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Acconsentire all’acquisizione degli atti d’indagine non equivale ad accettarne gli effetti: un timido ritorno alla legalità processuale 

Cass, Sez. IV, 16 gennaio 2020 (dep. 5 febbraio 2020), n. 4896

Cass, Sez. IV, 16 gennaio 2020 (dep. 5 febbraio 2020), n. 4896

Massima (C.E.D. n. 278579 – 02): «La scelta del difensore dell’imputato di acconsentire all’acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti di indagine non determina la sanatoria di eventuali nullità degli stessi».

Per la Suprema Corte la scelta della difesa di acconsentire all’acquisizione di taluni atti di indagine al fascicolo del dibattimento, finalizzata unicamente allo snellimento dell’attività processuale, non determina alcuna sanatoria ex art 183 c.p.p. di ipotetiche nullità e non fa venir meno il diritto di eccepirne l’inutilizzabilità.

 

Sommario: 1. La vicenda. – 2. La decisione della Suprema Corte. – 3. Alcune riflessioni di sistema.

 

  1. La vicenda.

Con la sentenza in commento la Suprema Corte coglie l’occasione per enunciare un importante principio di diritto, volto a garantire la formazione della prova nel contraddittorio delle parti secondo le regole del dibattimento.

Questa, in breve, la vicenda portata all’attenzione della IV Sezione penale della Cassazione.

In un processo per guida in stato di ebbrezza, durante la fase dibattimentale il difensore dell’imputato eccepisce la nullità dell’avviso di accertamento del tasso alcolemico lamentando la violazione dell’art. 114 disp. att. c.p.p., poiché gli operatori delle forze dell’ordine intervenuti non avevano dato avviso all’imputato della facoltà di farsi assistere da un difensore prima del compimento dell’atto.

All’esito del giudizio di primo grado, il Tribunale monocratico condanna l’imputato per il reato di cui all’art. 186 c.d.s., comma 7, con riferimento al comma 2, lett. c). Premesso di essere a conoscenza del conflitto giurisprudenziale in merito alla necessità che sia dato l’avviso del diritto di farsi assistere dal difensore anche in ipotesi di rifiuto di sottoporsi all’accertamento ‒ avviso che nel caso di specie non risultava essere stato dato all’imputato ‒ il giudice di prime cure ritiene «di aderire all’orientamento che non lo considera in tale ipotesi necessario», poiché «l’avvertimento in parola, prescritto per il compimento delle perquisizioni e degli accertamenti urgenti da parte della polizia giudiziaria dall’art. 114 disp. att. c.p.p., è funzionale alla facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia durante il compimento dell’atto in questione, in quanto atto a sorpresa e non ripetibile, in modo che sia condotto nel rispetto dei diritti della persona sottoposta alle indagini», e «poiché, in ipotesi di rifiuto di sottoporsi all’accertamento del tasso alcolemico, detto atto non può essere coattivamente eseguito, perde di rilievo l’assistenza del difensore e, a monte, l’avvertimento della facoltà di farsi assistere».

Adita dalla difesa, la Corte d’appello di Milano conferma la sentenza di primo grado. In particolare ‒ a fronte del motivo di gravame volto a censurare il passaggio motivazionale appena riportato – la Corte territoriale sostiene che «pur essendosi svolto il giudizio seguendo il rito ordinario e pur avendo la difesa eccepito nei termini di legge l’avvenuta omissione, è necessario evidenziare che la stessa parte appellante, all’udienza del 5 marzo 2018, aveva prestato il consenso all’acquisizione degli atti di indagine, andando quindi ad accettare gli effetti dell’atto originariamente nullo, determinandone per l’effetto una sanatoria ai sensi dell’art. 183 c.p.p., comma 1, lett. a)».

Propone quindi ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato, deducendo la violazione dell’art. 114 disp. att. c.p.p., per omesso avviso all’imputato della facoltà di farsi assistere da un difensore prima del compimento dell’atto, nonché per manifesta illogicità della motivazione della Corte d’Appello nella parte poc’anzi riportata.

