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IMPROCEDIBILITÀ E RAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO*

SOMMARIO 1. Origine della ‘improcedibilità’ nella riforma ‘Cartabia’: una vicenda di agghiacciante comicità. – 3. L’improcedibilità, ovvero l’evaporazione del processo. – 4. Discriminazioni tra imputati. – 5. I poteri di proroga e le scelte di politica criminale. – 6. Improcedibilità e azione civile. – 7. Improcedibilità e proscioglimento nel merito. – 8. Il regime temporale dell’improcedibilità. – 9. Il rapporto tra inammissibilità e improcedibilità. – 10. Improcedibilità e ne bis in idem. – 11. Conclusione.

«Imporre tempi massimi; due anni nel primo grado, escluse le indagini preliminari; altrettanti in appello; idem davanti alla Cassazione, e il processo svanisce appena superi una delle tre soglie. Alta stregoneria. Che io sappia […] non era mai avvenuto; infatti, mancano le parole tecniche con cui dirlo: chiamiamola sopravvenuta improcedibilità, non risultando una sentenza tempestiva; ad esempio, il termine scade dopo la condanna confermata in appello; accusa, prove, due condanne, sprofonda tutto nella curva dell’oblio, come i sogni dissipati dall’ alba.
Fenomeno inaudito (l’estinzione del processo civile non scalfisce diritti delle parti né toglie effetto alle sentenze), e ripugna al sistema: l’obbligo del pubblico ministero (art. 112 Cost.) implica azioni irretrattabili; le ruote del processo girano da sole fino alla decisione sul reato. Finché esista l’art. 112 Cost. i processi non svaniranno d’ incanto ai rintocchi della mezzanotte: quel pubblico ministero ha agito perché doveva; l’effetto è irreversibile; tribunale o corte competenti giudicheranno, assolvendo o condannando, salvo che un’amnistia o il tempo criminofago inghiottano l’ipotetico reato».
Franco Cordero, I mostri del processo breve, in la Repubblica, 24-11- 2009.

  1. ORIGINE DELLA ‘IMPROCEDIBILITÀ’ NELLA RIFORMA ‘CARTABIA’: UNA VICENDA DI AGGHIACCIANTE COMICITÀ.

Per quanto possa riuscire spiacevole, penso che qualsiasi discorso sulla improcedibilità obblighi anzitutto a ricordare la sua indecorosa origine nel nostro ordinamento, che ha visto la politica scendere al suo più basso livello. Questo è il solo modo per convertire la domanda dettata dallo stupore – “Com’è possibile che si sia scelta la prescrizione sostanziale in primo grado e quella processuale in sede di impugnazione?” – in spiegazione: “quale vantaggio offriva dopo il primo grado la improcedibilità rispetto alla prescrizione sostanziale?”
La risposta è di agghiacciante comicità: i ministri pentastellati, pur costretti dal timore delle elezioni anticipate ad accettare emendamenti alla riforma Bonafede, che aveva soppresso la prescrizione dopo il primo grado, intendevano proteggere quella riforma almeno sul piano linguistico, opponendosi a qualsiasi istituto che contenesse la parola ‘prescrizione’. La sventura della prescrizione sostanziale è stata di non potersi chiamare con un nome diverso da ‘prescrizione’; di qui la ‘luminosa’ idea di ricorrere alla prescrizione processuale che aveva la fortuna di potersi anche designare come ‘improcedibilità’, attraverso uno slittamento metonimico dalla causa verso l’effetto1 . Consolati dalla prospettiva di proclamare ai quattro venti la sopravvivenza della legge Bonafede nella parte in cui aveva soppresso la ‘prescrizione’, i pentastellati si sono convinti ad accettare la proposta.
Di questa triste vicenda – ignorata dagli atti ufficiali e, quindi, destinata a sparire nel nulla, se non si provvede a consegnarla alla storia – troviamo un’indiretta, ma eloquente, traccia in un articolo di Liana Milella su la Repubblica del 6 luglio 2021: «Via quella parola – “prescrizione” – protagonista dell’ormai biennale diatriba sulla giustizia. Dalle stanze della ministra della Giustizia Marta Cartabia è uscito il nuovo vocabolo che dominerà il dibattito tra i partiti sulla riforma penale. La parola è “improcedibilità”. Si chiamerà così il meccanismo giuridico destinato a sostituire il “fine processo mai” dell’ex guardasigilli Alfonso Bonafede con la prescrizione bloccata in primo grado».
Contemplato l’abisso della politica, veniamo ai profili giuridici dell’improcedibilità.

  1. I PRECEDENTI PROGETTI SULLA PRESCRIZIONE PROCESSUALE

L’istituto della prescrizione processuale, prima di essere recepito nella riforma ‘Cartabia’, era stato accolto in alcuni disegni di legge, tutti decaduti, presentati nella XV e XVI legislatura: nel ddl S/878 del 26 luglio 2006, d’iniziativa dei senatori Brutti, Finocchiaro ed altri («Abrogazione della legge 5 dicembre 2005, n. 251, e disposizioni in materia di prescrizione del reato»); ddl S/260 del 20 giugno 2001, d’iniziativa dei senatori Fassone, Ayala ed altri («Nuova disciplina della prescrizione del reato»); nel ddl S/2699 del 22 gennaio 2004, d’iniziativa dei senatori Fassone, Ayala ed altri («Disposizioni in materia di prescrizione del reato alla luce del principio di “ragionevole durata” del processo»); nel ddl S/1880 del 12 novembre 2009, d’iniziativa dei senatori Gasparri, Quagliarello ed altri («Misure per la tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi, in attuazione dell’articolo 111 della Costituzione e dell’articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali»); e, ancora, nel disegno di legge delega presentato al Ministro della Giustizia il 19 dicembre 2007 dalla Commissione di studio per la riforma del codice di procedura penale presieduta dal prof. Giuseppe Riccio.
Da cosa prende spunto in questi progetti l’idea della prescrizione processuale? Da una constatazione di per sé corretta, ma alimentata, per l’appunto, dall’equivoco che la prescrizione sostanziale serva a garantire la ragionevole durata del processo. Più in particolare, si osserva come la prescrizione sostanziale operi, in un certo numero di casi, ora per eccesso ora per difetto. Per eccesso, quando essendo scoperto il reato con notevole ritardo rispetto alla commissione del reato, il tempo rimasto a disposizione del processo appaia del tutto insufficiente. Per difetto, quando essendo scoperto immediatamente o quasi il reato, il tempo riservato al processo risulti, invece, troppo esteso.
Sarebbe un discorso ineccepibile, se il fine della prescrizione sostanziale fosse quello di garantire la ragionevole durata del processo; ma destinato a rivelarsi fallace se si bada alle due effettive finalità della prescrizione sostanziale: da un lato, la funzione rieducativa della pena che sarebbe frustrata se la pena fosse eseguita a troppa distanza dalla commissione del fatto; dall’altro, l’oblio che il decorrere del tempo determina sulla memoria del reato, riducendo progressivamente l’interesse alla sua persecuzione. Tanto la funzione rieducativa della pena quanto l’oblio sulla memoria del reato, connesso al trascorrere del tempo, esigono che i termini di prescrizione siano misurati non sulla durata del processo ma sulla distanza tra il tempo di commissione del reato e quello di espiazione della pena; dunque, è solo in rapporto a quei due estremi che va valutata l’adeguatezza dei termini di prescrizione.
Nasce da questo fraintendimento l’idea della prescrizione processuale scandita sui tempi del processo, con la pretesa di assicurare la ragionevole durata; ma, naturalmente, destinata ad operare dall’esordio del procedimento che, a seconda della prospettiva seguita, può essere identificato nell’inizio delle indagini preliminari o nell’esercizio dell’azione penale; non certo, come accade con la riforma Cartabia, solo a partire dalla fase delle impugnazioni2 .

