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Un caso di sfruttamento lavorativo deciso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo: qual è la strada da percorrere?

 

«Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. IV, caso di J. e altri c. Austria, Strasburgo, sentenza 17 gennaio 2017, Domanda n. 58216/12.

Massima: tre cittadine filippine vengono assunte, tramite un’agenzia di collocamento, come colf presso alcune famiglie negli Emirati Arabi Uniti. I rispettivi datori di lavoro al loro arrivo trattengono i passaporti ed attuano da subito un grave sfruttano lavorativo. In occasione di un viaggio all’estero compiuto accompagnando le famiglie, le tre donne riescono a fuggire. Dopo qualche mese presentano una denuncia penale alle autorità austriache, contro chi le ha sfruttate. I giudici austriaci, rilevando di non avere giurisdizione sui presunti reati commessi all’estero, decidono di archiviare il caso. Le donne presentano ricorso alla Corte eur. dir. uomo sostenendo di essere state sottoposte a lavoro forzato, di essere vittime di tratta di esseri umani e di non essere state tutelate dalle autorità austriache, che non avrebbero condotto un’indagine efficace ed esauriente in rapporto alle loro accuse. Sostengono in particolare che ciò che era loro accaduto in Austria non poteva essere considerato isolatamente, e che l’autorità giudiziaria austriaca avrebbe avuto il dovere di indagare anche sugli eventi accaduti all’estero.

La Corte ha rilevato che non vi è stata alcuna violazione dell’articolo 4 (divieto di lavoro forzato), né dell’articolo 3 (divieto di trattamento disumano o degradante) della Convenzione e che le autorità austriache avevano adempiuto al loro dovere di proteggere le richiedenti come (potenziali) vittime della tratta di esseri umani. Ha notato in particolare che non vi era alcun obbligo ai sensi della Convenzione di indagare sul reclutamento dei richiedenti nelle Filippine o sul loro presunto sfruttamento negli Emirati Arabi Uniti, poiché gli Stati non sono tenuti – ai sensi dell’articolo 4 della Convenzione – a prevedere una giurisdizione universale sui reati di tratta avvenuti all’estero. Per quanto riguarda gli eventi in Austria, la Corte ha concluso che le autorità avevano preso tutte le misure che ci si poteva ragionevolmente aspettare dalla situazione. La promozione di ulteriori atti – come il confronto con i datori di lavoro dei richiedenti – non avrebbero avuto alcuna auspicabile prospettiva di successo, poiché non esiste un accordo di assistenza giudiziaria tra l’Austria e gli Emirati Arabi Uniti e poiché i ricorrenti si erano rivolti alla polizia circa un anno dopo gli eventi in questione, quando i loro datori di lavoro avevano lasciato da tempo il Paese. L’opinione concorrente del giudice Paulo Pinto de Albuquerque fa emergere interessanti spunti di riflessione.

 

Abstract: La Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata su un caso di lavoro forzato, per il quale è stata invocata la violazione dell’art.4 della Convezione dei diritti dell’uomo. L’esito della decisone ha escluso la responsabilità delle autorità austriache, ritenendo che fosse stato fatto tutto quanto necessario per proteggere le vittime. Il contributo si sofferma sull’opinione concorrente, espressa dal giudice Paulo Pinto de Albuquerque, dal quale si evincono alcuni limiti della legislazione austriaca, per poi concludere con un breve riferimento comparatistico alla situazione in Italia.

Abstract: The European Court of Human Rights has ruled on a case of forced labor, for which the violation of Article 4 of the Convention on Human Rights has been invoked. The outcome of the decision excluded the responsibility of the Austrian authorities, believing that everything necessary to protect the victims had been done. The contribution focuses on the concurring opinion expressed by judge Pinto de Albuquerque, from which some limits of Austrian legislation are inferred, and then concludes with a brief comparative reference to the situation in Italy.

Sommario: 1. L’abisso umano: i contorni della vicenda – 1.2 La risposta giudiziaria austriaca – 2. La decisione della Corte eur. dir. uomo sull’imputazione ex art.4, Convenzione EDU – 3. Le osservazioni del Giudice Paulo Pinto de Albuquerque.

