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La Consulta riconosce la sessualità in carcere. Una tappa importante del percorso di inveramento del volto costituzionale della pena

Con sentenza n. 10 del 2024 (in G.U. 31.01.2024, n. 5, la Corte costituzionale “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui in motivazione, a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie”. Un approdo importante, seppur ancora incompiuto, al diritto per le persone detenute all’intimità.

Con ordinanza del 12 gennaio 2003, il Giudice di Sorveglianza di Spoleto rimetteva alla Consulta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 “nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia”.

Il giudice a quo evidenziava come l’imposizione ad opera dell’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario del controllo a vista da parte del personale di custodia si traduce nella negazione di rapporti intimi con il proprio partner, un vero e proprio divieto di esercitare l’affettività in una dimensione riservata e, di conseguenza, il diritto alla sessualità definito fondamentale, finalizzato ad una serena relazione di coppia.

Chiarisce, l’ordinanza di rimessione, come l’istituto del permesso premio non possa affatto considerarsi idoneo a garantire a tutti il diritto, sia in considerazione delle tante persone ristrette in custodia cautelare che non vi hanno accesso, sia a causa dei termini per richiederlo al magistrato di sorveglianza che impongono comunque un tempo, a volte molto lungo, dal momento che la previsione nel programma trattamentale di tale opportunità consegue all’esito dell’osservazione intramuraria ed è, pertanto, incerta nell’an e nel quando. Ancora, a fronte del fatto che non sia possibile subordinare l’accesso a un diritto soggettivo fondamentale a logiche di premialità e di raggiungimento di obiettivi trattamentali.

Tantomeno sarebbe invocabile l’istituto del permesso per motivi familiari di particolare gravità, contemplato dall’art. 30 O.P. per casi molto stringenti, che non includono quanto attiene alla sfera della sessualità.

Il divieto di colloqui intimi tra il detenuto e il partner lederebbe il “diritto [del primo] alla libera espressione della propria affettività, anche mediante i rapporti sessuali, quale diritto inviolabile riconosciuto e garantito, secondo il disposto dell’art. 2 Cost.”.

Sarebbe altresì violato l’art. 13, primo comma, Cost., perché “[l]a forzata astinenza dai rapporti sessuali con i congiunti in libertà” integrerebbe una compressione aggiuntiva della libertà personale, ingiustificata da specifiche esigenze di sicurezza.

L’art. 13 Cost. sarebbe violato anche nel quarto comma, giacché il divieto di assecondare una normale sessualità si risolverebbe in una violenza fisica e morale sulla persona sottoposta a restrizione di libertà, peraltro con negativa incidenza su qualunque progetto di nuova genitorialità.

Ne deriverebbe inoltre un vulnus alla serenità e alla stabilità della famiglia, protette dagli artt. 29, 30 e 31 Cost., nonché un danno alla salute psicofisica del detenuto, garantita dall’art. 32 Cost.

Ancora, sarebbe contraria al senso di umanità e inidonea alla finalità rieducativa, con violazione dunque dell’art. 27, terzo comma, Cost., una pena che conducesse, “attraverso la sottrazione di una porzione significativa di libera disponibilità del proprio corpo e del proprio esprimere affetto, ad una regressione del detenuto verso una dimensione infantilizzante”.

Con sentenza n. 10 del 2024, la Corte costituzionale, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui motivazione, a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie.

A fronte dell’ opposizione dell’ Avvocatura di Stato che aveva chiesto di dichiarare inammissibile la questione in coerenza al precedente arresto della Consulta con sentenza n. 301 del 2012, la Corte ha ravvisato la necessità di apprestare tutela a una esigenza reale e fortemente avvertita, quale quella di permettere alle persone sottoposte alla restrizione della libertà personale di continuare ad avere relazioni affettive intime anche a carattere sessuale, a fronte di un quadro normativo oggi mutato in ragione delle norme che parificano i diritti spettanti al coniuge a quelli del convivente di fatto nonché, in materia di colloqui penitenziari, a quelli della parte dell’ unione civile tra persone dello stesso sesso, chiarendo uno degli aspetti che aveva indotto la Corte a ritenere non praticabile l’accoglimento della questione pur segnalando che si trattasse di un “problema che merita ogni attenzione”. E, ancora, in ragione della modifica intervenuta proprio sull’art. 18 O.P. secondo cui “i locali destinati ai colloqui con i familiari favoriscono, ove possibile, una dimensione riservata del colloquio e sono collocati preferibilmente in prossimità dell’ingresso dell’istituto”.

