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L’OMICIDIO (TENTATO?) DEL DELITTO DI ABUSO D’UFFICIO

Abstract: L’articolo, dopo un sintetico riepilogo delle modificazioni subite nel corso del tempo dalla fattispecie di cui all’art. 323 c.p. e delle ragioni che le hanno determinate (id est: i ripetuti eccessi interpretativi), analizza la radicale proposta di abolizione del delitto contenuta nel c.d. DDL Nordio. L’autore evidenzia l’insufficienza e l’erroneità concettuale dei motivi sottesi alla proposta, anche alla luce dell’interesse tutelato dalla norma in oggetto. Inoltre, critica l’inerenza del dato statistico, il silenzio sulla forma omissiva del delitto e, infine, segnala il rischio di un utilizzo surrogatorio di ben più gravi fattispecie di quella che si vuole cancellare.

THE (ATTEMPTED?) MURDER OF THE CRIME OF ABUSE OF OFFICE

Abstract: The article, after a brief summary of the changes undergone over time by the case in point, referred to in art. 323 of the Criminal Code, and the reasons that led to them (i.e.: the repeated interpretative excesses), analyzes the radical proposal for the abolition of the crime contained in the so-called Nordio Bill. The author highlights the insufficiency and conceptual error of the reasons underlying the proposal, also in light of the interest protected by the rule in question. In addition, it criticizes the inherence of the statistical data, the silence on the omissive side of the crime and, finally, points out the risk of a surrogate use of much more serious cases than the one that is intended to be deleted.

Sommario: 1. Sintesi della schizofrenica storia del delitto di abuso d’ufficio. – 2. In particolare, le fattispecie del 1997 e del 2020. – 3. Il bene giuridico tutelato dall’art. 323 c.p. – 4. Il disegno di legge Nordio. – 5. L’irragionevolezza delle ragioni della proposta di abolizione, anche alla luce della funzione della norma (e della corrispondente sanzione) penale. – 6. L’inconcludenza del mero dato statistico. – 7. L’errata equiparazione tra efficacia di una norma penale e corrispondenti sentenze di condanna. – 8. L’immotivata abolizione anche della forma omissiva. 9. Il rimedio peggiore del male?

1. Sintesi della schizofrenica storia del delitto di abuso d’ufficio.

Come è noto, il disegno di legge n. A.S. 808, recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare”, prevede, tra le altre cose, l’abolizione del delitto di abuso d’ufficio. Prima di entrare nel merito della proposta e delle ragioni che la sottendono, appare utile un brevissimo excursus del tormentato percorso subito dalla fattispecie, dal 1930 ad oggi.

All’origine, il Codice Rocco prevedeva due figure, per così dire, di abuso d’ufficio (rectius: due fattispecie che sarebbero poi convogliate nel delitto così denominato).

Gioverà riportarne il tenore letterale, anche al fine di evidenziare, plasticamente, l’evoluzione lessicale del reato in commento.

La prima figura, collocata anch’essa nell’art. 323 c.p., era intitolata dal legislatore “Abuso di ufficio in casi non preveduti specificatamente dalla legge” (prosaicamente detto: abuso innominato o abuso generico di ufficio) e così recitava: “Il pubblico ufficiale che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, commette, per recare ad altri un danno o per procurargli un vantaggio, qualsiasi fatto non preveduto come reato da una particolare disposizione di legge, è punito con la reclusione fino a due anni o con la multa da lire centomila a due milioni”.

Accanto ad essa vi era, quale fattispecie in qualche modo limitrofa, il vecchio art. 324 c.p. (“Interesse privato in atti d’ufficio”): “Il pubblico ufficiale che, direttamente o per interposta persona, o con atti simulati, prende un interesse privato in qualsiasi atto della pubblica Amministrazione presso la quale esercita il proprio ufficio, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni e con la multa da lire duecentomila a quattro milioni”.

Le due norme, che (soprattutto la prima) non brillavano certo per precisione e determinatezza, furono, come è noto, sostituite e racchiuse dalla riforma dello statuto penale dei delitti contro la P.A. introdotto dalla L. 26.4.1990, n. 86[1] nel nuovo art. 323 c.p. (“Abuso d’ufficio”), il cui primo comma così statuiva: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o per arrecare ad altri un danno ingiusto, abusa del suo ufficio, è punito, se il fatto non costituisce più grave reato, con la reclusione fino a due anni”. Al secondo comma veniva previsto un considerevole innalzamento della pena (il massimo diventava il minimo edittale) laddove l’azione del reo fosse stata contrassegnata da un movente patrimoniale: “Se il fatto è commesso per procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale la pena è della reclusione da due a cinque anni”.

Tra gli scopi che si poneva il legislatore attraverso la nuova formulazione, possono ricordarsi i seguenti: riunire in un’unica fattispecie i casi disciplinati dall’art. 323 c.p. e dall’art. 324 c.p. (abrogato dalla L. 26.4.1990, n. 86); includere nell’alveo del fatto tipico anche i casi prima configuranti il vecchio peculato per distrazione (il cui lemma era stato espressamente espunto dalla coeva immissione del nuovo art. 314 c.p.); aggiungere tra i soggetti attivi anche gli incaricati di un pubblico servizio; descrivere con maggiore accuratezza ed esattezza il fatto tipico, pure al fine di ridurre l’area degli illeciti amministrativi che avevano (anche) rilevanza penale.

Come probabilmente non era difficile prevedere, l’ultimo scopo (e non solo, a dire il vero, visto l’ampio dibattito seguito – prima nella dottrina e poi anche in giurisprudenza – sulla permanente rilevanza delle condotte distrattive, almeno alcune, nel paradigma del peculato) non fu per nulla raggiunto. Anzi.

Il totale silenzio del legislatore riformatore sul concetto di abuso, concetto racchiudente pressoché l’intero fatto tipico nonché la portata offensiva del reato, provocarono intense invasioni da parte del giudice penale nel merito dell’azione della P.A., il cui operato, invece, avrebbe dovuto rimanere del tutto sottratto alla sua valutazione (il giudice penale, come è noto, non dovrebbe sindacare le scelte della P.A. a meno che, ovviamente, non integrino esse stesse dei reati). Ciò comportò per alcuni anni l’inerzia del pubblico amministratore (onesto) che aveva timore, certo non infondato stante la genericità della norma (che, in buona sostanza, consentiva una valutazione avente ad oggetto anche la mera discrezionalità del suo agire), di essere perseguito penalmente per comportamenti che pur egli riteneva perfettamente leciti (o, al più, opinabili sotto l’aspetto squisitamente amministrativo).

Per questo motivo, dopo appena sette anni dalla riforma, su impulso delle rimostranze provenienti dall’ANCI[2], il legislatore emanò la L. 16.7.1997, n. 234 con lo scopo di circoscrivere il controllo penale sull’attività dei pubblici amministratori (in settori tradizionalmente connotati dalla discrezionalità della P.A.) e di descrivere il fatto di cui all’art. 323 c.p. in maniera più precisa e particolareggiata.

La norma fu quindi radicalmente modificata: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità”.

Come si nota, la struttura dell’illecito penale fu stravolta.

L’art. 323 c.p. post 1997 racchiude al suo interno un reato di evento (e non di mera condotta come nel 1990) caratterizzato da due condotte tipiche: una, di matrice attiva, consistente nella violazione di norma di legge o di regolamento (che, almeno nelle intenzioni del legislatore, dovevano avere un contenuto immediatamente precettivo); l’altra, omissiva, censurante la mancata astensione in casi specificati dalla stessa norma o da altre genericamente richiamate (“negli altri casi prescritti”). L’evento, che, naturalmente, deve essere collegato causalmente con una delle due condotte, può essere sia un vantaggio patrimoniale (perde rilevanza penale quello non patrimoniale) per sé o per altri, sia un danno arrecato a terzi[3]. Entrambi, come nel 1990, devono essere caratterizzati, per poter integrare la fattispecie, dalla clausola di illiceità speciale della ingiustizia. Ciò restringe considerevolmente il campo di applicazione della norma perché l’ingiustizia non concerne solamente il fatto causativo ma anche il risultato della condotta (c.d. doppia ingiustizia): l’evento, per essere ingiusto, non solo deve essere prodotto non jure ma essere esso stesso contra jus[4]. Come è stato evidenziato “l’ingiustizia del vantaggio o del danno assume un ruolo di rilievo all’interno della fattispecie di reato dell’abuso d’ufficio, in quanto rappresenta la nota di disvalore che caratterizza e differenzia l’ambito degli abusi penalmente rilevanti dal mero illecito amministrativo[5]. La fattispecie, rispetto alla precedente, è pure arricchita (e, quindi, più circoscritta) sotto il profilo dell’elemento soggettivo, in quanto l’evento deve rientrare nel focus del dolo intenzionale (esplicitamente manifestato dall’avverbio “intenzionalmente”): è necessario che l’agente abbia proprio ed esclusivamente di mira il conseguimento dell’ingiusto vantaggio patrimoniale o del danno ingiusto pur se, solo occasionalmente, vi sia anche una finalità pubblica; se, invece, la sua precipua finalità consiste nel perseguimento dell’interesse pubblico, la pur contemporanea consapevolezza di cagionare anche l’evento tipico non è sufficiente a configurare quella intenzionalità che presuppone la preminenza di uno scopo privato[6]. Ancora, nel 1997 sono state introdotte una clausola di riserva relativamente determinata (“Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”), tendente anch’essa a limitare la portata dell’ambito applicativo della norma, nonché la necessità che la condotta tipica si perfezioni “nello svolgimento delle funzioni o del servizio” e che, quindi, sia esplicazione (illegittima) dell’ufficio o del servizio ricoperto[7].