 

  1. L’abisso umano: i contorni della vicenda

In occasione dell’uscita del volume, che raccoglie le decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, nelle quali ha avuto un rilievo importante l’opinione del giudice Paulo Pinto de Albuquerque[1], si legge un interessante caso nel quale si invoca la violazione dell’art.4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ovvero la proibizione della schiavitù e del lavoro forzato.

Il fatto storico ha origine nelle Filippine, prende forma negli Emirati Arabi e si conclude in Austria. In estrema sintesi, i contenuti salienti: tra il 2006 e il 2009 un’agenzia di collocamento di Manila offre, in tempi diversi, a due donne filippine un impiego come colf presso un paio di famiglie facoltose di Dubai, negli Emirati Arabi Uniti.

Alla prima ricorrente viene proposto un lavoro per due anni come domestica, presso una famiglia a Dubai. Il contratto prevede un corrispettivo di 700 dirham al mese, che equivalgono a circa 150 euro, per otto ore di lavoro al giorno, per sei giorni alla settimana. La Sig.ra J. sottoscrive il contratto e si trasferisce in Medio Oriente. Al suo arrivo i datori di lavoro si fanno consegnare il passaporto, senza più restituirglielo. Da questo momento inizia il brutale sfruttamento lavorativo, che intrappolerà la donna in una sorta di girone infernale. Sebbene non subisca forme di violenze o minacce esplicite e dirette, ella viene costretta a lavorare più del doppio delle ore di lavoro originariamente pattuite, prendendo servizio alle cinque del mattino e non finendo mai prima di mezzanotte. Inoltre, le sue mansioni si rivelano subito estremamente disparate, poiché durante le quasi venti ore di lavoro deve accudire i figli dei suoi datori di lavoro, preparare i pasti, pulire la casa, occuparsi della lavanderia e curare il giardino. Durante i primi nove mesi, non ha neppure la possibilità di godere del giorno di riposo settimanale, né le viene consentito di uscire di casa. Le viene impedito di avere un suo telefono e le viene imposto di chiamare una sola volta al mese la sua famiglia nelle Filippine, detraendo i costi della telefonata dal suo stipendio. Infine, ma non certo per importanza, alla donna è consentito mangiare solo quanto avanza dai pasti consumati dalla famiglia, presso la quale è ospite. Una volta al mese, quando accompagna i suoi datori di lavoro a fare la spesa al supermercato, ha il permesso di acquistare un po’ di cibo per sé stessa.

Trascorsi i primi nove mesi di lavoro, la Signora J. subisce la prima punizione dai suoi datori di lavoro, perché la scoprono parlare con un connazionale, nella sua lingua madre. La costringono perciò a dormire per terra, sul marmo freddo, procurandole una forma di raffreddamento, che non può curare, perché le sono vietate le medicine, con l’aggravio di dover continuare a lavorare nonostante la malattia.

Quando i due anni del contratto stanno per volgere al termine, i datori di lavoro propongono alla donna un incremento di stipendio, la possibilità di godere di più giorni liberi, la concessione di un suo telefono e soprattutto la possibilità di tornare per un breve periodo nelle Filippine, per fare visita alla sua famiglia, purché lei indichi una sua sostituta.

Questi incentivi inducono la Signora J. ad accettare il prolungamento del contratto e così ella si attiva affinché la seconda ricorrente (la Signora G.) prenda il suo posto, per i tre mesi nei quali lei fa rientro a casa. Scaduti i tre mesi, i datori di lavoro intimano alla Signora J. di tornare subito a Dubai, diversamente non verrà riassunta al lavoro e la sua sostituta sarà maltrattata. La Signora J. riparte immediatamente alla volta degli Emirati Arabi, arrivando nell’aprile del 2009. I datori di lavoro la inducono a frequentare una scuola guida, avendo bisogno che lei sia in grado di svolgere alcune mansioni, conducendo l’automobile. Fallisce il primo test per conseguire la patente, dovendolo ripetere per quattro volte e pagando di tasca propria le ulteriori lezioni, per un costo totale di circa 700 dirham, equivalente ad una mensilità di stipendio. La ricorrente riferisce di aver subito diverse volte, durante la guida, delle percosse sulle spalle, da parte del datore di lavoro che avrebbe voluto che lei tenesse un’andatura più veloce. Da quel momento i datori di lavoro iniziano a schiaffeggiarla o picchiarla, anche in assenza di pretesti.