Il tema della sessualità o, meglio, dei colloqui intimi in carcere, infatti, era già stato nel tempo oggetto di studio e di interesse in ragione degli evidenti riflessi di esso sulla vita delle persone ristrette.

Già nel 1987, con sentenza numero 561, il Giudice delle leggi aveva affermato: “essendo la sessualità uno degli essenziali modi di espressione della persona umana il diritto di disporne liberamente è senza dubbio un diritto soggettivo assoluto che va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l’art. 2 Cost. impone di garantire”.

Nel 2012 il tribunale di sorveglianza di Firenze, con l’avallo della procura generale competente, interpellava la Corte costituzionale chiedendo che fosse dichiarato illegittimo l’art. 18 O.P. che nel prevedere la costante presenza vigile del personale penitenziario agli incontri del recluso con i propri congiunti comportava una lesione del diritto ad una carcerazione umana e non degradante rientrando il diritto della persona ristretta ad avere rapporti sessuali con il coniuge o con il partner tra i diritti inviolabili dell’uomo, anche secondo le raccomandazioni del Consiglio d’Europa.

La Raccomandazione n. 1340(1997) del Consiglio d’Europa, sugli effetti sociali e familiari della detenzione, adottata dall’Assemblea generale il 22 settembre 1997, all’art. 6 invita, infatti, gli Stati membri a “migliorare le condizioni previste per le visite da parte delle famiglie, in particolare mettendo a disposizione luoghi in cui i detenuti possano incontrare le famiglie da soli”. In modo ancora più puntuale, la successiva Raccomandazione R. (2006) sulle regole penitenziarie europee, adottata dal Comitato dei ministri l’11 gennaio 2006, prevede, con la regola n. 24.4, che “le modalità delle visite devono permettere ai detenuti di mantenere e sviluppare relazioni familiari il più possibile normali”: concetto – quello di normalità – che evoca anche i profili affettivi e sessuali, come emerge dal commento a detta regola, ove si precisa che, “ove possibile, devono essere autorizzate visite familiari prolungate”, le quali “consentono ai detenuti di avere rapporti intimi con il proprio partner”, posto che “le visite coniugali” più brevi autorizzate a questo fine possono avere un effetto umiliante per entrambi i partner.

Anche la Raccomandazione del Parlamento europeo del 9 marzo 2004, n. 2003/2188(INI), sui diritti dei detenuti nell’Unione europea, nell’invitare il Consiglio a promuovere, sulla base di un contributo comune agli Stati membri dell’Unione europea, l’elaborazione di una Carta penitenziaria europea comune ai Paesi membri del Consiglio d’Europa, menziona specificamente, all’art. 1, lettera c), tra i diritti da riconoscere ai detenuti, “il diritto ad una vita affettiva e sessuale prevedendo misure e luoghi appositi”. Sebbene non immediatamente vincolanti per lo Stato italiano e tali, comunque, da lasciare “una certa flessibilità” nella loro attuazione, le regole ora ricordate indicherebbero, peraltro, chiaramente quale sia la tendenza del “regime penitenziario europeo”.

Coerentemente, l’art. 8 Cedu, nell’ammettere limiti all’obbligo degli Stati al rispetto alla vita privata e familiare di ogni individuo, dà corpo al concetto che gli stessi possano essere, appunto, limitati, mai annullati, dalla condizione di restrizione della libertà personale in un contemperamento di interessi di pari rango che ammette la contrazione di diritti soggettivi solo in ragione di comprovate esigenze di sicurezza.

