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Prescrizione non rinunciabile in sede d’archiviazione: una discutibile argomentazione conduce ad una dubbia conclusione

1. LA QUESTIONE

Con la decisione n. 41 del 2024 la Consulta ha negato il diritto dell’indagato di rinunciare alla prescrizione ma, nel contempo, ha affermato che le richieste o decreti di archiviazione che, anziché limitarsi a ricostruire il fatto nei termini strettamente necessari a verificare l’avvenuto decorso del termine di prescrizione, esprimono giudizi sulla colpevolezza dell’interessato, violano «in maniera eclatante» la presunzione di non colpevolezza e il diritto di difesa, inteso quale diritto di “difendersi provando”.

Un diritto «in radice negato dall’affermazione, da parte del pubblico ministero o del gip, del carattere veritiero, o comunque affidabile, degli elementi acquisiti nel corso di un’indagine, senza che sia assicurata all’indagato – che potrebbe anzi essere rimasto del tutto ignaro dell’indagine – alcuna effettiva possibilità di contraddirli, ed eventualmente di provare il contrario».

La Corte giunge a questa conclusione dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 411, comma 1-bis, c.p.p. sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, commi secondo e terzo, Cost., dal Tribunale ordinario di Lecce, sezione seconda penale «nella parte in cui non prevede che, anche in caso di richiesta di archiviazione per estinzione del reato per intervenuta prescrizione, il pubblico ministero debba darne avviso alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa, estendendo a tale ipotesi la medesima disciplina prevista per il caso di archiviazione disposta per particolare tenuità del fatto, anche sotto il profilo della nullità del decreto di archiviazione emesso in mancanza del predetto avviso e della sua reclamabilità dinanzi al Tribunale in composizione monocratica».

In altri termini, la Corte costituzionale, alle condizioni chiarite nella pronuncia, assume infondata una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Lecce.

Nel caso all’esame del Tribunale, una persona già sottoposta a indagini era casualmente venuta a conoscenza di un provvedimento di archiviazione per prescrizione già pronunciato nei suoi confronti, in cui si affermava, tra l’altro, che le accuse rivolte contro di lei erano suffragate da molteplici elementi di riscontro, puntualmente elencati. La persona interessata aveva, quindi, proposto reclamo contro il provvedimento, manifestando al tempo stesso la propria volontà di rinunciare alla prescrizione. Il Tribunale di Lecce aveva allora chiesto alla Corte di introdurre un generalizzato obbligo, a carico del pubblico ministero, di avvisare preventivamente la persona sottoposta alle indagini dell’eventuale richiesta di archiviazione per prescrizione del reato nei suoi confronti, in modo da consentirle di rinunciare alla prescrizione e ottenere una pronuncia che riconosca la sua innocenza.

2. GLI APPREZZAMENTI SULLA COLPEVOLEZZA QUALE DANNO ALL’INDAGATO

I giudici delle leggi sono stati chiamati a pronunciarsi in ordine alla legittimità circa il provvedimento di archiviazione emesso per prescrizione del reato, che esprima apprezzamenti sulla colpevolezza della persona indagata hanno, opportunamente, affermato che essa viola “in maniera eclatante” il suo diritto costituzionale di difesa e il suo diritto al contraddittorio, oltre che il principio della presunzione di non colpevolezza.

Il Tribunale di Lecce ha sollevato la questione in quanto, una persona già sottoposta a indagini era casualmente venuta a conoscenza di un provvedimento di archiviazione per prescrizione già pronunciato nei suoi confronti, in cui si affermava, tra l’altro, che le accuse rivolte contro di lei erano suffragate da molteplici elementi di riscontro, puntualmente elencati. La persona interessata aveva, quindi, proposto reclamo contro il provvedimento, manifestando al tempo stesso la propria volontà di rinunciare alla prescrizione. Di qui l’indicazione rivolta alla Corte dal Tribunale di Lecce di introdurre un generalizzato obbligo, a carico del pubblico ministero, di avvisare preventivamente la persona sottoposta alle indagini dell’eventuale richiesta di archiviazione per prescrizione del reato nei suoi confronti, in modo da consentirle di rinunciare alla prescrizione e ottenere una pronuncia che riconosca la sua innocenza.