La seconda donna, che formula il ricorso alla Corte eur. dir. uomo, connazionale della prima, sposata con tre figli, sostituisce la Signora J. nel periodo di sua assenza, presso gli stessi datori di lavoro. La famiglia mediorientale incomincia ad assumere in modo più esplicito atteggiamenti violenti, fino al punto da colpire con pugni anche al volto la donna, costringendola a lavorare per quasi ventiquattrore di seguito.

La terza richiedente (la Signora C.) si rivolge all’agenzia di collocamento di Manila, perché si trova in pesanti difficoltà economiche, avendo bisogno di pagare costose cure mediche al fratello gravemente malato. Le viene offerto di lavorare per una famiglia negli Emirati Arabi Uniti, con uno stipendio di circa 800/1000 dirham, corrispondente a circa il doppio dello stipendio che potrebbe percepire rimanendo nelle Filippine. Le condizioni di lavoro, presso la famiglia mediorientale nella quale presta servizio, sono molto simili a quelle descritte dalla prima richiedente, con la differenza che per i primi tre mesi non le viene corrisposto alcun pagamento e successivamente riceverà solo 750 dirham. Quando fa richiesta di tornare al suo Paese, le viene detto che potrà farlo solo a condizione che si paghi da sola il costo del viaggio, spesa che naturalmente non è in grado di affrontare. Per rendere ancora più impraticabile ogni suo spostamento le viene trattenuto il passaporto.

L’Austria entra in gioco nel 2010, quando tutte e tre le donne si trovano a seguire le rispettive famiglie in un viaggio turistico a Vienna. Anche in questo contesto il tempo di lavoro è sostanzialmente illimitato: costrette a cucinare alle due di notte e aspramente rimproverate se la mattina presto non fanno trovare pronti di tutto punto i bambini. Normalmente costrette a rimanere in albergo, un giorno vengono portate insieme alle famiglie ad una visita nello zoo della città. Lì si perde uno dei bambini, che successivamente verrà ritrovato, ma la prima e terza signora filippina saranno aggredite verbalmente in modo così violento e minaccioso da far vivere alle povere donne momenti di autentico terrore.

La notte successiva a questo umiliante incidente, quindi due o tre giorni dopo l’arrivo in Austria, le tre donne decidono di lasciare l’hotel con l’aiuto della concierge, che sapeva parlare la loro lingua e che organizza la fuga portandole in un “luogo sicuro”. Le ricorrenti riusciranno a trovare sostegno nella comunità filippina della capitale austriaca.

Trascorsi circa nove mesi, le richiedenti contattano una Ong locale chiamata “Lefö”, attivamente coinvolta nel contrasto alla tratta di esseri umani, che si occupa di tutelare e assistere le persone che subiscono maltrattamenti, abusi e forme di sfruttamento. Tale organizzazione non governativa riceve finanziamenti pubblici proprio per l’attività anti-tratta che svolge. Qualche mese più tardi le tre donne decidono di rivolgersi alla polizia austriaca, presentando una formale denuncia contro i rispettivi datori di lavoro.

 

1.2 La risposta giudiziaria austriaca

I datori di lavoro arabi, chiamati in causa, replicano con una controdenuncia, nella quale sostengono di essere stati derubati di un certo quantitativo di soldi e di un cellulare. Gli organi investigativi austriaci, pur appurando la falsità di tali accuse, e per quanto abbiano la piena disponibilità a collaborare da parte delle tre vittime, sospendono il procedimento per tratta, poiché ritengono che il reato sia stato commesso all’estero, da cittadini stranieri, ai danni di vittime che non sono cittadine austriache.