Va aggiunto che la versione della norma sopra riprodotta è il risultato di un’ulteriore modifica operata dalla L. 6.11.2012, n. 190, afferente, tuttavia, esclusivamente all’innalzamento della pena: dalla precedente “da sei mesi a tre anni” all’attuale “da uno a quattro anni”.

Come se tutte queste interpolazioni non fossero state sufficienti, nel 2020 (art. 23 del D.L. 16.7.2020, n. 76, convertito dalla L. 11.9.2020 n. 120), il delitto di abuso d’ufficio subì un’ennesima trasformazione, con la volontà di ulteriormente limitare e contenere la rilevanza penale della fattispecie: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità”.

In buona sostanza, la locuzione “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità” ha sostituito la precedente “di norme di legge o di regolamento”.

Diventano, pertanto, penalmente irrilevanti, almeno all’interno dell’alveo dell’art. 323 c.p., le violazioni di norme di regolamento e le regole di condotta che lascino al soggetto pubblico una qualche discrezionalità. In tal modo, perlomeno nei propositi, si è inteso delimitare l’abuso solo alla “inosservanza di un dovere vincolato nell’an, nel quid e nel quomodo dell’attività[8].

Pur rimanendo inalterata la figura omissiva del delitto di abuso d’ufficio[9], la riforma del 2020 pare avere eccessivamente ristretto l’ambito applicativo del delitto de quo.[10] Non si comprende bene, infatti, per quale motivo sia stata espunta la violazione di norme regolamentari, le quali spesso contengono precetti ben più pregnanti e chiari di quanto non lo siano le norme di legge poste a monte. Così come non si vede perché solo gli atti meramente esecutivi e privi di alcuna discrezionalità (almeno a leggere letteralmente il tenore del recente inciso) possano essere sanzionati penalmente[11]. Peraltro, com’era forse prevedibile (anche se non giustificabile), la giurisprudenza, in taluni casi, sembra avere reagito con l’ennesima interpretazione estensiva (v. infra).

Va infine brevemente rammentato che l’abuso d’ufficio non costituisce un unicum nell’ordinamento penalistico europeo.

Come è stato fatto correttamente notare[12]: in Francia, tramite l’art. 432-12 del Code Pénal, il quale punisce la prise illégale d’intérêts, si sanziona penalmente la presa, da parte dell’agente pubblico, di un interesse privato in un atto d’ufficio; in Spagna, attraverso il delitto di cui all’art. 404 del Código Penal, reprimente la prevaricación administrativa, costituisce reato il caso in cui l’agente pubblico adotti volontariamente un provvedimento amministrativo illegittimo o arbitrario, che incida sui diritti dei consociati; in Germania, è prevista una norma incriminatrice – § 266 Untreue (StGB), perseguente la c.d. infedeltà, vale a dire un vero e proprio abuso di fiducia. Senza dimenticare la proposta di direttiva europea del 3.5.2023 in materia di anticorruzione la quale, all’art. 11, prevede appunto che sia incriminato anche il c.d. abuse of functions (v. infra).

Nel prossimo paragrafo, anche per ragioni di economia espositiva, si focalizzerà l’attenzione su alcuni profili inerenti solamente alle due ultime trasformazioni volute dal legislatore, profili il cui sintetico esame appare propedeutico alle osservazioni che seguiranno.

2. In particolare, le fattispecie del 1997 e del 2020.

La riforma del 1997, lo si è già detto, era motivata dalla necessità di tratteggiare con precisione il fatto penalmente rilevante, così da (finalmente) ottemperare al principio di determinatezza (e di tassatività) ed evitare l’inaccettabile invasione del giudice penale nelle scelte di merito della P.A.

Seppur con inevitabile approssimazione, può sostenersi che, sotto questo profilo, la giurisprudenza, dopo non molto tempo, prima introdusse e poi consolidò delle interpretazioni della fattispecie chiaramente amplificatrici del dettato normativo strettamente inteso e, almeno in parte, tradenti lo spirito della riforma, in modo tale da vanificarla, almeno parzialmente.

Infatti, giova ricordare che è stata considerata violazione di legge o di regolamento e, quindi, integrante la condotta tipica anche:

  1. la violazione dell’art. 97 Cost. – nella parte inerente al principio di imparzialità[13] – in quanto si sosteneva, irrealmente, che fosse una norma immediatamente precettiva[14];
  2. il vizio dell’eccesso di potere, nella sua forma maggiormente sintomatica dello sviamento di potere, a prescindere dalla specifica violazione di una norma precettiva[15]. Si tratta, in sostanza, di comportamenti formalmente corrispondenti alla norma che regola l’esercizio dei poteri, ma in assenza delle ragioni di ufficio che lo giustificano, in quanto perseguenti un interesse contrastante con quello attributivo del potere medesimo[16].
  3. la violazione di norme procedimentali (quindi non imponenti un comando o un divieto)[17];
  4. la realizzazione di atti del procedimento amministrativo privi di rilevanza esterna o anche gli atti di mero impulso politico “essendo tali atti idonei ad arrecare un danno o un ingiusto profitto, attraverso il concorso nell’atto esterno[18];
  5. la trasgressione di meri atti amministrativi (circolari, ordinanze, ecc.), non costituenti legge o regolamento, soltanto perché, a monte, disciplinati, anche genericamente, da questi ultimi.

Può fin d’ora anticiparsi che queste (e altre) aporie interpretative non giustificano l’abolizione del delitto di abuso d’ufficio anche se offrono, purtroppo, una sponda argomentativa ai fautori della riforma. E non la giustificano non solo per le osservazioni che seguiranno ma anche perché la fattispecie, proprio al fine di meglio descriverla e di diminuirne l’ampiezza, è stata, come visto, già assai incisivamente ritoccata nel 2020.

Infatti, con il D.L. 16.7.2020, n. 76, convertito dalla L. 11.9.2020 n. 120, si è certamente operata una abolitio criminis parziale[19]regolamentata dall’art. 2, comma 2, c.p.[20]. È opportuno ricordare che una delle motrici (o, se maliziosamente si preferisce, il pretesto) della novella risiede nel periodo emergenziale sanitario ed economico derivante dalla pandemia da Covid-19 e sulla consequenziale esigenza di un’azione amministrativa celere, efficace e scevra da preoccupazioni di incappare in responsabilità penali, così da poter meglio contrastare le necessità derivanti dalla lotta alla pandemia.

Come ha osservato la Corte costituzionale[21], la riforma del 2020 ha alla base “due convinzioni”: “a) che il “rischio penale” e, in specie, quello legato alla scarsa puntualità e alla potenziale eccessiva ampiezza dei confini applicativi dell’abuso d’ufficio, rappresenti uno dei motori della “burocrazia difensiva”; b) che quest’ultima costituisca a propria volta un freno e un fattore di inefficienza dell’attività della pubblica amministrazione[22].

Dunque, la Corte costituzionale, interpretando la voluntas legis, espressamente collega la riduzione dell’alveo di applicazione della fattispecie alla c.d. burocrazia difensiva e (altra faccia della stessa medaglia) all’inefficienza dell’attività amministrativa. Detto in altri termini, la funzionalità di quest’ultima viene salvaguardata con un (condivisibile o meno) restringimento del fatto tipico, non con la sua abolizione.

Sempre il Giudice delle Leggi dopo aver, di fatto, criticato le interpretazioni giurisprudenziali che, sia in relazione alla fattispecie del 1990, sia a quella del 1997, hanno esteso oltremodo il campo d’azione delle stesse, ha aggiunto che la novella “richiede che la violazione abbia ad oggetto regole specifiche previste in modo espresso da fonti primarie e che non lascino al funzionario pubblico spazi di discrezionalità. Particolarmente su questo secondo versante, risulta trasparente l’intento di sbarrare la strada alle interpretazioni giurisprudenziali che avevano dilatato la sfera di operatività della norma introdotta dalla legge n. 234 del 1997: la puntualizzazione che l’abuso deve consistere nella violazione di regole specifiche mira ad impedire che si sussuma nell’ambito della condotta tipica anche l’inosservanza di norme di principio, quale l’art. 97 Cost.; richiedendo che le regole siano espressamente previste dalla legge e tali da non lasciare «margini di discrezionalità» si vuol negare rilievo al compimento di atti viziati da eccesso di potere[23].

La Corte di cassazione, inizialmente, è parsa seguire l’interpretazione della Corte costituzionale ma, in seguito, è sembrata (talvolta) oltrepassare le frontiere della nuova formulazione[24].

Ad esempio, nel (non lodevole) tentativo di ampliare i confini della nuova fattispecie[25], ha affermato che il legislatore non ha voluto limitare la rilevanza penale solamente alle condotte del tutto vincolate ma ha voluto ricomprendervi “anche i casi riguardanti l’osservanza di una regola di condotta collegata allo svolgimento di un potere che, astrattamente previsto dalla legge come discrezionale, sia divenuto in concreto vincolante per le scelte fatte dal pubblico agente prima dell’adozione dell’atto (o del comportamento) in cui si sostanzia l’abuso d’ufficio”. Desta qualche perplessità anche quella decisione che, in continuità con precedente orientamento, ha ravvisato la violazione di legge nel mancato esercizio del dovere di vigilanza, impresso in un D.P.R., dal quale sono scaturiti provvedimenti illegittimi[26].