3. LA NON RINUNCIABILITA’ ALLA PRESCRIZIONE: LA LETTURA DIANCRONICA DELLA NORME CONDUCE AD UNA CONCLUSIONE FALLACE

Ebbene la Consulta operando una sorta di censurabile “separazione” fra aspetti sostanziali e profili processuali della questione, giunge alla conclusione che non esisterebbe un diritto a rinunciare alla prescrizione in fase di indagine, pur riconoscendo -come premesso- il carattere pregiudizievole del provvedimento, che esprima apprezzamenti sulla colpevolezza della persona indagata, di archiviazione per prescrizione del reato.

Come detto, i giudici inizialmente affrontano il versante penalistico della questione e analizzano la propria giurisprudenza in ordine alla possibile rinuncia alla prescrizione ammessa dalla Corte, osservano come il diritto di difesa dell’imputato, «inteso come diritto al giudizio e con esso a quello alla prova» (punto 3 del Considerato in diritto), importa la sua rinunciabilità tanto che come riconosciuto da C. cost. n. 275 del 1990, per un caso di amnistia, «in presenza della rinuncia alla estinzione, il giudice non potrà dare ad essa immediata applicazione perché il reato non è estinto, e dovrà, perciò, dare ingresso alle prove richieste e pronunciarsi sulla imputazione».

Nel compiere tale excursus, secondo i giudici delle leggi il riferimento al fatto che debba, ad ogni modo, trattarsi ad un giudizio già incardinato e che lo status del soggetto beneficiario della garanzia debba essere l’imputato, come ha confermato la citata sentenza n. 275 del 1990, e la legge del 2005, nel riscrivere l’art. 157 c.p., i cui è espressamente precisato al settimo comma che «[l]a prescrizione è sempre espressamente rinunciabile dall’imputato», inducono ad escludere che analogo diritto spetti alla persona sottoposta alle indagini.

Ciò premesso, la Consulta afferma, poi, che nonostante quel riferimento, non dovrebbe escludersi, in verità, la possibilità di estendere in via ermeneutica alla persona sottoposta alle indagini il diritto di rinunciare alla prescrizione. La conclusione potrebbe conseguire dalla formulazione estensiva delle garanzie di cui all’art. 61 c.p.p. ove si dispone che «[i] diritti e le garanzie dell’imputato si estendono alla persona sottoposta alle indagini preliminari» e che «[a] alla stessa persona si estende ogni altra disposizione relativa all’imputato, salvo che sia diversamente stabilito». Nonostante la “plasticità’” dell’indicata prospettiva, i giudici delle leggi negano l’applicabilità di questa regola generale, in quanto dettata con riferimento allo specifico contesto del codice di procedura penale.

E, invece, in maniera asistematica e del tutto illogica i giudici delle leggi, negano che la disposizione possa essere considerata automaticamente e necessariamente trasferibile nella fattispecie in esame in quanto la prescrizione è espressamente regolata dal codice penale ed è pacifica, nella stessa giurisprudenza di questa Corte, la sua natura sostanziale anziché processuale (ex multis, sentenze n. 140 del 2021; n. 278 del 2020,; n. 115 del 2018).

In altri termini, la impermeabilità della regola sarebbe originata dalla sua collocazione processuale a cui la decisione giunge con una serie di passaggi non condividibili.

In primo luogo, il rinvio all’art. 61 c.p.p. intende estendere tutte le norme di favore per l’imputato- nelle quali rientra senza incertezze quella della rinuncia alla prescrizione- anche alla persona sottoposta alle indagini. La previsione opera “automaticamente” una traduzione normativa di tutte le previsioni favorevoli dell’imputato alla persona sottoposta alle indagini, per cui mal si comprende quale passaggio sistematico conduca la Corte a non estendere quelle garanzie. Il tema, infatti, non attiene all’estensione della norma processuale alla sfera penale, quanto piuttosto quella di estendere le norme di favore anche a vantaggio dell’indagato.

