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L’APPELLO DELL’IMPUTATO ASSENTE: UN DIRITTO COSTITUZIONALE SOTTOPOSTO A NUOVI OSTACOLI

I – I “nuovi” presupposti del processo in assenza

Come è noto, la c.d. Riforma Cartabia è intervenuta anche sui presupposti sottesi alla dichiarazione di assenza dell’imputato, nel tentativo di superare i rilievi costituzionali e convenzionali afferenti ad un processo in absentia ancora caratterizzato da residui profili di incertezza sull’effettiva conoscenza dell’accusa da parte dell’imputato.

In questo senso, il frequente svolgimento di giudizi dibattimentali a carico di imputati del tutto ignari della pendenza del processo, o quantomeno del suo effettivo sviluppo, non può non indurre ad attente riflessioni, anche sotto il profilo sociale e criminologico, sul corretto funzionamento dei “meccanismi” processuali afferenti alla dichiarazione o elezione di domicilio, oltre che alle successive notifiche.

Il delicato tema afferente all’effettiva conoscenza dell’accusa e della successiva evoluzione del relativo procedimento appare peraltro destinato ad assumere, se possibile, un rilievo ancora maggiore nell’ambito di un impianto riformatore teso a valorizzare ulteriormente le “scelte personali” dell’imputato, non soltanto ai fini dell’accesso ai riti alternativi e dell’eventuale rinuncia ad appellare la sentenza di condanna emessa all’esito del giudizio abbreviato (ottenendo in tal modo una riduzione di un sesto della pena concretamente irrogata), ma anche con riferimento alla possibile richiesta di messa alla prova ed a quella di sostituzione della pena detentiva irrogata all’esito del primo grado di giudizio con il lavoro di pubblica utilità, con la detenzione domiciliare o con la semilibertà.

Oltre a costituire il presupposto ineludibile di un giusto processo, la conoscenza dell’accusa ed il tempestivo accesso a tutte le informazioni afferenti al relativo procedimento rappresentano pertanto, all’esito della riforma, anche una condizione assolutamente necessaria in vista di una auspicata definizione della vicenda processuale che tenga in debito conto anche le funzioni della pena.

A fronte della richiamata esigenza di rivisitazione del sistema delle notifiche e dei presupposti per la dichiarazione di assenza, la nuova disciplina non sembra tuttavia brillare per semplicità e chiarezza, atteso che – in mancanza di una notifica a mani proprie dell’imputato o di soggetto all’uopo delegato – la valutazione giudiziale in merito alla “conoscenza della pendenza del processo” resta comunque affidata ad una serie di indici : “il giudice tiene conto delle modalità della notificazione, degli atti compiuti dall’imputato prima dell’udienza, della nomina di un difensore di fiducia e di ogni altra circostanza rilevante”.

Inoltre, anche a prescindere dai criteri di valutazione enunciati, il disposto dell’attuale art. 420 bis, secondo comma,c.p.p. lascia aperti alcuni margini di ambiguità anche rispetto a quanto deve costituire oggetto di conoscenza da parte dell’imputato, determinando una possibile sovrapposizione fra il dato informativo relativo alla precedente apertura di un procedimento penale e quello afferente invece alla sopravvenuta pendenza di un processo, rispetto al quale dovrebbe poi assumere decisivo rilievo proprio la contezza dell’accusa in esso elevata.

Se si considera che le Sezioni Unite avevano già avuto modo di sottolineare che la consapevolezza del processo può ritenersi garantita solo dalla conoscenza di un provvedimento formale di vocatio in iudicium contenente l’indicazione dell’accusa formulata (oltre che della data e del luogo di svolgimento del giudizio), l’intervento normativo apparentemente finalizzato a recepire le suddette indicazioni giurisprudenziali non risulta invece altrettanto esplicito.

Inoltre, almeno rispetto ai soggetti più fragili e meno inseriti nel contesto sociale, spesso addirittura privi di una dimora agevolmente identificabile, il problema relativo alla validità ed alla completezza dell’elezione di domicilio (che verrà loro comunque sollecitata dalla polizia giudiziaria alla prima occasione utile) continuerà purtroppo a rappresentare la vera cartina di tornasole della riforma. 

In questo senso, un’eventuale elezione di domicilio presso il difensore di fiducia che dovesse essere intervenuta in fase di indagini rischia ad esempio di determinare, proprio alla luce dei criteri indicati dall’art.420 bis c.p.p., la possibile reviviscenza di un rigido meccanismo presuntivo.

Di conseguenza, il dettato normativo richiamato non sembra scongiurare definitivamente il rischio che si continuino a celebrare “in assenza” molteplici processi nei confronti di imputati inconsapevoli, come purtroppo già avvenuto a seguito dei precedenti interventi riformatori.