Più aderente al nuovo dettato normativo appare invece l’orientamento[27] secondo il quale gli atti connotati da un margine di discrezionalità tecnica (esempio classico: le valutazioni di una commissione sui titoli di un candidato) non rientrano più nell’alveo della fattispecie.

Opportunamente è stato pure ribadito che la violazione dell’art. 97 Cost. non possa più integrare l’abuso d’ufficio[28].

Questa, dunque, è l’approssimativa ricostruzione della travagliata vita dell’abuso d’ufficio, la cui configurazione è stata modificata, deformata, limata, ridotta, ma mai cancellata.

Anche perché, a dire il vero, il tenore della norma introdotta nel 1997 e – a fortiori quella del 2020 – è talmente ricca di elementi e di specificazioni da non poter essere considerata indeterminata o imprecisa[29]. Naturalmente, la proiezione di essa nel c.d. diritto vivente è altra cosa ed è, per molti versi, non esente da censure.

3. Il bene giuridico tutelato dall’art. 323 c.p.

Per le successive osservazioni sulla paventata abolitio criminis (v. infra) giova ora rievocare, in estrema sintesi, l’interesse tutelato dalla fattispecie in commento, individuando anche qual è lo scopo repressivo del legislatore, cioè quali fenomeni intende scongiurare e, eventualmente, sanzionare.

Il bene giuridico tutelato dall’art. 323 c.p. non si discosta con nettezza da quello di categoria che contraddistingue in sostanza tutti i delitti del Capo I del Titolo II del Libro II del c.p.: la legalità, il buon andamento e (soprattutto) l’imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97, comma 1, Cost.). Seppur con diverse sfumature, si parla anche di probità, di fedeltà, di trasparenza e di correttezza dell’amministratore pubblico, nonché di interesse patrimoniale della pubblica amministrazione[30]. Inoltre, nel caso di abuso in danno, taluni associano anche l’interesse del privato a non vedere lesi i suoi diritti dal comportamento illegittimo di un agente pubblico[31].

Per una miglior definizione del perimetro criminale entro il quale, nelle diverse formulazioni succedutesi, deve (o dovrebbe) intervenire, può aggiungersi che il delitto di abuso d’ufficio, serve a reprimere le seguenti condotte criminose:

  1. la prevaricazione;
  2. il favoritismo di terzi – tendenzialmente affaristico – con o senza pregiudizio di (altri) terzi;
  3. lo sfruttamento privato dell’ufficio per procurarsi un vantaggio patrimoniale.

Sempre allo scopo di meglio comprendere il disvalore dei fatti configuranti il delitto in oggetto si pensi, a titolo esemplificativo e senza alcuna pretesa di completezza, ai seguenti: concessione di permessi di costruire, benefici, licenze, ecc. illegittimi; stipula di contratti o di appalti pubblici senza il rispetto dei requisiti di legge; elargizione di incarichi o di ruoli pubblici a danno dei più meritevoli o titolati; acquisto di beni o servizi per la P.A. a prezzi maggiori per favorire il cedente; atteggiamenti persecutori e vessatori nei confronti dei subordinati (magari tramite applicazione di infondate sanzioni disciplinari); in ambito sanitario, dirottamento a strutture private di taluni pazienti; omissione, da parte del Sindaco e di funzionari comunali, di eseguire una ordinanza di demolizione; mancata riscossione delle multe durante la campagna elettorale; demansionamento per scopi ritorsivi (c.d. mobbing), ecc.

Ovviamente, questa breve enumerazione di alcuni contegni suscettibili di configurare il reato di cui all’art. 323 c.p. non è in grado di lumeggiare compiutamente l’ampio panorama di accadimenti rientranti nel novero di quelli sanzionabili, ma può essere utile a comprendere o, perlomeno, a fare intuire le coordinate giuridiche dell’art. 323 c.p. e i beni che mira a salvaguardare.

4. Il disegno di legge Nordio.

Il disegno di legge n. A.S. 808, a firma del Ministro della Giustizia Carlo Nordio e del Ministro della Difesa Guido Crosetto, recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare” propone, come già detto, pure l’abolizione del delitto di abuso d’ufficio[32].

Le ragioni addotte a sostegno della suggerita abrogazione possono così essere compendiate:

  1. lo “squilibrio tra le iscrizioni della notizia di reato” e le sentenze di condanna – la relazione del DDL fa tuttavia riferimento solo a quelle del 2021 – sarebbe indice di una “anomalia” non meglio specificata. A tal proposito, si ricorda che il numero delle iscrizioni nel registro delle notizie di reato era pari a 4.745 nel 2021 e a 3.938 nel 2022, a fronte, rispettivamente, di 4121 e 3.536 procedimenti archiviati;
  2. il sistema dei delitti contro la P.A. rimarrebbe in ogni caso un “apparato repressivo ampiamente articolato”, considerando pure che i reati comuni sono puniti maggiormente se consumati con abuso dei poteri o violazione dei doveri di pubblica funzione o di pubblico servizio;
  3. si potrebbe, in prospettiva futura, valutare “specifici interventi additivi” finalizzati a sanzionare nuovi fatti di reato originanti “da eventuali indicazioni di matrice euro-unitaria”;
  4. l’esistenza “da diversi anni” di un impianto normativo volto a prevenire la commissione di illeciti all’interno della P.A. (piani anti-corruzione, vigilanza dell’ANAC, protezione dei denuncianti gli illeciti);
  5. l’abolizione eviterebbe, dunque, almeno così pare di capire, sia un inutile appesantimento dell’azione giudiziaria sia – per il pubblico funzionario e la P.A. – le “ricadute negative derivanti da iscrizioni per fatti che risultano non rientrare in alcuna categoria di illecito penale”, a fronte di un sistema complessivo di prevenzione e di punizione (penale, disciplinare, contabile ed erariale) che consentirebbe, comunque, una tutela “senza arretramenti” degli interessi pubblici. Sotto questo profilo, il Supplemento al DDL specifica che i problemi interpretativi originanti dalle nozioni di violazione di legge e di attività discrezionale, avrebbero accresciuto la c.d. burocrazia difensiva.

Tutto qui.

Possono aggiungersi, pur non essendo state esplicitate nella Relazione del DDL, altre due motivazioni, ricavabili sia dalle interviste rilasciate dal Ministro della Giustizia e da altri alti esponenti politici, sia dai primi articoli della dottrina.

La prima concerne l’opinione dei Sindaci, anche di quelli appartenenti all’area politica opposta a quella governativa, preoccupati dai risvolti negativi della minaccia penale e favorevoli, pertanto, all’abolizione del delitto: la c.d. paura della firma (che sarebbe ancor più consistente nella gestione dei fondi del P.N.R.R.).

La seconda, invece, appena più tecnica, per la quale l’abuso d’ufficio verrebbe utilizzato quale delitto esplorativo, contestato genericamente allo scopo di garantire un accertamento ricognitivo: se non si prova la corruzione o la concussione rimane sempre l’art. 323 c.p.

È necessario rimarcare, infine, che nel Supplemento bis al DDL si riportano esplicitamente, allo scopo di corroborare la proposta di abolizione, alcuni passaggi critici espressi dalla già ricordata decisione n. 8/2022 della Corte costituzionale concernenti le aporie esegetiche (v. supra) constatabili nel diritto vivente. La conclusione appare però fuorviante: è vero che la Corte mette in rilievo gli effetti negativi prodotti sull’operato della P.A. dall’interpretazione scarsamente tassativa che in molti casi la giurisprudenza ha adottato a proposito dell’art. 323 c.p. (ad esempio, sulla natura precettiva dell’art. 97 Cost.), ma è altrettanto vero che tali considerazioni sono rivolte alla fattispecie precedente alla novella del 2020 e, soprattutto, a illustrare le ragioni sottese a questa modifica.

5. L’irragionevolezza delle ragioni della proposta di abolizione, anche alla luce della funzione della norma (e della corrispondente sanzione) penale.

Come è noto, nel nostro ordinamento, le sanzioni possono essere: reintegratorie, riparatorie, risarcitorie o punitive.

A queste ultime appartiene la pena derivante dal reato, cioè la sanzione comminata per la trasgressione di una norma penale.

Come è altrettanto noto, un precetto viene munito di sanzione penale laddove lo Stato voglia allestire o irrobustire la punizione comminata per l’inosservanza del medesimo precetto, allorché non ritenga sufficienti ed adeguate quelle civili o amministrative o disciplinari, ecc. (c.d. principio di sussidiarietà)[33]. Detto in altri termini, il legislatore ricorre, quale extrema ratio, alla pena – quindi, alla (almeno potenziale) privazione della libertà personale – quando l’importanza del bene giuridico o dell’interesse statale è tale da richiedere, per la sua salvaguardia, la minaccia (ed eventualmente l’applicazione) della massima sanzione esistente. Dovendosi, pertanto, osservare il principio di proporzionalità[34], cioè il bilanciamento tra gli interessi in gioco, quelli da tutelare e quelli sacrificabili.

