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Alcune rilevanti innovazioni del D.lgs. n. 150 del 2022 sull’imputato, sulla parte civile e sulla persona offesa

Abstract: L’autore analizza alcune modifiche apportate dal D.lgs. n. 150 del 2022 al Libro I del codice di procedura penale inerenti all’imputato, alla parte civile e alla persona offesa.

the author analyzes some changes made by d.lgs. n. 150 of 2022 to book i of the criminal procedure code relating to the defendant, the plaintiff and the injured person.

Sommario: 1. Finalità perseguite dalla riforma Cartabia e tema di indagine. 2. Soggetti processuali e parti processuali. 3. L’imputato: l’assunzione della veste di imputato (art. 60). 4. La parte civile: “formalità” (art. 78) e “termini” (art. 79) per la costituzione. 5. La persona offesa dal reato: diritti e facoltà (art. 90). 5.1. Informazioni alla persona offesa (art. 90 bis). 5.2. Informazioni alla vittima (art. 90 bis.1). 6. La fragile tenuta del tradizionale assetto triadico del processo accusatorio.  

1. Finalità perseguite dalla riforma Cartabia e tema di indagine.   

La giurisdizione penale vive “da anni” una grave crisi di efficienza, effettività e autorevolezza, aggravata, peraltro, da una conseguenziale, quanto prevedibile, crisi di fiducia dei cittadini nel sistema di giustizia e dello Stato di diritto.[1]

Da tempo ormai si discute delle carenze organizzative (scarsità delle risorse umane, strumentali e finanziarie, incompiuta digitalizzazione e informatizzazione, scadente logistica); della diffusa inadeguatezza della gestione degli uffici e della imprevedibilità delle decisioni; della lentezza delle procedure, delle notevoli pendenze e dell’arretrato accumulato.[2]

E, ancora una volta, l’obiettivo principale del progetto riformatore del sistema di giustizia ruota attorno alla esigenza di fronteggiare alcune di queste disfunzioni[3] che hanno inciso – ed incidono sempre più – negativamente sul valore costituzionale della ragionevole durata del processo.[4] L’eccessiva durata reca un chiaro pregiudizio alle garanzie personali dell’imputato e della vittima, all’interesse generale all’accertamento dei fatti, all’ordinato sviluppo dell’economia, della finanza e del mercato.

Alla base della recente riforma anche un bilanciamento di interessi: da una parte, le esigenze di efficienza ed effettività del processo e, dall’altra, le prerogative e le garanzie dell’“imputato” e della “vittima”. Un siffatto bilanciamento si pone come un vero e proprio “atto dovuto”, essendo innegabile che qualsiasi tentativo di ridurre i tempi del processo non possa implicare il sacrificio delle garanzie (soprattutto quelle difensive), neanche in nome della ragionevole durata.  

Il processo penale, infatti, non persegue esclusivamente l’obiettivo, tipicamente giurisdizionale, di attuare la legge penale nel caso concreto ma riveste una ben più alta funzione politico-assiologica di tutela di tutti i valori e gli interessi in gioco, a partire dai diritti fondamentali dell’imputato.[5]

Premesso che numerosi sono gli interventi della riforma Cartabia aventi un significativo impatto sull’imputato, sulla parte civile e sulla persona offesa, in questa sede verranno analizzati esclusivamente quelli che hanno interessato il Libro I del codice di procedura penale (artt. 60, 78, 79, 90, 90 bis, e 90 bis.1).    

2. Soggetti processuali e parti processuali.

Valore centrale nella trattazione delle citate norme, assume la distinzione che intercorre tra i “soggetti” e le “parti” processuali: il concetto di parte è strettamente connesso a quello di azione, tanto sul versante attivo quanto su quello passivo.[6] Le parti, dunque, sono i soggetti che esercitano o che subiscono l’azione penale e l’azione civile (esercitata in sede penale). Ne discende che le parti compaiono nella fase strettamente “processuale”, ossia in coincidenza con l’esercizio dell’azione penale o dell’azione civile.

Sul punto, è stato ben rilevato come l’immagine della “parte”, nella sua espressione autentica, venga a delinearsi soltanto nel contesto di una situazione contrassegnata dalla presenza attuale del soggetto avanti al quale sia possibile formulare la richiesta di una decisione giurisdizionale – ossia del giudice – e quindi dall’essere già in sede giurisdizionale, ossia nell’ambito del processo in senso proprio.[7]

Ciò implica che nella fase precedente, dunque nel corso delle indagini preliminari, tanto il pubblico ministero quanto la persona sottoposta alle indagini (figura prodromica rispetto all’imputato) non agiscono ancora nella veste di “parti” nel significato tecnico del termine. Tuttavia, poiché in tale fase essi svolgono pur sempre un’attività finalizzata alla raccolta degli elementi necessari per suffragare, poi, le proprie domande davanti al giudice, assistiti da poteri e da facoltà concessi per consentire l’espletamento di quest’attività, va loro riconosciuto un ruolo che può essere definito di “parti potenziali”: “parti potenziali” per il processo in vista dell’assunzione della qualità di “parti effettive” nel processo.

È possibile annoverare tra le “parti” sicuramente la “parte civile” a cui vengono accordati mezzi giuridici processuali per sollecitare una decisione giurisdizionale che realizzi una pretesa di restituzione e di risarcimento del danno derivante dal reato.

Sfugge, invece, alla qualifica di parte la “persona offesa”. Dalla relazione al progetto preliminare al codice traspare come a tale soggetto sia consentito soltanto di apportare “mediante forme di adesione all’attività del pubblico ministero ovvero di controllo su di essa, una sorta di contributo all’esercizio e al proseguimento dell’azione” promossa dallo stesso pubblico ministero. Tuttavia, non può sottacersi come, anche grazie alla valorizzazione di orizzonti di tutela di carattere sovranazionale (in particolare la direttiva 2012/29/UE)[8], lo statuto della persona offesa si sia significativamente arricchito di garanzie e di spazi di tutela, pur mantenendosi la sua estraneità al novero delle parti processuali.  

3. L’imputato: l’assunzione della veste di imputato (art. 60).

Imputato è uno status, o meglio è una qualifica, che viene ad assumere il soggetto a cui viene ascritto il reato nell’atto di imputazione con cui il pubblico ministero esercita l’azione penale.[9] Vi è, dunque, un legame inscindibile tra l’assunzione della veste di imputato, l’esercizio dell’azione penale e la formulazione dell’imputazione.

Alla distinzione tra procedimento (in senso stretto) e processo, infatti, corrisponde quella tra indagato e imputato, ovverosia tra la persona nei cui confronti vengono svolte le indagini e il soggetto a carico del quale viene formulata l’imputazione. La dicotomia indagato-imputato però non assume particolare rilevanza sotto il profilo dei diritti fondamentali, essendo questi indistintamente riconosciuti al soggetto nei confronti del quale si procede. Non a caso, il primo comma dell’art. 61 c.p.p. estende alla persona sottoposta alle indagini i diritti e le garanzie dell’imputato[10] e tale equiparazione opera anche negli aspetti pregiudizievoli.[11]

Nel corso della fase investigativa, le regole dell’accertamento sono chiare: da un lato, il pubblico ministero, affinché possa realizzarsi il passaggio di veste da “indagato” ad “imputato”, deve rendere concreto e consistente l’impianto accusatorio attraverso la raccolta di tutti quegli elementi di prova a carico del soggetto passivo dell’accertamento (onere della prova è a carico della parte pubblica)[12] e, dall’altro, in sintonia con i caratteri propri di un sistema processuale a vocazione accusatoria, le attività investigative non possono mai mortificare i diritti individuali o, ancor peggio, violare le norme poste a presidio della genuinità del risultato dell’accertamento.[13]

Ciò posto, il primo comma dell’art. 60 c.p.p. stabilisce che assume la qualità di imputato la persona alla quale è attribuito il reato nella richiesta di rinvio a giudizio, di giudizio immediato, di decreto penale di condanna, di applicazione della pena a norma dell’articolo 447, comma 1, nel decreto di citazione diretta a giudizio e nel giudizio direttissimo.

L’elencazione degli atti fornita dalla norma non è per nulla esaustiva, potendosi assumere la qualità di imputato anche con la formulazione “coatta” dell’imputazione di cui all’art. 409, comma 5, e con la contestazione – in forma derogatoria, analogamente al caso della contestazione orale in udienza nel giudizio direttissimo ex art. 449, commi 1 e 3, alla regola della contestazione dell’imputazione in forma scritta – del reato connesso o del fatto nuovo in udienza preliminare ex art. 423, commi 1 e 2, o in dibattimento ex art. 517, comma 1, e 518, comma 2, nonché in sede di giudizio abbreviato ex artt. 438, comma 5 e 441, comma 5.[14]   

Nel processo davanti al giudice di pace, lo status di imputato consegue, ai sensi dell’art. 3, D.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, alla vocatio in iudicium, con l’attribuzione del reato nella citazione a giudizio disposta dal pubblico ministero[15] oppure con il decreto di convocazione delle parti emesso dal giudice di pace a seguito del ricorso della persona offesa.[16]

Una volta assunta, la qualità di imputato si conserva per tutto l’arco del processo, coincidendo la sua estinzione con la conclusione definitiva del processo, momento a partire dal quale il soggetto non è più imputato ma diviene prosciolto o condannato (art. 60, comma 2). Sono cause di estinzione dello status di imputato: la sentenza di non luogo a procedere pronunciata dal giudice dell’udienza preliminare, una volta che non sia più impugnabile (art. 428); la sentenza irrevocabile di proscioglimento o di condanna pronunciata nel giudizio abbreviato o nel giudizio ordinario di primo grado, ovvero la sentenza irrevocabile del giudice di appello e la sentenza di cassazione (art. 648);[17] il decreto penale di condanna divenuto esecutivo (art. 648, comma 3). Inoltre, nonostante non sia indicato nel capoverso dell’art. 60, la veste di imputato viene meno anche con le sentenze che dichiarano il difetto di giurisdizione (art. 20, comma 2) e il difetto di competenza (art. 22, comma 2), in quanto determinano la trasmissione degli atti, rispettivamente, all’autorità competente e al pubblico ministero presso il giudice competente.[18]

Infine, l’art. 60, al terzo comma, prevede anche casi di “riviviscenza” della qualifica di imputato nelle ipotesi di revoca della sentenza di non luogo a procedere o di revisione del processo.