La pronuncia della Consulta, n. 301, intervenuta nel dicembre del 2012, rassegnava, tuttavia, la propria incompetenza a definire, senza l’intervento del legislatore, un ambito tanto complesso e delicato che involge il tema dell’ordine e della sicurezza e richiede l’estrinsecazione chiara di termini e di modalità di accesso al diritto a vivere, pur reclusi, la propria sessualità, l’individuazione dei relativi destinatari, interni ed esterni, la definizione dei presupposti comportamentali per la concessione delle “visite intime”, la specificazione del loro numero e della loro durata, la predisposizione dei locali, la determinazione delle misure organizzative.

Nel 2016, si dava il via agli Stati Generali dell’esecuzione penale, un’imponente operazione di raccordo di esperti nel settore della giustizia e l’istituzione di 18 tavoli tematici, tra i quali uno denominato “Mondo degli affetti e territorializzazione della pena”: riconoscimento del valore assoluto della vita affettiva del detenuto come anello fondante il percorso di recupero, di reintegrazione e di reinserimento sociale.

Tra gli obiettivi enunciati: tenendo anche in considerazione le esperienze straniere, “il problema del se ed eventualmente del come assicurare all’interno del carcere uno spazio e un tempo in cui la persona detenuta possa vivere la propria sessualità “.

Per i colloqui intimi, il Tavolo 6 aveva proposto modifiche normative volte ad introdurre il nuovo istituto giuridico della “visita”, che si distingue dal “colloquio”, già previsto dalla normativa, poiché garantisce al detenuto incontri privi del controllo visivo oltre che auditivo da parte del personale di sorveglianza. Si legge nella relazione: “Il gruppo ha ipotizzato la creazione di un nuovo istituto giuridico costituito dalla visita che può essere effettuata all’interno del carcere tra il detenuto e le persone con cui è autorizzato a fare colloquio. La visita si distingue dal colloquio, già previsto dalla normativa, poiché garantisce l’esercizio del diritto all’affettività del detenuto e quindi la possibilità di incontrarsi con chi è autorizzato ad effettuare i colloqui, senza però che durante lo svolgimento della visita vi sia un controllo visivo e auditivo da parte del personale di sorveglianza. I caratteri connotanti della visita sono: può essere effettuata con tutte le persone che vengono autorizzate ad effettuare colloqui. In tal senso si è scelto di non fare distinzioni tra familiari, conviventi e le cc. dd. “terze persone”, poiché si tratta di garantire il diritto della persona detenuta alla cura dei rapporti affettivi, senza limitarli alla sfera familiare o coniugale; le visite si svolgono in apposite “unità abitative” collocate all’interno dell’istituto, adeguatamente separate dalla zona detentiva; la loro manutenzione e pulizia è affidata ai detenuti lavoranti individuati dalla direzione; la durata di una visita può andare da un minimo di quattro ore ad un massimo di sei “laddove vi sia la disponibilità di spazi sufficienti a garantirla” (v. proposta allegata di modifica art. 18 O.P.); si prevede il diritto di ogni detenuto ad almeno una visita ogni due mesi, con un avvio sperimentale, entro sei mesi dall’entrata in vigore della modifica di legge, in cinquanta istituti penitenziari. Seguirà la messa a regime entro due anni in tutti gli istituti. Su questo tema insisteva l’ultima domanda del questionario indirizzato agli istituti a riguardo della disponibilità di spazi interni per garantire il diritto all’affettività. Quasi tutte le direzioni che hanno risposto al questionario comunicano che non vi è attualmente alcuna disponibilità, ma ad un’analisi più contestualizzata si può sostenere che almeno nel 50% dei casi vi sono le aree utili per andare a collocare ex novo le cc. dd. “unità abitative”, con l’insediamento di prefabbricati negli istituti di più recente definizione (costruiti dagli anni ’80 in poi) e con le ridefinizioni di alcuni spazi esistenti negli istituti più vecchi che spesso non dispongono di aree aperte da recuperare. 16 Si è discusso del rapporto tra spazi ricavabili, numero di detenuti ipoteticamente presenti in una struttura e organizzazione dei servizi per garantire il diritto all’affettività. In proposito le autorizzazioni all’accesso per le visite si sovrappongono a quelle per i colloqui; pertanto, su questo aspetto non vi sono elementi di criticità. È invece il rapporto tra spazi e numero di detenuti che ha spinto il gruppo, almeno in una prima fase di applicazione della legge, a fissare il diritto minimo a una visita ogni due mesi. Infatti, soprattutto negli istituti più grandi appare estremamente problematico abbreviare il sopracitato range; si pensi ad un istituto con una media di mille detenuti, che disponga di dieci unità abitative e che con un servizio di ricezione di otto ore per cinque giorni a settimana potrebbe teoricamente garantire venti visite al giorno, 100 a settimana e circa 400 al mese”.