Ovviamente, il legislatore è libero, nel rispetto della Costituzione, di forgiare o di abolire fattispecie penali, di modificarne il contenuto dilatandolo o restringendolo, di mutare i limiti edittali della pena, di trasformarle in illecito amministrativo o civile. Può cancellare reati quando ritiene che il bene giuridico tutelato da quelle norme, magari perché divenuto nel tempo non più primario,[35] possa essere convenientemente difeso da sanzioni civili, amministrative, disciplinari, contabili (un esempio, tra i tanti, potrebbe essere quello dell’ingiuria, trasformato nel 2016, in illecito civile)[36].

Ciò detto, dobbiamo dire che sul punto il DDL non dice assolutamente nulla.

A parte un vago quanto anodino riferimento ad un “apparato repressivo ampiamente articolato”, non si afferma, come ci si sarebbe aspettati, che l’interesse protetto (finora) dal delitto di abuso d’ufficio ha perso rilievo e può essere efficacemente difeso da una sanzione meno incisiva di quella penale.

Più in generale, nel dibattito politico-giuridico seguito alla manifestazione di intenti in oggetto, tale fondamentale aspetto non pare essere adeguatamente (o per nulla) considerato; in particolar modo, nessuno o quasi dei sostenitori dell’eliminazione dell’art. 323 c.p. dichiara, motivatamente, che il bene giuridico salvaguardato dalla norma che si vorrebbe espellere dal catalogo degli illeciti penali non sia più annoverabile tra quelli principali, quelli per la cui difesa lo Stato è costretto a ricorrere alla (minaccia della) reazione più severa[37].

D’altronde, siffatta ipotizzata asserzione sarebbe stata quantomeno imprudente: si potrebbe fondatamente sostenere che le ipotesi di abuso prevaricatore oppure le gravi forme di favoritismo affaristico per essere adeguatamente contrastate non abbisognino di una risposta penale? Che, quindi, sarebbe sufficiente rivolgersi al TAR, o al Tribunale del Lavoro o ad altri organi giurisdizionali?

Né varrebbe obiettare che il bene giuridico di categoria – imparzialità e buon andamento della P.A. – è comunque protetto dalle (altre) fattispecie di cui agli artt. 314 e ss. c.p., perché nessuna di queste ricomprende, salvo inammissibili interpretazioni analogiche[38], le particolari modalità di aggressione al medesimo bene punite dall’art. 323 c.p. (di cui gli esempi prima menzionati costituiscono un’efficace cartina di tornasole).

Chi scrive ritiene che la prospettata abolizione crei un evidente vuoto di tutela per una serie di contegni criminosi – favoritismi, affarismi, prevaricazioni, vessazioni, nepotismi, illeciti demansionamenti, ecc. – che meriterebbero, almeno nei casi più gravi, una risposta penale, essendo evidentemente inefficaci gli altri rimedi sanzionatori[39].

Si badi che con ciò non si vuole propugnare un ordinamento panpenalistico (anzi), nel quale tutti gli illeciti facciano parte del girone del diritto penale, ma si invoca, molto più semplicemente, un po’ di coerenza da parte del legislatore (che, peraltro, in altri settori mostra un piglio assai repressivo), il quale, giova ribadirlo, può abolire un reato solo quando ritiene la sanzione penale non più necessaria, perché l’interesse salvaguardato ha nel tempo (ciò che è possibile) perso quella consistenza che aveva, in passato, suggerito il ricorso al catalogo dell’art 17 c.p.

Come è stato osservato, sarebbe assolutamente inefficace la tutela offerta in sede amministrativa o disciplinare per alcuni casi, mirabilmente esemplificati (in realtà il numero è indeterminabile): “Un carcerato viene arbitrariamente e intenzionalmente escluso da ora d’aria, visite di parenti, visite mediche, ricreazione, esercizio di diritti, senza violare l’art. 608 c.p. (abuso di autorità contro arrestati o detenuti). Il professore universitario consente di entrare in ruolo nel suo ateneo solo ai propri mediocri allievi sottovalutando abusivamente candidati più titolati. Un paziente non riceve la normale assistenza in una R.E.M.S., ma subisce prevaricazioni consistenti in uso massiccio di sonniferi, mezzi di contenzione e isolamento non giustificati da necessità terapeutiche. Il primario ospedaliero demansiona un aiuto medico perché non dirotta alcuni pazienti verso la sua clinica privata. Un poliziotto infierisce intenzionalmente con abusi comportamentali (atti arbitrari) contro soggetti controllati, barboni, passanti ubriachi, gruppi di persone che disturbano, tossici, prostitute, non arrestati. Un pubblico ministero avvia una indagine penale contro persona invisa per mera ritorsione, senza astenersi, e anzi usando l’ufficio per fini personali. Un magistrato assegna incarichi peritali solo a parenti e amici di una associazione, violando ogni criterio legale di distribuzione[40].

Ma che non ci sia (rectius: non ci possa essere), alla base del DDL in commento, alcun reale apprezzamento sulla non necessarietà della pena nei casi di abuso d’ufficio, è dimostrato dallo stesso atteggiamento del legislatore.

Da un lato, infatti, come è stato già detto, ha modificato la norma in ben quattro occasioni (1990, 1997, 2012 e 2020) – l’ultima appena quattro anni fa – ciò che dimostra, non potrebbe essere altrimenti, il reiterato ribadimento, seppur alla ricerca di una maggiore accuratezza, della necessità di una replica penale all’offesa del bene giuridico sotteso all’art. 323 c.p. o, meglio, a quelle particolari forme di lesione o di messa in pericolo dello stesso.

Dall’altro lato, la variazione del 2012 – operata con la L. 6.11.2012, n. 190, il cui titolo disvela chiaramente le motivazioni del legislatore: “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione” – ha addirittura comportato l’innalzamento della pena edittale, sia nel minimo che nel massimo («da sei mesi a tre anni» a «da uno a quattro anni»), ciò che si pone in totale antinomia con l’abolizione del delitto. È infatti evidente che se il legislatore ha irrobustito la risposta sanzionatoria penale – valutazione, non si dimentichi, pienamente confermata anche nel 2020, la cui riforma non ha toccato la pena – non solo ciò significa che riteneva ancora necessaria quest’ultima per proteggere il bene giuridico presupposto dall’art. 323 c.p. ma anche e soprattutto che quella precedente («da sei mesi a tre anni») non fosse adeguata allo scopo.

L’assenza di una valida e motivata ragione giustificante l’abolizione (id est: il venir meno della necessarietà della sanzione penale) rischia di fare apparire come strumentale la richiesta riforma.

A fortiori se, sia quali operatori del diritto sia quali semplici cittadini, avendo più o meno tutti un’esperienza diretta o indiretta di concorsi pubblici, assunzioni nella P.A., gare pubbliche, ecc., ci domandiamo: possiamo davvero sostenere che i concorsi, le nomine, le gare (all’interno di enti locali, società in house, università, pubblico impiego in genere, ecc.) siano condotti regolarmente, premino il migliore, il più meritevole? La natura retorica della domanda non richiede risposta.

Quanto, infine, all’asserita opinione favorevole dei Sindaci (enumerata in molti articoli di stampa come una delle principali motivazioni della proposta di abrogazione, anche se la Relazione al DDL è sul punto molto più sfumata), appare altamente inopportuno giustificare la eliminazione di un illecito penale basandosi sulla valutazione dei potenziali destinatari, perché chiunque in quelle condizioni, sia le persone oneste, sia quelle disoneste (anch’esse, per quanto poche, interrogate sulla proposta abolitrice) sarebbe ovviamente favorevole[41]. D’ora in poi che si fa? Si chiede ai potenziali destinatari di una norma penale se sono d’accordo o meno al suo mantenimento? Per ognuno dei reati comuni facciamo un referendum consultivo?

Senza contare che, come è stato fatto notare, non sono solo i Sindaci gli unici ipotetici autori del delitto in argomento[42].

Sotto altro profilo, non appare corretto addossare all’intervento penale nell’azione amministrativa la responsabilità delle disfunzioni della P.A. Come è stato autorevolmente affermato, laddove si prospetti la realizzazione di un reato non esiste merito amministrativo che possa limitare il dovere della magistratura penale di fare chiarezza. Certo le fattispecie penali devono essere determinate e interpretate correttamente ma il vero problema è a monte e risiede “nel sommo disordine che caratterizza il nostro sistema amministrativo, nel tumultuoso accavallarsi delle competenze, nel viluppo inestricabile delle procedure, nell’aleatorietà degli strumenti normativi, nella formidabile carenza di efficaci controlli interni[43].

Due ultime ma brevi considerazioni.

La possibilità, evidenziata nel DDL, che un domani possano introdursi “specifici interventi additivi (…) in forza di indicazioni di matrice euro-unitaria che dovessero sopravvenire” – come a dire: se domani l’Europa ce lo dovesse richiedere potremmo forgiare un nuovo reato, magari un nuovo abuso d’ufficio – sembra non tener conto del meccanismo codicistico (e costituzionale) regolamentante, nel nostro ordinamento, la successione di leggi penali nel tempo.

Infatti, il congegno dell’art. 2 c.p., come è noto, travolgerebbe, in caso di abolitio criminis, tutte le condanne precedenti e impedirebbe il perseguimento di quelle condotte successive all’abrogazione e antecedenti all’ipotetica nuova fattispecie.