In secondo luogo, inconferente appare il richiamo al fatto che «né dalla mera iscrizione nel registro delle notizie di reato, né dal provvedimento di archiviazione» andrebbe fatta discendere «alcuna conseguenza giuridica pregiudizievole per l’interessato». Se questo è vero “sulla carta”, l’esperienza dimostra che le cose vanno in maniera radicalmente diversa nella teoria, tanto che per quanto l’iscrizione della notizia sia concepita dal legislatore come dato “neutro”, dai quale è erroneo far discendere conseguenze negative per la reputazione dell’interessato, questo non è quello che accade nella realtà come dimostra il fatto che, proprio al fine di evitare la segnalata patologia, sia stato necessario l’intervento del legislatore che, con la riforma Cartabia, ha stabilito nell’art. 335-bis c.p.p., per l’appunto, che l’iscrizione nel registro degli indagati non può «da sola» produrre effetti pregiudizievoli in sede civile e amministrativa. Con tale disposizione, in attuazione dello specifico criterio di delega di cui all’art. 1, comma 9, lett. s) della l. n. 134 del 2021, si è inteso circoscrivere nell’ambito del procedimento penale la rilevanza della valutazione compiuta dall’autorità inquirente al momento dell’iscrizione della persona sottoposta a indagini nel registro. «Ad essere precluso [come è dato leggere nella relazione illustrativa] è l’utilizzo, in via esclusiva, del solo dato relativo all’iscrizione che, da solo, non può essere posto a fondamento della motivazione di provvedimenti o in ogni caso di determinazioni pregiudizievoli per il cittadino». Tuttavia, una tale modifica potrebbe non rappresentare, da sola, lo sbarramento teso alla salvaguardia del soggetto leso, posto che se è vero che l’autorità amministrativa o civile non può valorizzare il solo dato dell’iscrizione nell’adozione dei provvedimenti, non è espressamente impedito l’utilizzo autonomo in sede civile o amministrativa degli elementi indiziari valutati dal pubblico ministero all’atto dell’iscrizione né, d’altra parte, la divulgazione mediatica dell’iscrizione.

L’anzidetto principio stabilito nell’art. 335-bis c.p.p. può essere derogato (con conseguente possibilità, ad esempio, della sospensione del servizio o dell’attivazione di un procedimento disciplinare), a norma dell’art. 110-quater disp att. c.p.p.., nei casi in cui l’indagato sia sottoposto ad una misura cautelare personale o il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale.

A tal proposito, deve evidenziarsi anche la deroga prevista dell’art. 110-quater disp. att. c.p.p. secondo cui «Fermo quanto previsto dall’art. 335-bis c.p.p., le disposizioni da cui derivano effetti pregiudizievoli in sede civile o amministrativa per la persona sottoposta a indagini devono intendersi nel senso che esse si applichino comunque alla persona nei cui confronti è stata emessa una misura cautelare personale o è stata esercitata l’azione penale». In tal modo l’art. 335-bis c.p.p. finisce per rivestire una valenza integrativa di tutte le disposizioni, già presenti nell’ordinamento, che riconnettono alla qualità di indagato effetti pregiudizievoli di tipo amministrativo o civile, limitandone l’applicazione ai soli casi in cui sia stata adottata una misura cautelare o sia stata esercitata l’azione penale.

In sostanza, fermo restando quanto è desumibile dall’art. 335-bis c.p.p., degli effetti pregiudizievoli non sono del tutto esclusi ma circoscritti nel solo caso in cui la persona sia gravata da una misura cautelare personale o dal processo vero e proprio (R. BRICHETTI, Diritto di difesa. Iscrizione della notizia di reato senza effetti civili e amministrativi, in I Focus del Sole 24 ore, 12 ottobre 2022, n. 25). Parimenti deve dirsi quanto allo sviluppo del procedimento d’archiviazione nell’ambito del quale, occorrerebbe distinguere le ipotesi di archiviazione processuale da quelle, come nel caso in esame, nel quale la causa archiviativa contiene, per l’appunto, una qualche valutazione di merito pregiudizievole per il soggetto: ebbene se nel primo caso va escluso ogni recupero dei diritti evocati nel caso di specie, diversamente essi dovrebbero certamente trovare una qualche manifestazione in quella sede, magari con una forma di opposizione esercitare al pari di quanto consentito, invece, alla persona offesa che vanta pretese di tenore indubbiamente minori dell’indagato che si veda “stigmatizzata” nel provvedimento una responsabilità dalla quale -salvi casi eccezionali- non si è potuto difendere e a maggior ragione quando l’atto contenga un fumus di reità. Ciò premesso, stupisce, dunque, che la Corte non si sia inoltrata ad affrontare fino in fondo una tale necessità, accogliendo la dedotta questione. Se, infatti, come afferma il giudice costituzionale quella prospettata è una «patologia», laddove un’archiviazione per prescrizione si dilunghi «in apprezzamenti sulla fondatezza della notitia criminis stessa» simili «provvedimenti – afferma la Corte – sono gravemente lesivi dei diritti fondamentali della persona interessata; e devono pertanto essere rimossi attraverso appropriati rimedi processuali». Richieste o decreti di archiviazione così motivati, infatti, perdono il «carattere di “neutralità” che li dovrebbe caratterizzare, e sono in concreto suscettibili di produrre – ove per qualsiasi ragione arrivino a conoscenza dei terzi, come spesso accade – gravi pregiudizi alla reputazione, nonché alla vita privata, familiare, sociale e professionale, delle persone interessate».

