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La Corte costituzionale sulla rimessione in termini per l’istanza di oblazione nel caso di riqualificazione giuridica officiosa.

Per consultare la sentenza, clicca su Corte Costituzionale n. 192-2020

Sommario: 1. La questione di costituzionalità dell’art. 141 co. 4 bis disp. att. c.p.p. e la decisione della Consulta; 2. Potere di riqualificazione, diritto di difesa e accesso ai riti alternativi; 3. Alcune questioni operative: tempestività dell’istanza di oblazione; onere di riproposizione; forma del provvedimento giudiziale di rimessione in termini.

 

  1. La questione di costituzionalità dell’art. 141 co. 4 bis disp. att. c.p.p. e la decisione della Consulta.

Con la sentenza in epigrafe, la Corte costituzionale si pronuncia sullo spinoso rapporto tra mutamento dell’imputazione e accesso ai riti alternativi, in particolare all’oblazione, sollecitata dalla questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale ordinario di Teramo[1], con riguardo al contrasto tra l’art. 141 co. 4 bis disp. att. c.p.p., in relazione all’art. 162 bis c.p., e l’art. 24 Cost.

Nello specifico, in un processo incardinato per atti persecutori ex art. 612 bis c.p., il giudice a quo, rilevando la plausibile riqualificazione del fatto sotto l’egida del diverso reato di molestie, aveva sollecitato le parti al contraddittorio in sede di discussione; in quell’istante, per la prima volta nell’arco della vicenda processuale e dunque oltre l’ordinario termine di decadenza, il difensore aveva avanzato domanda affinché il suo assistito fosse ammesso all’oblazione facoltativa.

Il giudice rimettente, affidandosi agli insegnamenti di matrice convenzionale, in particolare all’art. 6 CEDU come sviluppato dalla giurisprudenza di Strasburgo[2], aveva rilevato come l’imputato abbia diritto di essere informato in termini dettagliati dei fatti materiali addebitati, della qualificazione giuridica degli stessi e di ogni loro possibile modifica nel corso del giudizio.

Aveva poi osservato come il potere del giudice di riqualificare il fatto non possa essere esercitato a sorpresa ma previa incentivazione della dialettica processuale sul punto, e che nell’ordinamento interno, anche alla luce delle plurime sentenze della Consulta sugli articoli 516 e 517 c.p.p., si sia delineato in maniera sempre più incisiva il principio per cui, solo quando l’editto accusatorio è integralmente e chiaramente perimetrato, si attiva l’esercizio delle facoltà processuali, tra cui la richiesta di accesso a riti alternativi; in particolare dunque, «ogni qualvolta l’accusa originaria venga modificata nei suoi termini essenziali, non possono non essere restituiti all’imputato termini e condizioni per esprimere le proprie opzioni»[3].

Ha inoltre rilevato come, in adeguamento alla sentenza Corte cost. n. 530/1995[4], il legislatore sia intervenuto inserendo il comma 4 bis nell’art. 141 disp. att. c.p.p., e prevedendo che, «in caso di modifica dell’originaria imputazione in altra per la quale sia ammissibile l’oblazione, l’imputato è rimesso in termini per chiedere la medesima […]».

Tuttavia, osserva il giudice a quo, il predisposto meccanismo di rimessione in termini, anche alla luce della interpretazione fornitane dalla successiva giurisprudenza di legittimità, si attiva in conseguenza della modifica in fatto dell’imputazione in dibattimento e non anche quando venga in rilievo la diversa ipotesi della sua riqualificazione giuridica[5]. Inoltre, è stato chiarito dal giudice della nomofilachia che il rapporto tra riqualificazione e accesso al rito alternativo debba essere risolto ascrivendo un onere, in capo alla parte processuale, di invocare tempestivamente l’ammissione al rito alternativo con istanza condizionata alla riqualificazione giuridica; in questo modo, il giudice, qualora dovesse ritenere il fatto riqualificabile in senso conforme alla richiesta, dovrebbe ex post ammettere al rito d’interesse[6].

L’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità in merito all’ambito operativo dell’art. 141 cit. provocherebbe, a parere del rimettente, un vulnus di tutela e un eccessivo – oltre che non espressamente disciplinato – onere in capo all’imputato di prevedere la riqualificazione ed avanzare istanze cautelative, in violazione dell’art. 24 co. 2 Cost.

Infatti, laddove la diversa qualificazione emergesse solo all’esito del dibattimento, la tardiva istanza di oblazione non potrebbe ascriversi a sua colpa “dal momento che la facoltà di proporre quella domanda non può che sorgere nel momento in cui il reato stesso è oggetto di contestazione”.

La Consulta, nel dichiarare la questione infondata, rileva come, se è vero che la giurisprudenza sovranazionale ha accomunato, sul piano delle garanzie difensive, i mutamenti in fatto e in diritto dell’imputazione, non ha tuttavia imposto al legislatore italiano di predisporre espressamente istituti di rimessione in termini per avanzare istanze di rito alternativo nel caso di riqualificazione giuridica ex art. 521 c.p.p.[7]; pertanto, a giudizio della Consulta, in continuità con l’indirizzo giurisprudenziale prospettato a più riprese dalla Corte di cassazione, l’apparato normativo è in linea coi canoni costituzionali e convenzionali, e il rimedio processuale rinvenibile nel sistema, in grado di fornire adeguata tutela al diritto di difesa, è costituito dalla rimessione in termini per avanzare domanda di oblazione, purché il difensore l’abbia già formulata entro l’ordinario termine di decadenza condizionandola alla previa riqualificazione del fatto.

 

  1. Potere di riqualificazione, diritto di difesa e accesso ai riti alternativi.

La sentenza che qui si annota si colloca sul terreno dogmatico, particolarmente insidioso, costituito dal rapporto tra i mutamenti dell’imputazione e i conseguenti diritti difensivi, in particolare sotto il profilo dell’accesso ai riti alternativi.

Si parta da una sintetica analisi del dato normativo.

Come è noto, l’accusa mossa nei confronti dell’imputato, cristallizzata al momento dell’esercizio dell’azione penale, è esposta a possibili mutamenti, disciplinati dagli artt. 516 e ss. c.p.p.

Il legislatore prende in considerazione il caso in cui nel corso dell’istruttoria emerga la diversità del fatto rispetto a come enunciato nella vocatio in iudicium (art. 516 c.p.p.), un reato concorrente (concorso formale o reato continuato) o una circostanza aggravante (art. 517 c.p.p.), un fatto nuovo (art. 518 c.p.p.).

In questi casi, è elevato a dominus il pubblico ministero, il quale può formulare la nuova contestazione[8]; di conseguenza, divengono esercitabili i diritti difensivi enunciati dagli artt. 519 e 520 c.p.p. (notifica della nuova contestazione all’imputato assente; termine a difesa; ammissione di nuove prove).

La Corte costituzionale è intervenuta in più frangenti con declaratorie di incostituzionalità degli artt. 516 e 517 citt. nella parte in cui non prevedevano (e non prevedono[9]) la facoltà dell’imputato di proporre istanza di accesso a riti alternativi (patteggiamento, abbreviato, oblazione[10], messa alla prova); in particolare viene evidenziata la lesione del diritto di difesa, esprimibile anche mediante la scelta di riti alternativi, poiché le norme in parola non prevedono un meccanismo di restituzione nel termine, a fronte di una modifica imprevedibile dall’imputato.