  1. L’IMPROCEDIBILITÀ, OVVERO L’EVAPORAZIONE DEL PROCESSO

Quando un istituto viene accolto ed un altro messo al bando solo per i nomi che li designano, non c’è da meravigliarsi se si aprono insanabili contraddizioni rispetto al sistema e ai principi costituzionali che lo governano. A differenza della prescrizione sostanziale che persegue le finalità appena enunciate, l’improcedibilità pretende di garantire la ragionevole durata del processo. Ma è proprio questa pretesa a porla in conflitto con diversi articoli della Costituzione, per la semplice ragione che il fondamentale valore della ragionevole durata non può essere perseguito fissando termini massimi, decorsi i quali il processo si dissolva con una sentenza di improcedibilità.
La questione, il punto da dibattere, infatti, non è il fondamentale valore della ragionevole durata – che è fuori discussione – ma come realizzarlo. L’art. 111 comma 2 Cost. demanda genericamente alla legge il compito di assicurare la ragionevole durata del processo, guardandosi bene dall’indicare i mezzi. Pare evidente, tuttavia, che il precetto costituzionale intenda alludere a interventi positivi di tipo acceleratorio, ossia volti a propiziare, nel rispetto delle garanzie, la tempestiva conclusione del processo – dalla depenalizzazione alla fluidità delle fasi preliminari al dibattimento – interventi dei quali, sia detto di sfuggita, non si vede neanche l’ombra nella riforma ‘Cartabia’; non certo ad una mannaia che, per il mero decorso del tempo, si abbatta sul processo, segnandone la fine con la più nichilistica e vuota delle immaginabili conclusioni. Un conto è restituire la libertà all’imputato, quando la custodia superi certi termini, come giustamente esige l’art. 13 ultimo comma Cost.; altro è liquidare il processo per intempestiva conclusione.
Ciò premesso, il precetto più vistosamente contraddetto dalla improcedibilità è l’art. 112 Cost. relativo all’obbligatorietà dell’azione penale, disposizione espressa come regola e, quindi, insuscettibile di bilanciamento con il principio della ragionevole durata del processo 3 . L’azione è una domanda, e in tanto ha senso definirla obbligatoria in quanto al suo valido esercizio segua l’obbligo del giudice di rispondere accertandone la fondatezza. Sul piano delle situazioni soggettive l’atto normativo del pubblico ministero, in cui si esprime il potere di azione, determina il dovere del giudice di pronunciarsi sul suo oggetto, assolvendo o condannando: la persecuzione dei reati non è materia disponibile. All’obbligo di decidere nel merito non deroga in alcun modo la prescrizione sostanziale: ovvio, infatti, che, se sopraggiunge una causa estintiva del reato4 , l’azione penale perda fondamento e l’imputato sia prosciolto dall’accusa con una sentenza di merito, essendo per l’appunto estinto il reato.
Quando il processo subisca ingiustificati ritardi, si possono ipotizzare varie misure riparatorie dal risarcimento dei danni agli sconti di pena. Non è, invece, ammissibile che, restando in vita l’ipotesi di reato e validamente esercitata l’azione penale, il processo evapori e svanisca nel nulla con una sentenza di sopravvenuta improcedibilità temporale; con il risultato che prove, eventuali condanne e risarcimento del danno, tutto si dissolve, e dello svaporante processo resta solo il fumo5 . Esito ribelle ad ogni inquadramento giuridico, in-classificabile nel senso letterale della parola, perché contiene in sé due opposti, fra loro inconciliabili in regime di obbligatorietà dell’azione penale: l’estinzione del processo e la permanenza dell’ipotetico reato. Il decorso del tempo può solo operare come causa estintiva del reato, in assenza della quale l’estinzione del processo si risolve in un tipico esempio di giustizia denegata; ‘tempestiva’ è la modalità, la qualità avverbiale di una giustizia che garantisca in tempi ragionevoli la decisione sul fondamento dell’accusa.
Per questa ragione Cordero ritiene che, insieme all’art. 112, l’improcedibilità per decorso del tempo offenda anche l’art. 101 comma 2 Cost.6 . Tesi più che plausibile, anche se, a ben vedere, si tratta sempre di una conseguenza connessa all’obbligatorietà dell’azione penale, dalla quale deriva l’indisponibilità della regiudicanda e, quindi, il dovere del giudice di decidere sull’accusa validamente promossa7 . Che i precetti relativi all’obbligatorietà dell’azione e alla stessa soggezione del giudice alla legge siano, nella realtà del processo, alquanto misconosciuti dalle scelte discrezionali del pubblico ministero e dalle interpretazioni creative del giudice, non è ancora una ragione per affievolirli ulteriormente; pena il rischio che sulle disposizioni costituzionali si abbatta un gran discredito.
Qualcuno obietterà che il sistema processuale prevede varie condizioni di procedibilità, riconosciute come legittime dalla Corte costituzionale; genere al quale apparterrebbe anche la qui criticata prescrizione processuale. Vero; infatti, l’incostituzionalità non riguarda qualsiasi condizione di procedibilità e tanto meno qualsiasi sentenza meramente processuale o di improcedibilità: riguarda specificamente l’improcedibilità per mero decorso del tempo. Le condizioni di procedibilità si giustificano solo in particolari situazioni, per lo più legate alla tipologia o alle modalità del reato, tali da impedire l’esercizio dell’azione penale (l’autorizzazione a procedere, costituzionalmente prevista, in realtà si risolve nella richiesta di un permesso d’agire8 ). Quanto alla improcedibilità legata al segreto di Stato, deriva dal vuoto probatorio che si determina con la conferma del segreto; il ricorso alla ‘improcedibilità’, anziché al proscioglimento per mancanza di prove sufficienti alla condanna, serve proprio a sottolineare che la lacuna dipende da una scelta consapevole del potere politico, suscettibile di successiva modifica, nel qual caso troverebbe applicazione il secondo comma dell’art. 345 c.p.p. (infra par.10).
Al di là di queste ipotesi del tutto particolari, quando l’azione sia stata validamente esercitata, il decorso del tempo deve esplicare il suo effetto negativo sull’interesse persecutorio solo sotto il profilo dell’estinzione del reato; e non è pensabile di duplicarne la rilevanza, erigendolo anche a causa di improcedibilità.
Infine, come si vedrà tra breve, l’improcedibilità temporale apre un dilemma destinato a risolversi in un circolo vizioso tra diversi profili di illegittimità costituzionale. Da un lato, la previsione per legge di termini rigidi riesce palesemente irragionevole nella parte in cui non tiene conto delle peculiarità dei singoli processi, quanto a complessità probatoria e numero di imputati, variabili dalle quali sarebbe insensato prescindere nell’individuare i parametri per una tempestiva conclusione. Dall’altro, rimettere ai giudici, attraverso il sistema delle proroghe, la possibilità di adattare la durata massima alle esigenze dei singoli processi equivale a renderli arbitri della decisione se proseguire il processo sino alla decisione di merito o troncarlo con la dichiarazione di improcedibilità; insomma, a consegnare alla giurisdizione scelte di politica criminale esorbitanti dalle sue funzioni. Dunque, è nella stessa previsione dell’improcedibilità temporale o prescrizione processuale che si annida l’illegittimità costituzionale, sia che derivi dall’obbligatorietà dell’azione penale, sia che dipenda dall’esercizio della funzione giurisdizionale o dal controllo sulla ragionevolezza.