Nel ddl n. 4368 del 2017, di modifica del codice penale, di procedura penale, dell’ordinamento penitenziario, veniva previsto, tra gli obiettivi della delega il cui fine ultimo era l’attuazione, finalmente, dell’art. 27 della Costituzione: “il riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute e internate e disciplina delle condizioni generali per il suo esercizio”.

La Commissione di esperti nominata per tradurre in norme gli impeti di garanzia della promessa riforma aveva proposto una modifica dell’art. 18 O.P. introducendo i commi 3 bis, ter e quater: “Ai detenuti e agli internati, ad eccezione di quelli sottoposti al regime previsto dall’art. 41 bis, co. II O.P., sono consentiti incontri periodici di durata non inferiore alle tre ore consecutive con il coniuge, con la parte dell’unione civile, con il convivente e con persone legate da continuativi rapporti affettivi desumibili anche dai colloqui e dalla corrispondenza, senza controllo visivo e auditivo, in locali idonei  a consentire relazioni intime”; “l’autorizzazione agli incontri è concessa dal direttore, su richiesta dell’interessato, acquisite le necessarie informazioni e, per gli imputati, il nulla osta del giudice individuato ai sensi dell’art. 11 c. II. È data la precedenza a coloro che non possono coltivare la relazione affettiva in ambiente esterno. Possono autorizzarsi incontri con frequenza ravvicinata per coloro che, a causa della distanza o delle condizioni soggettive della persona a loro affettivamente legata, non possano fruirne con cadenza regolare”; “l’autorizzazione è negata quando l’interessato ha tenuto una condotta tale da far temere comportamenti prevaricatori o violenti ovvero quando sussistono elementi concreti per ritenere che la richiesta abbia finalità diverse dal coltivare le relazioni affettive”.

Numerose le difficoltà affrontate e le resistenze riscontrate (l’opposizione strenua dei sindacati di polizia penitenziaria che tuonavano “carceri come postriboli”, un sentire comune che relega il sesso alla dimensione ludica e peccaminosa inconciliabile con l’istanza punitiva della reclusione). Dolorosa l’esclusione delle persone ristrette nel regime derogatorio di cui all’art. 41 bis O.P., diuturnamente sottratte a qualsivoglia approdo alle aspirazioni risocializzanti costituzionalmente annesse ad ogni pena, senza eccezioni.

L’esperienza degli Stati Generali e i decreti attuativi della Legge delega, tuttavia, sono rimasti per lo più lettera morta – sebbene costituiscano un bagaglio prezioso di studi e di esperienze sempre potenzialmente fruibili per il legislatore – in ragione di cautele di convenienza politica, espressione della nota, imperante quanto erronea convinzione che più dura è la punizione maggiore è la sicurezza.

Finalmente la Consulta cristallizza oggi l’esistenza di un diritto soggettivo alla sessualità, ad un approccio intimo con il proprio partner che non la importa necessariamente ma neppure la esclude e cui consegue necessariamente la previsione di spazi sottratti allo sguardo del terzo.

Ribadisce che si tratta di materia di diritti primari perché connessi all’essenza della persona nel suo dispiegarsi nelle relazioni sociali ove si sviluppa la sua personalità.

“Tra i «principi direttivi» dell’ordinamento penitenziario, declinati dall’art. 1 della legge n. 354 del 1975 – scrive la Corte – vi è quello per cui «[i]l trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona» (comma 1, primo periodo), quello per cui esso «è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni degli interessati» (comma 2) e altresì il principio del “minimo mezzo”, per cui «[n]on possono essere adottate restrizioni non giustificabili con l’esigenza di mantenimento dell’ordine e della disciplina e, nei confronti degli imputati, non indispensabili a fini giudiziari» (comma 5)”. Detti principi corrispondono a quelli enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte sul «volto costituzionale» della pena, che è una sofferenza in tanto legittima in quanto inflitta «nella misura minima necessaria»”.