Quanto ai mutamenti dell’imputazione in diritto, con riferimento alle norme penali ritenute violate e ab initio inserite nel capo di imputazione dal pubblico ministero, il legislatore prevede, all’art. 521 c.p.p., il potere del giudice di conferire al medesimo fatto una qualificazione giuridica diversa purché siano rispettate le regole in materia di competenza e attribuzione della controversia.

Nello specifico, se il giudice ritiene il fatto diverso da quello descritto nell’imputazione, restituisce con ordinanza gli atti al pubblico ministero perché proceda con nuova azione; se ritiene il fatto contestato provato ma bisognoso di diversa qualificazione, può adottarla direttamente in sentenza.

L’attività ermeneutica da ultimo citata è espressione del principio iura novit curia, in ossequio al quale il giudice è l’unico soggetto investito del potere di individuare la norma giuridica da applicare nel caso concreto, a prescindere dalle prospettazioni delle parti[11].

Difatti, l’art. 429 c.p.p., norma cardine in materia di esercizio dell’azione penale e di redazione dell’atto di citazione in giudizio, contempla la sola “indicazione” degli articoli di legge entro cui sussumere il fatto storico, a rappresentare la valenza appunto indicativa della citazione delle norme ritenute violate; l’assunto è rafforzato dall’essere la qualificazione giuridica del fatto esterna ai temi di prova ex art. 187 ss. c.p.p.

L’attività di riqualificazione giuridica disciplinata dall’art. 521 c.p.p. è stata oggetto di dibattito e del vaglio della giurisprudenza sovranazionale, che ne ha fornito una prova di resistenza alla luce del diritto di difesa e dei principi convenzionali dell’equo processo ex art. 6 Cedu.

In particolare, l’art. 6 cit., lett. a) e b), prevede il diritto dell’imputato: a) di essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico; b) di disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa.

Con la nota sentenza Drassich c. Italia [12] del 11 dicembre 2007, la Corte EDU, pronunciandosi sul caso di un imputato che vedeva riqualificarsi in senso peggiorativo il reato per la prima volta dalla Corte di cassazione direttamente in sentenza definitiva, esprimeva alcuni principi di diritto rinvenendo la violazione del suddetto art. 6 Cedu. L’imputato ha diritto di essere informato non solo dei fatti materiali che gli vengono attribuiti, ma anche della qualificazione giuridica data a tali fatti, così da porlo in condizione di esercitare i suoi diritti di difesa in maniera concreta ed effettiva.

La successiva giurisprudenza nazionale ha dunque compiuto una interpretazione convenzionalmente conforme dell’art. 521 c.p.p.

Secondo un primo indirizzo, minoritario e che adotta una lettura generalizzata del principio convenzionale, se il giudice – in assenza di esplicita richiesta del pubblico ministero – intende riqualificare il fatto, deve informare preventivamente il difensore e l’imputato ponendoli in condizione di interloquire[13].

Secondo l’indirizzo più recente, maggioritario, non è richiesta una informazione preventiva nel caso di potenziale riqualificazione del fatto, essendo sufficiente che l’imputato possa difendersi impugnando la decisione. Inoltre, la garanzia del contraddittorio risulterebbe in nuce appagata laddove tra il reato contestato e quello ritenuto in sentenza vi sia una prossimità strutturale e/o topografica che renda la riqualificazione prevedibile, il che dovrebbe porre la parte in condizione di interloquire comunque già in sede di discussione[14].

Con la sentenza in commento, la Consulta ribadisce il potere del giudice di riqualificare il fatto ascritto nel capo di imputazione, ritenendolo esercitato in maniera compatibile con l’assetto sovranazionale tutte le volte che l’imputato abbia la possibilità di difendersi anche dalla qualificazione giuridica operata in sentenza.

Ciò avviene sia, con riguardo al grado di giudizio, nei casi in cui la diversa qualificazione sia svolta da un giudice di merito, sia quando, con riguardo alla diversa norma incriminatrice applicata, vi sia una contiguità morfologica tra le due norme; evenienza, quest’ultima, che potrebbe dare immediato impulso al diritto di difesa già in sede di discussione, apparendo la riqualificazione evento prevedibile. Ciò non esclude che, seguendo l’orientamento di legittimità minoritario, il giudice possa sollecitare il contraddittorio circa l’eventuale riqualificazione.

Quest’ultima strada, specie nei casi in cui è meno prevedibile per la difesa la riqualificazione ritenuta praticabile dal giudice, resta quella preferibile e più rispondente alle esigenze proprie del contraddittorio. È infatti auspicabile che la dialettica processuale sul mutamento dell’imputazione in diritto avvenga nella medesima fase in cui il fenomeno modificativo si verificherà, senza che la questione del diritto di difesa venga posticipata ai successivi gradi di giudizio[15].

Non manca un orientamento contrario sostenuto da una parte della dottrina, secondo cui «lo strumento tipico congenito al nostro sistema processuale da attivare per un giudizio di controllo sulla qualificazione giuridica del fatto storico operata dal giudice è l’impugnazione, strumento attraverso il quale l’impugnante può lamentare eventuali errori commessi dall’organo giudicante», pertanto ponendosi un concreto problema di violazione dei diritti difensivi solo allorquando la diversa qualificazione giuridica sia per l’imputato deteriore e avvenga per la prima volta proprio nel giudizio di legittimità[16].

La Corte inoltre traccia i confini tra i poteri assegnati dall’ordinamento al pubblico ministero e quelli assegnati al giudice in tema di modifica dell’imputazione: appannaggio del primo è la facoltà di contestare la diversità del fatto storico (oltre che il reato concorrente, la circostanza aggravante e il fatto nuovo); di stretta competenza del secondo deve reputarsi la qualificazione giuridica del fatto storico addebitato. Difatti, nessuna norma di legge assegna al pubblico ministero un autonomo potere modificativo (in corso di istruttoria), ma solo, al pari del difensore, un potere di sollecitare il giudice a mutare il nomen iuris[17].

Questione contigua è quella del rapporto tra riqualificazione giuridica e accesso ai riti alternativi.

Il nodo problematico concerne il coordinamento tra il momento in cui avviene la riqualificazione, coincidente con il momento finale del processo di primo grado, e la richiesta di rito alternativo, disciplinata da rigide preclusioni temporali di certo antecedenti alla fase finale del dibattimento.

Sul punto, la giurisprudenza, costituzionale e di legittimità, ha adottato un modus operandi peculiare che tende a differenziare il rimedio esperibile quando vi sia nuova contestazione ex artt. 516 e ss. c.p.p., e quello azionabile nel caso di diversa qualificazione del medesimo fatto ascritto.

L’approccio differenziato risente inevitabilmente della disparità di trattamento, posta in essere a monte dal legislatore, tra i mutamenti in fatto, per cui viene approntato un sistema di rimedi difensivi usufruibili dall’imputato; e i mutamenti in diritto, per i quali l’art. 521 c.p.p. appare norma laconica affatto prolissa sul tema dei rapporti tra riqualificazione e difesa[18].

La norma che non assegni all’imputato, dopo la modifica in fatto dell’imputazione su iniziativa del pubblico ministero, il diritto di richiedere per la prima volta l’accesso ai riti alternativi è infatti segnata, per orientamento ormai pacifico, da illegittimità costituzionale. In questo caso infatti il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. appare violato, poiché è preclusa all’imputato la facoltà di esercitare i diritti difensivi a fronte di un evento imprevedibile quale è il mutamento del fatto storico addebitato, che rappresenta il cuore dell’accusa e del thema probandum.