  1. DISCRIMINAZIONI TRA IMPUTATI

Veniamo ai singoli profili della disciplina. La riforma non si limita a prevedere termini variabili a seconda della tipologia di reato, ma sottrae i reati punibili con l’ergastolo alla declaratoria di improcedibilità e consente proroghe illimitate per altri gravi reati, aprendo in entrambi i casi la porta proprio a quel processo potenzialmente interminabile che si imputava alla riforma Bonafede.
A dare il via alle discriminazioni tra imputati sono stati i ministri pentastellati, destinati ad assumere anche in questo caso il ruolo di Re Mida alla rovescia. Avendo nell’intimo compreso che era stata loro offerta, sotto il nome di improcedibilità, null’altro che una prescrizione processuale, più minacciosa ancora per le sorti del processo di quella sostanziale, sono insorti reclamando, per i reati di criminalità organizzata, proroghe illimitate ai termini di durata massima del processo. Decise a non lasciare a costoro il merito della riforma, le altre forze della maggioranza, colte da una sorta di eccitazione morale, sono a loro volta intervenute proponendo termini differenziati per questa o quella tipologia di reato: con il risultato che si è giunti a dividere i reati in ben quattro categorie, da quelli radicalmente sottratti all’improcedibilità a quelli sottoposti ad un variabile regime di proroghe9 .
Sono scelte difficilmente compatibili con gli artt. 3, 27 comma 2 e 111 comma 2 Cost. Un istituto, come l’improcedibilità, che pretende – con tutte le riserve che suscita la parola – di garantire la ragionevole durata del processo, deve necessariamente garantirla a tutti gli imputati, quale che sia il reato a loro attribuito. Il precetto costituzionale sulla ragionevole durata del processo non consente alcuna discriminazione né per categorie di imputati né per tipologia di reati; senza dimenticare che anche gli imputati dei più gravi delitti potrebbero essere innocenti, ingiustamente accusati.
È vero che anche la prescrizione sostanziale non opera per i reati punibili con l’ergastolo. Tuttavia, l’eccezione – assai più limitata, benché suscettibile di critica – può trovare una qualche giustificazione sul presupposto che vi siano crimini sottratti alla possibilità di oblio e in rapporto ai quali si renda comunque necessaria una rieducazione del colpevole; discorso che in nessun modo può limitare il diritto alla ragionevole durata del processo, incondizionatamente riconosciuto dall’art. 111 comma 2 Cost.

  1. I POTERI DI PROROGA E LE SCELTE DI POLITICA CRIMINALE

Ai sensi del nuovo comma 4 dell’art. 344-bis c.p.p., «quando il giudizio di impugnazione è particolarmente complesso, in ragione del numero delle parti o delle imputazioni o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare», i termini sono prorogati, con ordinanza motivata del giudice procedente, ricorribile in cassazione, «per un periodo non superiore a un anno per l’appello e a sei mesi per il giudizio di cassazione»; ulteriori proroghe possono essere disposte per determinate categorie di reati ivi contemplate e distinte a seconda che i periodi di proroga non possano superare complessivamente tre anni nel giudizio di appello e un anno e sei mesi nel giudizio di cassazione o siano invece reiterabili sine die.
La diversa dizione della legge – nel primo caso, i termini «sono prorogati», negli altri, le proroghe «possono essere disposte» – è di scarsa rilevanza. Si è, infatti, sempre in presenza di un potere-dovere di carattere discrezionale, che il giudice esercita tramite una complessa valutazione di cui la legge si limita a fissare i parametri. Contro l’ordinanza che dispone la proroga, «l’imputato e il suo difensore possono proporre ricorso per cassazione, a pena di inammissibilità, entro cinque giorni dalla lettura dell’ordinanza, in mancanza, dalla sua notificazione» (art. 344-bis comma 5 c.p.p.).
Il sistema delle proroghe è stato criticato per la impropria, pesante responsabilità a cui si trova esposto il giudice nel disporle e definirne la durata10 ; nonché per il prevedibile aggravio di lavoro che deriva alla Cassazione davanti alla quale sono impugnabili le proroghe. Critiche più che fondate. Affidare ai giudici il potere-dovere di disporre le proroghe – data la vaghezza dei criteri a cui è ancorato il suo esercizio – equivale a renderli arbitri della decisione se consentire o impedire la prosecuzione dell’azione penale; si consegnano così alla giurisdizione scelte di politica criminale che non le competono, relative alla perseguibilità dei reati.
Ad opporsi a queste scelte è ancora una volta l’indisponibilità della regiudicanda: il giudice, tenuto a dare una risposta all’azione validamente esercitata, viene investito del potere discrezionale di concedere o negare la proroga. Poco importa che il potere di scelta gli derivi dalla legge: nella gerarchia delle fonti è questa stessa legge a rivelarsi incostituzionale proprio nella parte in cui consente al giudice di troncare il processo, senza pronunciarsi sul fondamento dell’accusa.
Si apre qui una grave contraddizione: la fissazione di termini rigidi riesce inadeguata rispetto alle peculiarità del singolo processo; ma, a sua volta, il potere di proroga affidato al giudice esorbita dalle sue tipiche funzioni per le ragioni appena esposte. Il vizio non sta, dunque, nella circostanza che i termini siano rigidi o flessibili, ma nel fatto stesso di prevedere termini a pena di improcedibilità.
Nella prassi, tutto lascia prevedere che le proroghe saranno governate da automatismi, ogni qual volta l’alternativa alla loro concessione sarebbe la declaratoria di improcedibilità, con possibili riflessi sulla responsabilità del giudice per la mancata definizione del processo con una sentenza di merito; e analogo fenomeno tenderà a riprodursi in sede di ricorso in cassazione contro l’ordinanza che dispone la proroga. Il diniego o l’annullamento della proroga riguarderà essenzialmente i casi in cui la legge non l’avrebbe consentita, a prescindere dalla complessità del caso11 .