Posta l’indicata premessa la Corte costituzionale avrebbe dovuto ammettere che l’esercizio del diritto di difesa e del contraddittorio non ammettono deroga di sorta. Al contrario, i giudici costituzionali, affermando che tali diritti sono esercitabili solo dopo l’esercizio dell’azione penale, si pongono in contrasto con l’art. 24 Cost. che riferisce di un diritto esercitabile in ogni “stato e grado” del procedimento: è questo il vulnus che il giudice delle leggi crea quando condiziona l’esercizio del diritto a far data dalla determinazione ex art. 112 Cost dell’accusa, senza che una presunta ipotesi di reato a suo carico, fatta propria dal pubblico ministero, ancorché sommariamente possa esser contraddetta.

A rafforzare l’inaccettabilità della lesione dei diritti costituzionali induce, a maggior ragione, il fatto che i giudici sono assolutamente consci, invero, dei riflessi negativi che discendono da quell’attestazione: ciò premesso, non persuade il fatto che la stessa Corte individui in altri strumenti estranei al processo i mezzi per fronteggiare il pregiudizio che l’atto può cagionare – a cominciare dalla denuncia per calunnia e/o diffamazione sino all’azione di risarcimento del danno – “contro qualsiasi privato che lo abbia ingiustamente accusato di avere commesso un reato, nonché contro ogni indebita utilizzazione, da parte dei media, degli elementi di indagine e dello stesso provvedimento di archiviazione, così da presentare di fatto la persona come colpevole (…). Invero, se come dice la Corte un elementare principio di civiltà giuridica impone che tutti gli elementi raccolti dal pubblico ministero in un’indagine sfociata in un provvedimento di archiviazione debbano sempre essere oggetto di attenta rivalutazione nell’ambito di eventuali diversi procedimenti (civili, penali, amministrativi, disciplinari, contabili, di prevenzione) in cui dovessero essere in seguito utilizzati”, così da assicurare all’interessato in quelle sedi “le più ampie possibilità di contraddittorio (…), anche mediante la presentazione di prove contrarie”, mal si comprende perché una tale tutela non debba trovare espressione nella sede giurisdizionale penale. Per chiudere il cerchio di questo sistema idealizzato, in cui le indagini non hanno alcun peso e tutto si svolge in modo neutrale, la Corte costituzionale afferma perentoriamente che l’archiviazione per prescrizione non può sottendere un accertamento di responsabilità, pena la violazione della presunzione d’innocenza.

La conclusione è indiscutibile. Tuttavia essa si presta a una lettura a contrario: quando non sono garantiti il diritto di difesa e il contraddittorio, quando la prescrizione è rinunciabile a nulla rileva che si sia instaurato o meno il processo. Il tema che si profila è, dunque, quello legato all’operatività nella fase dell’archiviazione della regola del” diritto al processo” negato con la sentenza interpretativa dalla Corte quando afferma che “a fronte della considerazione che, una volta riscontrato l’avvenuto decorso del termine di prescrizione, gli stessi poteri di indagine e di valutazione del pubblico ministero sui fatti oggetto della notitia criminis vengono meno”.