Avverso la decisione della Procura di Vienna, le tre donne fanno ricorso al Tribunale, sostenendo come al contrario siano coinvolti interessi austriaci e come i loro datori di lavoro abbiano continuato a sfruttarle, abusando di loro, anche quando erano sopraggiunte in Austria. Il Tribunale penale il 23 marzo 2012 emette una sentenza con la quale rigetta il ricorso, confermando la fondatezza delle argomentazioni presentate dalla Procura, riguardo alla sospensione del procedimento.

La Ong Lefö assume un ruolo determinante nell’indurre le tre donne a presentare la denuncia per il reato di tratta contro i loro datori di lavoro, aiutandole anche nella procedura riguardante la concessione del permesso di soggiorno speciale, previsto in Austria per le vittime di questo reato. Dopo aver ottenuto il permesso di soggiorno per un anno, si prodigata affinché la durata sia prolungata, attraverso altre tipologie di permesso, in ragione della capacità di tutte e tre le donne di integrarsi progressivamente nel tessuto sociale austriaco.

Nel 2012 le donne presentano ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo (una delle tre perderà interesse nella causa e per questo verrà estromessa), per violazione dell’art.4 della Convezione Edu, poiché dichiarano di essere state sottoposte a lavoro forzato e di essere state vittime di traffico di esseri umani, senza che l’Austria abbia adempiuto agli obblighi procedurali imposti dalla normativa convenzionale.

 

  1. La decisione della Corte sull’imputazione ex art.4 Convenzione EDU.

La Corte, rinviando alla sua giurisprudenza sui principi generali richiamati dall’articolo 4 della Convenzione Edu, ribadisce che la tratta di esseri umani rappresenta una forma di schiavitù moderna, incompatibile con i valori democratici[2]. Indica alcuni punti essenziali nei quali si compendia il fenomeno della tratta, tra i quali: la considerazione dell’essere umano come merce, una sua stretta sorveglianza, forti limitazioni dei suoi movimenti, l’uso della violenza e delle minacce, condizioni di vita e lavoro poveri, una remunerazione scarsa o nulla, l’esercizio di poteri corrispondenti al diritto di proprietà. Precisa inoltre che lo sfruttamento dell’essere umano può avvenire sia sul piano sessuale, che lavorativo, ma che non necessariamente si esaurisce in queste due forme.

Nella causa in discussione la Corte ritiene che debbano essere chiarite essenzialmente due questioni: la prima, se le autorità austriache abbiano rispettato i loro obblighi di aiuto e sostegno alle potenziali vittime di tratta; la seconda, se abbiano adempiuto al loro obbligo di indagare sui presunti crimini commessi ai danni delle vittime di tratta. Non avendo la possibilità di soffermarci su questo secondo aspetto, ci limitiamo a valorizzare l’enfasi che il Collegio giudicante ha espresso nella promozione di una cooperazione tra Stati, escludendo nel caso specifico che l’Austria possa essere considerata responsabile per non aver intrapreso un’azione giudiziaria, contro gli autori del reato di tratta, visto che tale fattispecie è stata commessa all’estero, da persone straniere[3].

Quanto al primo aspetto la Corte ha affermato che le ricorrenti, quando si sono rivolte alla polizia, sono state considerate da subito come (potenziali) vittime di tratta. Sono state intervistate da ufficiali di polizia appositamente addestrati, è stato loro concesso il permesso di soggiorno e di lavoro per regolarizzare la loro permanenza in Austria ed è stato rispettato il divieto di divulgazione di dati personali, in modo che non potessero essere riconosciute pubblicamente. Durante il processo le ricorrenti sono state seguite ed aiutate dalla Ong Lefö, che è finanziata dal Governo austriaco, proprio per fornire assistenza alle vittime di traffico di esseri umani. Alle ricorrenti è stata data la tutela legale prima, durante e dopo il processo, necessaria per facilitare la loro integrazione nel Paese ospitante[4].

La Corte ha quindi concluso dichiarando che i reclami presentati non sono accoglibili.

