fonte di pericolo, e non sulla generalità dei cittadini. Operare la summenzionata combinazione fra gli artt. 40, cpv. e 113 c.p. significherebbe invece attribuire alla norma sulla cooperazione la funzione di creare un generale obbligo di non essere trascurati in relazione all’altrui posizione

di garanzia”.

[34] Cass. Pen., Sez. IV, 18 ottobre 2013, n. 43083.

[35] Cass. Pen., Sez. IV, 29 marzo 2019, n. 17491. Nello stesso senso si pone Sez. IV, 14 dicembre 2021, n. 46408 di cui si riporta la massima: “È responsabile ai sensi dell’art. 113 cod. pen. di cooperazione nel delitto colposo l’agente che, trovandosi a operare in una situazione di rischio da lui immediatamente percepibile, sebbene non rivesta alcuna posizione di garanzia, contribuisca con la propria condotta cooperativa all’aggravamento del rischio, fornendo un contributo causale giuridicamente apprezzabile alla realizzazione dell’evento”.

[36] A.R. Latagliata, voce Cooperazione colposa, cit.

[37] Cass. Pen., Sez. IV, 4 novembre 2021, n. 5117, p. 4.

[38] Id, p. 5.

[39] Da questo punto di vista la Corte di Appello richiama la sentenza n. 14791 del 2019 della Corte di Cassazione in cui si legge a p. 21: “all’obbligo giuridico di impedire l’evento deve accompagnarsi l’esistenza di poteri fattuali che consentano all’agente di porre in essere, almeno in parte, meccanismi idonei ad evitare il verificarsi dell’evento. In conclusione: l’agente non può rispondere del verificarsi dell’evento se, pur titolare di una posizione di garanzia, non disponga della possibilità di influenzare il corso degli eventi. Per converso, chi ha questa possibilità non risponde se non ha un obbligo giuridico di intervenire per operare la modifica del decorso degli avvenimenti”. Nello stesso senso si pongono: Cass. Pen. Sez. 4, 11 marzo 2010, n. 16761; Sez. 4, 11 novembre 2018, n. 58363; Sez. 4, 10 novembre 2017, n. 55005.

[40] Cass. Pen., Sez. IV, 4 novembre 2021, n. 5117, p. 7.

[41] B. Rossi, Le condizioni per l’esclusione della responsabilità del secondo operatore dell’equipe chirurgica, in Cass. Pen., n. 7-8/2016, p. 2882 ss.

[42] Come già si è avuto modo di sottolineare, non tutti gli autori ritengono che l’art. 113 c.p. abbia funzione incriminatrice. Si rinvia, in tal senso, alla nota n. 27. In particolare, rispetto alla possibilità di incriminare ex art. 113 c.p. condotte atipiche agevolatrici, si può fare riferimento alla critica di G. Fiandaca – E. Musco, Op. cit., p. 616, nota n. 76: “Sennonché, anche un simile orientamento sembra trascurare che una attenta analisi complessiva delle situazioni concrete di volta in volta presenti può, in realtà, consentire di mettere in luce l’inosservanza di regole cautelari già direttamente rilevanti ai sensi della fattispecie di parte speciale causalmente orientata”.

[43] Cfr. note n. 31 e 32.

[44] L. Risicato, Cooperazione nel delitto colposo, cit., p. 2.

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