 

  1. La decisione della Suprema Corte.

La Quarta Sezione della Suprema Corte rigetta il ricorso, richiamandosi all’indirizzo giurisprudenziale sposato dal giudice di prime cure, e stando al quale, ove l’automobilista si rifiuti di sottoporsi all’accertamento alcolimetrico dopo essere stato sorpreso alla guida con indici di sospetta ebbrezza, «non è necessario l’avvertimento della facoltà di farsi assistere da un difensore ex art. 114 disp. att. c.p.p.». Tuttavia, nell’ambito di un’articolata motivazione, la pronuncia in commento riconosce la fondatezza della censura con cui la difesa aveva lamentato l’illogicità motivazionale insita nell’assegnazione di efficacia sanante ex art. 183 c.p.p. al consenso ad acquisire gli atti d’indagine al fascicolo del dibattimento.

Anzitutto, viene ribadito che la violazione dell’obbligo di dare avviso al conducente da sottoporre al prelievo ematico circa la facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia integra un’ipotesi di nullità a regime intermedio, che può essere tempestivamente dedotta, a norma del combinato disposto degli artt. 180 e 182 c.p.p., comma 2, secondo periodo, fino al momento della deliberazione della sentenza di primo grado[1].

Pur rifacendosi a tale consolidato orientamento, la Suprema Corte censura l’affermazione della sentenza d’appello laddove sosteneva che «pur avendo la difesa eccepito nei termini di legge l’avvenuta omissione, è necessario evidenziare che la stessa parte appellante, all’udienza del 5 marzo 2018, aveva prestato il consenso all’acquisizione degli atti di indagine, andando quindi ad accettare gli effetti dell’atto originariamente nullo, determinandone per l’effetto una sanatoria ai sensi dell’art. 183 c.p.p., comma 1, lett. a)». E ciò in quanto il processo si è svolto nelle forme del giudizio ordinario e «la scelta di una o più parti di rinunciare al contraddittorio, in relazione all’acquisizione di singoli mezzi di prova, non ne trasforma certo la natura».

Accogliendo la prospettiva della difesa, la pronuncia afferma, sia pure per inciso, che «l’acquisizione della prova su accordo delle parti è un istituto che risulta pacificamente differente rispetto al giudizio abbreviato. I due istituti infatti sono disomogenei e non assimilabili, dal momento che gli accordi che possono intervenire tra le parti, in ordine alla formazione del fascicolo per il dibattimento, non escludono il diritto di ciascuna di esse ad articolare pienamente i rispettivi mezzi di prova secondo l’ordinario ed ampio potere loro assegnato per la fase dibattimentale. La scelta della difesa di acconsentire all’acquisizione degli atti di indagine, finalizzata unicamente allo snellimento dell’attività processuale, non fa venire meno il diritto della parte stessa di eccepire l’inutilizzabilità dell’atto acquisito».

Del resto, si legge in sentenza, «in difetto di richiesta di rito abbreviato, il consenso prestato a far transitare uno o più atti delle indagini preliminari nel fascicolo per il dibattimento e ad utilizzarli ai fini della decisione, non produce alcun effetto premiale in termini di pena».

 

  1. Alcune riflessioni di sistema

Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte coglie l’occasione per “fare ordine” circa la distinzione tra la scelta di un rito negoziale e l’acquisizione su accordo delle parti di atti d’indagine nelle forme e nei modi previsti per il rito ordinario.

Ed invero, seppur in un ampio obiter dictum, la pronuncia smentisce la decisione cui era giunta la Corte d’Appello ambrosiana, là dove, pur nell’ambito di un processo celebrato nelle forme ordinarie, equiparava – di fatto – l’acquisizione concordata ex art. 431, comma 2, c.p.p.  all’istituto disciplinato dall’art. 438, comma 6-bis, c.p.p.: norma che, come noto, facendo discendere dalla scelta del rito abbreviato la sanatoria di tutte le nullità (eccetto quelle assolute), identifica un’ipotesi di acquiescenza ex lege, tale da determinare un’accettazione degli effetti dell’atto per facta concludentia[2].