 

  1. L’opinione concorrente del Giudice Paulo Pinto de Albuquerque

Pur concordando con la decisone finale della Corte, il Giudice Paulo Pinto de Albuquerque ritiene che le motivazioni non siano soddisfacenti, sotto due profili: innanzitutto perché non è stata sufficientemente rimarcata la distinzione tra la fattispecie di tratta di esseri umani e le forme di schiavitù, servitù e lavoro forzato. In secondo luogo, perché non sono stati adeguatamente analizzati gli obblighi internazionali dello Stato convenuto, nel caso in discussione. L’adesione alla decisone del collegio giudicante si deve al fatto che le ricorrenti, tardando più di un anno nel denunciare alle Autorità nazionali la loro condizione, hanno concorso nel fallimento delle operazioni, che avrebbero assicurato alla giustizia i responsabili dei crimini contestati.

Il giudice, attraversando analiticamente tutta la legislazione internazionale ed europea sul tema della tratta e sfruttamento delle persone (dal §2 al §40), sottolinea la necessità di una differenziazione tra le condotte che richiamano fattispecie caratterizzate in modo peculiare tra loro: lo smuggling, il traffiking e le ipotesi di lavoro forzato. Lucidamente afferma che: «non tutto il lavoro forzato è traffico, così come non tutto il traffico è schiavitù». Le condotte sussumibili nella fattispecie di tratta possono costituire il prodromo del conseguente sfruttamento, «ma può esserci traffico di esseri umani senza sfruttamento successivo e può esserci sfruttamento senza precedente traffico».

Parallelamente alla meticolosa ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale, svolta dal giudice Pinto de Albuquerque, si staglia una realtà fattuale che non è sempre univocamente né chiaramente decifrabile[5], nella quale i nuovi schiavi, sovente immigrati e irregolari, finiscono per essere il prodotto di una logica capitalistica, nella quale si compie un’esasperata competizione internazionale, che induce attori economici privi di scrupoli a scaricarne la pressione sull’anello più debole della filiera, ossia i lavoratori[6], approfittando della loro condizione di ricattabilità[7]. L’astratta nettezza di confini tra le diverse tipologie criminose sfuma, fino a diventare sostanzialmente indistinguibile[8]. In questo quadro, un dato che desta un fondato allarme è il sempre maggiore coinvolgimento di minorenni nel mercato dello sfruttamento degli esseri umani, facendoli rientrare nella categoria di persone maggiormente vulnerabili[9].

Il giudice Pinto de Albuquerque passa ad una valutazione più specifica della risposta normativa fornita dall’Austria, per rilevarne l’inadeguatezza rispetto allo standard internazionale[10]. In particolare, per quanto concerne il reato di sfruttamento lavorativo, sollecita l’introduzione di una fattispecie a tutela dei cittadini austriaci e un ampliamento del già esistente reato di lavoro forzato a danno di stranieri. Anzi si spinge a proporre, in un’ottica de iure condendo – e aggiungiamo – similmente a quanto già previsto in Italia, la riformulazione in un unico tatbestand delle condotte di sfruttamento lavorativo sia nei confronti dei cittadini, che degli stranieri. La necessità di intervenire, modificando la norma, è dovuta alla carente definizione della condizione di “sfruttamento” e al fatto che esso non è previsto e quindi non è punito quando le vittime siano cittadini austriaci[11].

Questa carenza del diritto penale austriaco, nonostante sia intervenuta una riforma nel 2013, dovrebbe costituire un nuovo impulso “per rimuovere l’individuo da quella situazione o rischio” di essere trafficato o sfruttato e “per evitare il pericolo di maltrattamenti”. Sebbene si riconosca all’Austria di aver compiuto notevoli progressi nella lotta a queste forme di sfruttamento, in particolare in termini di sostegno sociale fornito alle vittime, l’opinione del giudice Pinto de Albuquerque mette in chiara luce la necessità di un adeguamento normativo agli standard internazionali nella repressione del crimine, in cui tali condotte si estrinsecano[12]. In questa stessa direzione si era espresso il Rapporto sull’Austria, redatto nel 2016, dal Dipartimento degli Stati Uniti d’America, che si occupa del traffico di esseri umani, nel quale si sollecitano condanne ai trafficanti proporzionate alla gravità del crimine; l’ampliamento e potenziamento degli sforzi per identificare le vittime tra migranti irregolari, richiedenti asilo e persone sottoposte alla prostituzione; infine, un’insistente sensibilizzazione dei giudici riguardo alla delicata acquisizione delle testimonianze da parte delle vittime di tratta, contro i loro sfruttatori.