A seguito della richiesta di revoca della sentenza di non luogo a procedere, l’organo dell’accusa può chiedere immediatamente il rinvio a giudizio ovvero la riapertura delle indagini. Solo nel primo caso, con la fissazione della udienza preliminare, rivive lo stato di imputato mentre nel secondo, con l’ordinanza che dispone la revoca, il prosciolto riassume la diversa veste di “persona sottoposta alle indagini”, conseguendo lo status di imputato solo qualora il pubblico ministero, al termine delle nuove indagini, decida di orientarsi per la richiesta di rinvio a giudizio.

Nel giudizio di revisione, essendo stata eliminata la doppia fase rescindente e rescissoria, non vi è un’autonoma pronuncia di annullamento della prima sentenza da cui scaturisca la cessazione dello status di condannato in favore di quella di imputato. Ne consegue che, finché il giudizio di revisione non si conclude con la sentenza di proscioglimento, il soggetto conserva la qualità di condannato. Con la emissione del decreto di citazione da parte del presidente della Corte di appello competente – non essendo invece sufficiente la mera proposizione della richiesta di revisione, la quale potrebbe essere giudicata inammissibile o manifestamente infondata – il soggetto però riassume anche la qualifica di imputato, partecipando al giudizio di revisione con i poteri e le facoltà connesse allo status: si tratta, come ben rilavato in dottrina, di un “soggetto bifronte”.[19] Tutto ciò vale per i casi codicistici di revisione di cui all’art. 630, lett. a)-d), c.p.p.; diversamente per la “revisione europea”, ora superata dal nuovo specifico rimedio di cui all’art. 628 bis, l’esito positivo del vaglio di ammissibilità ex art. 634 sembrava comportare la revoca della sentenza di condanna e il venir meno dello status di condannato, sostituito da quello di imputato.[20]

È proprio sui casi di “riviviscenza” – dunque sul comma 3 della norma in esame – che è intervenuta la riforma Cartabia: ora, si riassume la qualifica di imputato anche nei casi di riapertura del procedimento penale a seguito della rescissione del giudicato o dell’accoglimento della richiesta prevista dall’art. 628 bis per l’esecuzione delle decisioni della Corte di Strasburgo.

Nel primo caso, è chiaro che contestualmente al nuovo status venga meno la qualifica di condannato, in quanto, ai sensi dell’art. 629 bis, comma 3, accolta la richiesta di rescissione, la Corte di appello revoca la sentenza di condanna.

Al contrario, nella ipotesi di riapertura del processo per eseguire il giudicato europeo, il dato testuale dell’art. 628 bis non prevede espressamente la previa revoca della sentenza irrevocabile interna, cosicché potrebbe sostenersi che lo status di imputato si affianchi a quello di condannato. Sembra però ammettersi una lettura del testo normativo maggiormente conforme alla struttura del rimedio che ritenga implicito che la riapertura del processo per rimediare all’accertato vizio di iniquità sia preceduta dalla revoca della sentenza irrevocabile.  

4. La parte civile: “formalità” (art. 78) e “termini” (art. 79) per la costituzione.

Il reato, oltre ad offendere o mettere in pericolo il bene giuridico protetto dalla norma penale sostanziale, obbliga l’autore alle restituzioni e al risarcimento del danno, come previsto dall’art. 185 c.p. Un’unica condotta, quella costituente reato, presenta dunque una duplice sfera di illiceità, penale e civile, che, per ragioni di economia dei giudizi e per evitare possibili giudicati contrastanti, si prevede possa essere valutata unitariamente dal giudice penale.[21]

Nel nostro sistema processuale non è consentita la costituzione di parte civile[22] in forma orale, essendo il danneggiato necessariamente chiamato ad esprimere la volontà di agire dinnanzi al giudice penale in un “atto scritto”, rispettoso dei requisiti stabiliti ex lege a pena di inammissibilità dell’atto.[23]

È l’art. 78 c.p.p. a richiedere che la dichiarazione di costituzione di parte civile debba contenere le generalità del soggetto che si costituisce[24], le generalità dell’imputato nei cui confronti l’azione viene esercitata[25], le ragioni che giustificano la domanda (causa petendi)[26], l’indicazione del difensore, munito di procura ad litem, che dovrà anche sottoscrivere l’atto.

Per quanto concerne le “formalità” della costituzione di parte civile, due sono state le modifiche apportate dalla recente novella.

La prima attiene al requisito di cui alla lett. d), ed è stato aggiunto l’inciso “agli effetti civili” dopo le parole “le ragioni che giustificano la domanda”. È ragionevole pensare che, se prima era sufficiente che, nella dichiarazione di costituzione di parte civile, fosse contenuta, a pena di inammissibilità, unitamente agli altri requisiti non toccati dalla riforma, l’esposizione delle ragioni che giustificano la domanda, adesso è richiesto anche che la domanda sia proposta unicamente agli effetti civili. La domanda deve cioè mettere bene in evidenza le ragioni per cui, a seguito del reato commesso, siano derivati danni a carico della vittima, precisando altresì in cosa essi siano consistiti.[27]  

La seconda attiene all’inserimento di un nuovo comma all’interno dell’art. 78 c.p.p. – il comma 1 bis – in forza del quale il difensore cui sia stata conferita la procura speciale ai sensi dell’art. 100, nonché la procura per la costituzione di parte civile a norma dell’art. 122, se in questa non risulti la volontà contraria della parte interessata, può conferire al proprio sostituto, con atto scritto, il potere di sottoscrivere e depositare l’atto di costituzione.

Premesso che la parte civile sta in giudizio non personalmente bensì a mezzo del difensore (art. 100, comma 1), munito di procura speciale per rappresentare processualmente la parte e compiere gli atti processuali necessari, primo fra tutti quello di costituzione/esercizio dell’azione, antecedentemente alla riforma Cartabia, solo tale soggetto era legittimato a presentare personalmente l’atto di costituzione di parte civile, non potendo delegare tale facoltà a sostituti. Secondo la giurisprudenza di legittimità, infatti, «il sostituto processuale del difensore al quale il danneggiato [avesse] rilasciato procura speciale al fine di esercitare l’azione civile nel processo penale non [aveva] la facoltà di costituirsi parte civile, salvo che detta facoltà [fosse] stata espressamente conferita nella procura ovvero che la costituzione in udienza [fosse avvenuta] in presenza del danneggiato, situazione questa che [consentiva] di ritenere la costituzione come avvenuta personalmente».[28]

Ora, invece, per effetto del novum legislativo, la procura rilasciata ai sensi dell’art. 122 c.p.p. conferisce al difensore – munito di procura speciale ex art. 100 c.p.p., dunque legittimato a stare in giudizio – la facoltà di trasferire ad altri il potere di sottoscrivere l’atto di costituzione della parte civile, salva la diversa volontà della parte. Lo scopo – ma anche l’effetto sperato – della riforma è quello di evitare le numerose ipotesi di invalidità della costituzione di parte civile dovute alla sottoscrizione e al deposito ovvero alla presenza in udienza del sostituto processuale, delegato ai sensi dell’art. 102 c.p.p., senza le richieste formalità tra cui la manifestazione di volontà della parte rappresentata  – attraverso l’inserimento della sua specifica volontà nelle procure speciali sopra indicate (cumulabili in un unico atto) – ovvero attraverso la presenza personale del soggetto titolare del diritto risarcitorio al momento della costituzione in udienza.[29]

L’elemento di maggiore impatto innovativo della riforma Cartabia, però, attiene ai “termini” di costituzione di parte civile. Infatti, nel ridefinire le scansioni cronologiche della costituzione, il primo comma dell’art. 79 c.p.p. stabilisce che la medesima possa avvenire per l’udienza preliminare, prima che siano ultimati gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti, o quando manchi l’udienza preliminare, fino a che non siano compiuti gli adempimenti previsti dall’art. 484 o dall’art. 554 bis, comma 2.[30]

Ben si comprende come il legislatore abbia voluto introdurre un vero e proprio “sbarramento temporale” alla costituzione di parte civile nei procedimenti con udienza preliminare. Tale udienza rappresenta il momento ultimo per la costituzione del danneggiato come parte civile; duplice sembra l’intento del legislatore: da un lato, quello di consentire a tutte le parti un più effettivo esercizio del diritto alla prova e, dall’altro, quello di ridurre le tempistiche del dibattimento.[31]

Connessa a tale modifica, anche l’interpolazione del terzo comma dell’art. 79 c.p.p. il quale stabilisce che quando la costituzione di parte civile è consentita fino a che non siano compiuti gli adempimenti previsti dall’articolo 484, se la stessa avviene dopo la scadenza del termine previsto dall’articolo 468 comma 1, la parte civile non può avvalersi della facoltà di presentare le liste dei testimoni, periti o consulenti tecnici.