  1. IMPROCEDIBILITÀ E AZIONE CIVILE

Il nuovo comma 1-bis, aggiunto dalla riforma ‘Cartabia’ all’art. 578 c.p.p., afferma che «quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la Corte di cassazione, nel dichiarare improcedibile l’azione penale per il superamento dei termini di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 344-bis, rinviano per la prosecuzione al giudice civile competente per valore in grado di appello, che decide valutando le prove acquisite nel processo penale» (art. 2 lettera b), l. 27 settembre 2021, n. 134)12 .
È una netta deviazione dalla disciplina contenuta nel comma 1 del medesimo articolo, secondo cui «quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per amnistia o per prescrizione, decidono sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili».
Si discute se, in base alla nuova disposizione, il giudice civile d’appello decida ex novo o come giudice dell’impugnazione rispetto alle statuizioni civili contenute nella sentenza penale. Il quadro normativo appare, a dir poco, contraddittorio. La parola «prosecuzione» potrebbe orientare nel secondo senso; e idem la circostanza che si tratti di un giudice di appello. In realtà, il termine «prosecuzione» non è decisivo perché sta solo ad indicare l’identità dell’azione quanto a parti, petitum e causa petendi; e neppure il richiamo al giudice d’appello appare determinante, perché, se il giudice civile decidesse come giudice dell’impugnazione, in caso di improcedibilità dichiarata dalla Cassazione, la sede di prosecuzione dell’azione dovrebbe essere la Cassazione civile per evidenti ragioni di simmetria.
Per converso, la circostanza che il giudice civile decida «valutando le prove acquisite nel processo penale» – unita al silenzio del legislatore sulla sopravvivenza della condanna al risarcimento – avvalora la conclusione che a mantenere efficacia non siano le disposizioni civili contenute nella sentenza penale, ma soltanto le prove già raccolte, delle quali il giudice civile terrà conto nell’emettere il suo autonomo giudizio13 . In effetti, la deviazione dalla regola dell’art. 578 comma 1 c.p.p. e il conseguente rinvio al giudice civile si giustificano solo in base alla fallace convinzione, probabilmente nutrita dagli artefici della riforma, che la dichiarazione di improcedibilità debba necessariamente travolgere anche le disposizioni civili della sentenza penale. Decisamente incerte anche le regole probatorie da seguire davanti al giudice civile, non essendo specificato se valgano quelle del processo penale o del processo civile (dove, ad esempio, non è ammissibile la testimonianza dell’offeso dal reato).
A prescindere dalla irrazionalità di disciplinare in modo così difforme la sorte dell’azione civile a seconda che sopraggiunga l’estinzione del reato o l’improcedibilità, non v’è dubbio che la prosecuzione dell’azione in sede civile si risolva in un pesante pregiudizio per la parte danneggiata, quanto a protrazione dei tempi processuali, dispendio di energie e spese legali. Lo ha, sia pure indirettamente, messo bene in luce la recente sentenza costituzionale sull’art. 578 comma 1 c.p.p. (n. 182 del 2021).
Nel riconoscere piena legittimità alla disposizione che affida al giudice penale di appello o di cassazione il potere di decidere sull’azione civile in caso di sopravvenuta estinzione del reato, la Corte costituzionale si è richiamata alla «necessità di salvaguardare evidenti esigenze di economia processuale e di non dispersione dell’attività di giurisdizione»; all’opportunità di un «bilanciamento tra il principio generale di accessorietà dell’azione civile rispetto all’azione penale […] e le esigenze di tutela dell’interesse del danneggiato costituito parte civile»; all’esigenza che, in caso di dichiarazione di non doversi procedere per la sopravvenienza di una causa estintiva del reato, «preval[ga] l’interesse della parte civile a conservare le utilità ottenute nel corso del processo che continua dinanzi allo stesso giudice penale»14 . Affermazioni riferibili, con pari fondamento, anche alla sopravvenuta ‘improcedibilità’.
Come si potrebbero ritenere realizzati i valori del giusto processo e della sua ragionevole durata – ai quali tutte le parti hanno diritto e che costituiscono garanzie oggettive di buon funzionamento della giurisdizione – se la parte civile fosse costretta a proseguire l’azione di fronte al giudice civile, vedendo vanificata, a causa di un ritardo processuale a lei non imputabile, la pretesa risarcitoria già accolta in primo grado? Come negare che una disciplina del genere sia gratuitamente punitiva per la parte civile, senza che nulla possa giustificare l’arbitraria deviazione da quanto disposto nell’art. 578 comma 1 c.p.p. per la sopravvenuta estinzione del reato?
È auspicabile che si risolva al più presto l’anomalia, uniformando la disciplina prevista per l’improcedibilità a quella contemplata per l’estinzione del reato, nel senso di devolvere, in entrambi i casi, la decisione sull’azione civile al giudice penale. La sede ideale per provvedere sono i decreti-delegati, secondo quanto disposto dall’art. 1 comma 13, lettera d) della legge in esame.
Non sarebbe, invece, possibile, come qualcuno suggerisce, provvedere in senso inverso e modificare, in sede di attuazione della delega, il primo comma dell’art. 578 c.p.p., allineandolo al nuovo comma 1-bis. A prescindere dai problemi di legittimità costituzionale di una simile scelta, la delega concerne solo la disciplina dei «rapporti tra l’improcedibilità […] e l’azione civile esercitata nel processo penale», nonché «la disciplina delle impugnazioni per i soli interessi civili»: l’art. 578 comma 1 c.p.p. riguarda, invece, anche l’impugnazione a fini penali e, in particolare, la sopravvenuta estinzione del reato. La circostanza che, in regime di improcedibilità, l’art. 578 comma 1 c.p.p. diventi inapplicabile in ordine alla prescrizione sostanziale, soppressa dopo il primo grado, non incide sulla sua perdurante validità rispetto all’amnistia, nonché rispetto a tutti i reati commessi prima del gennaio 2020.
Beninteso, può anche darsi che il reale intento della riforma ‘Cartabia’ sia di allontanare progressivamente la parte civile dal processo penale; ma, se così fosse, la strada da percorrere sarebbe quella, radicale, di una netta separazione delle due giurisdizioni, senza compromessi né intrugli, come quello contenuto nel comma 1-bis dell’art. 578 c.p.p.

  1. IMPROCEDIBILITÀ E PROSCIOGLIMENTO NEL MERITO

La dichiarazione di estinzione del reato coinvolge il merito e, come tale, si pone in un rapporto di concorrenza con le altre formule di proscioglimento. L’art. 129 comma 2 c.p.p. risolve la concorrenza, affermando che, in presenza di una causa estintiva del reato, «se dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta».
L’improcedibilità, invece, dato il suo carattere processuale, preclude l’esame del merito, al pari della inammissibilità. Come in un gioco di scatole cinesi, il merito sta all’interno del processo: se si chiude la porta del processo – come accade con l’improcedibilità che tronca la prosecuzione della fase protrattasi oltre il termine massimo – non si può aprire quella del merito. Pertanto, a differenza di quanto avviene in caso di sopravvenuta estinzione del reato, risulta inapplicabile l’art. 129 comma 2 c.p.p., essendo l’improcedibilità destinata inesorabilmente a prevalere su ogni altra formula di proscioglimento; con l’ulteriore conseguenza che, se l’improcedibilità sopraggiungesse pendente l’impugnazione del pubblico ministero contro un’assoluzione, l’imputato vedrebbe questa convertita nella meno favorevole sentenza di non doversi procedere. Stupefacente reformatio in peius per decorso del tempo.
Qualche autore, pur riconoscendo «che l’art. 129 comma 2 c.p.p. si riferisce solo al concorso tra le cause di proscioglimento nel merito e una causa di estinzione del reato», ritiene «che la ratio della norma possa estendersi anche al caso del concorso tra cause di proscioglimento nel merito e sopravvenuta improcedibilità ex art. 344-bis c.p.p.»15 .
Tesi poco convincente per le ragioni appena esposte, che mettono in luce la radicale differenza tra l’improcedibilità e l’estinzione del reato, tale da escludere qualsiasi possibilità di applicazione analogica per identità di ratio. La sopravvenuta estinzione del reato, a differenza della improcedibilità, non interrompe né estingue il processo, che si conclude fisiologicamente con una sentenza di merito, secondo la gerarchia delle formule di proscioglimento dettata dal secondo comma dell’art. 129 c.p.p.16 ; l’improcedibilità, invece, interrompe e dissolve il processo, precludendo ogni esame del merito da parte del giudice, il quale può solo dichiarare di non doversi procedere, a meno che l’imputato vi abbia rinunciato (art. 344-bis comma 7 c.p.p.)17 .