Sia consentito in chiusura un accenno al contesto italiano, che una volta tanto non si colloca come fanalino di coda, ma forse per alcuni aspetti si distingue nella repressione della tratta per scelte legislative addirittura all’avanguardia. Già il codice Rocco, all’articolo 601 aveva previsto il reato di tratta, modificato una prima volta nel 1998, una seconda nel 2003 ed una terza – in modo più incisivo – nel 2014, a seguito del recepimento della direttiva europea 2011/36/UE, relativa alla prevenzione e repressione della tratta di esseri umani e alla prostituzione delle vittime. Infine, l’ultima tappa in ordine cronologico riguarda l’adozione della l. 47/2017, in materia di misure di protezione dei minori stranieri non accompagnati, nota come “Legge Zampa”, che ha introdotto all’art. 17, segnatamente per le vittime di tratta, uno specifico programma di assistenza psicosociale, sanitaria e legale da sviluppare anche dopo il compimento della maggiore età. Si tratta della prima legge in Europa ad affrontare con autonomia, esaustività ed efficacia il problema legato ai MSNA, vittime di tratta[13].

Per quanto il piano normativo sia ricco ed articolato, difficilmente si può negare che proprio in rapporto a questa fenomenologia criminale sia necessario un approccio integrato tra una molteplicità di strategie, che grazie alla loro interazione convergano efficacemente verso il risultato della riduzione, se non addirittura eliminazione del mercato criminale, ormai diffuso capillarmente[14]. Il primo passo va compiuto verso il disvelamento di quella sorta di ipocrisia istituzionale a difesa della c.d. “fortezza Europa”, nella quale si professa come prioritaria la lotta alla tratta di persone, attraverso scelte normative improntate alla “tolleranza zero” nei confronti dei trafficanti o di coloro che sfruttano le vittime; senza però che vi sia altrettanto rigore nel rispetto dei diritti fondamentali dei migranti, tra i quali vi possono essere senz’altro vittime di tratta, in particolare proprio durante le operazioni di controllo alle frontiere[15]. Inoltre, la presenza di discipline eccessivamente restrittive riguardo ai flussi d’immigrazione in entrata, o che vincolino la legittimità del soggiorno nel paese ad una “dipendenza” di fatto dell’immigrato dal datore di lavoro, possono rendere particolarmente vulnerabile la condizione dell’immigrato e costituire un push factor del trafficking[16].

Un’azione di contrasto alla tratta di esseri umani, fenomenologia criminosa che si è diffusa in parallelo con il fenomeno della globalizzazione e dell’incremento della mobilità umana, è resa difficoltosa dal carattere clandestino che ne caratterizza le manifestazioni. Solo una visione complessiva del fenomeno e delle rispettive cause può aspirare a produrre risultati di maggiore e più tangibile successo[17]. In questa direzione si presenta come particolarmente interessante il progetto “Lavoro stagionale. Dignità e legalità”, elaborato dall’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare e promosso da Coldiretti e Anci, ma aperto anche ad altre adesioni[18]. Il Procuratore Generale della Corte di Cassazione, Giovanni Salvi, autore e promotore del progetto, ha sottolineato, tra le altre una fondamentale caratteristica di questa proposta – peraltro già concordata con il Ministro degli Esteri – secondo la quale il lavoratore straniero, che svolge alcuni periodi stagionali di lavoro in agricoltura in Italia, possa già ottenere il permesso di soggiorno. L’innovazione consiste nel fatto che il lavoratore, cessato il periodo massimo di permanenza autorizzata, accetta di ritornare per un periodo di tre mesi nel paese di provenienza, ma avendo già ottenuto il visto di reingresso, a seguito della pattuizione di successivi periodi di lavoro stagionale, garantiti dalle organizzazioni, quali per esempio Coldiretti. Ecco un esempio di come possa virtuosamente innescarsi un meccanismo di uscita dai circuiti perversi di sfruttamento della illegalità e, ripristinando i canali legali di ingresso del migrante economico, si possano sottrarre ingenti profitti alla criminalità organizzata.