Se ne deduce che la conseguenza della costituzione di parte civile effettuata in udienza dibattimentale, vale a dire dopo il decorso dei termini stabiliti dall’art. 468, è la decadenza, per la parte civile, della facoltà di presentare le liste dei testimoni, periti e consulenti tecnici. A seguito della riforma Cartabia, la costituzione di parte civile deve avvenire, allorquando si proceda per citazione diretta a giudizio, entro il termine di cui al capoverso dell’art. 554 bis e la disposizione di cui al successivo art. 555 è chiara nel ribadire che le liste testimoniali debbano essere depositate, in siffatta evenienza ed a pena di inammissibilità, almeno sette giorni prima della data fissata per l’udienza predibattimentale.

Sembra, pertanto, una svista legislativa quella di non aver compendiato, nell’ambito del riformato art. 79, comma 3, anche l’ipotesi dell’inosservanza del termine stabilito dal combinato disposto degli artt. 468 e 555 c.p.p. Se si ragionasse diversamente, sfuggirebbe alla ratio della diversità di trattamento che si verrebbe a creare rispetto a situazioni analoghe, tutte connotate dal superamento della soglia stabilita dall’art. 468. Del resto, non bisogna dimenticare che la previsione di cui all’art. 468, la cui ratio è quella di evitare prove a sorpresa, si giustifica con il fatto che la facoltà prevista dall’art. 468 è riservata solo a chi rivesta la qualità di parte, mancante nel danneggiato che si costituisca solo in limine all’udienza dibattimentale.

Tuttavia, qualora il superamento dei termini non sia imputabile alla condotta della parte costituitasi solo all’udienza dibattimentale, ad essa è consentito avvalersi della richiesta di acquisizione delle prove ex art. 493, comma 2, regola, questa, che prevale rispetto alla decadenza sancita dall’art. 79, comma 3.[32]

5. La persona offesa dal reato: diritti e facoltà (art. 90).

Durante la vigenza del precedente codice, la persona offesa dal reato[33] aveva il compito di fornire al pubblico ministero informazioni utili per lo svolgimento dell’istruzione, nonché, attraverso la propria testimonianza, la prova a carico dell’imputato.[34] Una previsione, questa, coerente con il modello prevalentemente inquisitorio di quel tempo, finalizzato alla ricerca della verità e poco attento alla tutela di interessi personali e individuali.[35]

Un cambiamento di rotta si è registrato con l’avvento del nuovo codice di procedura penale, essendo stata rafforzata la posizione della persona offesa dal reato a cui è stata attribuita la qualifica di soggetto processuale, mediante il riconoscimento di specifici “diritti” e “facoltà”.[36]

La dicotomia diritti-facoltà assume valore in relazione alla diversa natura delle attribuzioni conferite alla persona offesa: 1) i “diritti” individuano situazioni soggettive che fanno scattare in capo al giudice o al pubblico ministero l’obbligo di decidere con un provvedimento motivato; 2) le “facoltà”, invece, non conferiscono all’offeso il diritto ad ottenere la pronuncia di un provvedimento e si configurano, perciò, come atti che, al di là della loro efficacia persuasiva e soggettiva, sono da considerarsi “neutri”.[37]

Ma la vera e propria svolta verso un compiuto processo di valorizzazione della vittima, invece, si è avuta a seguito di una serie di imput promananti dall’Europa,[38] a cui stanno ancora facendo seguito altri interventi normativi da parte del nostro legislatore.  

Nell’attuale e rinnovato assetto processuale, la persona offesa, nella sua veste di soggetto del procedimento, può esercitare i diritti e le facoltà espressamente riconosciuti dalla legge (art. 90, comma 1, c.p.p.). Tra i poteri rientrano anche quelli meramente “sollecitatori” dell’attività dell’autorità inquirente, come il presentare memorie o l’indicare elementi di prova nel corso del procedimento, ad eccezione del giudizio di cassazione. Essa, inoltre, svolge il ruolo di accusa penale privata, accessoria e adesiva, rispetto a quella riservata al pubblico ministero, a cui spetta, in via esclusiva, il potere di azione.[39]  

Ciò premesso, la riforma Cartabia è intervenuta proprio sull’art. 90 c.p.p., inserendo il comma 1 bis il quale recita che «la persona offesa ha facoltà di dichiarare o eleggere domicilio. Ai fini della dichiarazione di domicilio, la persona offesa può indicare un indirizzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato». 

Posto che la persona offesa deve essere individuata, per quanto possibile, al momento della acquisizione della notizia di reato e che essa, come già evidenziato, gode di una serie di diritti e facoltà, il legislatore delegato – in linea con i principi direttivi ispirati ad una maggiore informatizzazione del procedimento penale – ha riconosciuto a tale soggetto la possibilità di indicare un indirizzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato.

Dal dato letterale della norma si evince che si tratta di una “facoltà” e non di un “obbligo” di dichiarare o eleggere domicilio, fermo restando che, nel caso di dichiarazione, a tale soggetto è concessa l’ulteriore facoltà di poter indicare, in luogo di un domicilio fisico, una propria pec ovvero un altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato.   

5.1. Informazioni alla persona offesa (art. 90 bis).

L’intervento riformatore ha investito anche l’art. 90 bis c.p.p. che contiene il catalogo di informazioni che devono essere fornite alla persona offesa sin dal primo contatto con l’autorità procedente.[40]

La norma, da un lato, mira ad ottemperare agli obblighi imposti dalla normativa sovranazionale e, dall’altro, evidenzia la inidoneità della riforma a proiettare la vittima del reato, nella sua dimensione procedimentale di persona offesa, nell’alveo dei soggetti ammessi ad alimentare, in modo immediato, diretto ed effettivo, le dinamiche caratterizzanti il contraddittorio processuale, ed in ultima analisi, ad esercitare promo domo sua, il diritto di difesa.[41]

Nello specifico, il D.lgs. n. 150/2022 ha apportato all’art. 90 bis, comma 1, le seguenti modifiche: 1) dopo la lettera a) sono inserite le seguenti: «a-bis) all’obbligo del querelante di dichiarare o eleggere domicilio per la comunicazione e la notificazione degli atti del procedimento, con l’avviso che la dichiarazione di domicilio può essere effettuata anche dichiarando un indirizzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato»; a-ter) alla facoltà del querelante, ove non abbia provveduto all’atto di presentazione della querela, di dichiarare o eleggere domicilio anche successivamente; a-quater) all’obbligo del querelante, in caso di mutamento del domicilio dichiarato o eletto, di comunicare tempestivamente e nelle forme prescritte all’autorità giudiziaria procedente la nuova domiciliazione; a-quinquies) al fatto che, ove abbia nominato un difensore, il querelante sarà domiciliato presso quest’ultimo; che, in mancanza di nomina del difensore, le notificazioni saranno eseguite al querelante presso il domicilio digitale e, nei casi di cui all’articolo 148, comma 4, presso il domicilio dichiarato o eletto; che, in caso di mancanza, insufficienza o inidoneità della dichiarazione o elezione di domicilio, le notificazioni al querelante saranno effettuate mediante deposito presso la segreteria del pubblico ministero procedente o presso la cancelleria del giudice procedente;»; 2) alla lettera n) le parole: «, o attraverso la mediazione» sono soppresse; 3) dopo la lettera n) è inserita la seguente: «n-bis) al fatto che la mancata comparizione senza giustificato motivo della persona offesa che abbia proposto querela all’udienza alla quale sia stata citata in qualità di testimone comporta la remissione tacita di querela;»; 4) alla lettera p), dopo le parole: «alle vittime di reato» il segno di interpunzione «.» è sostituito dal seguente: «;»; 5) dopo la lettera p) sono aggiunte le seguenti: «p-bis) alla facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa; p-ter) al fatto che la partecipazione del querelante a un programma di giustizia riparativa, concluso con un esito riparativo e con il rispetto degli eventuali impegni comportamentali assunti da parte dell’imputato, comporta la remissione tacita di querela.»;”.

Tali modifiche sono state rese necessarie per arricchire il corredo di informazioni volte ad assicurare alla persona offesa dal reato di partecipare in modo informato, consapevole e attivo al procedimento.

Si tratta di un ampliamento del catalogo di informazioni dovute alla persona offesa che si rende opportuno, onde assicurare la coerenza tra le modifiche qui proposte e lo statuto di garanzie informative che l’ordinamento ha assegnato alla persona offesa, recependo la «Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI».[42]

In particolare, occorreva conformare l’ordinamento al dettato dell’art. 4 § 1, lett. B) della Direttiva vittime (che prevede che gli Stati membri abbiano il dovere di dare informazioni in merito alle “procedure per la presentazione di una denuncia relativa ad un reato e il ruolo svolto dalla vittima in tali procedure) e degli artt. 5 e 6 della medesima direttiva (art. 5, Diritti della vittima al momento della denuncia; art. 6, Diritto di ottenere informazioni sul proprio caso)”, posto che le “ulteriori informazioni che – con la modifica dell’art. 90 bis c.p.p. – debbono essere indirizzate alla persona offesa sono infatti funzionali: a) a rendere il querelante edotto delle possibili conseguenze derivanti dalla mancata dichiarazione o elezione di domicilio, esplicitando così la volontà del legislatore di rendere la persona offesa attivamente responsabile rispetto alla propria partecipazione al procedimento penale; b) a rendere il querelante edotto delle conseguenze derivanti dalla ingiustificata mancata comparizione del querelante all’udienza in cui egli sia citato a comparire come testimone”.