Secondo la Consulta: “La prescrizione del controllo a vista sullo svolgimento del colloquio del detenuto con le persone a lui legate da stabile relazione affettiva, in quanto disposta in termini assoluti e inderogabili, si risolve in una compressione sproporzionata e in un sacrificio irragionevole della dignità della persona, quindi in una violazione dell’art. 3 Cost., sempre che, tenuto conto del comportamento del detenuto in carcere, non ricorrano in concreto ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né sussistano, rispetto all’imputato, specifiche finalità giudiziarie”. “Un ulteriore profilo di irragionevolezza delle restrizioni imposte all’espressione dell’affettività, quali conseguono all’inderogabilità del controllo a vista sui colloqui familiari, riguarda il loro riverberarsi sulle persone che, legate al detenuto da stabile relazione affettiva, vengono limitate nella possibilità di coltivare il rapporto, anche per anni”.

Un aspetto, quest’ultimo, di estrema rilevanza perché la Corte si occupa della lesione che produce il carcere non soltanto al detenuto ma anche all’esterno, ai suoi familiari, alle persone a lui legate, in termini di compressione della dignità umana su chi, pur estraneo al reato e alla condanna, tuttavia, subisce dalla detenzione del loro caro un pregiudizio indiretto. Uno sguardo lungimirante sul senso della pena e sulla frattura che determina inevitabilmente nel mondo affettivo del ristretto anche in ragione della sofferenza e delle privazioni che ne discendono per coloro che con il detenuto hanno una relazione affettiva; sulla necessità, ancora, coerente agli obiettivi della pena secondo Costituzione, di tutelare i legami della persona detenuta con il mondo esterno “in quanto una pena che impedisce al condannato di esercitare l’affettività nei colloqui con i familiari rischia di rivelarsi inidonea alla finalità rieducativa e di produrre la dissoluzione delle relazioni affettive frustrate dalla protratta impossibilità di coltivarle nell’intimità di incontri riservati, con quell’esito di “desertificazione affettiva” che è l’esatto opposto della risocializzazione.

Nel dichiarare l’illegittimità nella norma censurata, la Corte costituzionale richiama le regole penitenziarie europee laddove è stabilito che le visite devono essere svolte con modalità tali da consentire ai detenuti di mantenere e sviluppare le relazioni, nello specifico familiari, in modalità il più possibile coerenti alla vita libera. La prescrizione del controllo a vista, scrive la Corte, si risolve in una compressione sproporzionata dei diritti dell’individuo e in un sacrificio irragionevole della dignità della persona. Anche ove si pensi ai matrimoni celebrati in carcere, la privazione di una compiuta intimità e il fenomeno indicato con l’immagine dei “matrimoni bianchi” conduce a una lesione della dignità degli sposi.

La disposizione censurata, scrive ancora la Corte, si pone anche in violazione dell’articolo 117 della Costituzione in riferimento all’articolo 8 Cedu. La Corte di Strasburgo, infatti, chiede espressamente di operare un bilanciamento tra interessi pubblici e privati contemperando le ragioni di sicurezza, di difesa dell’ordine e di prevenzione dei reati, con le esigenze individuali.

La Corte rimanda, infine, alla precedente sentenza, n. 26 del 1999, con la quale si è dichiarata l’illegittimità degli articoli 35 e 69 dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevedevano una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti dei detenuti. Anche in tale occasione la Consulta richiamava il legislatore all’esercizio della funzione normativa che ad esso compete. Si tratta dunque di una sentenza “additiva di principio” con la quale la Corte accerta la fondatezza della questione di legittimità costituzionale e dichiara l’illegittimità della disposizione di legge nella parte in cui non prevede qualcosa che dovrebbe prevedere e tuttavia non integra con la regola mancante ma chiarisce il principio al quale il legislatore dovrà ispirarsi nella futura azione legislativa e il giudice dovrà adattarsi nella sua decisione del caso concreto.