È invece costituzionalmente legittima e conforme ai principi europei la normativa, come quella attualmente vigente, che non preveda espressamente la restituzione del termine all’imputato per la richiesta di rito alternativo nel caso di riqualificazione giuridica attuata d’ufficio dal giudice; in questo caso, infatti, la giurisprudenza ritiene possibile approntare un rimedio alternativo alla declaratoria di illegittimità costituzionale: si tratta dell’ordinario strumento della rimessione in termini attuato direttamente dal giudice, subordinato alla precedente e tempestiva istanza formulata dalla parte, a propria volta condizionata al mutamento della qualificazione giuridica del fatto ascritto.

Ciò è stato sancito, lo si anticipava, da due sentenze della Corte di cassazione a sezioni unite, del 2006 e 2014[19], e viene ribadito dalla Corte costituzionale nella sentenza in commento, per addivenire ad una pronuncia interpretativa di rigetto[20].

La Consulta salva il dato normativo svolgendo un bilanciamento di interessi che si ispira ad una duplice lettura della nozione di difesa costituzionalmente rilevante.

Nel caso di riqualificazione officiosa da parte del giudice, laddove non sia in gioco l’accesso ai riti alternativi, il diritto di difesa è infatti adeguatamente preservato ogni qualvolta l’imputato conservi la facoltà di interloquire e contestare la nuova etichetta giuridica conferita al fatto storico a lui ascritto, preventivamente laddove il giudice abbia avvisato le parti del suo intento di riqualificare o nel caso di agevole prevedibilità del mutamento dell’incriminazione; e/o successivamente mediante impugnazione.

Nel caso in cui sia d’interesse l’accesso ad un rito alternativo, normalmente scandito da preclusioni temporali per formularne l’istanza, il diritto di difesa può coordinarsi e armonizzarsi: a) con la progressione processuale scolpita dai termini di decadenza normativamente previsti per la formulazione della domanda del rito; b) con le potenzialità proprie del ministero del difensore, il quale può sin dall’inizio, al fine di cristallizzare la volontà di accedere al rito alternativo, prospettare il mutamento della qualificazione giuridica attribuita al fatto contestato, trattandosi di profilo giuridico immediatamente verificabile con l’uso delle conoscenze tecniche.

Secondo una parte della dottrina, il Giudice delle leggi, portando avanti un simile argomentare, fornisce una specifica chiave di lettura del diritto, convenzionalmente protetto, all’informazione sulla qualificazione giuridica dei fatti ascritti, che viene intesa non come informazione sulla corretta qualificazione giuridica, ma come informazione sulla qualificazione giuridica ritenuta idonea, seppur rivelatasi errata successivamente; ciò che costituirebbe, secondo i critici, una errata applicazione del diritto europeo, atteso che il diritto all’informazione previsto dall’art. 6 della direttiva UE n. 13 del 2012 ha per oggetto la qualificazione giuridica e ogni sua modificazione[21].

L’osservazione, ad avviso di chi scrive, non persuade. Non si comprende infatti in che modo il diritto europeo sopra citato verrebbe trasgredito informando l’imputato, dapprima della qualificazione giuridica data dal rappresentante dell’Accusa, e poi della modifica della qualificazione giuridica che intenda far fronte all’originario errore della Procura, al contempo consentendogli di difendersi adeguatamente sul nuovo tenore giuridico. Si tratta proprio dell’informazione sulla qualificazione giuridica e su “ogni sua modificazione”.

Del resto la CGUE[22] ha escluso che il diritto sovranazionale, in particolare l’art. 6 par. 4 della direttiva UE n. 13/2012 e l’art. 48 CdfUE, imponga al legislatore nazionale di accomunare la disciplina del mutamento del fatto addebitato e quella del mutamento in iure, nonché che esso imponga al legislatore di prevedere espressamente istituti giuridici che volgano verso la rimessione in termini dell’imputato, essendo sufficiente per la Corte che, nel caso di modifica della qualificazione dei fatti che sono oggetto dell’accusa, l’imputato ne sia informato in un momento in cui dispone dell’opportunità di reagire in modo effettivo, predisponendo in modo efficace la propria difesa, anche a seguito della concessione di un rinvio per allestire la strategia difensiva.

Inoltre, il ragionamento della Corte pare fare perno sulla ipervalorizzazione del principio, delineato dal giudice di Strasburgo, secondo cui ciò che conta è che l’imputato non subisca accuse “a sorpresa” rispetto alle quali sia impossibilitato a difendersi. Ebbene, da un lato, in tema di riqualificazione avulsa dal problema dei riti alternativi, non vi è accusa a sorpresa nel caso in cui l’imputato possa difendersi in sede di discussione o di impugnazione; dall’altro, il diritto di esprimere la strategia difensiva con l’accesso ai riti alternativi non sarebbe frustrato quando l’imputato, conoscendo la prevedibile riqualificazione, abbia richiesto tempestivamente l’accesso al rito subordinato alla diversa connotazione codicistica del fatto addebitato.

Sull’ultimo problema testé citato, vi è però disparità di vedute, in quanto, mentre taluno ha ritenuto eccessivamente gravoso l’onere di prevedere la possibile riqualificazione[23], in giurisprudenza si è sostenuto come non venga in rilievo una capacità divinatoria dell’imputato, quanto un suo diritto/dovere di interloquire sulla giusta qualificazione giuridica del fatto, elemento ab initio conoscibile.

In linea con l’impostazione giurisprudenziale, si potrebbe infatti sostenere che, invariato il fatto, la sua qualificazione giuridica derivi dall’applicazione delle norme penali e della loro esegesi, trattandosi dunque di vicenda conoscibile mediante l’applicazione delle conoscenze tecnico-giuridiche.

A supporto dell’impostazione dottrinale, che la diversa qualificazione giuridica non sia sempre agevolmente conoscibile è stato sostenuto tra le righe proprio dal giudice di Strasburgo con la sentenza Drassich c. Italia, nella quale, ai paragrafi 37 e ss., la Corte si interroga sulla sufficiente prevedibilità per il ricorrente che l’accusa mutasse da corruzione propria a corruzione in atti giudiziari, e rileva come gli articoli 319 e 319 ter c.p., pur trovandosi nella stessa sezione del codice penale, si distinguano chiaramente per uno dei loro elementi costitutivi. Implicitamente la Corte EDU pare segnalare che la vicinanza topografica di due fattispecie non comporta la facilità di prevedere che il fatto possa sussumersi nell’una in luogo dell’altra[24].

Non sempre dunque la perentorietà del principio si rivelerà aderente alle peculiarità della vicenda processuale e alla complessità del caso.

Nei casi più problematici, potrebbe affidarsi al prudente apprezzamento del giudice l’aspetto della ammissibilità di una istanza tardiva tutte le volte in cui l’erroneità della qualificazione giuridica conferita dall’accusa al fatto non sia rinvenibile ictu oculi o comunque ad una verifica iniziale e sommaria, ma si palesi con chiarezza solo all’esito dell’istruttoria dibattimentale.

Tra l’altro occorre evidenziare un dato relativo alla prassi applicativa dell’art. 521 c.p.p.

La norma infatti, letteralmente, pare riferirsi alla attribuzione della corretta qualificazione giuridica da parte del giudice ad un fatto che corrisponda integralmente a quello descritto nel capo di imputazione dal pubblico ministero[25].