Per la Suprema Corte, invece, «l’acquisizione della prova su accordo delle parti è un istituto che risulta pacificamente differente rispetto al giudizio abbreviato».

Ebbene, il pregio della sentenza in esame sta proprio in questo passaggio, con cui il giudice di legittimità prende le distanze da un’applicazione generalizzata ed estensiva di quella «legalità degradata»[3] introdotta con il nuovo art. 438, comma 6-bis, c.p.p. Certo: l’importante e inedito principio di diritto viene solo “sussurrato” dalla pronuncia, con un’affermazione il cui rigore garantistico resta comunque “a costo zero”, poiché privo di ricadute sull’esito decisorio. Tuttavia, la sentenza merita attenzione, anche perché suscita alcune stimolanti riflessioni attorno al comma 6-bis dell’art. 438 c.p.p .

Sebbene non abbia comportato un reale effetto innovativo, consistendo nella semplice codificazione di soluzioni cui era già pervenuta la giurisprudenza maggioritaria[4], la disposizione ha originato numerose critiche sin dal suo ingresso nell’ordinamento. Il suo innesto, infatti, operato con la “riforma Orlando” del 2017, è espressione di un fenomeno ricorrente negli ultimi anni: sia pure ossequiando formalmente la legge, il legislatore recepisce il diritto pretorio, così, però, inevitabilmente contribuendo al tramonto della legalità[5]. Tali “tecniche” legislative si inseriscono, poi, in un contesto fortemente condizionato dalla giurisprudenza sovranazionale, che aderisce ad un concetto di legalità molto diverso da quello proprio del nostro sistema[6].

Ciò che però preme sottolineare è che nel panorama brevemente tratteggiato la pronuncia in esame pare mostrare un singolare paradosso.

Se, infatti, si osserva con attenzione il semplice e corretto schema logico seguito dalla decisione, si potrà notare come la Cassazione abbia scelto di abdicare all’ambiguo[7] concetto di rinuncia presunta a far valere il vizio dell’atto[8].

Ma se così è, viene allora naturale un interrogativo provocatorio: ammesso e non concesso che si possa aderire alla logica sottesa all’art. 438, comma 6-bis, c.p.p., non sarebbe più razionale ricondurre un effetto sanante alla scelta di accordarsi circa l’inserimento di un atto d’indagine nel fascicolo del dibattimento piuttosto che alla richiesta di giudizio abbreviato?

Con la scelta di tale rito l’imputato si limita, infatti, a rinunciare al diritto alla formazione della prova nelle forme del contraddittorio, magari in vista di uno sconto di pena[9], senza che la sua opzione investa il più generale profilo della conformità al modello legale delle forme del procedere[10].

In altri termini, il reale valore di questa pronuncia è che contribuisce ad evidenziare la forzatura introdotta con il comma 6-bis dell’art. 438 c.p.p., che, sebbene non innovativo rispetto ai precedenti approdi della giurisprudenza di legittimità, si fonda, comunque, su un’equazione – quella tra scelta del rito e acquiescenza sanante rispetto alle invalidità (come pure rispetto all’incompetenza territoriale) – assolutamente eccentrica, che “prova troppo”, e che evidentemente lede il diritto di difesa dell’imputato[11].

Il principio di diritto affermato dalla Suprema Corte ricorda dunque ‒ se mai ce ne fosse stato davvero bisogno ‒ che, in assenza di indici significativi e univoci, la volontà dell’imputato non si può presumere. Di conseguenza, pur acconsentendo all’acquisizione degli atti d’indagine al fascicolo dibattimentale, la difesa non per questo perde la propria facoltà di eccepire eventuali patologie di uno o più fra quegli atti.