[1] Pinto de Albuquerque, I diritti umani in una prospettiva europea. Opinioni concorrenti e dissenzienti (2016-2019), vol.II, a cura di Saccucci, prefazione di Sabato, in corso di stampa per i tipi di Giappichelli. La sentenza è anche reperibile in: https://hudoc.echr.coe.int

[2] Il richiamo esplicito è al precedente del caso di Rantsev c. Cipro e Russia (7.1.2010), nel quale il ricorrente, un cittadino russo, aveva presentato un ricorso contro la Repubblica di Cipro e la Russia presso la Corte europea dei diritti dell’uomo in relazione alla morte della figlia di 20 anni. La Corte riscontrò in particolare una violazione dell’articolo 4 della Convenzione europea (Divieto di schiavitù e lavoro forzato). In quell’occasione la Corte chiarì la necessità di adempiere obblighi positivi da parte degli Stati di indagare sulle accuse di tratta e di attuare misure per prevenire e proteggere le persone dalla tratta di esseri umani. La Corte riscontrò all’unanimità che la tratta rientrava nell’ambito di applicazione dell’art. 4, pur non essendo specificamente menzionata nella Convenzione europea (unico precedente: Domanda 73316/01 di Siliadin c. Francia).

[3] V.Stoyanova, J. and Others v. Austria and the Strengthening of States’ Obligation to Identify Victims of Human Trafficking, in https://strasbourgobservers.com.

[4] In un precedente caso, la Corte ha accolto un ricorso – che per molti aspetti è analogo alla vicenda in esame, poiché riguarda una forma di sfruttamento lavorativo domestico – ma si è giunti all’esito opposto per la riscontrata inadeguatezza delle tutele previste dalla legislazione nazionale: C.N. c. Regno Unito (13.11.2012). Qui la C. eur. dir. uomo ha dichiarato che vi era stata una violazione dell’articolo 4 (divieto di schiavitù e lavoro forzato) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il caso riguardava accuse di servitù domestica ai danni di una donna ugandese, che lamentava di essere stata costretta a lavorare come badante. La Corte ha riscontrato che le disposizioni legislative in vigore nel Regno Unito in quel momento erano inadeguate a offrire una protezione efficace contro il reato previsto all’articolo 4 (https://hudoc.echr.coe.int).

[5] Per un analitico inquadramento del fenomeno: V.Mongillo, Forced labour e sfruttamento lavorativo nella catena di fornitura delle imprese: strategie globali di prevenzione e repressione, in RTDPE 3-4/2019, 632 ss.

[6] C. De Martino, M. Lozito, D. Schiuma, Immigrazione, caporalato e lavoro nero in agricoltura, in A. Perulli (cur.), L’idea di diritto del lavoro, oggi: in ricordo di Giorgio Ghezzi, Padova, 2016, 340; D. Perrotta, Il caporalato come sistema: un contributo sociologico, E. Rigo (cur.), Leggi, migranti e caporali. Prospettive critiche e di ricerca sullo sfruttamento del lavoro in agricoltura, Pisa, 2015, 24-25; V. Pinto, Filiere agro-alimentari e agroindustriali, rapporti di produzione agricola e lavoro nero, in V. Ferrante (a cura di), Economia “informale” e politiche di trasparenza, Milano, 2018, 83 ss.

[7] F.Martelloni, Sfruttamento lavorativo degli stranieri e caporalato, in Aa.Vv., I migranti sui sentieri del diritto. Profili socio-criminologici, giuslavoristici, penali e processualpenalistici, in corso di stampa per i tipi di Giappichelli.

[8] V.Militello, La tratta di esseri umani: la politica criminale multilivello e la problematica distinzione con il traffico di migranti, in RIDPP 1/2018, 104. Fornisco un importante ausilio interpretativo le linee guida recentemente aggiornate dalla C. eur. dir. uomo (30 aprile 2019) sulla portata applicativa dell’art.4 Convenzione Edu, (https://www.echr.coe.int/Documents/Guide_Art_4_ENG.pdf).