L’azione combinata del legislatore, della magistratura di sorveglianza e dell’amministrazione penitenziaria, ciascuno per le rispettive competenze, potrà accompagnare una tappa importante del percorso di inveramento del volto costituzionale della pena, prescrive la Corte.

Consapevole dell’impatto che la pronuncia di legittimità costituzionale avrà nella gestione degli istituti penitenziari già gravati da un estremo sforzo organizzativo a fronte del sovraffollamento detentivo e di una endemica carenza di risorse umane e materiali, nonché del rischio di una discontinua e non uniforme attuazione del diritto appena disegnato, la Corte chiarisce alcuni principi cui il legislatore dovrà adattarsi e cui gli operatori tutti dovranno conformarsi.

La durata dei colloqui intimi deve essere adeguata all’obiettivo di consentire al detenuto e al suo partner di esprimere appieno l’affettività e l’intimità anche sessuale; le visite devono potersi svolgere in modo non sporadico al fine di consentire la continuità di una relazione affettiva; i luoghi deputati agli incontri devono essere appropriati dotando gli istituti di apposite unità abitative organizzate per consentire anche la consumazione di pasti e riprodurre il più possibile un ambiente di tipo domestico; i locali devono essere sottratti allo sguardo esterno.

 Ritiene la Corte che la possibilità che gli incontri tendano all’approccio sessuale determina la necessità che si svolgano esclusivamente con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona stabilmente convivente. Il direttore dell’istituto dovrà verificare la sussistenza del legame affettivo e l’effettività della pregressa convivenza.

Un aspetto, questo, di estrema problematicità perché allo stato le carceri pretendono, perfino per l’accesso ai colloqui ordinari, un certificato di convivenza che molti ristretti stranieri non sono in grado di produrre. Occorrerà, allora, che si stabiliscano nuovi criteri per definire la “convivenza di fatto” di cui parla la Consulta per e aprire ai colloqui, intimi e non, per coloro che di essa riescano a fornire prova al di là di una certificazione a volte non disponibile anche ammettendo, come si era fatto nei decreti attuativi della delega del 2017, che un legame affettivo potesse essere scaturito, nel corso di una detenzione magari molto lunga, anche da una corrispondenza epistolare.

Occorrerà – precisa la Corte – tener conto di ragioni di sicurezza o di esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina e, riguardo all’imputato, di motivi di carattere giudiziario potendo quindi rilevare in senso ostativo condotte irregolari o precedenti disciplinari. Per l’imputato, invece, saranno da considerare rilevanti esigenze processuali quali quelle di salvaguardia della prova, di competenza dell’autorità che procede. Concetti, in vero, estremamente vaghi, generici e ampiamente interpretabili che instillano il timore di una applicazione potenzialmente arbitraria da parte delle singole direzioni che tenda a rendere di fatto il beneficio connesso a logiche di premialità in aspro conflitto con le statuizioni della Consulta ed al carattere finalmente riconosciuto alla sessualità di diritto soggettivo primario, espressione di ogni individualità.

Resteranno esclusi i ristretti in regime di 41 bis, co. II O.P. e chi è soggetto alla sorveglianza particolare per il tempo di durata della misura. Non le persone ristrette per i reati di cui all’art. 4 bis O.P. per le quali “non sussistono impedimenti normativi che precludano l’esercizio dell’affettività intra moenia, posto che l’ostatività del titolo di reato inerisce alla concessione dei benefici penitenziari e non riguarda le modalità dei colloqui”. Tuttavia, in ragione della presunzione di pericolosità connessa al tipo di reato ed alle limitazioni previste per i colloqui dall’art. 37 co. 8 d.p.r. 230 del 2000, sarà ammesso “un maggiore controllo sugli incontri di queste persone, e ciò non può che tradursi in una più stringente verifica dei presupposti di ammissione all’esercizio dell’affettività intramuraria”.

Ribadisce, dunque, la Corte il concetto che l’accesso al diritto non debba essere connesso a ragioni di premialità o di gradualità inerenti alla partecipazione al percorso rieducativo. Va tenuto presente che la Consulta ha giudicato rilevante la questione prospettata relativa a un detenuto cui era impossibile accedere alla sessualità perché gravato da sanzioni disciplinari che non lo rendevano ancora meritevole di permesso premio. Ciò indica che la valutazione del comportamento dovrà essere espressa in termini di sicurezza e non in termini di astratta meritevolezza.