Ma ancor di più, questa presa di posizione dimostra come l’aver reso littera legis una sanatoria “innominata” ‒ attribuendo un implicito consenso dell’imputato alla sanatoria di ogni invalidità processuale per il sol fatto di aver richiesto di essere giudicato nelle forme del rito abbreviato ‒ è davvero un’operazione di dubbia costituzionalità[12].

Come noto, la “riforma Orlando”, se da un lato ha recepito l’orientamento ormai consolidato in materia di invalidità, ha invece superato il garantistico approdo cui era pervenuta la nota pronuncia a Sezioni Unite del 2012, che consentiva di eccepire l’incompetenza territoriale del giudice in caso di rito abbreviato sia “tipico” che “atipico”[13]. In quell’occasione, infatti, il Supremo Collegio rammentava come, in effetti, non sia rinvenibile nel nostro sistema la regola per cui «l’imputato per poter essere giudicato dal giudice naturalmente competente debba rinunciare ai riti alternativi e, di converso, per poter accedere al giudizio abbreviato debba essere costretto a rinunciare a perseguire la legalità in tema di competenza».

Ora, sebbene in quella pronuncia sia stata la stessa Corte a non volersi spingere troppo oltre (anche perché non investita della questione), affermando che «le norme poste a tutela del procedimento probatorio e dell’iter propulsivo dell’azione penale e quelle finalizzate a dare attuazione al principio del giudice naturale ad esigenze difformi e non [sono] in toto assimilabili»[14], non pare affatto un fuor d’opera ritenere, invece, tali autorevoli e condivisibili principi estensibili anche al regime delle invalidità[15].

Ed in effetti, il pregio di quell’orientamento – letteralmente sterilizzato dal legislatore del 2017 e dalla giurisprudenza successiva[16] – era stato quello di mettere al centro i «comportamenti della parte specificatamente indicativi della sua volontà di nulla eccepire in merito», neutralizzando così l’inaccettabile concetto di “rinuncia presunta” ad eccepire l’incompetenza per territorio.

E lo stesso, dunque, dovrebbe valere anche nell’interpretare l’art. 183, comma 1, lett. a), c.p.p., che troverebbe così applicazione solo nei casi di rinuncia esplicita o quando dal comportamento della parte «possa inoppugnabilmente desumersi la rinuncia definitiva a contestare il vizio»[17].

La ragionata conclusione, pertanto, è che la richiesta di essere giudicato nelle forme del giudizio abbreviato non dovrebbe poter in alcun modo essere intesa come sanatoria per facta concludentia di ipotetiche invalidità, poiché se è vero che la scelta del rito implica una rinuncia ad un accertamento del fatto nel contraddittorio (e perciò premiata con uno sconto di pena in caso di condanna), è altrettanto vero che il regime delle nullità è posto a presidio di un principio costituzionale inviolabile quale quello della conformità degli atti processuali a quanto prescritto dalla legge per la loro formazione[18]. D’altronde, come già scriveva Beccaria, le forme «danno al popolo l’idea di un giudizio non tumultuario […]  ma stabile e regolare»[19].

Per tali motivi, paiono rimanere davvero troppi i dubbi di legittimità costituzionale del riformato art. 438, comma 6-bis, c.p.p.; dubbi che questa sentenza contribuisce senz’altro ad evidenziare.

L’auspicio, quindi, è che la pronuncia in commento ‒ che comunque ha meritevolmente posto un argine a pericolose applicazioni analogiche ‒ possa rappresentare un primo passo verso una decisa inversione di rotta che come destinazione ha la Corte Costituzionale.

 

[1] In tal senso v. già Cass. pen., Sez. Un., 29 gennaio 2015, n. 5396, Bianchi, Rv. 263025; Cass. pen., IV Sez., 28 febbraio 2018, n. 24087, Massardi, Rv. 272959.