In concreto, la giurisprudenza di legittimità ha elaborato un criterio interpretativo, noto in dottrina come “teoria funzionale del fatto”, secondo cui l’art. 521 c.p.p. comprende altresì l’ipotesi in cui, congiuntamente: a) nel corso dell’istruttoria siano emersi elementi fattuali non contestati nell’atto di citazione; b) tali elementi fattuali portino il fatto a sussumersi in una norma incriminatrice diversa da quella contestata; c) le due norme appartengano ad un sistema “chiuso” di fattispecie incriminatrici, sicché, quando non è applicabile l’una, opera l’altra secondo un criterio di prevedibilità; d) l’imputato abbia avuto la possibilità di difendersi in ordine ai “nuovi” elementi di fatto poi valorizzati in sentenza.

La tesi si regge su una concezione di fatto diverso secondo cui il fatto è tale solo quando muta radicalmente la struttura della contestazione, sicché il fatto ritenuto in sentenza si pone rispetto a quello contestato in termini di eterogeneità o incompatibilità sostanziale[26].

L’orientamento è particolarmente criticato in dottrina, poiché consente al giudice di valorizzare ai fini della decisione e della riqualificazione elementi fattuali non contestati, e dunque un fatto in concreto diverso rispetto a quello oggetto dell’accusa[27].

Orbene, considerato che la riqualificazione giuridica, in ossequio alla teoria sopra menzionata, potrebbe nella prassi dipendere dalla emersione, in corso di istruttoria, di elementi fattuali sostanzialmente nuovi rispetto a quelli dedotti nell’imputazione, appare estremamente rigoroso richiedere al difensore di effettuare tempestivamente l’istanza di accesso al rito alternativo sulla base di una ritenuta riqualificabilità del fatto che in concreto emergerà solo dopo l’istruttoria; in questa ipotesi dunque è opportuno rivisitare il principio espresso dalla Consulta e considerare l’ammissibilità di una istanza tardiva della difesa[28].

In disparte il problema della prevedibilità, si evidenzia altresì la frizione tra l’onere processuale ascritto dalla giurisprudenza all’imputato interessato al rito alternativo a seguito di riqualificazione ed il principio nemo tenetur se detegere, considerato che, nel prospettare al giudice la riqualificazione, l’imputato potrebbe essere visto come una sorta di reo confesso in merito alla nuova accusa[29].

In realtà, questo argomento, a parere di chi scrive, è superabile, nella misura in cui, se oggetto della questione è l’attribuzione della giusta classificazione giuridica ad un fatto inalterato, la richiesta condizionata di accesso al rito alternativo previo mutamento della norma incriminatrice, assume la medesima natura e funzione della richiesta di rito alternativo esperibile dinanzi alla corretta qualificazione giuridica nei casi ordinari, potendo ben essere interpretata la volontà di accesso al rito non necessariamente quale ammissione di colpa rispetto all’accusa, ma quale interesse a non subire la vicenda processuale. Prospettare al giudice la riqualificazione non deve essere inteso quale ammissione di reità con riguardo alla nuova nomenclatura giuridica, bensì soltanto quale eliminazione di un errore giuridico dell’accusa tramite un raffronto asettico e cartolare tra impianto codicistico e fatto addebitato.

La prospettazione alternativa, in altri termini, ha il solo effetto di rimuovere (rectius: prospettare la rimozione di) un elemento ostativo alla richiesta di accesso al rito e non assume la natura larvata di confessione.

 

  1. Alcune questioni operative: tempestività dell’istanza di oblazione; onere di riproposizione; forma del provvedimento giudiziale di rimessione in termini.

Sul piano operativo, con riguardo ai rapporti tra riqualificazione giuridica e riti alternativi, la Consulta si pronuncia in tema di oblazione riproponendo nella sostanza il distillato giuridico già espresso con la sentenza n. 131/2019 in materia di messa alla prova.

Il difensore dovrà prospettare la suscettibilità del fatto ascritto di essere sussunto in norme incriminatrici compatibili con il rito d’interesse; il giudice, che avrà rigettato la primigenia istanza difensiva, dovrà rimettere in termini l’imputato laddove all’esito del dibattimento ritenga di riqualificare il fatto in un reato non ostativo, così come prospettato antecedentemente dalla parte richiedente.

Quanto all’oblazione peraltro, considerata la previsione normativa che consente la riproposizione dell’istanza (art. 162 bis co. 5 c.p.), giova sgombrare il campo da alcuni possibili dubbi.

Dapprima occorre fare il punto su quale sia il momento processuale nel quale vada formulata l’istanza.

Prima che l’orientamento suffragato dalle Sezioni unite 2006 e 2014, venisse ribadito dalla Consulta con la sentenza qui annotata, si erano formati sul punto diversi orientamenti.

Con sentenza n. 11706/1998[30], la Cassazione ha ritenuto ammissibile e tempestiva la richiesta di oblazione presentata prima dell’inizio della discussione finale, a fronte della riqualificazione prospettata dal giudice.

Nel 2001[31], i Giudici di legittimità hanno esteso l’operatività dell’art. 141 co. 4 bis disp. att. c.p.p. al caso della modifica in iure e hanno così ritenuto non obbligatoria una istanza del difensore e irrilevante il momento in cui la stessa eventualmente sia posta in essere. L’orientamento pare essere stato sostenuto anche nel 2004[32], quando la Cassazione ha ritenuto che il giudice, senza preventiva richiesta, potesse, motu proprio, ammettere l’imputato all’oblazione col provvedimento decisorio.

Le Sezioni unite, con la pronuncia n. 7645 del 2006, non hanno assunto espressa posizione su tale aspetto; infatti, si sono limitate ad escludere un potere/dovere giudiziale di rimessione in termini al di fuori di una istanza difensiva[33], mentre hanno ritenuto che la questione circa il momento cui ancorare la congiunta istanza di riqualificazione del fatto ed ammissione all’oblazione fosse irrilevante nel caso di specie, in quanto nella vicenda processuale al loro vaglio non vi era stata alcuna istanza.

Una risposta è invece più chiaramente evincibile dalla sentenza Sez. un. n. 32351 del 2014, ove i supremi Giudici, nel valorizzare l’orientamento giurisprudenziale già sostenuto dalle precedenti Sezioni unite del 2006, menzionano la richiesta “predibattimentale”[34].

Dal dictum tuttavia ha preso le distanze altra parte della giurisprudenza; ad esempio, con la sentenza n. 32896/2017[35], è stata reputata sufficiente l’istanza formulata direttamente in sede di conclusioni.

L’orientamento predisposto dalle Sezioni unite del 2014 risulta avvalorato dalla sentenza della Consulta in commento e merita di essere ribadito, sicché il difensore dovrà formulare istanza predibattimentale condizionata alla riqualificazione, seppur con il correttivo superiormente auspicato in relazione alla concreta difficoltà del caso e alle ragioni sottese all’operazione ermeneutica in parola[36] .

Lo slittamento in avanti del termine utile non può essere invocato né col ricorso all’art. 141 co. 4 bis cit., che non riguarda i casi di mutamento in diritto[37]; né col ricorso all’art. 162 bis co. 5 c.p., che presuppone un precedente rigetto di una istanza già avanzata[38]; inoltre, la tesi è coerente con l’esigenza di realizzare un bilanciamento tra diritto di difesa, onere di interlocuzione dell’imputato, tutela della sequela processuale, divieto di uso speculativo del processo.