[9] Per una ricostruzione complessiva del dato normativo italiano sia consentito il rinvio a: F.Curi, Profili penali, in Aa.Vv., I migranti sui sentieri del diritto. Profili socio-criminologici, giuslavoristici, penali e processualpenalistici, in corso di stampa per i tipi di Giappichelli.

[10] Le fattispecie che rilevano sono principalmente: il §104 StGB (codice penale austriaco) che punisce chi tratta una persona come uno schiavo e il traffico di schiavi (Sklaverei); il §104 a StGB che criminalizza la tratta di esseri umani (Menschenhandel) con il fine dello sfruttamento, che comprende lo sfruttamento sessuale, l’espianto di organi, il lavoro, l’accattonaggio e sfruttamento per commettere atti punibili; il §106 a StGB (Zwangsheirat), che punisce chiunque costringa taluno ad un matrimonio forzato; il §217 StGB (Grenzüberschreitender Prostitutionshandel) nel quale viene punito il commercio transnazionale della prostituzione; infine, in base al § 116 FPG (Fremdenpolizeigesetz – legge di polizia sugli stranieri) è punito anche il lavoro forzato di stranieri (Ausbeutung eines Fremden), in https://www.jusline.at/

[11] Sul versante italiano, ravvisa una tipicità poco definita, posta a tutela di beni giuridici non sempre univocamente afferrabili: V.Torre, Lo sfruttamento del lavoro. La tipicità dell’art.603 c.p. tra diritto sostanziale e prassi giurisprudenziale, in QG 4/2019, 90 ss. Per un’analisi del quadro legislativo riguardante il fenomeno dello sfruttamento lavorativo in Italia, si rinvia a: S. Tordini Cagli, Profili penali del collocamento della manodopera. Dalla intermediazione illecita all’ “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, in IP 2017, 727.

[12] Interessante una recente decisione della Corte, che va proprio nella direzione auspicata: Chowdury and Others v. Greece, 9 giugno 2017: La Corte ha dichiarato che vi era stata una violazione dell’articolo 4, §2 (divieto di lavoro forzato) della Convenzione, constatando che i richiedenti non avevano ricevuto un’efficace protezione dallo Stato greco. La Corte ha osservato, in particolare, che la situazione dei ricorrenti configurava un’ipotesi di tratta di esseri umani e di lavoro forzato e ha precisato che lo sfruttamento attraverso il lavoro era un aspetto della tratta. Il Collegio ha anche riscontrato che lo Stato non aveva rispettato i suoi obblighi di prevenire la situazione di tratta, di proteggere le vittime, di condurre un’indagine efficace sui reati commessi e di punire i responsabili del reato contestato (https://hudoc.echr.coe.int/).

[13] M.Giangreco, Il traffico di minori stranieri non accompagnati (MSNA) e il sistema di accoglienza dopo la l. 4 aprile 2017, n. 47, in CP 8/2019, 3100.

[14] Aprire canali regolari di immigrazione, anziché erigere muri, favorire forme di cooperazione internazionale allo sviluppo, anziché pratiche predatorie da parte dei paesi europei e occidentali, sono alcune linee di politica del diritto che dovrebbero integrarsi con le irrinunciabili scelte repressive verso chi alimenta il mercato di uomini (T.Casadei, Corpi in transito. Sulla tratta contemporanea, in La società degli individui, n. 63, anno XXI, 2018/3, 153).

[15] F.Parisi, Il contrasto al traffico di esseri umani fra modelli normativi e risultati applicativi, in RIDPP 4/2016, 1796 ss.

[16] F.Parisi, Il contrasto al traffico di esseri umani, cit. 1798.

[17] V.Militello, La tratta di esseri umani, cit., 86 ss.

[18]E’ stata organizzata – alla presenza dei Ministri degli Esteri, dell’Interno, della Giustizia, delle Politiche agricole alimentari e forestali, del Lavoro e delle Politiche sociali – una presentazione il 18 febbraio 2020: https://www.osservatorioagromafie.it/lavoro-stagionale-dignita-e-legalita/

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