  1. IL REGIME TEMPORALE DELL’IMPROCEDIBILITÀ

Si discute se alla improcedibilità si applichi il regime ‘processuale’ del tempus regit actum, con la conseguente immediata applicabilità delle eventuali disposizioni sopravvenute, quale che sia il loro contenuto (favorevole o sfavorevole per l’imputato)18 ; o quello ‘sostanziale’ del tempus commissi delicti, salva l’applicazione delle più favorevoli disposizioni nel frattempo sopravvenute, ai sensi dell’art. 25 comma 2 Cost. e dell’art. 2 c.p.
Qualche autore è orientato nel secondo senso, sulla base del rilievo che anche le norme sull’improcedibilità si tradurrebbero nella ‘non punibilità’ dell’imputato e quindi dovrebbero ritenersi soggette, come le disposizioni penali sostanziali, alla disciplina imposta dall’art. 25 comma 2 Cost.19 . Se così fosse, vi sarebbe da dubitare sulla legittimità dell’art. 2 comma 3 della riforma in esame, secondo cui le nuove disposizioni sull’improcedibilità «si applicano ai soli procedimenti di impugnazione che hanno a oggetto reati commessi a far data dal 1° gennaio 2020».
Sul piano propriamente giuridico il discorso non convince. A differenza della prescrizione sostanziale, che si risolve in una causa di non punibilità per estinzione del reato, l’improcedibilità si limita a troncare il processo, senza affrontare il tema della punibilità; l’ipotetico reato non si estingue, ma il giudice è destituito del potere di decidere nel merito. Senza dubbio l’effetto è di sottrarre l’imputato alla condanna, anche perché alla ripresa del processo si oppone il ne bis in idem. Ma tanto il ne bis in idem quanto la ‘improcedibilità’ restano disposizioni ad ogni effetto ‘processuali’, perché né il primo né la seconda riguardano la punibilità, ma soltanto la possibilità o l’impossibilità di ‘procedere’, la ‘processabilità’, se è consentita la parola: non si confonda il ne bis in idem processuale, qui pertinente, con quello sostanziale, relativo al concorso apparente di norme.
La punibilità nel senso propriamente giuridico – che attiene al diritto sostanziale – non è scalfita né dalla improcedibilità né dalle conseguenze di carattere pratico che da quest’ultima derivano; altrimenti, buona parte delle disposizioni processuali finirebbe per coinvolgere la ‘punibilità’. ‘Ipoteticamente punibile, ma non più processabile’ è la sorprendente, inaudita cifra che riassume l’improcedibilità della riforma Cartabia. Dunque, la regola applicabile è quella del tempus regit actum, tipica di ogni disposizione processuale; allo stesso modo in cui il tempus commissi delicti è la regola per ogni disposizione sostanziale, salva la retroattività della norma più favorevole sopravvenuta.
Si è rifiutata la prescrizione sostanziale e scelta l’improcedibilità non per convinzione, ma per mere ragioni di convenienza politica, legate all’esigenza di assecondare l’avversione dei ministri pentastellati verso la parola ‘prescrizione’; e, nella consapevolezza di quell’infelice scelta, ora si tenta di negare gli esiti che logicamente ne derivano, invocando il regime temporale della prescrizione sostanziale. Dopo avere, con un beffardo gioco linguistico, introdotto nell’ordinamento la prescrizione processuale sotto il nome di ‘improcedibilità’, si vorrebbe surrettiziamente convertirla – con un’operazione degna di Procuste – in prescrizione sostanziale, agli effetti tanto della disciplina temporale quanto dell’applicazione dell’art. 129 comma 2 c.p.p.
Coerenza esige, a questo punto, che si accetti l’improcedibilità per ciò che è realmente, con le conseguenze che ne seguono, rinunciando ai vantaggi che avrebbe garantito la prescrizione sostanziale. Cosa estingue la prescrizione sostanziale? Il reato: ecco l’implicazione sostanziale che rende operativo l’art. 25 comma 2 Cost. e applicabile l’art. 129 comma 2 c.p.p. Cosa estingue l’improcedibilità? Il reato? No: l’ipotesi di reato e, con essa, la punibilità restano in vita; ad estinguersi è direttamente il processo. Dunque, nessuna implicazione sostanziale, ma solo processuale. Non è ammissibile che, dove conviene all’imputato, ossia ai fini del diritto temporale e della gerarchia tra le formule di proscioglimento, si trasfiguri l’improcedibilità in causa estintiva del reato, qual è, invece, la prescrizione sostanziale. Così almeno, secondo i principi fondamentali del diritto.
Che poi, sulla base di un generico favor rei o per vaghe considerazioni di equità, qualcuno voglia estendere il più favorevole regime delle disposizioni sostanziali anche a quelle processuali che, indirettamente e sul piano pratico, si risolvono nella sottrazione dell’imputato alla pretesa punitiva, è ampiamente prevedibile; né può escludersi che si trovi qualche appiglio nel mare magnum delle interpretazioni, non di rado tra loro contraddittorie, della Corte europea dei diritti dell’uomo; la quale, come noto, muta i suoi principi, anche radicalmente, a seconda del caso sottoposto al suo esame. Se qualche giudice solleverà la questione di legittimità, toccherà alla Corte costituzionale chiarire definitivamente il modello temporale applicabile alla improcedibilità, sciogliendo ogni dubbio di legittimità.
Di recente, con l’ordinanza 19 novembre 2021 (dep. 26 novembre 2021) n. 43883, la settima sezione della Cassazione ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 comma 3 della riforma ‘Cartabia’, affermando che «la modulazione del regime transitorio previsto dalla legge 134/2021 può ben correlarsi non solo all’esigenza di coordinamento con l’impianto delle precedenti riforme […], ma anche alla necessità di introdurre gradualmente nel sistema processuale un istituto così radicalmente innovativo, sicché ha una sua ragionevolezza la previsione di un periodo finalizzato a consentire un’adeguata organizzazione degli uffici giudiziari»20. A sua volta, con la sentenza 5 novembre 2021 (dep. 10 gennaio 2022) n. 334, la quinta sezione ha ribadito la manifesta infondatezza di analoga questione, affermando a chiare lettere che la improcedibilità, per la sua natura meramente processuale, è soggetta alla regola del tempus regit actum; e, da ultimo, nella stessa direzione si è orientata la terza sezione con la sentenza 14 dicembre 2021 n 1567.