La pronuncia della Consulta lascia persistere un interrogativo di rilievo pratico: appurata l’insufficienza di una istanza di oblazione formulata prima della discussione, dopo che il giudice abbia prospettato la riqualificazione, occorre ulteriormente chiedersi se, con riguardo all’oblazione facoltativa, dopo il primo rigetto pronunciato dal giudice prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, l’imputato debba reiterare l’istanza nel termine previsto dall’art. 162 bis co. 5 c.p. o la prima istanza possa ritenersi sufficiente ed immanente.

Nella pratica, una adeguata e completa interlocuzione tra giudice e parti vorrebbe che: 1) il difensore formuli l’istanza prima della dichiarazione di apertura del dibattimento; 2) l’istanza sia reiterata nel termine ex art. 162 bis co. 5 c.p., vale a dire prima dell’inizio della discussione[39]; 3) il giudice solleciti le parti, nel corso della discussione, a trattare il profilo della riqualificazione e dell’ammissibilità all’oblazione.

Nel caso in cui ciò non avvenga e il difensore non reiteri l’istanza al momento della chiusura dell’istruttoria, potrebbe ritenersi cessata la volontà di accesso al rito, sicché il giudice potrebbe effettuare la riqualificazione in sentenza senza occuparsi di rimettere in termini la parte.

In effetti, la locuzione “la domanda può essere riproposta […]” sottintende sia il diritto dell’imputato di reiterarla all’esito dell’istruttoria, sia l’onere processuale che chiarisca la persistenza della volontà[40] dell’imputato di accedere al rito in virtù della ritenuta insussistenza di fattori ostativi, avvalorata dalle risultanze processuali.

D’altronde, la facoltà di riproporre la domanda, prevista dal co. 5 cit., pare essere stata predisposta proprio al fine di consentire al difensore di insistere per l’accoglimento laddove l’istruttoria abbia rivelato l’originaria insussistenza dei requisiti ostativi, tra i quali può annoverarsi la qualificazione giuridica che non consenta preliminarmente l’ammissione.

Va infine affrontato il tema dello strumento a disposizione del giudice per rimettere in termini la parte; per meglio dire, che forma debba assumere il suo provvedimento.

Invero, secondo una impostazione oramai superata, il giudice avrebbe il solo compito di riqualificare il fatto in sentenza, mentre l’imputato dovrebbe chiedere di essere ammesso all’oblazione con l’atto di appello[41]. La tesi è criticabile laddove non garantisce il diritto di accesso al rito ma lo subordina all’onere di impugnare.

Secondo altri, il giudice dovrebbe redigere una sentenza di condanna per il reato così come riqualificato, la cui efficacia è subordinata al mancato pagamento della somma, fissata col medesimo provvedimento a titolo di oblazione, da parte dell’imputato nel termine non superiore a dieci giorni dal passaggio in giudicato della pronuncia[42]. Si tratterebbe di un provvedimento composito. Stante il chiaro tenore dell’art. 521 c.p.p., il giudice dovrebbe riqualificare (e condannare) con sentenza e rimettere in termini con ordinanza; entrambi i provvedimenti potrebbero confluire in un unico atto redatto all’esito della camera di consiglio. Nel caso di pagamento tempestivo, il giudice dell’esecuzione dichiarerà estinto il reato.

La tesi ha il merito di fugare ogni problematica inerente alla imparzialità del giudice, in quanto consente a questi di chiudere il grado davanti a sé aprendo all’imputato due strade alternative: il pagamento della somma fissata a titolo di oblazione, con conseguente estinzione la cui declaratoria rifluirebbe nella competenza del giudice dell’esecuzione, o l’esecuzione della pena.

La tesi è stata tuttavia criticata proprio dalle Sezioni unite 32351/2014 nella misura in cui fa uso della categoria della sentenza condizionata, sconosciuta al sistema processualpenalistico ed acriticamente importata dall’ordinamento civilistico. Inoltre, si è sostenuto in dottrina, il caso in cui il reato risulti oblabile solo a seguito della riqualificazione giuridica operata dal giudice in sentenza ex art. 521 c.p.p., non è disciplinato dall’art. 141 co. 4 bis disp. att. c.p.p., «neppure estendendo fino a quel punto il concetto di modifica dell’imputazione: nell’ipotesi in esame, infatti, il processo sarebbe già concluso con sentenza, per cui il meccanismo di cui alla norma richiamata non potrebbe concretamente operare»; inoltre, si verificherebbe un impasse sul piano delle precedenti, eventuali, statuizioni civilistiche, le quali risulterebbero ex post incompatibili con l’estinzione del reato per oblazione[43].

Terza via delineata in giurisprudenza è stata quella di consentire che le due attività di riqualificazione e rimessione in termini confluiscano in un’ordinanza[44].

L’orientamento appare in linea con l’insegnamento tradizionale, secondo cui il giudice pronuncia sentenza quando decide una questione che comporti l’esaurimento della fase o del grado di giudizio spogliandosi della controversia; pronuncia ordinanza quando risolve questioni interne al procedimento senza definirlo[45].

Vero è che l’art. 521 c.p.p. dispone che l’attività eventuale di riqualificazione avvenga con sentenza, ma esso potrebbe ritenersi fare riferimento ai casi in cui la riqualificazione esaurisca l’aspetto decisorio e il giudice chiuda il grado di giudizio davanti a sé con l’atto a ciò deputato, la sentenza, e non sia in gioco, come nel caso di specie, la contestuale operatività di altro istituto quale la rimessione in termini che causa per propria natura la prosecuzione dell’attività processuale.

Nel caso al nostro vaglio, invece, viene in rilievo la rimessione in termini dell’imputato previa riqualificazione del fatto.

Orbene, potrebbe sostenersi che in questo caso la riqualificazione del fatto non abbia la portata propria della decisione finale nel merito, ma costituisca un rilievo incidentale che non chiude il grado di giudizio fondandosi sul solo confronto tra fatto contestato e norma incriminatrice e dando impulso all’ulteriore svolgimento del diritto di difesa.

In altri termini, con l’ordinanza il giudice, rilevata l’erroneità ab initio dell’accusa formulata dal pubblico ministero, effettua un raffronto cartolare tra atto introduttivo del giudizio, da un lato, e legislazione penale, dall’altro, e, rilevata la migliore rispondenza del fatto a norma diversa da quella contestata, la prospetta alle parti senza pronunciarsi sulla effettiva colpevolezza dell’imputato.

A questo punto il giudice all’esito della camera di consiglio, con ordinanza, individuata la diversa norma applicabile al fatto, e previamente ricevuti l’istanza difensiva e il parere del pubblico ministero, concederà, se sussistono tutti i presupposti di legge, il termine non superiore a dieci giorni entro il quale l’imputato è ammesso al pagamento; fisserà nuova udienza e dichiarerà estinto il reato laddove il pagamento abbia avuto luogo.

In caso contrario, dovrebbe egli invitare le parti a concludere avuto riguardo alla suscettibilità del fatto di rientrare nel tessuto operativo della diversa norma incriminatrice, come chiarito nella precedente ordinanza.

La Corte di legittimità si è tuttavia pronunciata su questo orientamento, in senso ad esso ostativo, nel senso che la derubricazione può essere svolta solo con la sentenza, mentre l’ordinanza conterrebbe una indebita anticipazione del giudizio[46].