II – L’impugnazione nell’interesse dell’assente

Nel quadro appena tratteggiato, il legislatore è invece intervenuto in modo assai netto sulle condizioni di ammissibilità dell’impugnazione proposta dal difensore nell’interesse dell’imputato assente, onerando quest’ultimo del rilascio di un apposito mandato e determinando in tal modo una evidente asimmetria rispetto all’imputato presente.

Secondo la relazione del Massimario, il presupposto logico dell’art.581, comma 1-quater, c.p. sarebbe da ricondurre alla “esigenza di selezionare in entrata le impugnazioni, caducando quelle che non siano espressione di una scelta ponderata e rinnovata, in limine impugnationis, ad opera della parte”.

Proprio per evitare che il difensore dell’imputato assente possa eventualmente proporre un’impugnazione non corrispondente ad una “scelta ponderata e rinnovata” del suo assistito verrebbe pertanto introdotta, quale preliminare condizione di ammissibilità dell’impugnazione da questi proposta dal difensore il necessario deposito di uno “specifico mandato ad impugnare rilasciato dopo la pronuncia della condanna e contenente la dichiarazione o l’elezione di domicilio dell’imputato ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio”.

Del resto, considerato che l’intervento riformatore ha invece tenuto ferma la possibilità dell’imputato assente di avvalersi di un procuratore speciale (anche anteriormente indicato) ai fini dell’eventuale successiva impugnazione, la nuova disposizione introdotta appare esplicitamente rivolta a limitare la precipua legittimazione del difensore, imponendo di fatto all’assente una esplicita rinnovazione del rapporto fiduciario, destinato altrimenti a decadere proprio con la pronuncia di una sentenza di condanna. 

Eppure, il sistema delineato dall’art.571 c.p.p. continua a riconoscere al difensore dell’imputato “al momento del deposito del provvedimento” una piena ed autonoma legittimazione a “proporre impugnazione” nell’interesse del medesimo. Ebbene, lungi dall’intervenire sulla norma attinente alla legittimazione del difensore, come sarebbe apparso a questo punto più coerente, il legislatore ha ritenuto invece di prevedere ex nihilo la necessità di uno “specifico mandato ad impugnare” all’interno di un articolo teso viceversa a regolamentare la “forma” dell’impugnazione.

A prescindere dalle evidenti incongruenze sistematiche, la scelta legislativa lascia in tal modo trasparire la meditata previsione di un vero e proprio ostacolo (di natura meramente “formale”) rispetto alla normale estrinsecazione delle facoltà difensive ed una malcelata diffidenza nei confronti della difesa tecnica, della quale saranno purtroppo destinati a fare le spese proprio gli imputati più fragili.

III – La rilevanza costituzionale del diritto all’appello

In via preliminare, è allora appena il caso di sottolineare – ad ulteriore riscontro della rilevanza e della delicatezza della questione – che l’impugnazione della sentenza di condanna rappresenta all’evidenza una delle componenti essenziali del diritto di difesa, non a caso garantito dall’art.24 Cost. in relazione ai diversi “gradi” del procedimento.

Allo stesso modo, nel riconoscere il valore costituzionale della presunzione di non colpevolezza, l’art.27 Cost evoca espressamente il presupposto della “definitività” dell’eventuale condanna, con evidente richiamo proprio al possibile ribaltamento – nei gradi successivi – dell’ingiusta sentenza che dovesse essere stata pronunciata in primo grado nei confronti dell’imputato.

Sotto altro aspetto, l’obbligo di motivazione dei provvedimenti giudiziari sancito dall’art.111 Cost. trova a sua volta fondamentale corollario nella successiva possibilità di verifica della legittimità dei medesimi, a maggior ragione a fronte di eventuali decisioni di “condanna” che incidono direttamente sulla libertà dei cittadini.

Pur in mancanza di un esplicito riconoscimento formale all’interno degli art.24, 27 e 111 Cost. (che richiama espressamente il solo ricorso per cassazione), la Corte Costituzionale ha avuto modo di sottolineare che “il potere di impugnazione dell’imputato si correla al fondamentale valore espresso dal diritto di difesa (art. 24 Cost.), che ne accresce la forza di resistenza al cospetto di sollecitazioni di segno inverso (sentenze n. 274 del 2009, n. 26 del 2007 e n. 98 del 1994)”, richiamando altresì le diverse fonti sovranazionali tese a garantire “il diritto a far riesaminare la decisione da una giurisdizione superiore, o di seconda istanza” proprio “a favore della persona dichiarata colpevole o condannata per un reato” (in questi termini, Corte Cost. n.34 del 2020).