Esclusa una decisione addittiva, l’assunto raggiunto dai giudici delle leggi pare interdire ogni spazio d’interlocuzione dell’indagato avverso il provvedimento di archiviazione che esprime giudizi sulla sua colpevolezza, dimenticando, tuttavia, che alla luce dell’avvenuta riforma operata dal d. lgs. n. 150 del 2023 della regola stabilita all’art. 408 c.p.p. non sarà più evenienza rara quella nella quale il p.m. potrà riportare nella richiesta elementi riguardanti un qualche fondamento del fatto. Considerato il plafond sotteso al nuovo filtro imposto dalla riforma Cartabia, secondo il quale l’archiviazione andrà richiesta ogniqualvolta non ricorrono elementi idonei ad integrare la ragionevole previsione di condanna, è palese che la domanda del p.m. conterrà sempre più aspetti ed elementi fattuali che avrebbero dovuto condurre a valorizzare questo “dirompente” passaggio e a non mortificare il principio della presunzione di innocenza, ma alla sua tutela attraverso il segnalato passaggio di garanzia anche all’interno di quella che è la procedura archiviativa.

V’è da chiedersi se proprio l’avvenuto mutamento della natura della richiesta archiviativa non possa aprire uno “spazio decisorio” anche nella sequela che origina dalla domanda formulata ex artt. 408 e ss. c.p.p. la qual cosa avrebbe, forse, dovuto spingere la Corte a non considerare la proposta soluzione quale espressione di quell’inderogabilità della presunzione d’innocenza e del diritto di difesa qui inteso quale diritto di contrastare i provvedimenti che “sono in concreto suscettibili di produrre – ove per qualsiasi ragione arrivino a conoscenza dei terzi, come spesso accade – gravi pregiudizi alla reputazione, nonché alla vita privata, familiare, sociale e professionale, delle persone interessate.

Seguendo il pensiero dei giudici costituzionali le richieste dovranno -d’ora in poi- limitarsi a ricostruire il fatto nei termini “strettamente necessari” a verificare – anche nel caso di specie- l’avvenuto decorso della prescrizione.

Orbene, non s’ignora, da un lato, il fatto che la procedura archiviativa si sviluppa rispetto a variegati presupposti di operatività e per ipotesi non omologabili, dall’altro lato, il fatto che gli adempimenti organizzativi possono aver condizionato non poco la decisione in commento, benché la natura di tali difficoltà non consentono di giustificare -come detto- il pregiudizio dei diritti della persona sottoposta alle indagini.

Parimenti, mal si comprende come una tale tutela debba trovare sede al di fuori del contesto procedimentale: d’altro canto un tale percorso è coltivato proprio per il differente caso della cd. tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p.p. che contiene l’ipotesi di responsabilità. Se è la stessa presunzione di innocenza, quale regola di giudizio e di trattamento, ad imporre di riportare in sede d’archiviazione il più garantista protocollo di garanzia mal si comprende come esso non possa valere, a maggior ragione, nel caso contemplato all’art. 408 c.p.p. Ciò che, in ipotesi, potrebbe dare altresì luogo a responsabilità civile e disciplinare dello stesso magistrato” che ha richiesto o emesso il provvedimento, in quanto ne ricorrano i presupposti di legge, merita una contestazione all’interno della sequela che quello stesso provvedimento attiva affinché il giudice dell’archiviazione possa meglio declinare la giusta causa d’archiviazione. Inconferente appare il richiamo e la lettura data dai giudici all’art. 61 c.p.p., a cui si può attingere solo nella parte in cui offre l’estensione, come detto, di tutte le norme di garanzia dell’imputato a favore dell’indagato. Va rigettata, in altri termini, una lettura “a compartimenti stagni”, come fa la Corte, fra i diversi ordinamenti, penale e processuale, che al contrario si muovono si simbiosi, posto che quello processuale è, appunto “servente” a quello sostanziale, tanto più nella parte in cui afferma che “il complessivo bilanciamento degli interessi in gioco esige, in conclusione, che sia sempre assicurata all’interessato la possibilità di un ricorso effettivo contro questi provvedimenti, che indebitamente inseriscono in un’archiviazione il contenuto tipico di una sentenza di condanna, senza che l’indagato – in ipotesi rimasto all’oscuro dell’indagine – abbia avuto alcuna concreta possibilità di esercitare il proprio diritto al contraddittorio rispetto agli elementi raccolti a suo carico dal pubblico ministero” rinviando, poi, al mittente le richieste formulate perché quei diritti trovino nella giusta sede, diversa quella processuale, espressione.

Ma così statuendo si declina la funzione propria del procedimento penale quale luogo di esaltazione e valorizzazione di quelle garanzie.

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