A parere di chi scrive, ciò potrebbe avvicinarsi al vero nel caso in cui la riqualificazione avvenisse sulla base della già richiamata teoria funzionale del fatto, che consente di riqualificare valorizzando elementi di fatto non contestati ed emersi a carico dell’imputato in corso di istruttoria; in questo caso infatti è difficilmente escludibile che il giudice abbia incidentalmente deciso anche sulla colpevolezza dell’imputato e sulla meritevolezza della condanna per il reato diversamente qualificato.

L’ordinanza potrebbe invece configurare uno strumento approntabile laddove la riqualificazione derivi dal solo raffronto tra descrizione del fatto e norme giuridiche violate, non apparendo la situazione molto distante, nella sostanza, da quella in cui il giudice, prima della discussione, inviti le parti a concludere anche in merito alla diversa nomenclatura giuridica attribuibile al fatto; tale prospettazione infatti nasce generalmente dalla valutazione già compiuta dall’interprete sulla nomenclatura giuridica da riferire più correttamente al fatto storico[47].

Peraltro, nella giurisprudenza costituzionale è stato a più riprese affermato che «non è configurabile una menomazione dell’imparzialità del giudice che adotta decisioni preordinate al proprio giudizio o rispetto ad esso incidentali, attratte nella competenza per la cognizione del merito»[48].

Sulla scorta di detto principio, la giurisprudenza di legittimità[49] ha chiarito che l’indebita manifestazione del convincimento da parte del giudice, espressa con una delibazione incidentale rileva come causa di ricusazione solo qualora il giudice abbia anticipato la valutazione sul merito della regiudicanda, ovvero sulla colpevolezza dell’imputato, senza che tale valutazione fosse imposta o giustificata dalle sequenze procedimentali; ovvero allorché la pronuncia anticipi, in tutto o in parte, gli esiti della decisione di merito, senza alcuna necessità o nesso funzionale con il provvedimento incidentale adottato[50].

Orbene, sintetizzando, assume carattere illegittimo, in quanto posta in essere al di fuori della sequela procedimentale e senza legame funzionale con la decisione finale, l’anticipazione, da parte del giudice, della propria opinione sulla reità dell’imputato, che è cosa ben diversa e certamente più penetrante, rispetto al fornire – mediante ordinanza – una indicazione sulle norme da ritenersi violate in relazione alla sola descrizione del fatto così come contestato, al contempo assegnando nuovo termine per il pagamento della somma fissata a titolo di oblazione per rimediare ad un errore giuridico dell’Accusa.

La riflessione sopra formulata pare aver fatto breccia anche in una parte della dottrina, la quale ha chiarito, condivisibilmente, che «l’art. 521 co. 1 c.p.p. si rivela norma facente riferimento a un’operazione, tecnica e mentale, che il giudice effettua, non già nell’ottica propriamente decisoria, ma ai fini dell’inquadramento dell’imputazione sotto l’unica fattispecie astratta che egli ritiene, in forza delle regole di specialità e di concorso apparente tra norme, idonea a qualificarla. Adempiuto a quello che molti ritengono essere un obbligo derivante dall’art. 101 Cost., il giudice, però, nessun convincimento ha ancora espresso in ordine alla sussistenza del fatto, alla sua commissione da parte dell’imputato, alla sua illiceità»[51].

 

Per un approfondimento sulla nostra Rivista, si rimanda al contributo del Prof. Giorgio Spangher,  Modifica della qualificazione del fatto e diritto all’oblazione

[1] Trib. Teramo, ord. 3 luglio 2019, in G.U. n. 5 del 29 gennaio 2020.

[2] Sul problema dell’adeguamento interno alle sentenze della Corte EDU, S. Lonati, Il caso “Drassich”: continua l’opera di supplenza della giurisprudenza di fronte alla perdurante (e sconcertante) inerzia del legislatore italiano in tema di esecuzione delle sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in Cass. pen., 2011, 1, p. 263 ss.; F. M. Palombino, Esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e integrazione analogica dell’art. 625 bis c.p.p. (in margine al caso Drassich), in Giur. it., 2009, 10; più di recente, G. Spangher, Esclusa la revisione per la violazione della Cedu, in Giur. it., 2015, 6, p. 1507 ss.; G. Garuti, Riapertura del processo a seguito di condanna da parte della corte europea, in Dir. pen. e proc., 2013, 11, p. 1273 ss.

[3] Cfr. pag. 3 della sentenza in commento.

[4] Con la sentenza n. 530 del 1995 in tema di oblazione, la Corte costituzionale, dopo aver ricostruito la ratio del rito, fondata sul connubio tra l’interesse pubblico all’economia processuale e quello privato, dell’imputato, ad evitare il processo, la condanna e le sue conseguenze, ha dichiarato illegittimi gli artt. 516 e 517 c.p.p. nella parte in cui non prevedevano la facoltà dell’imputato di chiedere l’oblazione a fronte della contestazione da parte del pubblico ministero, in corso di istruttoria, del fatto diverso e/o del reato concorrente.

[5] P. Indinnimeo-N. Petrosino, La riqualificazione del reato nel procedimento di oblazione, in Il Penalista, 9 giugno 2016. Gli Autori danno atto di una disputa giurisprudenziale intorno all’applicazione dell’art. 141 co. 4 bis disp. att. c.p.p. ai casi di modifica della qualificazione giuridica del fatto; v. anche P. Piccialli, Poteri del giudice ed ammissione all’oblazione a seguito della modifica dell’originaria imputazione, in Corr. mer., 2006, 7.

[6] Cass. sez. un., 2 marzo 2006, n. 7645, in Dir. e giust., 2006, 13, p. 46 e ss., con nota di L. Cremonesi, Derubricazione e oblazione, il rebus resta. Le Sezioni unite hanno chiarito il quia ma non il quomodo; in Giust. pen., 2006, 12, pt. II, p. 679; Cass. sez. un., 26 giugno 2014, n. 32351 in Dir. pen. e proc., 2014, 10, p. 1171 ss. con nota di A. Montagna, Riqualificazione giuridica del fatto e diritto all’oblazione.

[7] La Corte di Giustizia dell’Unione europea, con sentenza del 13 giugno 2019, causa C-646/17, Moro, sulla questione di pregiudizialità formulata dal Tribunale di Brindisi, esclude che il diritto europeo imponga al legislatore nazionale di prevedere la rimessione in termini dell’imputato per l’accesso a riti alternativi a fronte della modifica della qualificazione giuridica dei fatti, essendo sufficiente che l’imputato “ne sia informato in un momento in cui dispone ancora dell’opportunità di reagire in modo effettivo affinché egli sia posto in grado di predisporre in modo efficace la propria difesa”. Sulla questione pregiudiziale, v. Trib. Brindisi, Ord. 20 ottobre 2017, in Dir. pen. cont., 2018, 1, con nota di G. Centamore, Ancora in tema di riqualificazione giuridica del fatto: un’interessante ordinanza di rinvio pregiudiziale alla corte di giustizia dell’unione europea; M. Aranci, Riqualificazione in iure dell’imputazione ed accesso al patteggiamento: tra disciplina interna e spunti sovranazionali, in www.lalegislazionepenale.eu, 24 luglio 2019.

[8] Quanto all’ipotesi del fatto nuovo, è previsto che il pubblico ministero proceda dando origine ad un nuovo procedimento, fatti salvi il consenso dell’imputato e l’assenza di pregiudizio per la speditezza del procedimento.