Giova, da ultimo, segnalare una lacuna legis, ovverosia la mancanza di sanzioni processuali, non avendo l’art. 90 bis previsto alcuna espressa sanzione di nullità per la violazione degli oneri informativi ivi elencati. Tale lacuna potrebbe rendere poco efficace la norma in quanto – ad eccezione del mancato avviso della richiesta di archiviazione, espressamente regolato dall’art. 410 bis – il sistema informativo dovrebbe restare nel limbo degli accidenti irrilevanti sul piano processuale.[43]

5.2. Informazioni alla vittima (art. 90 bis.1). 

Infine, la riforma Cartabia ha inserito, all’interno del codice di rito penale, l’art. 90 bis.1, rubricato “Informazioni alla vittima di cui all’articolo 42, comma 1, lettera b), del decreto legislativo attuativo della legge 27 settembre 2021, n. 134”.

Siamo nell’ambito della giustizia riparativa il cui obiettivo è quello di una composizione stragiudiziale del conflitto che ha dato origine al reato e gli artt. 42-67 D.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (d’ora in poi semplicemente “decreto”) costituiscono quello che è stato definito il “codice della giustizia riparativa”.[44] L’art. 42, comma 1, del decreto fa rientrare nella giustizia riparativa «ogni programma che consente alla vittima del reato, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore».[45]

I programmi di giustizia riparativa a cui possono partecipare tali soggetti sono previsti dall’art. 53 del decreto e comprendono: 1) la mediazione tra vittima del reato e persona indicata come autore dell’offesa, anche estesa ai gruppi parentali ed anche alla vittima di un reato diverso da quello per cui si procede; 2) il dialogo riparativo; 3) ogni altro programma dialogico guidato da mediatori, svolto nell’interesse della vittima del reato e della persona indicata come autore dell’offesa.[46] Ben si comprende come “scopo” della giustizia riparativa sia quello di promuovere la “riparazione” del rapporto tra vittima e reo, attraverso procedimenti e strumenti diversi da quelli tipizzati nei procedimenti penali.[47]

Ciò premesso, l’art. 90 bis.1 c.p.p. sancisce che la vittima del reato, sin dal primo contatto con l’autorità procedente, deve essere informata in una lingua a lei comprensibile della facoltà di svolgere un programma di giustizia riparativa. Si riconosce così anche a tale soggetto, ove non coincida con la persona offesa, il diritto di essere parte del programma di giustizia riparativa.[48]

Dunque, la norma di nuovo conio si inserisce nel contesto di un più ampio disegno normativo, volto alla introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa.[49] Sullo sfondo si pone la necessità di assicurare l’accesso ai programmi di giustizia riparativa nel corso del procedimento e non solo quale strumento di risoluzione del conflitto nella fase esecutiva.[50]

Le difficoltà, per quel che interessa in questa sede, risiedono nella corretta individuazione del concetto di “vittima”, termine poco gradito e poco utilizzato nel nostro ordinamento ma che circola da tempo nella legislazione europea.[51]

Da un lato, per la direttiva europea “vittima” è la “persona fisica che abbia subito un danno, anche fisico, mentale o emotivo o perdite economiche che siano stati causati direttamente dal reato”. La definizione abbraccia un ventaglio di posizioni molto ampio, comprendendo sicuramente anche il mero danneggiato.

Dall’altro, il D.lgs. n. 150/2022 ha fornito una definizione di vittima, anzi una “nuova definizione”, da utilizzarsi solo in materia di giustizia riparativa, identificandola con la persona fisica che abbia subito qualsiasi danno, dunque patrimoniale e non patrimoniale, nonché il familiare nel caso di morte (art. 42, comma 1, lett. b). La nozione di vittima non coincide esattamente con le figure note al nostro ordinamento di persona offesa e di persona danneggiata o di parte civile. Sembrerebbe riferirsi soprattutto alla persona danneggiata ma poi, all’ultimo comma, si opera una estensione di campo, prevedendo che “i diritti e le facoltà attribuite alla vittima del reato sono riconosciuti anche al soggetto giuridico offeso dal reato”.[52] Ma vi è un dato che maggiormente colpisce e che si pone in senso innovativo sia rispetto alla legge delega sia rispetto alle norme che fino ad oggi si sono occupate di fornire una definizione di vittima: è chiamata a partecipare al processo riparativo anche la persona offesa di un “reato diverso” da quello per cui si procede o per cui si avvia il programma. Questa scelta – si legge nella relazione – costituisce un valore aggiunto della giustizia riparativa rispetto alla giustizia penale convenzionale. Tale soggetto nella relazione è anche definito come “vittima aspecifica” o “vittima surrogata”.

6. La fragile tenuta del tradizionale assetto triadico del processo accusatorio.

L’unica, tra le modifiche qui esaminate della riforma Cartabia, che potrebbe spostare i già fragili equilibri tra i soggetti nel processo penale è quella relativa alla apertura delle porte del nostro sistema processuale penale alla giustizia riparativa.  

Fulcro del problema è il processo di rafforzamento del ruolo della persona offesa, fortemente voluto dall’Europa ed oggi indiscutibilmente potenziato dal nuovo meccanismo di definizione della vicenda giudiziaria.

Già da tempo, l’Europa ha riconosciuto la vittima come soggetto titolare di interessi da proteggere nel procedimento penale, prima con la decisione quadro 2001/220/GAI, poi, e più incisivamente, con la già citata direttiva 2012/29/UE[53] (c.d. “direttiva vittime”, attuata nell’ordinamento interno con il D.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212). L’idea è che il reato, oltre a costituire «un torto alla società», violi i diritti individuali delle vittime (considerando n. 9 della direttiva) cosicché è stato approntato un vero e proprio apparato di garanzie costruite allo scopo di salvaguardarle nel processo e dal processo.

Nel conformarsi a tali direttive, il nostro ordinamento processuale ha provveduto a garantire la tutela all’offeso dal reato, dapprima sotto il profilo della sua protezione “dal” e “nel” processo, più di recente aprendo alla prospettiva della soddisfazione dell’esigenza di riparazione, attraverso l’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa.  

Partiamo però dalle scelte intraprese dal legislatore nel lontano 1988.

Il ruolo della vittima – nell’assetto originario del codice – era marginale, soprattutto nella “fase delle indagini preliminari”. Successivamente, condivisibili esigenze di protezione – avvertite soprattutto in ambito sovranazionale – hanno innestato un lungo processo di rafforzamento del ruolo della persona offesa la quale, progressivamente, ha visto consolidare in maniera sempre più incisiva il proprio ruolo all’interno della dinamica procedurale. Come efficacemente rilevato, se la formulazione originaria del codice 1988 le attribuiva un residuale potere di iniziativa e di contributo alle indagini, successivamente, sia con l’intervento legislativo del 2015 (D.Lgs. n. 212/ 2015) sia con la L. n. 103/2017, sono stati maggiormente ampliati i suoi poteri partecipativi e la funzione di stimolo e controllo sull’attività del pubblico ministero e su quella del giudice delle indagini preliminari. L’offeso dal reato è diventato un interlocutore dell’accusa e del giudice, pur non essendo una parte del processo e i poteri suindicati gli vengono attribuiti in quanto titolare dell’interesse protetto dalla norma penale violata; sembra essere, pertanto, in questo rimodellato quadro legislativo, il soggetto emergente delle indagini preliminari.[54]

Il livello di protezione, poi, si eleva ulteriormente qualora la vittima del reato rientri anche nel novero dei cd. “soggetti vulnerabili”.[55] La vulnerabilità, intesa come situazione di svantaggio da taluno patita[56], costituisce uno status che il nostro ordinamento riconosce a quel soggetto che, per alcune caratteristiche e peculiarità, si manifesta più debole del dovuto, dunque, esposto al rischio di subire violazioni.[57] Si tratta di una adeguata protezione indispensabile per dare voce ai diritti e così la tutela del soggetto vulnerabile finisce con l’aprire lo spiraglio ad una giustizia che sappia guardare oltre la retribuzione e la distribuzione.[58] 

Ben chiare le ragioni di protezione ma bisogna mettere in conto che la tutela offerta a tali soggetti, in alcuni casi, può riverberarsi su terreni estremamente delicati. Si pensi, tanto per fare un esempio, a quello della prova, in cui le dichiarazioni della persona vulnerabile vengono assunte, di regola, al riparo da sguardi indiscreti, senza pubblicità, nelle segrete stanze dell’incidente probatorio. Ciò significa che «in silenzio e segretamente il contraddittorio risulta attutito dall’esigenza di tutelare la fonte di prova vulnerabile».[59] Vi è, inoltre, un’ulteriore criticità: quella della difficile individuazione dei soggetti ascrivibili alla categoria dei “vulnerabili”. È una questione aperta all’interpretazione, avendo il legislatore fatto indifferentemente riferimento ai minorenni in quanto tali, ai minorenni vittime di reati sessuali, ai maggiorenni sempre vittime di reati sessuali, a persone che hanno un deficit cognitivo e alle donne vittime di certi reati a sfondo sessuale o intra familiare.[60] 

A prescindere dalla vulnerabilità, non va poi sottovalutato un altro dato: attesa la forte incidenza della costituzione di parte civile sulle dinamiche e sull’esito dell’accertamento, la persona offesa, che sia anche soggetto “danneggiato” dal reato, vede indiscutibilmente accrescere la propria posizione nella “fase processuale”. La parte civile, infatti, non si limita a introdurre la domanda risarcitoria, ma diviene inevitabilmente una vera e propria accusa privata interessata all’accertamento della responsabilità penale dell’imputato quale presupposto della responsabilità civile. Tale accusa privata, avendo un “interesse personale e diretto” alla condanna dell’imputato, risulta spesso più accanita di quella pubblica, finendo per generare un evidente squilibrio fra le parti processuali: una difesa a fronte di due accusatori, uno pubblico e uno privato.