9. IL RAPPORTO TRA INAMMISSIBILITÀ E IMPROCEDIBILITÀ

Con la menzionata ordinanza del 19 novembre 2021 n. 43883, la settima sezione della Cassazione è intervenuta anche sui rapporti tra inammissibilità dell’impugnazione e improcedibilità. Affermando la prevalenza della inammissibilità sulla improcedibilità, i giudici di legittimità hanno osservato che «la proposizione di un ricorso inammissibile non consente la costituzione di valido avvio della corrispondente fase processuale e determina la formazione del “giudicato sostanziale”, con la conseguenza che il giudice dell’impugnazione, in quanto non investito del potere di cognizione e decisione sul merito del processo, non può rilevare eventuali cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p.»; e ha concluso che «i suddetti principi, sebbene riferiti alla prescrizione, sono estensibili all’istituto della “improcedibilità”, in quanto la ratio della nuova normativa, certamente finalizzata a garantire la ragionevole durata del processo, implica che tale correlazione è solo tendenziale, non potendo prestarsi a forma di strumentalizzazione realizzabili attraverso la proposizione di ricorsi inammissibili».
Che la inammissibilità debba prevalere sulla ‘improcedibilità’, così come prevale sulle cause estintive del reato e, quindi, sulla prescrizione ‘sostanziale’, è di tutta evidenza. Tanto la improcedibilità quanto la inammissibilità hanno carattere processuale e, come tali, impediscono l’esame del merito, prevalendo sulle cause di non punibilità. Ma c’è una netta differenza, pur essendo ambedue rilevabili anche d’ufficio sino alla sentenza irrevocabile, salvo il limite imposto per nullità e inammissibilità dall’art. 627 comma 4 c.p.p. La improcedibilità chiude una fase con una sentenza che, divenuta irrevocabile, sostituisce quella già emessa, come accade nella logica delle impugnazioni; la inammissibilità impedisce l’apertura della fase, invalidando quanto fosse già stato compiuto a seguito dell’atto inammissibile, inclusa l’eventuale dichiarazione di improcedibilità.
La conseguenza è chiara: l’inammissibilità, quando sia accertata, non solo impedisce di dichiarare l’improcedibilità, ma invalida l’improcedibilità eventualmente già dichiarata nella fase introdotta da un’impugnazione inammissibile. In altre parole, ad assumere rilevanza, non è il momento in cui l’inammissibilità è accertata, ma quello in cui si è realizzata; la circostanza che sia dichiarata dopo l’improcedibilità non esclude che logicamente la preceda ogni qualvolta la fase, protratta oltre i termini massimi, fosse stata aperta da un atto inammissibile21 . Detto nel linguaggio delle situazioni soggettive, la mancata integrazione della fattispecie dell’atto normativo, coincidente con i requisiti di ammissibilità dell’impugnazione, invalida inesorabilmente, per via derivata, l’intera fase che ne è seguita.
Può così accadere che ad una condanna inflitta in primo grado segua in secondo grado una sentenza di improcedibilità per decorso dei termini massimi; e che la Cassazione, a seguito del ricorso proposto dal pubblico ministero, dichiari l’inammissibilità dell’appello a suo tempo non rilevata, con la conseguente irrevocabilità della condanna. Idem nel caso in cui l’inammissibilità emerga dopo il superamento dei termini fissati a pena di improcedibilità; o quando, nell’ambito di un ricorso inammissibile l’imputato eccepisca la mancata dichiarazione di improcedibilità nel grado precedente o l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che non consentono l’applicazione dell’improcedibilità; a prevalere è sempre l’inammissibilità22 , almeno sino a quando la legge non riterrà opportuno porre limiti al suo accertamento. In assenza di una norma che dica il contrario – come l’art. 627 comma 4 c.p.p. in rapporto al giudizio di rinvio – l’inammissibilità è rilevabile sino al giudicato, per l’esaustiva ragione che non è prevista alcuna sanatoria.
Senza dubbio la tardiva dichiarazione di inammissibilità rischia, in determinati casi, di produrre effetti pregiudizievoli per l’imputato; soprattutto nell’ipotesi della ‘manifesta infondatezza’, la cui inclusione nella categoria dell’inammissibilità è frutto di un abuso epistemologico, sia che risalga alla legge sia che derivi dalla giurisprudenza. Nondimeno, salvo eccezioni di legittimità costituzionale, il rimedio non può scaturire da acrobatiche interpretazioni ‘creative’, incompatibili con il dato positivo, con la logica e la coerenza del sistema, quale sarebbe la pretesa che l’improcedibilità, realizzatasi nella fase introdotta da un atto inammissibile, costituisca un’inedita sanatoria di quel vizio, precludendone la rilevazione. All’interno di un sistema che vuole il giudice soggetto alla legge, un esito siffatto può derivare solo da una rimodulazione normativa dell’inammissibilità, quanto a presupposti e tempi della sua dichiarazione.
Beninteso, il medesimo effetto di prevalenza dell’inammissibilità può verificarsi anche nei riguardi della prescrizione ‘sostanziale’ maturata in fase di impugnazione (s’intende, nei processi in cui quest’ultima sia ancora operante). Tuttavia, vi è una sensibile differenza tra la prescrizione sostanziale e l’improcedibilità, che bisogna mettere in luce. La prima non coinvolge direttamente la responsabilità del singolo giudice, dato che i termini decorrono dal momento della commissione del reato e il realizzarsi della prescrizione dipende da vari fattori e da diversi operatori. L’improcedibilità, invece, essendo articolata per le singole fasi di impugnazione, chiama direttamente in causa la responsabilità del giudice che non ha concluso la fase processuale nei termini previsti.
Dunque, la spinta a prevenire, dove possibile, la dichiarazione di improcedibilità da parte del giudice dell’impugnazione è inevitabilmente maggiore di quanto può esserlo per la prescrizione sostanziale. In presenza di una netta delimitazione dei contorni dell’inammissibilità, ben distinta dall’infondatezza, tutto ciò non assumerebbe grande rilevanza; ma, unendosi all’espansione delle cause di inammissibilità, notevolmente estese in sede di appello dalla riforma ‘Cartabia’23 , e alla loro irrefrenabile tendenza a sconfinare nel merito, può convertirsi in un potente strumento idoneo a sfoltire le impugnazioni.