Inoltre, non c’è bisogno di aspettare future “indicazioni di matrice euro-unitaria” perché esse già ci sono! Come c’è scritto anche nel Dossier n. 121 del Servizio Studi del Senato e, segnatamente, nella scheda di lettura inerente proprio alla proposta di abrogazione dell’art. 323 c.p., il 3.5.2023 la Commissione europea ha presentato una proposta di direttiva sulla lotta contro la corruzione il cui art. 11, denominato testualmente abuso d’ufficio[44], ricorda molto da vicino il tenore del nostro omonimo delitto[45]. Pressoché identico, si legge nel medesimo Dossier, il tenore dell’art. 19 della c.d. Convenzione di Merida del 2003, ratificata in Italia nel 2009.

Seconda considerazione: non si riesce a comprendere quale sarebbe il risvolto negativo dell’eventuale uso, in sé, dell’abuso d’ufficio quale delitto esplorativo, asseritamente finalizzato a ricercare altri e più gravi delitti contro la P.A.

Il tema, in questi termini appare mal posto e sviante. Infatti, ciò che conta è che gli elementi costitutivi dell’art. 323 c.p. sussistano e permangano all’esito delle indagini, anche se inizialmente gli inquirenti congetturavano l’esistenza di fattispecie più gravi (tipo corruzione o concussione). Non si vede per quale arcano motivo, una volta constatata l’insussistenza di queste ultime (o l’impossibilità di provarle), non si dovrebbe comunque andare avanti con l’abuso d’ufficio, naturalmente a patto che, come detto, siano stati raccolti gli elementi probatori suscettibili di ritenerlo consumato.

6. L’inconcludenza del mero dato statistico.

Innanzitutto, va sottolineato che una norma penale male o insufficientemente applicata non può evidentemente giustificare, anche per quanto detto, l’eliminazione della medesima, visto che, come è ovvio, una cattiva esegesi o un errato utilizzo non si fronteggia producendo un vuoto di tutela quanto, semmai, attraverso una migliore specificazione (come è avvenuto nel caso di specie) della fattispecie o, nei casi più gravi e manifesti, con l’irrogazione di una sanzione disciplinare nei confronti di chi, colpevolmente, si rende inottemperante ai suoi doveri di magistrato.

Pertanto, se anche fosse condivisibile il presupposto statistico effigiato nella Relazione del DDL Nordio, il problema concernerebbe, quindi, o la magistratura requirente, che istruirebbe procedimenti penali evidentemente insussistenti, oppure la magistratura giudicante, che errerebbe nella individuazione degli elementi costitutivi dell’abuso d’ufficio[46].

Ma non certo per questo si dovrebbe abolire il delitto.

Opinando diversamente si confonderebbe il principio di determinatezza della fattispecie – alias il dovere del legislatore, impostogli dalla Costituzione, di disegnare norme penali chiare, intelligibili e nelle quali il confine tra ciò che è penalmente illecito e ciò che non lo è deve essere netto – col principio di tassatività, il quale, invece, è rivolto al giudice, obbligandolo a non estendere l’applicazione delle norme penali a fatti non espressamente considerati dalla fattispecie (divieto di analogia).

Ciò premesso, in ogni caso pure il profilo statistico posto alla base dell’invocata abolizione non pare per nulla appagante.

In primis, è smentito dagli stessi numeri riportati nella Relazione. Come si legge ivi, le iscrizioni nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. sono state 4.745 nel 2021 e 3.938 nel 2022 ma “di questi procedimenti 4.121 sono stati archiviati nel 2021 e 3.536 nel 2022”. Se quest’ultimo dato, come sembra di arguire, si riferisce allo stesso anno dell’iscrizione – vale a dire che nel 2021 e nel 2022, dei 4.745 e dei 3.938 procedimenti rispettivamente iscritti, 4121 e 3.536 sono stati rispettivamente archiviati nel medesimo lasso temporale, ciò significa che la funzione di filtro delle Procure della Repubblica non è stata così inefficace, visto che le archiviazioni ammontano all’83% (delle iscrizioni) nel primo anno considerato e a quasi il 90% in quello successivo.

Peraltro, il numero di iscrizioni nel registro delle notizie di reato non dipende certo dal tenore della fattispecie di cui all’art. 323 c.p. o dalla volontà delle Procure della Repubblica quanto, ovviamente, dalla quantità delle denunce o delle segnalazioni recapitate nelle rispettive cancellerie[47]. È infatti noto che ogni P.M. ha l’obbligo, la cui inottemperanza è sanzionata quantomeno a livello disciplinare, di procedere immediatamente all’iscrizione di una notizia di reato di cui abbia avuto conoscenza, non detenendo sul punto alcuna discrezionalità: “in tema di iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 c.p.p., il P.M. – non appena riscontrata la corrispondenza di un fatto, di cui abbia avuto notizia ad una fattispecie di reato – è tenuto a provvedere all’iscrizione della notitia criminis, senza che possa configurarsi un suo potere discrezionale al riguardo, laddove ugualmente, una volta riscontrati elementi obiettivi d’identificazione del soggetto cui il reato è attribuito, il P.M. è tenuto a iscriverne il nome con altrettanta tempestività (Cass. pen., Sez. U, 24 settembre 2009, n. 40538)[48].

Quanto al numero, asseritamente esiguo, di condanne o di sentenze ad esse equiparate pronunciate nel 2021 e pari a complessive 62 (18 in dibattimento di primo grado, 9 davanti al GUP e 35 di applicazione della pena), si tratta di un’informazione a dir poco lacunosa[49].

Prima di tutto non si dice quante sono state, nello stesso anno, le sentenze di assoluzione (o di non luogo a procedere), al fine di poter valutare, sempre che abbia un senso, quanti processi si sono conclusi in un modo o nell’altro.

Nemmeno è scritto quanti processi si sono conclusi con sentenze di proscioglimento per estinzione del reato, segnatamente per prescrizione, considerato anche il termine (6 anni, estensibili a non più 7½ ai sensi dell’art. 161, comma 2, c.p.) non particolarmente lungo se rapportato alla usuale durata delle nostre cause; allo stesso modo non si specifica se qualche altro (processo) si è concluso con la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato (art. 168 bis c.p.), astrattamente applicabile anche al delitto in oggetto.

E ancora vien da domandarsi se lo stesso dato sia o meno condizionato dalla circostanza che nel 2020, come visto, vi fu un’abolizione parziale, ma significativa, dell’art. 323 c.p. in conseguenza della quale, evidentemente, molti fatti prima integranti il delitto in oggetto hanno perso rilevanza penale[50]. È stato correttamente osservato “che un esito di larga depenalizzazione, in caso di atti discrezionali del p.u., si è già realizzato nel nostro sistema dopo la riforma dell’abuso di ufficio del 2020, che lo ha limitato, fra l’altro, alla violazione di regole di legge “dalle quali non residuino margini di discrezionalità[51].

E non è tutto: un serio e recente studio[52] condotto su circa 500 sentenze – quelle massimate dalla Corte di cassazione dal 1997 ad oggi – ha specificato che: 1) oltre il 50% delle decisioni conferma la fondatezza dell’addebito; 2) in un quarto circa dei casi è intervenuta la prescrizione; 3) dopo la riforma del 2020 il 42% degli annullamenti delle sentenze di condanna è causata dall’abolitio criminis parziale.

Non pare il caso di aggiungere altro.

Peraltro, se pure i dati sulla sorte processuale del delitto di cui all’art. 323 c.p. fossero, per qualsiasi motivo, allarmanti, se cioè vi fosse una significativa sproporzione tra i processi iniziati e quelli conclusi con un accertamento di responsabilità, per quale misterioso motivo si dovrebbe abolire il delitto?

L’eventuale problema dovrebbe essere risolto all’interno della magistratura, o dell’organizzazione della stessa, non certo eliminando una fattispecie relativa ad un fatto illecito che il legislatore non ha mai reputato di poter contrastare con sanzioni non penali. Ad esempio: “sensibilizzando al contempo i pubblici ministeri, i quali dimostrano talvolta una scarsa attenzione nella gestione delle iscrizioni delle notizie di reato, oltreché nella conduzione delle indagini preliminari[53]. Oppure limitando il numero delle iscrizioni nel relativo registro non contentandosi della mera denuncia di un atto amministrativo illegittimo, in sé non necessariamente comportante anche la rilevanza penale del medesimo[54].

A tal uopo si potrebbe sfruttare il nuovo comma 1 dell’art. 335 c.p.p.[55] a mente del quale “Il pubblico ministero iscrive immediatamente, nell’apposito registro custodito presso l’ufficio, ogni notizia che gli perviene o che ha acquisito di propria iniziativa, contenente la rappresentazione di un fatto, determinato e non inverosimile, riconducibile in ipotesi a una fattispecie incriminatrice. Nell’iscrizione sono indicate, ove risultino, le circostanze di tempo e di luogo del fatto”. In associazione, per così dire, col nuovissimo art. 335 bis c.p.p. per il quale “la mera iscrizione nel registro di cui all’articolo 335 non può, da sola, determinare effetti pregiudizievoli di natura civile o amministrativa per la persona alla quale il reato è attribuito[56].

In sostanza, non si nega che la norma sfornata dalla riforma del 1997 (sembra presto per dare un giudizio definitivo sull’esegesi susseguente alla novella del 2020) sia stata sovente interpretata, dalla giurisprudenza, in maniera davvero troppo estesa e rinnegante la ratio della riforma ma non si vede perché, a causa di questo malcostume esegetico, si debba reagire cancellando la fattispecie.