In sintesi, l’interesse della persona offesa non è più solo quello che sia avviato l’accertamento dei fatti così da vedere realizzata la propria pretesa punitiva. Non è soltanto quello di ricevere tutela “dal” e “nel” processo, sul presupposto che esso possa rivelarsi esperienza suscettibile di acuire il trauma dell’illecito subito. Ora, a questi interessi, se ne è aggiunto un altro: quello di ricevere una riparazione dell’offesa patita e, a questo specifico fronte di protezione, apre la giustizia riparativa.

Ciò posto, una politica poco attenta alle esigenze di protezione dell’accusato ed eccessivamente proiettata verso un percorso di rafforzamento del ruolo della vittima, finirebbe col nuocere al sistema.

Si finirebbe con lo spostare eccessivamente il baricentro del processo in direzione (e dalla parte) della vittima, destabilizzando il tradizionale assetto triadico del nostro processo penale: un assetto fondato sulla dialettica pubblico ministero-imputato-giudice.

La preoccupazione è che proprio l’apertura delle porte del processo penale alla “giustizia riparativa”, possa significativamente stravolgere questo delicato assetto triadico del nostro processo a chiara vocazione accusatoria.[61] L’accesso alla giustizia riparativa, per l’accusato che intende accedervi, è, di fatto, rimesso nelle mani della vittima; a confermare il dato sono le fonti eurocomunitarie (art. 12, comma 1, lett. a, direttiva 2012/29/UE): «si ricorre ai servizi di giustizia riparativa soltanto se sono nell’interesse della vittima, in base ad eventuali considerazioni di sicurezza, e se sono basati sul suo consenso libero e informato, che può essere revocato in qualsiasi momento». Traspare, dunque, una netta finalizzazione della giustizia riparativa a tutela esclusiva della vittima.

Inoltre, la restorative justice appare incompatibile con la presunzione di non colpevolezza, essendo prevista come condizione essenziale per l’avvio del relativo procedimento che «l’autore del reato [abbia] riconosciuto i fatti essenziali del caso».[62] Si tratta di un istituto di favore e di garanzia per la vittima al quale l’imputato accede solo riconoscendo la propria responsabilità.[63]      

In definitiva, in tale sede, non c’è attività cognitiva, il reato resta sullo sfondo, venendo alla ribalta la relazione umana che si stabilisce tra le parti in conflitto che partecipano ai programmi esprimendo il loro consenso. Il rischio che si corre è quello di dare la stura ad una “giustizia differenziata” che varia da imputato ad imputato, a seconda dello stato della vittima, compassionevole o vendicativa, povera o ricca, collaborativa o non collaborativa.[64]    


[1] A spingere verso esigenze di riforma anche la presa di consapevolezza dell’arretramento competitivo dei livelli di servizio italiani rispetto ai sistemi giudiziari di altri Paesi.

[2] Per una più accurata analisi del profilo in questione, si rinvia a G. Canzio, Il modello “Cartabia”: una riforma di sistema tra rito e organizzazione, in Riforma Cartabia: indagini preliminari e processo penale, I libri di Guida al Diritto, 2023, p. 7 ss. Per una visione d’insieme si consigliano i recentissimi volumi: Aa.Vv., “Riforma Cartabia” e rito penale. La legge delega tra impegni europei e scelte valoriali, a cura di A. Marandola, Milano, 2022, p. 1 ss.; Aa.Vv., Riforma Cartabia. La nuova giustizia penale, a cura di D. Castronuovo–M. Donini–E.M. Mancuso–G. Varraso, Cedam, Padova, 2023, p. 1 ss.

[3] Gli obiettivi che la l. n. 134 del 2021 intende perseguire, chiari sin dalla intitolazione della legge stessa, sono la ragionevole durata del procedimento e il decongestionamento dell’ormai straripante carico giudiziario. Numerose novelle abbattutesi, senza soluzione di continuità, sull’ordito codicistico, in circa un trentennio, hanno sortito effetti assai poco incoraggianti su questo terreno: basti pensare alla l. 23 giugno 2017, n. 103 (c.d. Riforma Orlando), parimenti tesa a garantire la deflazione e il recupero del processo a una durata ragionevole.

[4] Sulla delicata problematica si rinvia, ex multis, a M. Chiavario, «Cultura italiana» del processo penale e Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo: frammenti di appunti e spunti per una “microstoria”, in Riv. Internaz. Dir. Uomo, 1990, p. 433 ss.; G. Conso, Costituzione e processo penale: dodici anni di pagine sparse (1956-1968), Milano, 1969, p. 39 ss.; In tal senso, G. Coretti, La ragionevole durata delle indagini alla luce della riforma Cartabia: nihil sub (italico) sole novum, in Arch. Pen., n. 2, 2022; V. Fanchiotti, La durata del processo tra l’inidoneità degli strumenti interni e la prospettiva europea, in Dir. Pen. Cont., 7 febbraio 2012; D. Vicoli, La ragionevole durata delle indagini, Torino, 2012, p. 35 ss.; C. Marinelli, Ragionevole durata e prescrizione del processo penale, Torino, 2016, p. 3 ss. Sui lunghi tempi del processo, poi, è d’obbligo ricordare che la Corte di Strasburgo, fin dal 1999, ha riconosciuto che in Italia esiste una prassi incompatibile con la Convenzione in materia di ragionevole durata dei processi. Si legge in Corte EDU, Grande Camera, 28 luglio 1999, ric. n. 34884/97, Bottazzi c. Italia, § 22, «The Court next draws attention to the fact that since 25 June 1987, the date of the Capuano v. Italy judgment (Series A no. 119), it has already delivered 65 judgments in which it has found violations of Article 6 § 1 in proceedings exceeding a “reasonable time” in the civil courts of the various regions of Italy. Similarly, under former Articles 31 and 32 of the Convention, more than 1,400 reports of the Commission resulted in resolutions by the Committee of Ministers finding Italy in breach of Article 6 for the same reason. The frequency with which violations are found shows that there is an accumulation of identical breaches which are sufficiently numerous to amount not merely to isolated incidents. Such breaches reflect a continuing situation that has not yet been remedied and in respect of which litigants have no domestic remedy».

[5] In quest’ottica, il processo penale può essere descritto come la disciplina dei limiti imposti dalla legge (processuale) al potere statuale nell’amministrazione della giustizia penale per garantire il rispetto di diritti pari o addirittura superiori al valore rappresentato dall’accertamento delle responsabilità e dalla conseguente punizione dei colpevoli. Con ciò non si vuole negare che il processo venga celebrato allo scopo di ricostruire il fatto-reato e di accertare, tanto in positivo quanto in negativo, l’eventuale responsabilità penale dell’imputato; si vuole solo sottolineare come il processo abbia in sé una connotazione ulteriore rappresentata dalla finalità di assicurare la tutela di interessi e diritti che potenzialmente entrano in conflitto con l’obiettivo della concreta repressione dei reati. La finalità cognitiva e l’accertamento delle responsabilità devono dunque essere contemperati alla garanzia dei diritti fondamentali, in primo luogo, dell’imputato che direttamente e personalmente subisce la pretesa punitiva dello Stato. In tal senso O. Mazza, I protagonisti del processo, in Procedura Penale, VII Ed., Giappichelli, Torino, 2021, p. 53 ss. 

[6] Sono titolari di situazioni giuridiche soggettive che acquistano rilevanza con il sorgere del procedimento: 1) il “giudice” che ha il dovere di pronunciare una decisione; 2) il “pubblico ministero” e la “polizia giudiziaria” che hanno il dovere di svolgere, secondo le rispettive attribuzioni, le attività necessarie al fine di promuovere la pronuncia di una decisione del giudice; 3) l’ “imputato” (visto anche nella prodromica figura di persona sottoposta alle indagini) ed il “civilmente obbligato per la pena pecuniaria” che hanno diritto di intervenire ed interloquire nella prospettiva di difendersi; 4) la “persona offesa dal reato” che ha il potere di intervenire in relazione alle attività poste in essere dal pubblico ministero; 5) la “parte civile” e il “responsabile civile” che hanno il diritto, rispettivamente, di avanzare e di contrastare le pretese di natura civilistica dirette ad ottenere una decisione giudiziale in materia di obbligazioni risarcitorie nascenti dal reato.     

[7] Così, G. Tranchina-G. Di Chiara, Le “persone” nella struttura del processo penale, in Diritto processuale penale, a cura di Siracusano-Galati-Tranchina-Zappalà, Giuffrè, Milano, 2018, p. 30.   