[2] In breve, sebbene non risulti expressis verbis, la sentenza di secondo grado pare aver trasferito al caso specifico il consolidato orientamento secondo cui «in tema di guida in stato di ebbrezza, la violazione dell’obbligo di dare avviso al conducente da sottoporre al prelievo ematico, effettuato su richiesta della polizia, della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, determina una nullità di ordine generale a regime intermedio che può essere tempestivamente dedotta, a norma del combinato disposto dell’art. 180 c.p.p. e art. 182 c.p.p., comma 2, fino al momento della deliberazione della sentenza di primo grano ma che deve ritenersi sanata, ai sensi dell’art. 183 c.p.p., qualora l’imputato formuli una richiesta di rito abbreviato» (ex multis, Cass. pen., sez. IV, 04 giugno 2019, n. 45933).

[3] E. Crippa, Fondamento costituzionale delle nullità e consenso nei riti speciali, in Archivio Penale, Fascicolo n. 2 – Maggio-Agosto 2018 (Web).

[4] Per tutte, Cass. pen., Sez. Un., 26 settembre 2006, n. 39298, Cieslinsky ed altri, in CED Cass., n. 234835 secondo cui «se l’imputato, ovvero colui che è titolare del diritto di difesa, esercita la facoltà riservatagli di richiedere il giudizio abbreviato, non solo accetta gli effetti dell’atto nullo propedeutico, ma innanzitutto dimostra di non avere interesse all’osservanza della disposizione violata. La richiesta pertanto rende indeducibile l’eccezione». Come noto, tale importante pronuncia ha portato a compimento il percorso intrapreso da Cass. pen., Sez. un., 21 giugno 2000, Tammaro, ivi, n. 216246, esplicitando a chiare lettere quanto ivi era rimasto implicito (con riferimento alla non rilevabilità e deducibilità, nel rito speciale, delle nullità intermedie e relative).

[5] Sul tema della legalità processuale ex multis, T. Padovani, Il crepuscolo della legalità nel processo penale. Riflessioni antistoriche sulle dimensioni processuali della legalità penale, in Ind. pen., 1999, 181 ss. Più di recente, D. Negri, Splendori e miserie della legalità processuale. Genealogie culturali, ethos delle fonti, dialettica tra le Corti, in Arch. Pen., ed. on-line, 2017, n. 2, 1 ss. V. anche P. Ferrua, Soggezione del giudice alla sola legge e disfunzioni del legislatore: il corto circuito della riforma Orlando, in Dir. pen. proc., 2017, 1265 ss., secondo cui dalla riforma del 2017 «deriva una profonda crisi del principio di soggezione del giudice alla sola legge, già notevolmente indebolito dalle sentenze costituzionali sul carattere vincolante delle interpretazioni della Corte di Strasburgo. L’asse della legalità si sposta sempre più dalla legge verso la giurisprudenza, mentre si manifesta la tendenza ad attribuire alla Cassazione e, in particolare, alle Sezioni unite poteri di interpretazione vincolante. Non è una buona soluzione. Nell’assetto di una magistratura reclutata per concorso e politicamente irresponsabile la tutela della legalità deve restare affidata in primis al carattere precettivo della legge».

[6] V., ad esempio, Corte EDU, Sez. IV, 14 aprile 2015, Contrada c. Italia, secondo cui la prevedibilità della decisione giudiziaria può ricavarsi anche dal diritto di matrice giurisprudenziale; in dottrina, A. Manna, La sentenza Contrada e i suoi effetti sull’ordinamento italiano: doppio vulnus alla legalità penale?, in Dir. pen. cont., ed. on-line, 4 ottobre 2016, secondo cui «la Corte Europea [ha] mostra[to] chiaramente di privilegiare il diritto vivente sul diritto scritto».

[7] Sul punto, si rimanda alle condivisibili ed approfondite osservazioni di E. Crippa, Fondamento costituzionale delle nullità e consenso nei riti speciali, op. cit., p. 6 e ss.