D’altronde, se si dovessero abolire tutte le norme penali applicate secondo canoni ermeneutici che, a torto o a ragione, non piacciono a qualcuno, il nostro ordinamento penalistico si ridurrebbe a ben poca cosa.

7. L’errata equiparazione tra efficacia di una norma penale e corrispondenti sentenze di condanna.

Sia consentita una breve digressione: è vero che i propugnatori dell’abolizione del delitto disegnato dall’art. 323 c.p. pongono in rilievo il rapporto tra procedimenti iscritti e sentenze di condanna (anche se si è visto che la stragrande maggior parte dei primi termina la sua corsa senza l’esercizio dell’azione penale) ma è altrettanto vero che, alla base, nemmeno tanto sottintesa, c’è l’idea che una norma penale funzioni bene se da essa discendono molte condanne.

Tale assunto, più adatto a una competizione agonistica che non a una valutazione giuridica, non è condivisibile.

Si pensi, sperando che il fuordopera non appaia eccessivamente eccentrico, ad una delle fattispecie penali più applicate, una di quelle per le quali sono continuamente emesse molteplici e severe sentenze di condanna (e pure quasi altrettante restrizioni della libertà): la cessione illecita di sostanze stupefacenti. Tale normativa esiste da più di 50 anni (L. 22.12.1975 n. 685), anzi, a dire il vero, fin dal 1954 (L. 22.10.1954, n. 1041) e prevede, come è noto, pene assai elevate.

Ugualmente noto è che i condannati per i reati attualmente disciplinati dal D.P.R. 9.10.1990, n. 309, presentino un significativo tasso di recidiva.

Dalla “Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia” del 2023[57] si apprende che dal 2014 al 2022 il numero dei procedimenti penali pendenti e concernenti l’art. 73, D.P.R. n. 309/1990, va, per leggere solo alcuni dei dati ivi riportati, dai 78.535 del 2014 agli 88.162 del 2022 con una punta di 92.875 nel 2020[58]. Dalla stessa Relazione si ricava che “dal 2018 al 2022 risultano condannate in via definitiva 103.077 persone[59].

E, allora, non pare arbitrario affermare che questa perenne irrogazione di condanne dimostri l’inefficacia della funzione forse principale della pena, quella generalpreventiva, a mente della quale la pena serve a scongiurare che i consociati commettano reati tramite un’opera:

  1. di dissuasione, scoraggiando i destinatari della norma penale attraverso la minaccia di una conseguenza negativa;
  2. di persuasione, comunicando loro il messaggio che delinquere è male.

Ma non è tutto: perché la rilevante recidivizzazione dimostra altresì che nemmeno la funzione specialpreventiva della pena – cioè: evitare che il reo delinqua anche in futuro, attraverso la rieducazione, la risocializzazione, e/o la forza intimidatrice della concreta esecuzione della pena, suscettibile di fargli comprendere che la consumazione di un reato comporta un danno e non un beneficio – è efficace.

Rimane solo la funzione di neutralizzazione, costituita dalla prigionia che impedisce materialmente al condannato di delinquere nel periodo in cui è ristretto in carcere.

Il che è ben poca cosa e, soprattutto, sembra indegno di uno Stato democratico.

Al fine di evitare possibili fraintendimenti si specifica che l’esempio dei reati e delle condanne di cui alla normativa sugli stupefacenti non ha e non vuole avere, ovviamente, un significato strettamente comparativo con il delitto di abuso d’ufficio. È evidente che il contesto socioeconomico in cui maturano i primi è completamente diverso dal delitto disciplinato dall’art. 323 c.p., così come quest’ultimo presenta una platea di potenziali soggetti attivi molto minore, essendo perfezionabile non da chiunque ma solo da pubblici ufficiali e incaricati di un pubblico servizio.

Ma il tema non è questo. Si vuole invece sostenere che una norma penale non è (più) efficace se, in base ad essa, conseguono molte sentenze di condanna, bensì esattamente il contrario.

D’altronde, come è stato efficacemente detto, “L’idea che si debbano abolire le leggi penali che recano con sé poche condanne (…) è del tutto miope e illusoria: sono ben modeste nelle raccolte di giurisprudenza le sentenze di responsabilità per i delitti di strage, di epidemia, di avvelenamento di acque, o per vari disastri. Per non parlare di tanti reati economici, dove la cifra oscura è assai più elevata. Eppure, si tratta di leggi che presidiano beni importanti, che producono condotte più virtuose o attente per il solo fatto di esistere, anche se questa prevenzione positiva non è “misurabile”. Ma nel caso degli abusi ogni p.u. sa bene quanti ne potrebbe impunemente commettere in caso di abrogazione del reato. Se dovessimo valutare la prevenzione sul numero delle condanne potremmo abolire davvero più di metà dei reati puniti con la reclusione: sono poche decine le fattispecie che mediamente portano davvero al carcere[60].

Sulla stessa falsariga, non è revocabile in dubbio che “l’esiguità delle sentenze di condanna per abuso d’ufficio rischia di indurre ad una fallacia logica: considerare un illecito penale “inutile” solo perché concretamente ineffettivo non tiene in conto né l’effetto di prevenzione generale che assume il diritto penale, scoraggiando i cittadini a commettere reati, né l’importanza che alcune fattispecie penali assumono per la tutela di importanti beni giuridici. Per quanto riguarda, ad esempio, i delitti ambientali inseriti nel codice penale nel 2015, le sentenze di condanna sono ancora molto esigue (nel 2021, 16 condanne per inquinamento ambientale), ma ciò non porta comunque a ritenere vantaggiosa la loro abrogazione[61].

8. L’immotivata abolizione anche della forma omissiva.

La matrice strumentale dell’ipotizzata abolizione dell’abuso d’ufficio è confermata, a parere del sottoscritto, da un’ultima considerazione: tutte le ragioni addotte per l’eliminazione della fattispecie non coinvolgono la forma omissiva dell’art. 323 c.p.

Nessuno dei fautori del DDL spiega per quale motivo il fatto omissivo previsto dall’art. 323 c.p. pregiudicherebbe l’agire della P.A., incoraggerebbe la burocrazia difensiva, rinfocolerebbe la paura della firma.

D’altronde, sarebbe assai complicato sostenere ragionevolmente che l’azione amministrativa possa essere condizionata da un precetto che sanziona colui il quale “omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto”. E che richiede, in aggiunta, che siffatta astensione causi consapevolmente un vantaggio patrimoniale o un danno ingiusti.

Arduo negare la chiarezza del precetto, invero elementare, il disvalore della condotta, la necessità di un freno alle sempre più frequenti ipotesi di nepotismo. Talmente difficile che, sul punto, si registra un imbarazzante silenzio.

9. Il rimedio peggiore del male?

Anche mettendosi nella prospettiva – come detto, concettualmente errata – dei patrocinatori dell’abolizione, il rimedio rischia di essere peggiore del male.

Non è irragionevole supporre che l’evidente vuoto di tutela potrebbe essere riempito dalla maggiore applicazione di fattispecie ben più gravi[62], tipo, a mero titolo esemplificativo:

  1. il peculato, figura storicamente di confine con l’abuso d’ufficio;
  2. i due tipi di corruzione: 1) la corruzione per l’esercizio della funzione che pur punisce l’emanazione di provvedimenti non contrari ai doveri d’ufficio; 2) la corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (c.d. propria). In entrambi i casi sarà sufficiente scolorire la sinallagmaticità delle rispettive prestazioni e interpretare in maniera più ampia l’elemento normativo dell’altra utilità[63];
  3. il rifiuto di atti d’ufficio;
  4. la turbata libertà delle gare e del procedimento di scelta del contraente[64].

Fattispecie[65], si badi, per le quali, con l’eccezione del rifiuto/omissione di atti d’ufficio, è possibile anche la custodia cautelare in carcere.

Il pericolo, per così dire, è quello di una eterogenesi dei fini (naturalmente quelli propri dei paladini dell’abolitio criminis).

In definitiva, tutte le motivazioni addotte per caldeggiare il Parlamento a cancellare il delitto di abuso d’ufficio non sembrano, a volere essere prudenti, per nulla appaganti e, soprattutto, rischiano seriamente di fomentare la creazione di un buco nero nella galassia dei reati contro la P.A. le cui conseguenze, da qualunque angolazione le si osservino, appaiono pregiudizievoli, in primis per i consociati [66].

Certo, è assai paradossale che la difesa dei cittadini più deboli dai soprusi dei pubblici ufficiali stesse più a cuore al legislatore fascista del 1930 di quanto non lo sia a quello attuale.


[1]Modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione”.

[2] Associazione Nazionale Comuni Italiani.

[3] Pertanto il vantaggio e il danno non sono più soltanto i motivi dell’agire (che possono, dunque, anche non essere raggiunti) ma eventi alternativi che devono concretamente verificarsi.

[4] Ex plurimis: Cass. pen., Sez. VI, 31.5.2022 (dep. 11.7.2022), n. 26625; Cass. pen., Sez. VI, 11.11.2015 (dep. 10.12.2015), n. 48914.

[5] Così, Cass. pen., Sez. VI, 22.6.2023 (dep. 4.10.2023), n. 40428, la quale soggiunge che “accertata, dunque, la violazione della norma di legge o la mancata astensione, è proprio l’ingiustizia del risultato conseguito ad attribuire rilevanza penale alla condotta dell’agente”.