[8] Si tratta della direttiva 2012/29/UE che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione della vittima di reato. Per una visione d’insieme sul ruolo della vittima nel sistema di giustizia penale europeo cfr., in una vastissima letteratura, C. Amalfitano, L’azione dell’Unione europea per la tutela delle vittime di reato, in Dir. un. eur., 2011, p. 643 ss.; E.M. Catalano, La tutela della vittima nella Direttiva 2012/29/UE e nella giurisprudenza delle Corti europee, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2014, p. 1791 ss.; E.N. La Rocca, La tutela della vittima, in Regole europee e processo penale, a cura di Chinnici-Gaito, Milano, 2018, p. 145;L. Lupária, Lo statuto europeo delle vittime di reato. Modelli di tutela tra diritto dell’Unione e buone pratiche nazionali, Milanofiori Assago, 2015; Id., L’Europa e una certa idea di vittima (ovvero come una direttiva può mettere in discussione il nostro modello processuale), in L’integrazione europea attraverso il diritto processuale penale, a cura di Mastroianni, Savy, Napoli, 2013, p. 91 ss.; G. Ranaldi, Parte civile e processo de societate: profili di un’esclusione ragionevole, in Arch. Pen., 2013, p. 459 ss.; D. Savy, La vittima dei reati nell’Unione europea – le esigenze di tutela dei diritti fondamentali e la complementarietà della disciplina penale e civile, Milano, 2013.  

[9] Il participio «imputato» potrebbe indurre a pensare ad una posizione passiva, quella di chi subisce l’imputazione, mentre il termine difesa sicuramente rende meglio l’idea della contrapposizione all’accusa sostenuta dal pubblico ministero. Nei sistemi genuinamente adversary, come quello statunitense, infatti, non si usa il termine imputato, bensì defendant per meglio identificare il soggetto chiamato a difendersi. La figura dell’imputato è dunque inscindibilmente connessa ai diritti fondamentali che in ragione del suo status gli sono riconosciuti, primo fra tutti il diritto di difesa (si veda, O. Mazza, I protagonisti del processo, in Procedura Penale, VII Ed., Giappichelli, Torino, 2021, p. 125).

[10] In realtà, la portata della equiparazione è meno ampia di quanto lasci intendere il dato testuale, non essendo possibile una completa equiparazione tra imputato e indagato in quanto gli strumenti difensivi devono necessariamente essere rapportati ai diversi caratteri, soprattutto in punto di regime di utilizzabilità e conoscibilità degli atti (per ulteriori spunti sulla osservazione, si rinvia a R. Kostoris, Sub art. 61 c.p.p., in Comm. Chiavario, I, p. 310).     

[11] Il capoverso della citata norma, infatti, estende all’indagato “ogni altra disposizione relativa all’imputato, salvo che sia diversamente stabilito”. Ne consegue, per esempio, che le misure cautelari, previste per l’imputato, possono essere applicate all’indagato purché naturalmente, siano presenti i requisiti necessari per emanare il relativo provvedimento.     

[12] Nell’espletamento della delicata funzione inquirente, assume una certa importanza l’art. 358 c.p.p. in forza del quale «il pubblico ministero […] svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini», così restando delineati i contorni di una sorta di parte imparziale (per usare la terminologia classica) che ha il dovere di indagare non soltanto sui fatti a sostegno dell’esercizio dell’azione penale, ma su tutto ciò che attiene alla vicenda storica, quindi anche sulle circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini. E questo non è un enunciato puramente enfatico: il pubblico ministero ha l’obbligo istituzionale di individuare tutto quanto concerne i reati ed i responsabili (le indagini possono essere considerate adeguate solo se e quando siano condotte in modo da risultare orientate al fine di acquisire, oltre le prove a carico, anche quelle a discarico dell’accusato). 

[13] Non può sottacersi come ai fini del passaggio dalla veste di indagato a quella di imputato assuma un certo peso la fase investigativa. L’esperienza, infatti, insegna che le basi per una imputazione capace di trasformarsi in sentenza di condanna si costruiscono proprio nel corso della fase investigativa e le indagini preliminari rappresentano un momento fondamentale del percorso di accertamento dei fatti di reato: esse fondano la richiesta di rinvio a giudizio e determinano lo svolgimento del processo, nel senso che costituiscono il principale canale di alimentazione dell’ipotesi accusatoria e delle prove che saranno poi assunte in dibattimento tramite il contraddittorio e che andranno a formare la piattaforma su cui basare la decisione. Prima del processo non si hanno prove in senso tecnico, essendo gli elementi raccolti nella fase investigativa frutto di una iniziativa di parte (quella pubblica) perlopiù segreta e spesso priva del contributo – spontaneo e consapevole – dell’indagato. Ciò che manca è un vaglio da parte del giudice. Si tratta cioè di atti “preprocessuali” che non costituiscono prova ma si limitano ad acquisirne le fonti, salvi i casi di atti con particolare efficacia anche nel dibattimento che sono soggetti a particolari forme.

[14] Non esaustività accentuata a seguito dell’art. 4, comma 1, lett. a), l. 28 aprile 2014, n. 67 che ha introdotto l’art. 464 ter, comma 2, senza procedere ad alcun intervento correttivo dell’art. 60: con il consenso alla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, avanzata nel corso delle indagini preliminari dalla persona sottoposta alle indagini, il pubblico ministero formula la imputazione ed esercita l’azione penale, con la conseguente attribuzione della qualifica di imputato al soggetto nei cui confronti si procede.

[15] Art. 20, D.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, come modificato dall’art. 17, D.L. 27 luglio 2005, n. 144, recante misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale.

[16] Art. 27, D.lgs. 28 agosto 2000, n. 274. In questa ultima ipotesi, si prevede una “struttura a fattispecie complessa”, in cui, esclusa l’integrazione di un’azione privata a tutti gli effetti, vi è uno scollamento tra la domanda di giudizio effettuata dalla persona offesa, l’esercizio dell’azione penale da parte dell’organo dell’accusa ai sensi dell’art. 35, D.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 e l’acquisto dello status di imputato, che avviene con la notifica del decreto di convocazione delle parti. 

[17] È d’obbligo una precisazione: in caso di inammissibilità dell’impugnazione, la qualifica di imputato cessa quando l’ordinanza di inammissibilità non sia più soggetta a ricorso (art. 591).

[18] È altresì controverso se ciò determini un ritorno alla fase delle indagini preliminari oppure la conclusione del processo, preludendo all’eventuale apertura di un altro.

[19] Si veda, O. Dominioni, Sub. art. 60, in Comm. Amodio-Dominioni, I, p. 388.

[20] Non vanno, poi, dimenticate ulteriori ipotesi – non contemplate però all’interno dell’art. 60 – di riviviscenza dello stato di imputato: 1) quello della revoca ai sensi del capoverso dell’art. 69 della sentenza con cui, ai sensi del precedente comma, si è dichiarato estinto il reato per morte dell’imputato, qualora successivamente si accertasse l’erroneità della dichiarazione; 2) quello di ricorso straordinario per errore materiale o di fatto ex art. 625 bis, a seguito di fissazione dell’udienza camerale; 3) quello di restituzione del termine per proporre impugnazione od opposizione ex art. 175.

[21] Abbiamo visto come con il nuovo codice sia stata attribuita alla persona offesa la qualifica di “soggetto” del procedimento penale (art. 90). La qualifica di “parte” le viene riconosciuta soltanto se, nella veste di danneggiato dal reato, la persona offesa abbia esercitato l’azione risarcitoria, costituendosi parte civile (art. 78).

[22] La costituzione di parte civile consiste, appunto, nell’esercizio dell’azione civile nella sede processuale penale, anziché in quella propria civile, volta a ottenere il riconoscimento di un danno derivante dal reato e la conseguente riparazione nelle forme del risarcimento o della restituzione. La pretesa risarcitoria può investire sia il danno patrimoniale (art. 2043 c.c.), così definito in quanto commisurabile economicamente, espresso nelle forme del danno emergente, ossia della perdita, distruzione o danneggiamento di un bene facente parte del patrimonio del soggetto, e del lucro cessante, inteso come perdita di un potenziale guadagno; sia il danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.), detto anche danno morale, rappresentato dalle sofferenze psichiche patite in conseguenza della commissione del reato, il quale per sua natura sfugge a ogni valutazione in termini di esatta quantificazione economica.

[23] Giova ricordare che la costituzione di parte civile, prevista anche nel procedimento penale militare in seguito all’intervento della Corte costituzionale (Corte Cost., sent. n. 60 del 1996), non è ammessa nel processo penale a carico di imputati minorenni (art. 10 d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448) ed è di dubbia praticabilità nel processo a carico degli enti ex d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. La legittimazione alla costituzione di parte civile non riguarda solo le persone fisiche, ma anche enti o associazioni dotati o privi di personalità giuridica che abbiano subito un danno dal reato. Vanno aggiunti anche i successori universali del danneggiato, a cui sono assimilati i conviventi more uxorio (cfr. art. 90, comma 3), e una serie di soggetti che trovano legittimazione in apposite disposizioni di leggi speciali.

[24] Quando il danneggiato è un ente o un soggetto non personificato, accanto alla denominazione, devono essere aggiunte le generalità della persona fisica che ne ha la legale rappresentanza.

[25] Se sono ignote le generalità dell’imputato, è previsto che l’identificazione possa avvenire attraverso la menzione delle altre qualificazioni che servano ad individuarlo. Seguendo una logica sostanzialistica, la giurisprudenza ha chiarito che è ammissibile la costituzione di parte civile formalizzata facendo riferimento alla generalità degli imputati di una specifica imputazione, poiché destinatari dell’azione civile sono identificabili “ex actis” senza incertezze (Cass. Pen., Sez. II, 30 aprile 2015, n. 34147, in CED n. 264626).  