[8] Ritengono che l’inclusione concordata dell’atto nel fascicolo del giudice sani le eventuali cause di nullità relative o a regime intermedio, fra gli altri, R. Bricchetti-L. Pistorelli, L’udienza preliminare. Dall’avviso di conclusione delle indagini ai riti alternativi, Il sole 24 ore, 2003, 327; C. Conti, in G.M. Baccari – C. Conti, Una nuova espressione del metodo dialettico: l’acquisizione concordata di atti (art. 493, comma 3 c.p.p.), in Dir. pen proc., 2003, p. 878; G.L. Fanuli, Riflessioni sull’istituto della acquisizione di atti su accordo delle parti, in Cass. pen., 2001, 359; M. Gemelli, L’irruzione della negozialità nel giusto processo, in Giust. pen., 2001, c. 733. In ogni caso, la dottrina più attenta ha avuto modo di specificare che la sanatoria ex art. 183 c.p.p. scatterà solo là dove le parti, al momento dell’accordo, siano consapevoli della patologia (sanabile) che affligge l’atto, così T. Rafaraci, voce Nullità (diritto processuale penale), in Enc. dir., Aggiornamento, vol. II, Milano, 1998, p. 618. Per un’ampia panoramica sul dibattito, si veda, fra gli altri, G. Di Paolo, Nullità processuali e sanatoria tra tassatività e tendenze antiformalistiche, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, 250.

[9] È la stessa pronuncia in commento ad affermare, ancora una volta implicitamente, che fine primario della scelta del rito abbreviato è lo sconto di pena là dove si sostiene che «in difetto di richiesta di rito abbreviato, il consenso prestato a far transitare uno o più atti delle indagini preliminari nel fascicolo per il dibattimento e ad utilizzarli ai fini della decisione, non produce alcun effetto premiale in termini di pena».

[10] Come osserva in maniera del tutto condivisibile A. Macchia, La riforma del giudizio abbreviato e degli altri riti speciali, in Dir. pen. cont., 24 novembre 2017, p. 16, «non sempre e non necessariamente la volontà di accedere al rito alternativo si presenta, infatti, come “incompatibile” con il diritto a far valere il vizio di un determinato atto, così da renderlo processualmente privo di effetti».

[11] In tal senso v. da ultimo D. Negri, sub art. 438, in G. Illuminati-L. Giuliani, Commentario breve al codice di procedura penale, Cedam, Padova, 2020, p. 2169, nonché, (anche se con riguardo alla preclusione di «ogni questione sulla competenza per territorio»), L. Caraceni, La legge 103/2017 e i significativi ritocchi alla disciplina del giudizio abbreviato, in Leg. pen. 2018, p. 17.

[12] Come già approfonditamente sottolineato da E. Crippa, Fondamento costituzionale delle nullità e consenso nei riti speciali, op. cit.

[13] Cass. pen., Sez. un., 29 marzo 2012, n. 27996, Forcelli, secondo cui «l’eccezione di incompetenza territoriale è proponibile in limine al giudizio abbreviato che non sia stato preceduto dalla udienza preliminare. Quanto al giudizio abbreviato preceduto dalla udienza preliminare (giudizio abbreviato c.d. tipico) tale eccezione è proponibile, sempre in limine; solo se essa sia stata già proposta (e rigettata) in sede di udienza preliminare».

[14] Cass. pen., Sez. un., 29 marzo 2012, n. 27996, Forcelli, par. 4.2.

[15] In tal senso, e in termini critici rispetto alla pronuncia delle Sezioni unite, G. Todaro, Il volto attuale del giudizio abbreviato tra questioni deducibili e implicazioni di sistema, in Cass. pen., 2013, p. 586.