[9] Sulla necessità di cristallizzare in norma di legge le pronunzie della Consulta, secondo F. Cassibba, Nuove contestazioni e riti alternativi: necessitato protagonismo della Consulta e perdurante silenzio del legislatore, in Giur. cost., 2018, 4, p. 1618, «non occorre codificare la lunga serie di pronunce costituzionali sugli artt. 516 e 517 c.p.p.: l’attenzione andrebbe spostata sulla disciplina delle garanzie difensive dopo le nuove contestazioni dibattimentali. Sede naturale del generale riconoscimento del diritto dell’imputato a chiedere un rito alternativo dopo la mutatio libelli sono le regole degli artt. 519 e 520 c.p.p., indipendentemente dalla natura della nuova contestazione, del presupposto probatorio che la sorregge e del rito alternativo di volta in volta prescelto»; Id., L’imputazione e le sue vicende, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Ubertis-G.P. Voena, XXXI, Giuffrè, 2016, p. 341 ss.

[10] Che l’istituto dell’oblazione, sostanzialmente configurante una causa di estinzione del reato, sia ascrivibile alla materia dei riti alternativi, v. Diotallevi, sub art. 162, in Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, diretta da Lattanzi-Lupo, vol. V, Giuffrè, p. 298 ss.

[11] O. Dominioni, Le parti nel processo penale, Giuffrè, 1985, p. 131 ss.; P. Ferrua, Il giudizio penale: fatto e valore giuridico, in La prova nel dibattimento penale, Utet, 2005, p. 306.

[12] Corte Europea Diritti dell’Uomo, sez. II, 11 dicembre 2007, n. 25575, in Giur. it., 2008, 11, con nota di D. Iacobacci, Riqualificazione giuridica del fatto ad opera della Corte di cassazione: esercizio di una facoltà legittima o violazione del diritto di difesa?

[13] Cass. sez. VI, 12 novembre 2008, n. 45807, Rv. 241754; Cass. 18590/2011, Rv. 250275; Cass. 6487/2012; L. De Matteis, Diversa qualificazione giuridica dell’accusa e diritto di difesa, in Cass. pen., 2006, 11, p. 3832B ss., il quale evidenzia come, secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, appaia imprescindibile che nel corso del processo vi sia espressa menzione della diversa qualificazione attribuibile. L’Autore sottolinea in senso critico la distanza tra i principi giurisprudenziali dei giudici nazionali, solo apparentemente vocati al rispetto dei principio convenzionale del giusto processo ex art. 6 Cedu e quelli, più incisivi, enucleati dalla Corte di Strasburgo. In dottrina, v. G. Biondi, Piccoli passi della Corte di cassazione verso una nuova disciplina della modifica della qualificazione giuridica del fatto, in Cass. pen., 2012, 2, p. 610 ss.

[14] Cfr. Cass. 52884/2018; Cass. 52241/2017; Cass. sez. V, 6 giugno 2014, n. 48677; S. Beltrani, Il contraddittorio sulla qualificazione giuridica, in Dir. pen. e proc., 2014, 12 – Supplemento, p. 38 ss.; G. Leo, Correlazione tra accusa e sentenza, in Dir. pen. e proc., 2013, 1, p. 49 ss.

[15] Nei medesimi termini, pare esprimersi, A. Marandola, La Cassazione ridimensiona gli effetti della sentenza Drassich, in Giur. it., 2014, 5. L’Autore considera però l’anzidetta riflessione quale conseguenza della nullità a regime intermedio della sentenza per violazione dell’art. 178, lett. c), c.p.p.; sulla effettività del diritto dell’imputato di essere informato, L. Mele, La diversa qualificazione del fatto operata ex officio e la tutela del diritto al contraddittorio, in Dir. pen. e proc., 2011, 1, p. 75 ss.

[16] In questi termini si esprime A. Vele, Diversa qualificazione giuridica del fatto e violazione del principio del contraddittorio, in Giur. it., 2010, 3; diversamente, v. L. De Domenico, Le condizioni per l’applicabilità dell’istituto della particolare tenuità del fatto in Cassazione, in Cass. pen., 2016, 1, p. 242 ss., secondo il quale anche il trattamento migliorativo dovrebbe essere tenuto in conto, potendo comportare effetti deteriori e non previsti dall’imputato, quali forme di ristoro del danno o sanzioni accessorie specifiche; conf. Quattrocolo, Riqualificazione del fatto nella sentenza penale e tutela del contraddittorio, Jovene, 2011, p. 133.

[17] Diversamente, pare esprimersi R. E. Kostoris, Diversa qualificazione giuridica del fatto in Cassazione e obbligo di conformarsi alle decisioni della Corte europea dei diritti umani: considerazioni sul caso Drassich, in Giur. it., 2009, 11, fa salva la possibilità per il pubblico ministero di «rimodellare l’accusa anche sotto il profilo giuridico, contestandola all’imputato nelle forme dell’ art. 516 c.p.p. , nel qual caso un’interpretazione «convenzionalmente conforme» dovrebbe portare senz’altro all’applicazione delle garanzie previste dall’ art. 519 c.p.p. (possibilità per l’imputato di chiedere un termine a difesa, eventuale sospensione del dibattimento, richiesta di nuove prove)».

[18] Sul tema, M. Sculco, Diversa qualificazione giuridica del fatto e prerogative difensive, in Cass. pen., 2011, 2, p. 633 e ss.; v. anche F. Zacché, Cassazione e iura novit curia nel caso Drassich, in Dir. pen. proc., 2009, 6, p. 781 ss., secondo cui è auspicabile che sia sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 521, comma, 1 c.p.p. in relazione all’art. 111 co. 3 Cost., laddove non prescrive che, in caso d’applicazione del principio iura novit curia, il giudice debba restituire gli atti al pubblico ministero per le relative determinazioni (sulla falsariga di quanto avviene con l’art. 521, comma 2, c.p.p.); l’accusato infatti andrebbe informato tempestivamente non solo dei contenuti fattuali ( “motivi “) dell’accusa, ma anche dei suoi contenuti giuridici, i quali, come i primi, vanno aggiornati, allorché subiscano delle variazioni durante il procedimento; inoltre, andrebbero garantiti i termini a difesa e la possibilità di un supplemento istruttorio, per consentire un’attività defensionale effettiva.

[19] V. supra, sub nota 6.

[20] Il tema del rapporto tra riqualificazione ex officio del fatto e accesso a rito alternativo è stato già saggiato dalla Consulta con la sentenza interpretativa di rigetto n. 131/2019, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2019, 3, p. 1709 ss., con nota di G. Fiorelli, riguardante la sospensione con messa alla prova; nel caso vagliato, l’imputato aveva tempestivamente chiesto la messa alla prova ricevendo un diniego che, all’esito della successiva riqualificazione, risultava destituito di fondamento. Il rigetto della questione, pronunciato all’epoca dalla Consulta, si giustifica dunque alla luce dell’alternativa lettura dell’impianto codicistico, nel senso che, nel caso di specie, poteva (e può) ben consentirsi l’ammissione postuma al beneficio. L’ipotesi affrontata dal tribunale di Teramo e sottoposta all’attenzione del Giudice delle leggi si connota diversamente: l’imputato non ha chiesto tempestivamente l’ammissione al rito alternativo, determinandosi in tal senso solo davanti alla possibilità prospettata dal giudice di riqualificare il fatto sotto diversa norma incriminatrice.

[21] A. Capone, “Derubricazione” del reato e richiesta di messa alla prova, in Giur. cost., 2019, 3, p. 1534C ss.; N. Galantini, Il diritto all’informazione per l’effettivo esercizio del diritto di difesa nel processo penale, in Cass. pen., 2018, 10, p. 3416 e ss.