[26] Sul punto, è stato precisato che è sufficiente il mero richiamo al capo di imputazione descrittivo del fatto, allorquando il nesso tra il reato contestato e la pretesa risarcitoria azionata risulti con immediatezza (Cass. Pen., Sez. II, luglio 2020, n. 23940, in CED n. 279490-01; Cass. Pen., Sez. VI, 22 giugno 2017, n. 41768).

[27] Non è necessario quantificare i danni, ben potendo la parte civile fornire prova del quantum risarcitorio anche nella fase dibattimentale.

[28] Cass. Pen., Sez. Un., 21 dicembre 2017, Zucchi e altri.

[29] Come affermato dal Collegio esteso, “il sostituto processuale del difensore al quale il danneggiato abbia rilasciato procura speciale al fine di esercitare l’azione civile nel processo penale non ha la facoltà di costituirsi parte civile, salvo che detta facoltà sia stata espressamente conferita nella procura ovvero che la costituzione in udienza avvenga in presenza del danneggiato, situazione questa che consente di ritenere la costituzione come avvenuta personalmente” (Cass. Pen., Sez. Un., 21 dicembre 2017, Zucchi e altri).

[30] Il danneggiato ha diritto di costituirsi parte civile per l’udienza preliminare ma non necessariamente nella udienza. Può costituirsi anche anteriormente alla celebrazione della udienza, con l’unico limite, imposto dall’art. 74, che il soggetto nei cui confronti è intentata l’azione, abbia già assunto la qualità di imputato. Non mancano, tuttavia, decisioni più rigorose che ammettono la costituzione solo a partire dalla udienza preliminare (Cass. Pen., Sez. III, 30 settembre 1992, in CED n. 192200), le quali hanno anche incontrato il favore di parte della dottrina (A. Pennisi, Parte civile, EdD-Agg. I, Milano, 1997, p. 783).

[31] La giurisprudenza di legittimità si è occupata anche dell’incidenza dei vizi dell’atto di esercizio dell’azione penale su quello di esercizio dell’azione civile, chiarendo che la dichiarazione di nullità del decreto di giudizio immediato non comporta la necessità della reiterazione della già effettuata costituzione di parte civile (Cass. Pen., Sez. I, 24 ottobre 2018, n. 54604 in CED n. 274670-01). Analogamente, qualche anno prima, la medesima Corte aveva precisato che la nullità del decreto che dispone il giudizio non comporta la nullità della costituzione di parte civile, posto che tra tali atti non sussiste quel rapporto di consecutività e dipendenza previsto dall’art. 185 (Cass. Pen., Sez. V, 19 novembre 2010, n. 11783, in CED n. 249976).  

[32] Cass. Pen., Sez. VI, 3 marzo 1997, p.m. in c. Burlin, in CED n. 208200; Cass. Pen., Sez. IV, 18 febbraio 1994, Quattromini, in Giust. Pen., 1994, III, p. 105.

[33] Viene comunemente definita “persona offesa dal reato” il titolare dell’interesse giuridico protetto, anche in modo non prevalente, dalla norma incriminatrice violata.

[34] Per una panoramica sulla persona offesa nel previgente codice di rito penale, si rinvia, su tutti, a M.G. Aimonetto, Persona offesa dal reato, EdD, XXXIII, Milano, 1983, p. 318; A. Giarda, Persona offesa dal reato nel processo penale, Milano, 1971.  

[35] Sulle principali differenze tra i principali modelli processuali che si sono susseguiti nel tempo, quello inquisitorio e quello accusatorio, si vedano G. Illuminati, «Accusatorio e inquisitorio (sistema)», in Enc. Giur., I, Roma, 1991; N. Luhmann, Sistema giuridico e dogmatica giuridica, inTrad. It., Bologna, 1978, p. 46; G. Pierro, «Sistema accusatorio e sistema inquisitorio», in Digesto Disc. Pen., XIII, Utet, Torino, 1997; G. Spangher, Processo penale tra modello inquisitorio e modello accusatorio, in Penale Diritto e Procedura, n. 2, 2022, p. 329 ss.

[36] Per una visione generale del ruolo della persona offesa nell’attuale codice di procedura penale, si vedano: L. Filippi, Il difficile equilibrio tra garanzie dell’accusato e tutela della vittima dopo il D.Lgs. n. 212/2015, in Dir. Pen. e Proc., 2016, p. 845; M. Gialuz, Il diritto alla giurisdizione dell’imputato e della vittima tra spinte europee e carenze dell’ordinamento italiano, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2019, p. 94; F.M. Grifantini, La persona offesa dal reato nella fase delle indagini preliminari, Napoli, 2012, p. 312; L. Luparia, Lo statuto europeo delle vittime di reato, Milano, 2015; G. Tranchina, La vittima del reato nel processo penale, in Cass. Pen., 2010, p. 4051.

[37] La suddetta distinzione tra “diritti” e “facoltà” assume un certo peso perché consente di escludere la prospettazione di questioni di invalidità rispetto al compimento di “atti neutri”.

[38] Si pensi, alla decisione quadro 2001/220/GAI e alla già menzionata direttiva 2012/29/UE (c.d. “direttiva vittime”, attuata nell’ordinamento interno con il D.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212).

[39] Esistono varie ipotesi di persona offesa di “creazione legislativa”. Ai sensi dell’art. 90, comma 3, c.p.p. qualora una persona sia deceduta in conseguenza del reato, le facoltà e i diritti previsti dalla legge in favore della persona offesa sono esercitati dai “prossimi congiunti” di essa, prescindendo dai diritti di natura civilistica derivanti dalla successione; pertanto la qualifica di offeso è attribuita anche a chi abbia rinunciato all’eredità. Sempre nel caso di persona deceduta in conseguenza del reato, le facoltà e i diritti previsti dalla legge sono esercitati anche dalla “persona alla medesima legata da una relazione affettiva e con essa stabilmente convivente”. Infine, ai sensi del nuovo ultimo comma dell’art. 572 c.p., aggiunto dalla legge cd. codice rosso, il minore di anni diciotto, che assiste ai maltrattamenti contro familiari e conviventi, è considerato persona offesa dal reato. 

[40] La norma è stata introdotta dal D.lgs. n. 212 del 2015 e successivamente modificata dalla l. n. 103 del 2017, dalla l. n. 69 del 2019 e, da ultimo, dal D.lgs. n. 150 del 2022.

[41] Sul punto si veda anche L. Saponaro, L’offeso dal reato, con le rafforzate garanzie, verso una nuova identità, in Dir. Pen. e Proc., 2021, 11, p. 1542 ss. la quale evidenzia come l’offeso dal reato sia diventato, nel tempo, un attivo interlocutore dell’accusa e del giudice, conquistando un ruolo dialettico nel procedimento penale. Gli interventi legislativi recenti hanno ampliato i poteri di controllo della persona offesa sull’attività del pubblico ministero e del giudice per le indagini preliminari nell’ottica di un’ampliata tutela, a livello europeo, della vittima del reato.

[42] L’implementazione della direttiva ha, comunque, lasciato inalterate le distinzioni ontologiche e giuridiche tra persona offesa, mero titolare degli interessi lesi dal reato escluso dal novero delle parti, e danneggiato costituito parte civile. In dottrina, è stata segnalata l’asistematicità dell’intervento di riforma (H. Belluta, Il processo penale di fronte alla vittima particolarmente vulnerabile; aspirazioni (comunitarie) e aporie nazionali, in Spagnolo-Belluta-Bonini, Il d.lgs. 15.12.2015, n. 212, L. Pen 07/2016, p. 22) che, per quanto non releghi più la vittima a soggetto “dimenticato”, resta comunque “emarginata”, in quanto nell’asse “assistenza-informazione-partecipazione” manca una interazione tra supporto extraprocessuale e ruolo processuale (H. Belluta, Il processo penale di fronte alla vittima particolarmente vulnerabile; aspirazioni (comunitarie) e aporie nazionali, op. cit., p. 37).     

[43] Cfr. S. Ciampi, Il diritto di difesa e all’informazione, in Bargis-Belluta, Vittime di reato, Giappichelli, Torino, 2017, p. 260.

[44] Per i dovuti approfondimenti in tema di giustizia riparativa, si vedano L. Eusebi, Giustizia riparativa e riforma del sistema sanzionatorio penale, in Dir. Pen. Proc., 1, 2023, p. 79 ss.; R. Orlandi, Giustizia penale riparativa. Il punto di vista processuale, in Dir. Pen. Proc., 1, 2023, p. 87 ss.; G. Spangher, La giustizia penale verso la reparative justice, in Il Penalista, 4 marzo 2022.

[45] È l’art. 45 del decreto, nello specifico, a fornire l’elencazione dei soggetti che partecipano ai programmi di giustizia riparativa e, tra questi, il primo ad essere menzionato, è la vittima del reato. Segue, poi, “la persona indicata come autore dell’offesa” che, nell’eventuale, parallelo procedimento penale riveste il ruolo di imputato (o indagato); si fa poi riferimento ad altri soggetti eventuali, appartenenti alla “comunità”, esemplificati in “familiari, persone di supporto segnalate dalla vittima del reato e dalla persona indicata come autore dell’offesa, enti ed associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato, rappresentanti o delegati di Stato, Regioni, enti locali o di altri enti pubblici, autorità di pubblica sicurezza, servizi sociali”. L’elenco si chiude con una formula residuale che ammette come partecipante al programma “chiunque vi abbia interesse”.

