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La pena dell’abbreviato e il divieto della reformatio in peius: inevitabili tensioni con il principio di legalità.

Cass., sez. I, 30 settembre 2020 (dep. 6 ottobre 2020), n. 27711, Di Tomassi, Presidente, Santalucia, Relatore, Viola, p.m. (concl. diff.).

La Sezione Prima penale della Cassazione ha rimesso alle Sezioni unite la seguente questione di diritto: “se in ragione del rilevato contrasto, il ricorso va rimesso alle Sezioni unite perché risolvano la questione se il giudice di appello, investito dell’impugnazione del solo imputato che, giudicato con il rito abbreviato per un reato contravvenzionale, lamenti l’illegittimità della riduzione operata ai sensi dell’art. 442 c.p.p. nella misura di un terzo invece che della metà, debba applicare la diminuente nella misura di legge pur quando la pena inflitta dal giudice di primo grado sia illegale, perché in violazione delle previsioni edittali, e di favore per l’imputato” (Cass. Sez. I, 30 settembre 2020).

Per la soluzione del problema appare necessario considerare, senza tenere conto della riduzione premiale del rito contratto, che in caso di pena illegale, in presenza dell’appello del solo imputato, opera il divieto della reformatio in peius.

Il dato opera anche in presenza della mutata e più grave qualificazione giuridica del fatto. L’unico elemento dissonante rispetto alle aspettative dell’imputato è dato dalle ricadute sulle pene accessorie fisse nonché, per il più grave fatto l’inapplicabilità della prescrizione possibile per il fatto ritenuto in prima istanza.

Qualora si sia trattato di rito abbreviato, l’elemento della premialità costituisce una “variabile” indipendente non legata al fatto ma al rito operante in modo automatico per effetto dell’economia processuale, dell’accettazione del materiale d’accusa, delle intervenute sanatorie di invalidità.

Dovrà conseguentemente ritenersi che il giudice d’appello che dovesse riconoscere che il giudice del rito non ha applicato correttamente l’abbattimento della pena, dovrebbe provvedere sia nel caso in cui si sia trattato di errore materiale di computo sia nel caso di operatività della previsione che fissa soglie diverse di abbattimento tra delitti e contravvenzioni.

Il dato dell’automaticità trova conferma in quanto previsto dall’art. 438, comma 6 bis, c.p.p., in tema di abbreviato per i reati puniti con  l’ergastolo, ove si prevede che “qualora la richiesta di giudizio abbreviato proposta nell’udienza preliminare sia stata dichiarata inammissibile ai sensi del comma 1 bis, il giudice, se all’esito del dibattimento, ritiene che per il fatto accertato sia ammissibile il giudizio abbreviato, applica la riduzione di pena ai sensi dell’art. 442, comma 2, c.p.p..

Il discorso è agevole quando si tratta di situazioni di favore per l’appellante imputato.

Se l’approccio è corretto dovrebbe ritenersi che nel caso in cui il giudice d’appello qualifichi delitto una contravvenzione, pur lasciando immutata la pena, ancorché non corrispondente nella specie, dovrebbe applicare la più elevata misura dell’abbattimento di cui all’art. 442, comma 2, c.p.p.

La patologia sulla quale s’innesta la questione non nasce dall’imputato o dal divieto della refomatio in peius, ma dalle carenze – in presenza di pena illegale – della mancata azione dell’accusa titolare sul punto della pena di una legittimazione esclusiva all’appello (art. 593, comma 1, c.p.p.).

Quanto detto non deve stupire, pur essendo labirintica la questione, ma è noto che il divieto della reformatio è norma eccezionale che mette in tensione il principio di stretta legalità e tutela, privilegiandolo, il diritto alla libertà dell’imputato, conseguente all’esercizio del suo diritto di difesa, estrinsecatosi con l’appello.

Cass_27711_2020

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