[6] Tra le molteplici: Cass. pen., Sez. Fer., 18.8.2022 (dep. 16.9.2022), n. 34390; Cass. pen., Sez. II, 5.5.2015 (dep. 29.5.2015), n. 23019.

[7] Secondo la già ricordata Cass. pen., Sez. VI, 22.6.2023 (dep. 4.10.2023), n. 40428, è “(…) necessario che la condotta sia realizzata attraverso l’esercizio del potere pubblico attribuito al soggetto agente, configurando i comportamenti non correlati all’attività funzionale, o meramente occasionati da essa, una mera violazione del dovere di correttezza, non rilevante ai sensi dell’articolo 323 c.p. anche se in contrasto di interessi con l’attività istituzionale”.

[8] T. PADOVANI, Vita morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, in Giur. Pen. Web, 2020, 7-8, p. 8.

[9] In questo senso, tra le altre, Cass. pen., Sez. Fer., 25.8.2020 (dep. 17.11.2020), n. 32174.

[10] A. MANNA, L’abolizione dell’abuso d’ufficio: “cronaca di una morte annunciata”?, in Discrimen, 2023, p. 10, il quale opportunamente puntualizza che la riforma del 2020 comporta “un depotenziamento della relativa fattispecie, responsabile, quindi, sia dell’esigua percentuale di pubblici agenti indagati per tale fattispecie criminosa e dell’ancora più esiguo numero di condanne per tale delitto”.

[11] R. GAROFOLI, La annunciata riforma dell’abuso d’ufficio: le preoccupazioni dei sindaci tra PNRR e rilancio della macchina dello Stato, in Sist. Pen., 2023, p. 12, osserva come non si sia “mancato di osservare che assai di frequente gli abusi – anche i più odiosi – si annidano proprio nell’esercizio della discrezionalità”.

[12] M. GAMBARDELLA, Considerazioni sulle “ultime” proposte legislative di modifica dei reati di abuso d’ufficio e traffico di influenze illecite, in Giur. Pen. Web, 2023, 5, p. 6 e s.

[13] L’imparzialità, come si vedrà, è semmai uno degli interessi salvaguardato dalla fattispecie.

[14] Ex pluribus: Cass. pen., Sez. VI, 2.4.2015 (dep. 1.7.2015), n. 27816.

[15] Ex pluribus: Cass. pen., Sez. Un., 29.9.2011 (dep. 10.1.2012), n. 155.

[16] Va però detto che siffatta esegesi, pur criticata, francamente non pare contrastare in maniera così netta col tenore e con la ratio della norma, considerato che utilizzare un potere conferito dalla legge per finalità del tutto estranee (se non addirittura opposte) a quelle sottese all’assegnazione di quel potere significa (o equivale a) violare la legge stessa.

[17] Cass. pen., Sez. VI, 22.6.2017 (dep. 13.9.2017), n. 41768.

[18] Cass. pen., Sez. Fer., 25.8.2020 (dep. 17.11.2020), n. 32174, e ss.

[19] Si veda A. Natalini, Nuovo abuso d’ufficio, il rischio è un’incriminazione ‘fantasma’”, in Guida al dir., n. 42/2020, p. 76 e ss.

[20] Cass. pen., Sez. Fer., 25.8.2020 (dep. 17.11.2020), n. 32174.

[21] Corte cost., 24.11.2021 (dep. 18.1.2022), n. 8.

[22] Fa correttamente notare M. PARODI GIUSINO, In memoria dell’abuso d’ufficio?, in Sist. Pen., 7-8/2021, p. 74, che “è davvero fortissima l’impressione di trovarsi di fronte ad una situazione déjà vu: le considerazioni di politica criminale, la valutazione dei problemi da risolvere, gli obiettivi perseguiti e (per una certa parte della fattispecie di reato) le modalità tecniche di (ri)scrittura dell’art. 323, secondo cui oggi si è proceduto alla modifica dell’abuso d’ufficio, sembrano per molti aspetti una fotocopia di quelle che portarono alla precedente riforma ad opera della legge 16 luglio 1997, n. 234”.

[23] Le evidenziazioni in grassetto sono opera del sottoscritto.

[24] B. MUSOLINO, Prospettive per una nuova riforma dell’abuso d’ufficio: è l’abrogazione dell’art. 323 c.p. la soluzione definitiva per superare la “paura della firma”?, in PDP, 2/2023, p. 265, parla condivisibilmente di sterilizzazione, da parte della giurisprudenza, de “l’effetto restrittivo della riforma”, soprattutto in relazione al concetto di discrezionalità.

[25] Cass. pen., Sez. VI, 28.1.2021 (dep. 1.3.2021), n. 8057.

[26] Cass. pen., Sez. III, 8.6.2022 (dep. 3.8.2022), n. 30586 (nel caso di specie si trattava della violazione dell’art. 27 del D.P.R. 6.6.2001, n. 380, relativo alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia).

[27] Cass. pen., Sez. VI, 1.2.2021 (dep. 15.4.2021), n. 14124.

[28] In questo senso, Cass. pen., Sez. III, 21.2.2023 (dep. 27.4.2023), n. 17397.

[29] M. PARODI GIUSINO, In memoria, cit., p. 76, tende giustamente ad escludere che dopo la riforma del 1997 “l’art. 323 fosse formulato in termini tanto imprecisi, vaghi, da non consentire una adeguata comprensione della portata dell’incriminazione o da lasciare al giudice margini inaccettabilmente ampi di spazio interpretativo, tali da consentirgli arbitrii”.

[30] Tra i tanti: C. BENUSSI, I Delitti contro la pubblica amministrazione, Tomo I, I delitti dei pubblici ufficiali, in Trattato di diritto penale, parte speciale, diretto da G. MARINUCCI e E. DOLCINI, Padova, 2013, p. 923 e ss.; A. BONDI, A. DI MARTINO, G. FORNASARI, Reati contro la pubblica amministrazione, Torino, 2008, p. 248 e ss.; M. CATENACCI, Abuso d’ufficio, in Trattato teorico/pratico di diritto penale, diretto da F. PALAZZO e C.E. PALIERO, Reati contro la pubblica amministrazione e contro l’amministrazione della giustizia (a cura di M. CATENACCI), Torino, 2011, p. 120 e s.; G. COCCO, Abuso d’ufficio, in Manuale di diritto penale, P.S., I reati contro i beni pubblici (a cura di G. COCCO, E.M. AMBROSETTI, E. MEZZETTI), Padova, 2010, p. 249; G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, Parte speciale, I, Bologna, 2007, p. 247; A. MERLO, L’abuso d’ufficio tra legge e giudice, Torino, 2019, p. 15 e ss.; A. PAGLIARO, M. PARODI GIUSINO, Principi di diritto penale, P.S., I, Delitti contro la pubblica amministrazione, Milano, 2008; M. ROMANO, I delitti contro la pubblica amministrazione, I delitti dei pubblici ufficiali, Milano, 2006, p. 258; G. RUGGIERO, Abuso d’ufficio, in Trattato di diritto penale, P.S., diretto da G.F. GROSSO, T. PADOVANI, A: PAGLIARO, Reati contro la pubblica amministrazione (a cura di C.F. GROSSO e M. PELLISSERO), Milano 2015, p. 351 e ss.; S. VINCIGUERRA, I delitti contro la pubblica amministrazione, Padova, 2008, p. 278 e s.

[31] Ovviamente, non è questa la sede per dar conto della discussione sull’ammissibilità o meno di ipotizzare reati plurioffensivi.

[32] Oltre al DDL Nordio, tra le proposte di legge di (ennesima) riforma dell’abuso d’ufficio, ve ne sono altre, alcune che prevedono anch’esse l’abolizione tout court, altre il declassamento ad illecito amministrativo, altre l’abrogazione parziale con espunzione dell’abuso di vantaggio. Per un esaustivo resoconto di queste ulteriori proposte v. B. MUSOLINO, Prospettive, cit., p. 266 e ss.

[33] Al quale va accostato e letto congiuntamente il principio di frammentarietà per il quale l’illecito penale non solo non coincide necessariamente con l’illecito giuridico o con l’illecito morale ma serve tendenzialmente a tutelare il soggetto passivo da particolari e più gravi modalità di aggressione al bene giuridico (es. truffa e mero inadempimento rispetto al bene giuridico patrimonio).

[34] L. SALVATO, Sulle proposte di legge in tema di abuso d’ufficio e traffico di influenze illecite, in Giur. Pen. Web, 2023, 5, p. 1 e s.

[35] D. BRUNELLI, Eliminare l’abuso d’ufficio: l’uovo di Colombo o un ennesimo passaggio a vuoto?, in Arch. pen., 2023, 3, p. 4, afferma efficacemente che “Se escludiamo le depenalizzazioni deflattive “generaliste” del 1989 e del 2016, nei casi più̀ specifici il legislatore decide di cancellare una norma incriminatrice per due differenti ragioni: a) in seguito ad una valutazione di sopraggiunta eccedenza dello strumento penale rispetto allo scopo di tutela del bene che la norma realizza, quasi sempre conseguente ad una mutata sensibilità̀ politico-ideologica verso quel bene o in ordine al bilanciamento degli interessi in gioco; b) nell’ambito di un’operazione di “riassetto” della materia, anche con formulazione di nuove norme chiamate ad assumere su di sé il compito di tutela di quel bene, quindi in una prospettiva di miglioramento di efficacia e di qualità̀”.