10. IMPROCEDIBILITÀ E NE BIS IN IDEM

Quid iuris, infine, sui rapporti tra l’improcedibilità e la regola del ne bis in idem? Una breve premessa è necessaria. La tripartizione più coerente delle sentenze è quella tra sentenze meramente processuali, nelle quali va inclusa per l’appunto la dichiarazione di improcedibilità, sentenze di proscioglimento (o di assoluzione: sono termini sinonimi), nelle quali rientra la estinzione del reato, e sentenze di condanna, fra le quali la sentenza di applicazione della pena concordata. Le prime appartenenti al genere delle decisioni sul processo, le altre a quello delle decisioni sul merito24 .
Non è questa, tuttavia, la sistematica codicistica che, da un lato, include l’estinzione del reato fra le sentenze di non doversi procedere e, dall’altro, riconduce queste ultime nell’ambito delle sentenze di proscioglimento (cfr. la rubrica dell’art. 469 c.p.p., la Sezione I, capo II del Libro VII e l’art. 531 c.p.p.). Bisogna, dunque, ammettere che l’art. 649 c.p.p., nel collegare la regola del ne bis in idem alle sentenze di proscioglimento e di condanna, la estende anche alle sentenze di non doversi procedere, lasciando salva l’eccezione di cui all’art. 345 c.p.p.
Resta da stabilire se alla dichiarazione di improcedibilità possa applicarsi l’art. 345 comma 2 c.p.p. che estende alla mancanza di ogni altra condizione di procedibilità la regola contemplata nel primo comma, per effetto della quale l’azione penale può essere nuovamente esercitata «se è in seguito proposta la querela, l’istanza, la richiesta o è concessa l’autorizzazione ovvero se è venuta meno la condizione personale che rendeva necessaria l’autorizzazione».
Si può discutere sul punto. Tuttavia, nel caso dell’improcedibilità, a sopraggiungere non può essere materialmente la condizione di procedibilità, come richiede l’art. 345 c.p.p., essendo il tempo ormai trascorso; ma soltanto una diversa qualifica del fatto tale da rendere applicabili termini più ampi (in rapporto al regime delle proroghe). La possibilità di riproporre l’azione parrebbe, quindi, esclusa, anche perché, agli effetti dell’art. 649 c.p.p., ferma restando l’identità del fatto, risulta irrilevante il semplice mutamento del titolo, del grado o delle circostanze. La conseguenza è la piena e incondizionata applicazione della regola del ne bis in idem alle sentenze di improcedibilità. Un diverso regime richiederebbe, a nostro avviso, l’intervento del legislatore.

  1. CONCLUSIONE

La conclusione deriva dalle premesse del discorso sin qui svolto. L’improcedibilità è il frutto di un’infelice contrattazione tra le forze politiche, condotta sotto l’incubo dell’emergenza sanitaria e della pressione economica che ne è derivata; a riconoscerlo, più o meno esplicitamente, sono ormai gli stessi esponenti che l’hanno concepita. Fortunatamente, non è un istituto scolpito su tavole di marmo. Non lo erano le sentenze costituzionali della svolta inquisitoria del 1992, travolte dalla riforma costituzionale del ‘giusto processo’; non si vede perché debba esserlo l’improcedibilità.
Il tentativo di rimediare ai vizi e alle contraddizioni dell’improcedibilità a colpi di interpretazioni ‘creative’ o in via di ritocchi e sentenze costituzionali pare destinato ad un sicuro fallimento. Credo che i tempi siano maturi per reclamare con forza il ritorno all’antica, consolidata prescrizione sostanziale (come, d’altronde, suggerito dalla originaria commissione ‘Lattanzi’).
Irrealistico? Per nulla; è una sfida difficile, ma perfettamente ragionevole. La rassegnazione, l’accettazione come inevitabile dello stato di fatto non è mai un buon metodo intellettuale.

*Testo della relazione svolta al convegno annuale dell’associazione tra gli studiosi del processo penale “G.D. Pisapia” (Alla ricerca di un processo penale efficiente 21 22-gennaio 2022). Il lavoro sarà pubblicato sul fascicolo 2/2022 di Cassazione penale, che si ringrazia per avere consentito di anticipare la pubblicazione on line su questa Rivista.


1P. Ferrua, La singolare vicenda della “improcedibilità”, in Il Penalista, 27.8.2021. Più di recente, sulla riforma Cartabia v. E.N. La Rocca, Il modello di riforma “Cartabia”: ragioni e prospettive della Delega n. 134/2021, in Arch. pen., 2021, n. 3; P. Moscarini, L’istituto della prescrizione ed il “giusto processo”, in Dir. pen. proc., 2021, 1446 s.


2Sulla commistione tra prescrizione sostanziale e processuale v., criticamente, R. Orlandi, Riforma della giustizia penale: due occasioni mancate e una scelta ambigua in tema di prescrizione, in disCrimen, 16 luglio 2021; G. Spangher, Dubbi molto ragionevoli, in Giustizia insieme, 20 agosto 2021.

3Per lo meno sino a quando non si aggiungano al testo dell’art. 112 Cost. le parole: «nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge».


4Sull’impropria inclusione della sentenza che dichiara estinto il reato fra le decisioni di non doversi procedere, v. Cordero, Procedura penale, IX ed., Giuffrè, Milano, 2012, 976, 985, il quale correttamente la qualifica come sentenza di assoluzione (proscioglimento e assoluzione sono termini sinonimi, entrambi contrapposti alle sentenze meramente processuali o di non doversi procedere). Sulle cause estintive del reato come fenomeni attinenti al merito del processo, v., vigente il codice abrogato, O. Dominioni, Improcedibilità e proscioglimento nel sistema processuale penale, Giuffrè, Milano, 1974, 131 s.


5Per un più ampio sviluppo del tema v. P. Ferrua, Improcedibilità: uno stupefacente caso di evaporazione del processo, in Processo penale e giustizia, 2022, n. 1 (in corso di pubblicazione), nonché, con riguardo ai precedenti progetti sulla prescrizione processuale, Id., Il ‘giusto processo’, III ed., Zanichelli, Bologna, 2012, p. 117 s.; Id., Il modello costituzionale del pubblico ministero e la curiosa proposta del processo breve, in Questione giustizia, 2010, 2 s.


6F. Cordero, Procedura, cit., 1295: «Il comma 2 [dell’art. 111 comma 2 Cost.] contiene una seconda frase sul processo: “la legge ne assicura la ragionevole durata”. “La legge ne assicura la ragionevole durata” (art. 111 comma 2 Cost.): «Sarebbe interessante sapere come: una mannaia pro reo, nel senso che a date scadenze debba essere assolto, manderebbe al diavolo vari articoli della Carta, dal 101 comma 2 al 112, convertendo gli affari penali in partite d’astuzia defatigatoria; sta bene scarcerarlo, ma assolverlo equivale a chiudere bottega; Dike vada altrove. La offendono anche i processi torbidi, eccome. Costituisce diritto elementare essere giudicati senza ingiustificato ritardo. L’unico rimedio pensabile qui sarebbe un risarcimento del danno da processo iniquamente lento […]. Quando la durata del tal processo risulti irragionevole, sebbene nessuno vi abbia colpa, è pensabile che ne risponda lo Stato in quanto lo dica una norma».


7Nel senso di un contrasto con l’art. 101 comma 2 Cost., v. anche G. Spangher, Intervento, in Gli incerti approdi della riforma del processo penale: irretroattività e regime transitorio della declaratoria di improcedibilità (Seminario su piattaforma telematica del 21 dicembre 2021), il quale, tuttavia, non ritiene leso l’art. 112 Cost.
Ad imporre al giudice la dichiarazione di improcedibilità è la legge, ma quella stessa legge contrasta con il dovere di decidere sul fondamento dell’accusa, derivante dall’art. 112 Cost.


8Così Cordero, Procedura, cit., 416 s.


9In termini critici sul regime differenziato per categorie di reati, v. A. Scalfati, La durata del processo non può dipendere dalla qualità del delitto, in Il Dubbio, 29 luglio 2021.


10N. Rossi, Lasciar decidere il giudice sulla durata dei processi: cancellate quest’assurdità, in Il dubbio, 3 agosto 2021.