[22] E. Grisonich, Al vaglio della Corte la disciplina italiana in materia di riqualificazione giuridica del fatto, in Proc. pen. e giust., 2019, 5.

[23] Per un approccio critico al dovere di interlocuzione della difesa, v. R. Lopez, Intervenuta ammissibilità dell’oblazione per derubricazione del reato, ovvero emendatio iuris e prerogative della difesa: le sezioni unite tornano sull’argomento tra fraintesi e omissioni, in Cass. pen., 2016, 5, p. 2116B ss.

[24] G. Romeo, Derubricazione del reato e oblazione: l’imputato come novello nostradamus?, in Dir. pen. cont., 16 settembre 2014, p. 9; v. anche V. Tondi, Riqualificazione giuridica del fatto e accesso ai riti alternativi: una nuova questione di legittimità costituzionale dell’art. 521 c.p.p., in Sist. pen., 3 luglio 2020.

[25] S. Quatrocolo, Un auspicabile assestamento in tema di riqualificazione del fatto in sentenza, in Cass. pen., 2013, 6, p. 2362B ss.

[26] T. Perrella, La correlazione tra accusa e sentenza, relazione tenuta il 13 febbraio 2019 presso la Scuola Superiore della Magistratura, Struttura territoriale della Corte d’Appello di Napoli; Cass. sez. IV, 27 gennaio 2005, n. 27355, Rv. 231727; G. Garuti, Correlazione tra sentenza e imputazione, in Dir. pen. e proc., 2013, 8, p. 914 ss.

[27] A. Cabiale, Il contraddittorio sulla riqualificazione giuridica: da garanzia difensiva (nella Cedu) a strumento di legittimazione della prassi (in Cassazione), in Cass. pen., 2015, 1, pp. 217 ss.; C. Papagno, La nozione funzionale del “fatto processuale” e l’effettivita’ del diritto di difesa, in Dir. pen. e proc., 2009, 1, p. 79 ss., osserva che «da questo tipo di impostazione possono discendere conseguenze aberranti, in grado di vanificare il principio della correlazione tra accusa e sentenza, poiché, in assenza di trasformazioni radicali cui si riferisce la Corte, potrebbero non rientrare nel concetto di diversità ex art. 521, comma 2, c.p.p. quelle lievi variazioni naturalistiche che, se prima facie non sembrano rispondere ad un criterio di essenzialità, possano, invero, rivelarsi basilari per la linea difensiva adottata dall’imputato».

[28] G. Spangher, Modifica della qualificazione del fatto e diritto all’oblazione, in Pen. dir. e proc., 3 settembre 2020.

[29] A. Capone, op. ult. cit.

[30] Cass. sez. I, 6 ottobre 1998 (dep. 12/11/1998), n. 11706, in CED Cass. n. 211798; in Cass. pen., 1999, 9, p. 2533 ss.

[31] Cass. sez. II, 22 ottobre 2001 (dep. 14/11/2001), n. 40509, in CED Cass. n. 220861; in Riv. pen., 2002, 2, p.130 ss.

[32] Cass. sez. III, 5 maggio 2004, n. 35113, in Cass. pen., 2005, 10, p. 3041 ss., con nota di D. Servi.

[33] Si veda pag. 9 della sentenza delle Sezioni unite.

[34] Cfr. in particolare le pagine 5 e 6 della sentenza delle Sezioni unite 2014.

[35] Cass. sez. III, 7 aprile 2017, n. 32896, in CED Cass., n. 270423.

[36] V. supra, paragrafo 2.

[37] Secondo D. Servi, op. ult. cit., l’impossibilità di applicare l’art. 141 co. 4 bis disp. att. c.p.p. non discende tanto dalla sua portata oggettiva, inerente al tipo di modifica dell’imputazione, quanto dalla promanazione soggettiva dell’emendatio, riferibile al pubblico ministero e non al giudice.

[38] Conf. Cass. 11706/1998 cit.

[39] Prima che il PM prenda la parola, v. Cass. sez. III, 11 ottobre 2012, dep. 12 novembre 2012, Rv. 253608.

[40] Seppur con riguardo alla diversa fattispecie processuale avente ad oggetto l’accesso alla messa alla prova, si veda nei medesimi termini A. Capone, “Derubricazione” del reato, cit.

[41] Cass. sez. III, 26 agosto 1999, n. 10634, Stacchini, in C.E.D., Cass., n. 214038.

[42] Cass. sez. un. 7645/2006 cit.; Cass. pen. Sez. III, 05 maggio 2004, n. 35113, in Dir. pen. e proc., 2005, 2, p. 215 e ss., con nota di A. Scarcella, Modifica dell’imputazione originaria, diritto sostanziale all’oblazione ed applicabilità della sentenza “condizionata” nel processo penale; Cass. sez. II, 22 ottobre 2001, n. 40509 in Italgiure Web; Cass., sez. II, 14 ottobre 2011 n. 40037, Rv. 251546.

[43] Piziali, Il procedimento per oblazione, in Pisani (a cura di), I procedimenti speciali in materia penale, Giuffrè, 2003, p. 570; L. Cuomo, L’esercizio del diritto di oblazione tra derubricazione dell’imputazione ed esigenze difensive, in Cass. pen., 2015, 1, p. 100 ss.

[44] Cass. sez. I, 23 giugno 2000, n. 7383, Rv. 216275; Cremonesi, Derubricazione del reato in sentenza ed oblazione, in Riv. pen., 2003, p. 627.

[45] P. Tonini, Lineamenti di diritto processuale, Giuffrè, 2016, p. 92

[46] Cass. sez. III, 5 maggio 2004, n. 35113, in Italgiure Web.

[47] Non a caso, una parte della dottrina ha rappresentato che, anche in questa ipotesi, il giudice sarebbe esposto al rischio di ricusazione, e che pertanto sospensione del processo, con ordinanza, nella fase deliberativa, quando il giudice, ritiratosi in camera di consiglio, ritenga di dover esercitare il potere di riqualificazione in modo tale da ledere il diritto di

difesa dell’imputato; potrebbe quindi darsi luogo allo svolgimento del contraddittorio, mediante la richiesta di termini a difesa e l’eventuale indicazione di nuove prove, cfr. V. Tondi, op. ult. cit.; L. De Matteis, Condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo e revoca del giudicato, in Cass. pen., 2009, 4, p. 1482; R. Kostoris, Diversa qualificazione giuridica del fatto in Cassazione, in Giur. it., 2009, 11, p. 2521.

[48] Corte cost., sentenza n. 177 del 1996; cfr. ordinanze n. 267/1996, n. 316/1996, n. 433/1996, n. 286/1998 e n. 40/1999 tutte consultabili in www.giurcost.org.

[49] Vedi ex multis Cass. sez. VI, 27 febbraio 2014, n. 12, in CED Cass. n. 22112

[50] Cass. sez. un. 27 settembre 2005, n. 41263, Falzone, in Cass. pen. 2006, p. 403; Cass. sez II, 5 giugno 2007, n. 35208, in CED Cass., n. 237627; Cass. sez. I, 15/06/2007, n. 35208, in CED Cass., n. 237627; Cass. sez. IV, 6 luglio 2017, n. 42024, in CED Cass., n. 270769.

[51] S. Quattrocolo, La corte costituzionale ancora alle prese con i rapporti tra potere di riqualificazione del fatto e principi generali, in Leg. pen., 2010, 4.

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