[46] Non deve sfuggire un particolare di assoluto rilievo: l’art. 53 fornisce un’elencazione dei programmi di giustizia riparativa “aperta e non tassativa”, così lasciando spazi anche a programmi non espressamente menzionati.

[47] Le finalità della procedura riparativa sono: 1) riconoscere la vittima; 2) responsabilizzare l’autore dell’offesa; 3) superare il conflitto provocato da una condotta illecita, ricostruendo i legami con la comunità (cfr. art. 43, comma 2, del decreto). È stato rilevato coma la vera finalità sia quella indicata per ultima (ricostruire i legami con la comunità) mentre gli altri due “passaggi” (riconoscere la vittima e responsabilizzare l’autore dell’offesa) siano ad essa funzionali. La norma di cui all’art. 43, dunque, andrebbe letta come se fosse scritta così: “I programmi di giustizia riparativa tendono a promuovere il riconoscimento della vittima del reato, la responsabilizzazione della persona indicata come autore dell’offesa, al fine di ricostruire il legame con la comunità” (R. Orlandi, Giustizia penale riparativa. Il punto di vista processuale, op. cit., p. 88). Secondo tale dottrina, l’accento sulla “comunità”, quale destinataria dell’esito riparatorio, è essenziale se si vuol dare un significato proprio a questa dimensione della giustizia penale e coglierne la particolarità rispetto alla giustizia penale tradizionale, che continua invece ad avere nell’autorità statuale il suo esclusivo punto di riferimento.

[48] Il D.lgs. n. 150/2022, infatti, riconosce il diritto alla informazione in base al quale la vittima del reato e la persona indicata come autore dell’offesa, nonché i loro difensori, l’esercente la responsabilità genitoriale in caso di minore, gli eventuali tutori o curatori, devono essere informati dall’autorità giudiziaria della possibilità di accedere ad un programma di giustizia riparativa, specificando in maniera completa ed obiettiva quali siano i programmi effettivamente disponibili, le modalità di accesso e i possibili esiti, nonché i diritti e le garanzie riconosciuti ai partecipanti. La partecipazione dei soggetti, inoltre, deve essere “attiva” e “volontaria” ed il “consenso” validamente espresso. In favore degli alloglotti è previsto un diritto all’assistenza linguistica di un interprete, qualora questi non comprendano la lingua italiana. Infine, la materia è regolata dal principio dell’equa considerazione secondo cui la giustizia riparativa deve essere disciplinata nell’interesse sia della vittima del reato sia della persona indicata come autore dell’offesa.

[49] Il legislatore ha optato per la introduzione di una disciplina organica, che probabilmente in seguito potrà essere arricchita e migliorata. Meglio una disciplina organica piuttosto che singoli interventi di “trapianto” che avrebbero generato maggiore confusione. Le criticità affioreranno comunque e l’assoluta novità del prodotto normativo impone cautela. Sicuramente, su tanti aspetti sarà necessario l’intervento della giurisprudenza, ma piano piano prenderà corpo il nuovo statuto della giustizia riparativa. 

[50] È previsto, infatti, un illimitato accesso temporale alla giustizia riparativa, essendo la partecipazione alla procedura possibile “in ogni stato e grado del procedimento, anche in fase esecutiva” (v. art. 44 D.lgs. n. 150/2022).

[51] Sin dalla decisione quadro del Consiglio dell’Unione europea, n. 2001/220/GAI, la vittima viene individuata attraverso una correlazione diretta tra il danno subito e il reato stesso. Un rafforzamento della tutela della vittima si è poi registrato con la direttiva del Parlamento europea e del Consiglio del 25 ottobre 2012, n. 2012/29/UE, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI.

[52] Per una visione aggiornata del concetto di vittima, si veda C. Valentini, La vittima del reato sotto la lente della riforma Cartabia, in Giur. It., 2022, p. 984. 

[53] Si veda, S. Allegrezza, La riscoperta della vittima nella giustizia penale europea, in Allegrezza-Belluta-Gialuz-Lupária, Lo scudo e la spada. Esigenze di protezione e poteri delle vittime nel processo penale tra Europa e Italia, Torino, 2012, p. 7 ss. 

[54] In questo senso, L. Saponaro, L’offeso dal reato, con le rafforzate garanzie, verso una nuova identità, in Dir. Pen. e Proc., 2021, 11, p. 1542 ss.

[55] Il nostro codice di rito penale dedica un’intera norma alla condizione di particolare vulnerabilità, l’art. 90 quater, ai sensi del quale: «Agli effetti delle disposizioni del presente codice, la condizione di particolare vulnerabilità della persona offesa è desunta, oltre che dall’età e dallo stato di infermità o di deficienza psichica, dal tipo di reato, dalle modalità e circostanze del fatto per cui si procede. Per la valutazione della condizione si tiene conto se il fatto risulta commesso con violenza alla persona o con odio razziale, se è riconducibile ad ambiti di criminalità organizzata o di terrorismo, anche internazionale, o di tratta degli esseri umani, se si caratterizza per finalità di discriminazione, e se la persona offesa è affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall’autore del reato».

[56] Per un approfondimento sul concetto di vulnerabilità, si consiglia, ex multis, F. Trapella, La vittima della legalità violata. Spunti in tema di vulnerabilità, in Arch. Pen., n. 1, 2023, web, p. 1 ss. La vulnerabilità è qualifica tipicamente associata alla vittima del reato: a livello europeo, prim’ancora che interno, si sono elaborati meccanismi a tutela del soggetto passivo; per contro, sugli Stati grava l’obbligo di prevedere situazioni di potenziale rischio per l’offeso e di farvi fronte: con il lessico della Convenzione di Istanbul si parla di risk assessment e di risk management.

[57] In questi termini M. Bouchard, Sulla vulnerabilità nel processo penale, in www.dirittopenaleuomo.org.

[58] E. Levinas, Trascendenza e male, introduzione a NEMO, Job et l’excès du mal, Parigi, 1978. Il pensiero di Levinas è approfondito in Vergani, Vulnerabilità. Premesse fenomenologiche delle categorie giuridiche nel pensiero di Levinas, in Etica & Politica, 2020, 1, p. 563 ss. 

[59] O. Mazza, Il contraddittorio impedito di fronte ai testimoni vulnerabili, in Tradimenti di un codice. La procedura penale a trent’anni dalla grande riforma, Giappichelli, Torino, 2020, p. 81 ss. il quale rileva, inoltre, che «Lo spostamento dell’assunzione della testimonianza dei soggetti vulnerabili dal dibattimento all’incidente probatorio rappresenta plasticamente l’involuzione del metodo dialettico. Nell’incidente probatorio il contraddittorio è riplasmato dal legislatore e dalla prassi fino ad assumere la mera parvenza del confronto dialettico».   

[60] Nessuno nega l’importanza delle esigenze di protezione della vittima, ma ci si chiede se sia opportuno, atteso il vistoso e crescente interesse manifestato per il tema della vulnerabilità in ambito penale, portare tale concetto oltre la dimensione della persona offesa, così da riconoscere all’interno del nostro sistema processuale anche le figure di indagato, imputato e condannato vulnerabili. Sul tema, per i dovuti approfondimenti, si veda F. Trapella, La vittima della legalità violata. Spunti in tema di vulnerabilità, op. cit., p. 2.

[61] Sia consentito un rinvio ad A. Zampaglione, La delega in tema di “giustizia riparativa” tra principi costituzionali e criticità processuali, in Diritti Fondamentali, vol. 1, 2022, pubblicato 11 aprile 2022, p. 562-581 secondo cui il processo penale è nato come “luogo dell’accertamento del fatto”, luogo che per tradizione vede da sempre l’imputato protagonista, in positivo ed in negativo, della vicenda processuale. In “negativo” perché subisce le conseguenze negative del processo mentre in “positivo” perché portatore di diritti fondamentali (es. diritto di difesa) e fruitore di imprescindibili garanzie processuali (es. la presunzione di non colpevolezza). Nel tempo, poi, il processo penale è divenuto anche “strumento per contrastare” i fenomeni criminali di maggiore allarme sociale. Adesso, è in atto un complesso ed intricato iter per trasformarlo anche in “luogo istituzionale per ricucire” i rapporti tra vittima e autore del reato.   

[62] Così, art. 12, comma 1, lett. c, direttiva 2012/29/UE.

[63] Fermo restando questo fondamentale profilo (il riconoscimento della responsabilità), la presunzione di non colpevolezza appare violata anche sotto un altro aspetto: la giustizia riparativa presuppone una già intervenuta cristallizzazione dei ruoli, colpevole e vittima, che per la logica del processo penale non solo non possono essere affermati fino all’accertamento definitivo di responsabilità ma sono addirittura ribaltati dalla previsione costituzionale per cui l’imputato va considerato non colpevole e la vittima va presunta non tale o comunque non vittima dell’azione dell’imputato (Cfr. O. Mazza, I protagonisti del processo, in Procedura Penale, VIII Ed., Giappichelli, Torino, 2023, p. 74).   

[64] In tal senso, P. Dell’Anno, La giustizia riparativa sotto la lente di ingrandimento della Carta costituzionale: prime osservazioni, in Diritti Fondamentali, fasc. 3, 2023, pubblicato 5 settembre 2023 e A. Zampaglione, La delega in tema di “giustizia riparativa” tra principi costituzionali e criticità processuali, op. cit., p. 562-581.

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