11Il meccanismo della improcedibilità e delle proroghe è, d’altronde, destinato a generare questioni interpretative di incerta soluzione. Non è chiaro se, in caso di ricorso del pubblico ministero contro la sentenza di improcedibilità disposta in appello, la Cassazione sia autorizzata, in base ai parametri fissati dalla legge, a sindacare la decisione del giudice di non disporre la proroga, nonostante ve ne fossero i presupposti; né cosa avvenga, sempre in caso di ricorso del pubblico ministero, quando l’improcedibilità fosse stata, per errore di computo, dichiarata prima della effettiva scadenza dei termini massimi; né, infine, in caso di annullamento della sentenza di improcedibilità con rinvio al giudice di appello, se i termini massimi decorrano ex novo o solo per la parte non consumata.


12V., di recente, anche sulla genesi della disposizione, P. Tonini – G. Pecchioli, Roma locuta est: le Sezioni Unite mettono il punto sul rinvio ai soli effetti civili, in Dir. pen. proc., 2021, 1439 s.


13In tal senso il parere reso dal CSM lo scorso 29 luglio 2021, prima che il disegno di legge fosse approvato dalla Camera dei deputati: «A parte l’equivoca disposizione in cui è previsto che il giudice civile decida “valutando le prove acquisite nel processo penale” di cui non è chiara la assoluta intangibilità delle prove assunte in altro giudizio, si può paventare un effetto paradossale dalla riforma, ossia che la ragionevole durata del processo sia assicurata solo agli imputati, mentre per le parti civili vi sarebbe una disciplina deteriore rispetto a quanto ad oggi previsto dall’articolo 578 del Codice di procedura penale in caso di dichiarazione di prescrizione del reato pronunciata nel giudizio di gravame. Infatti, in tali ultimi casi la norma fa salva la decisione di primo grado di condanna al risarcimento del danno anche con un’eventuale provvisionale, a volte con la provvisoria esecutività di tali statuizioni (articoli 539-540 del Codice di procedura penale), che diverrebbero invece inefficaci a seguito della declaratoria di improcedibilità».
Più problematica l’esegesi svolta dall’Ufficio del massimario e del ruolo presso la Cassazione secondo cui, «venuto meno il giudizio penale, l’unica tutela riconosciuta alla parte civile è rappresentata dalla prosecuzione dell’azione risarcitoria dinanzi al giudice civile che deciderà valutando “le prove acquisite nel processo penale”. Si tratta di una disposizione chiaramente improntata all’esigenza di non disperdere l’attività processuale svolta, consentendo al giudice civile di avvalersi delle prove formatesi nel giudizio penale, sia di primo grado, sia in grado di appello, nel caso di rinnovazione dell’istruttoria» (p. 39).


14Sulla sentenza costituzionale v. B. Lavarini, Presunzione di innocenza “europea” e azione civile nel processo penale: un difficile compromesso fra tutela del prosciolto e salvaguardia del danneggiato, in Giur. cost., 2021, 1799 s.; P. Ferrua, La Corte costituzionale detta le regole per l’azione civile in caso di sopravvenuta estinzione del reato: la probabile illegittimità costituzionale dell’art. 578 comma 1- bis c.p.p. introdotto dalla riforma ‘Cartabia’, in Cass. pen., 2021, 3443s.


15N. Nappi, Appunti sulla disciplina dell’improcedibilità per irragionevole durata dei giudizi di impugnazione, in Questione giustizia, 2021, 9 dicembre 2021.


16Sull’attinenza al merito della sentenza che dichiara estinto il reato, impropriamente inclusa dal codice fra le sentenze di non doversi procedere v. Cordero, Procedura, cit., pp. 976, 985, il quale correttamente la qualifica come sentenza di assoluzione (proscioglimento e assoluzione sono termini sinonimi, entrambi contrapposti alle sentenze meramente processuali o di non doversi procedere); vigente il codice abrogato, v. nello stesso senso, O. Dominioni, Improcedibilità e proscioglimento nel sistema processuale penale, Giuffrè, Milano, 1974, p. 131 s.


17Nella bozza del progetto di legge delega presentato da Giuseppe Riccio era espressamente prevista la prevalenza del proscioglimento nel merito sulla prescrizione processuale («26.4. obbligo di proscioglimento nel merito, quando ne ricorrano gli estremi, anche in presenza di una causa estintiva del reato o della prescrizione del processo»): disposizione, senza dubbio, anomala rispetto alla struttura della prescrizione processuale, ma dettata da comprensibili ragioni di equità.


18In tal senso P. Moscarini, L’istituto della prescrizione, cit., 1455; P. Ferrua, La singolare vicenda della “improcedibilità, cit.; Id., Improcedibilità, cit.


19O. Mazza, A Midsummer Night’s Dream, cit.


20Per il commento all’ordinanza della Cassazione v. di chi scrive Regime temporale della improcedibilità e rapporti con l’inammissibilità: la Cassazione detta le regole, in Cass. pen., 2022, gennaio (in corso di pubblicazione); Id., Brevi appunti in tema di udienza preliminare, appello e improcedibilità, in disCrimen, 9 dicembre 2021.


21Per la prevalenza dell’inammissibilità sull’improcedibilità, v. P. Ferrua, Brevi appunti, cit. Contra, per la prevalenza dell’improcedibilità sull’inammissibilità, O. Mazza, Inammissibilità versus improcedibilità: nuovi scenari di diritto giurisprudenziale, in Diritto di Difesa, 2 gennaio 2022, secondo cui il decorso dei termini di durata massima priverebbe il giudice del potere di dichiarare l’inammissibilità. Conclusione eccepibile, smentita dalla circostanza che, se la inammissibilità si è realizzata prima dell’improcedibilità, deve logicamente prevalere su quest’ultima. Ciò che rileva non è il momento in cui l’una o l’altra sono dichiarate, ma quando si realizzano.


22Ovvio che, come afferma la giurisprudenza, in caso di abolitio criminis, il proscioglimento prevalga sull’inammissibilità per evidenti ragioni di economia, volte ad evitare il ricorso al giudice dell’esecuzione (v., ad esempio, Sez. Un., 17 dicembre 2015 n. 12602, Ricci). Qualcuno ne trae spunto per un’analoga prevalenza dell’improcedibilità, in quanto finalizzata alla ragionevole durata del processo. In realtà, nel caso dell’abolitio criminis, la prevalenza del proscioglimento sulla inammissibilità ha poco a che spartire con la ragionevole durata del processo, essendo semplicemente motivata dall’esigenza di risparmiare il successivo ricorso all’incidente di esecuzione.


23Art. 1 comma 13, lettera i) l. 27 settembre 2021 n. 134: «prevedere l’inammissibilità dell’appello per mancanza di specificità dei motivi quando nell’atto manchi la puntuale ed esplicita enunciazione dei rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto e di diritto espresse nel provvedimento impugnato». In termini critici v., con diverse sfumature, M. Daniele, La riforma della giustizia penale e il modello perduto, in disCrimen, 13 luglio 2021, 6 s.; A. De Caro, Riflessioni critiche sulle proposte della Commissione ministeriale in tema di riforma delle impugnazioni penali, in Archivio penale, 2021, 2, 14 s.; P. Maggio, Nuove ipotesi d’inammissibilità dell’impugnazione, in Processo penale e giustizia, 2022, n.1 (in corso di pubblicazione); P. Ferrua, La riforma dell’appello, in Diritto penale e processo, 2021, 1158.


24F. Cordero, Procedura, cit., 964 s., 976 s.; O. Dominioni, Improcedibilità, cit., 131 s.

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