“Resta ovviamente salva – conclude – la possibilità per il legislatore di disciplinare la materia stabilendo termini e condizioni diversi da quelli sopra enunciati, purché idonei a garantire l’esercizio dell’affettività dei detenuti, nel senso fatto proprio dalla presente pronuncia”.

E, tuttavia, puntualizza il venir meno, all’esito della decisione, dell’inderogabilità del controllo visivo sugli incontri, ipotizzando la creazione all’interno degli istituti penitenziari, con la gradualità necessaria, di appositi spazi riservati ai colloqui intimi tra la persona detenuta e quella ad essa affettivamente legata.

“In questa prospettiva – chiosa – l’azione combinata del legislatore, della magistratura di sorveglianza e dell’amministrazione penitenziaria, ciascuno per le rispettive competenze, potrà accompagnare una tappa importante del percorso di inveramento del volto costituzionale della pena”.

Una strada che si di disegna a piccoli passi e con timide aperture a volte, spesso, interrotte da gravi battute d’arresto.

Eppure l’importante diritto, riconoscimento basilare dell’umanità dei ristretti, potrebbe cambiare perfino la logica di allocazione in carcere da sempre sorretta da criteri di sicurezza e di protezione che traggono fondamento anche nelle differenze di genere e sostanza nella drammatica esperienza maturata nel tempo che ha dimostrato come persone spezzate nella naturale propensione alla sessualità, mortificate in un così saliente aspetto della personalità, possano giungere a esprimere con violenza i propri impulsi coattivamente repressi.

La circolare DAP n. 500422 del 2001 valuta le differenze di genere proprio in termini di rischio di violenza e di prevaricazione individuando i soggetti che in ragione della loro estraneità al concetto binario (uomo/donna) siano da considerarsi particolarmente meritevoli di tutela e da allocare nelle c.d. “sezioni protette”. Il mondo LGBTQ+, quello transessuale e omosessuale vengono trattati in carcere come potenziale oggetto di rapacità sessuale e, conseguentemente, pensati come soggetti da proteggere e isolare con grave detrimento delle opportunità trattamentali e risocializzanti. Le persone transessuali vengono collocate in regimi maschili in conformità con il dato biologico e protette dalla comunità nella quale devono vivere, oggetto di attenzioni moleste e indesiderate, sentendosi a volte donne in vetrina ora ambite, ora schernite. Chi è omosessuale tende a nascondere la propria identità restando nella tranquillizzante idea binaria per non esporsi a violenze, sopraffazioni e abusi in un mondo concepito per affermare sicurezza, ordine e disciplina più che per garantire l’integrazione ed evitare ogni forma di discriminazione.

L’art. 14 O.P. novellato nel 2018 proprio in ragione del riconoscimento della particolare vulnerabilità connessa a differenze di genere e della correlata esigenza di tutela, così si esprime: “L’assegnazione dei detenuti e degli internati, per i quali si possano temere aggressioni o sopraffazioni da parte della restante popolazione detenuta, in ragione solo dell’identità di genere o dell’orientamento sessuale, deve avvenire, per categorie omogenee, in sezioni distribuite in modo uniforme sul territorio nazionale previo consenso degli interessati i quali, in caso contrario, saranno assegnati a sezioni ordinarie”. Una norma, questa, che certamente risponde ad un progresso nella considerazione dell’identità di genere di ciascuno e nel rispetto di essa e che, tuttavia, nasce dalla consapevolezza di un mondo fino a oggi brutalizzato dalla negazione dei più elementari istinti.

Il diritto alla sessualità come espressione della natura umana, come inscindibile dal bisogno di relazionalità, come aspetto saliente dell’io che ha riflessi sulla salute fisica e psichica delle persone, una volta attuato, alleggerirà certamente le pulsioni emozionali di una comunità reclusa e sofferente già vessata da una condizione del vivere assai lontana dai moniti costituzionali che ammettono unicamente le limitazioni alla libertà – il più alto, il più protetto dei diritti – rese indispensabili in virtù di esigenze di tutela della sicurezza collettiva.

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