[36] Tendenzialmente il legislatore ricorre in questi casi a provvedimenti di depenalizzazione o di decriminalizzazione, soprattutto al fine di deflazionare il carico processuale.

[37] Si veda D. BRUNELLI, Eliminare l’abuso, cit., p. 4 e s.

[38] Si rinvia al successivo par. 9.

[39] Secondo M. GAMBARDELLA, L’abrogazione dell’abuso d’ufficio e la riformulazione del traffico d’influenze nel “disegno di legge Nordio”, in Sist. Pen., 26 settembre 2023, “(…) non potrebbe essere più penalmente rilevante, ai sensi dell’art. 323 c.p., il demansionamento di un dipendente comunale attuato con intento discriminatorio o ritorsivo. Ancora, non sarebbe più penalmente rilevante – nell’ambito di concorsi universitari – la condotta di un membro di una commissione e di un candidato che, attraverso condotte minacciose e con mezzi fraudolenti, turbano la regolarità di un concorso per un posto da professore (…)”.

[40] M. DONINI, Gli aspetti autoritari della mera cancellazione dell’abuso d’ufficio, in Sist. Pen., 23 giugno 2023, p. 3.

[41] M. DONINI, Gli aspetti, cit., p. 3, sostiene causticamente: “Dunque, chi potrebbe sentirsi protetto da una legislazione priva dell’abuso di ufficio nella parte in cui punisce la volontaria violazione di legge commessa dal soggetto pubblico, che rechi intenzionalmente a terzi un danno ingiusto? Credo solo il pubblico ufficiale che abusa”.

[42] M. DONINI, Gli aspetti, cit., p. 3, per il quale “che l’art. 323 c.p. riguardi solo i sindaci, è una bufala giornalistica e politica che la dice lunga sulla maturazione del metodo legislativo e sull’uso strumentale dell’informazione giuridica”. Ad analoga conclusione giunge, sulla base oggettiva dell’analisi delle sentenze massimate dalla Corte di cassazione dal 1997 ad oggi, C. PAGELLA, L’abuso d’ufficio nella giurisprudenza massimata della Corte di cassazione: un’indagine statistico-criminologica su 500 sentenze, in Sist. Pen., 6/2023, p. 236: “(…) alla luce dell’analisi da noi condotta, non sembrerebbe vero che i sindaci siano un bersaglio privilegiato del presunto accanimento delle procure: le sentenze che li riguardano sono di poco più numerose di quelle che hanno ad oggetto detentori di altre cariche elettive, ma di molto inferiori a quelle che invece vedono come protagonisti dei ‘tecnici’ (dirigenti di uffici di enti territoriali, medici, professori universitari…)”.

[43] T. PADOVANI, Vita morte e miracoli, cit., p. 15.

[44]Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché sia punibile come reato la condotta seguente, se intenzionale:

1. l’esecuzione o l’omissione di un atto, in violazione delle leggi, da parte di un funzionario pubblico nell’esercizio delle sue funzioni al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un terzo;

2. l’esecuzione o l’omissione di un atto, in violazione di un dovere, da parte di una persona che svolge a qualsiasi titolo funzioni direttive o lavorative per un’entità del settore privato nell’ambito di attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o commerciali al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un terzo”.

[45] È pur vero che, come si legge nello stesso Dossier, la XIV Commissione della Camera ha espresso parere negativo, parere confermato dalla Camera dei deputati nel luglio del 2023, ma ciò non toglie che una precisa indicazione di tipo euro-unitaria ci sia.

[46] Fa giustamente notare, tra le altre cose, A. CISTERNA, Via l’abuso d’ufficio, una svolta radicale che modifica l’assetto dei poteri italiani, in Guida al dir., n. 25/2023, p. 10 e s., che “La questione, invero, non riguarda l’azione penale in sé, quanto il clamore mediatico che accompagna le investigazioni, la platealità di certe perquisizioni, il clangore di certi megafoni politici”.

[47] Osserva G.L. GATTA, L’annunciata riforma dell’abuso di ufficio: tra “paura della firma”, esigenze di tutela e obblighi internazionali di incriminazione, in Sist. Pen., 5/2023, p. 168, che “ci sono dunque tante denunce di abuso d’ufficio perché tanti sono i casi in cui, a torto o a ragione, i cittadini pensano di subire abusi (…). L’archiviazione di otto procedimenti ogni dieci testimonia, a ben vedere, sia la facilità di avviare con una denuncia i procedimenti, sia il forte filtro della magistratura nel fermare allo stadio iniziale la stragrande maggioranza di quelli destinati a finire nel nulla”. Contra, M. ZANIOLO, Abuso d’ufficio: a che punto siamo?, in PDP, 3/2023, p. 7 e s.

[48] Così, Cass. civ., Sez. Un., 26.9.2017 (dep. 13.9.2018), n. 22402. Nello stesso senso Cass. civ., Sez. Un., 5.7.2011 (dep. 12.10.2011), n. 20936, per la quale “L’art. 335 cod. proc. pen. dispone che l’iscrizione di cui si tratta deve avvenire “immediatamente”. La perentoria assolutezza della norma impedisce di ritenere sussistente un qualche margine di facoltatività della sua applicazione (…)” (si vedano pure: Cass. civ., Sez. Un., 15.6.2006 [dep. 21.9.2006], n. 20505; Cass. civ., Sez. Un., 25.6.2000 [dep. 14.11.2000], n. 1176). Come è noto, le Sezioni Unite civili hanno competenza sulle impugnazioni contro le sanzioni disciplinari disposte dal C.S.M.

[49] Anche perché non sarebbe stato inutile comparare questi dati con quelli concernenti altre fattispecie penali, quantomeno all’interno dei delitti contro la P.A., al fine di verificare se quelli contrassegnanti il delitto in argomento siano o meno così diversi dagli altri.

[50] L. SALVATO, Sulle proposte, cit., p. 3, sottolinea che alla riforma del 2020 sono conseguiti un “alto tasso di archiviazione e la riduzione delle iscrizioni del 39,3% dal 2016 al 2021. Nel 2022 abbiamo avuto il 79% di archiviazioni; nel 2021 18 condanne (nel 2016 erano state 82) e 256 assoluzioni o proscioglimenti”.

[51] M. DONINI, Gli aspetti, cit., p. 4.

[52] C. PAGELLA, L’abuso d’ufficio nella giurisprudenza, Cit., p. 231 e ss. Si veda pure la perspicua analisi fatta da R. GAROFOLI, La annunciata riforma, cit., p. 5 e s.

[53] M. GAMBARDELLA, Considerazioni, cit., p. 2.

[54] In questo senso V. MANES, Contestazioni in eccesso e la fine dell’abuso d’ufficio, in N&T Plus, 23 giugno 2023, p. 2.

[55] Articolo così modificato dal D.Lgs. 10.10.2022, n. 150 (c.d. Riforma Cartabia). Lo stesso D.Lgs. ha introdotto anche il successivo art. 335 bis c.p.p.

[56] In questo senso M. GAMBARDELLA, Considerazioni, cit., p. 2 e s.

[57] Rinvenibile sul sito della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

[58] Ai quali vanno aggiunti quelli aventi ad oggetto l’art. 74 D.P.R. n. 309/1990: 4204 nel 2014, 4681 nel 2020 e 4719 nel 2022.

[59] Nel 2022, il 27% ha riguardato recidivi.

[60] M. DONINI, Gli aspetti, cit., p. 5.

[61] M. GAMBARDELLA, L’abrogazione, cit.

[62] V. MANES, Contestazioni, cit., p. 2; M. GAMBARDELLA, L’abrogazione, cit.

[63] Già adesso la giurisprudenza rifugge dalla restrittiva esegesi patrimonialista e ne accoglie una più ampia, ricomprendente qualsiasi vantaggio, materiale o morale, patrimoniale o meno, consistente tanto in un dare quanto in un facere. Cfr.: Cass. pen., Sez. VI, 8.1.2021 (dep. 15.3.2021), n. 10084, per la quale rientra nella nozione di altra utilità “qualsiasi vantaggio materiale o morale, patrimoniale o non patrimoniale, che abbia valore per il pubblico agente”.

[64] Desta stupore che i proponenti del DDL non sembrino prendere in considerazione questo rischio nonostante, espressamente, ammettano la stretta contiguità tra l’abuso d’ufficio e altre figure di reato. Infatti, il Supplemento al DDL parla di “confine, non sempre ben definito, rispetto ad altre fattispecie di reato contro la Pubblica Amministrazione, quali lo stesso reato di corruzione”. Appunto, verrebbe da dire.

[65] Si può anche uscire dal recinto dei reati contro la P.A., come ipotizza, non senza ragione, D. BRUNELLI, Eliminare l’abuso, cit., p. 7, il quale aggiunge le “figure del falso in atto pubblico (art. 479 c.p., ampliato dall’art. 48 c.p.), pronte a gonfiarsi di attestazioni implicite, di atti pubblici immateriali o comunque del tutto privi di ceralacca e timbri”.

[66] A. MANNA, L’abolizione, cit, p. 11, parla senza mezzi di termini di “una riforma, (…), illiberale, ove il legislatore (…), ha evidenziato tutta la sua “insipienza”, nell’indebolire senza ragione alcuna uno dei settori più importanti della parte speciale del diritto penale di stampo codicistico”.

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