[16] Ci si riferisce, ad esempio, a Cass. pen., Sez. II, 3 ottobre 2019, n. 1596, secondo cui «l’art. 438, comma 6-bis c.p.p., nello stabilire che la richiesta di giudizio abbreviato “preclude ogni questione sulla competenza per territorio del giudice”, si riferisce non solo alle parti ma anche alla possibilità per il giudice di rilevare d’ufficio la propria incompetenza, dovendosi ritenere prevalente l’interesse pubblico alla speditezza del processo rispetto alla possibilità di discutere della competenza territoriale lungo l’arco del processo stesso». L’orientamento stupisce per una duplice ragione. La prima è che il concetto di giusto processo costituzionalmente garantito dovrebbe soccombere rispetto ad imprecisate ragioni di speditezza processuale e ciò ancor di più se si ha cura di ricordare che per Corte cost., n. 317 del 2009 «un processo non giusto, perché carente sotto il profilo delle garanzie, non è conforme al modello costituzionale, quale che sia la sua durata». La seconda è che come correttamente osservato da F. Cassibba, Sub art. 21, in Codice di procedura penale commentato, I, cit., 398, tale impostazione, ovvero sottrarre anche allo stesso giudice la possibilità di rilevare la propria incompetenza territoriale «esporrebbe il fianco a seri dubbi di legittimità costituzionale, almeno se si muove dalla premessa per cui il giudice naturale ex art. 25 Cost., assicurato dalle norma sulla competenza, non sarebbe valore disponibile». In dottrina, si rimanda alle autorevoli osservazioni di P. Ferrua, La ragionevole durata del processo tra Costituzione e Convenzione europea, in Quest. giust., 2017, 112-113.

[17] «Ciò a maggior ragione quando trattasi di questioni di competenza per territorio, il cui regime, seppure modellato (specie in punto di rilevabilità e decadenza) su quello delle nullità c.d. intermedie, mantiene – anche in virtù della copertura costituzionale – la sua specificità, il primo regime essendo posto a presidio del diritto costituzionale di ognuno di essere giudicato dal suo giudice naturale, il secondo essendo posto a presidio della conformità degli atti processuali a quanto prescritto dalla legge per la loro formazione. Ne consegue che non può certo ritenersi prodotto alcun effetto sanante allorquando l’imputato proponga e reiteri, nel rispetto delle cadenze processuali ed unitamente all’opzione per il rito alternativo, l’incidente di competenza», così sempre Cass. pen., Sez. un., 29 marzo 2012, n. 27996, Forcelli, in motivazione par. 4.3.

In tema di comportamento rilevante ex art. 183 c.p.p. si rimanda a quanto affermato da M. Panzavolta, voce Nullità degli atti processuali: II) diritto processuale penale, in Enc. giur. Treccani, XXIII, Roma, 2005, 13. Condivisibili osservazioni formula anche G. Di Paolo, op. cit., la quale sostiene che «tale modo di ragionare — che si fonda sull’idea che il consenso prestato all’instaurazione del rito sommario sottenderebbe una tacita accettazione degli atti viziati, o comunque un’implicita rinuncia a sollevare eccezioni di nullità — incorre infatti nell’errore metodologico di dare per scontato il fatto processuale che invece va dimostrato (ossia la sussistenza, nel richiedente, di un certo animus rinunciatario)». Del resto,

[18] Come a suo tempo osservato da N. Viggiano, Patologie nel giudizio abbreviato e nell’applicazione della pena su richiesta, in Riv. it. dir. proc. pen., 512, la scelta del rito e la corretta instaurazione del processo secondo il modello legale «sono profili perfettamente autonomi». Nondimeno, la portata abdicativa del rito abbreviato – e, conseguentemente, l’efficacia sanante a esso abbinata – non incide sul potere-dovere del giudice di adempiere il proprio ruolo di garante della legalità del procedimento probatorio, giacché quest’ultimo rappresenta un interesse sottratto alla libera disponibilità delle parti, così, R. Bricchetti – L. Pistorelli, Il giudizio abbreviato. Profili teorico-pratici, Giuffré, Milano, 2005, 103 ss.

[19] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, 1764; di recente, E. Amodio, Estetica della giustizia penale. Prassi, media, fiction, Giuffré, Milano, 2016, p. 85.

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