IV – L’impropria “discriminazione” della posizione dell’assente

La rilevanza costituzionale del diritto all’impugnazione sembra pertanto imporre un’attenta valutazione delle relative “condizioni”, non solo sotto il profilo della loro intrinseca ragionevolezza, ma anche con riferimento alla loro effettiva coerenza sistematica.  Anche sotto tali profili, l’art.581, comma 1 quater, c.p.p. sembra inevitabilmente prestarsi ad una pluralità di rilievi critici, destinati a porre seriamente in dubbio l’intrinseca legittimità della norma.

Laddove la richiamata esigenza di una ponderata scelta dell’imputato avesse davvero rappresentato la ratio sottesa all’intervento normativo in questione, la previsione di uno specifico mandato ad impugnare avrebbe dovuto trovare la sua naturale applicazione anche con riferimento all’imputato presente, il quale ben potrebbe avere presenziato ad una singola udienza o magari semplicemente rilasciato, al suo difensore, una procura speciale per accedere a riti alternativi.

Non potendosi oggettivamente ravvisare alcuna diversità di condizione fra l’imputato assente e l’imputato presente in relazione alla comune possibilità di conoscere (o meno) l’avvenuta emissione di una sentenza di condanna, oltre che alla piena validità ed efficacia del mandato difensivo, l’esigenza di “partecipazione” formalmente enunciata lascia in realtà trasparire delle implicazioni completamente diverse, tali da integrare una ingiustificata limitazione della possibilità di giovarsi direttamente della difesa tecnica, anche ai fini dell’impugnazione, da parte del solo imputato assente.   

Eppure, la Corte Costituzionale aveva già avuto modo di richiamare anni addietro le insuperabili indicazioni fornite dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa con la risoluzione del 21 maggio 1975,  n. 11,  con la quale erano state espressamente individuate le garanzie da assicurare all’imputato assente “stabilendo, tra le  «regole  minime»,  che  «ogni persona  giudicata in sua  assenza  deve poter impugnare la  decisione  con  tutti  i  mezzi  di gravame  che  le  sarebbero  consentiti  qualora fosse stata presente»” (Corte Cost. sentenza n.317/2009).

V – Mandato ad impugnare e difesa di ufficio

Oltre a determinare evidenti profili di frizione con la necessaria continuità della difesa fiduciaria, rispetto alla quale viene ora introdotta una sostanziale “cesura”, senza che “l’assente” venga al contempo reso edotto della sentenza di condanna pronunciata a suo carico, l’impostazione richiamata sembra poi determinare una precisa limitazione della difesa d’ufficio al solo primo grado di giudizio.

Per l’imputato assente che sia stato assistito in primo grado da un difensore nominatogli “d’ufficio”, l’ostacolo di natura meramente “formale” è destinato infatti a rivelarsi pressoché insuperabile proprio in ragione della particolare natura del mandato defensionale, come tale del tutto slegato da qualsiasi rapporto fiduciario e doverosamente esercitato anche in mancanza di qualsiasi contatto con l’assistito.

Da un lato, si continua quindi a garantire astrattamente la difesa tecnica nei diversi gradi di giudizio, come previsto dall’art.24 Cost., dall’altro, si prevede invece “in concreto” una sostanziale inappellabilità delle sentenze di condanna pronunciate nei confronti di imputati assenti che siano stati assistiti da difensori d’ufficio, nella piena consapevolezza che proprio tali imputati sono destinati a rimanere del tutto ignari della pronuncia di primo grado, a differenza di quanto avveniva in passato attraverso la notifica dell’estratto contumaciale.

VI – L’irragionevolezza della disciplina di diritto intertemporale

A prescindere dall’effettivo raggiungimento dei risultati auspicati, sui quali sarà possibile addivenire ad una valutazione più consapevole solo alla prova dei fatti, non vi è dubbio che i presupposti del processo in absentia abbiano comunque subìto, come si è avuto modo di rilevare in premessa, una esplicita modifica in chiave maggiormente garantista.

Proprio per tale motivo, appare allora del tutto irragionevole anche il contenuto della norma di diritto intertemporale riguardante il mandato ad impugnare.

Alcune delle motivazioni addotte nel tentativo di giustificare la limitazione del potere di impugnazione del difensore dell’imputato assente ponevano infatti in evidenza proprio la contestuale valorizzazione di una diretta partecipazione dell’imputato al giudizio di primo grado, o quantomeno la garanzia di una sua reale conoscenza dell’accusa mossa a suo carico nell’ambito del procedimento in questione.

Ciò nonostante, il legislatore ha viceversa inteso affermare l’immediata applicabilità dell’art.581, comma 1-quater c.p.p. anche nei confronti degli imputati che fossero stati dichiarati “assenti” sulla base della pregressa disciplina, individuando quale unico parametro di riferimento la data della sentenza.

VII – La palese inadeguatezza del rimedio “compensativo”

Proprio l’evidente lesione del diritto di difesa potenzialmente prodotta da una simile disciplina ha verosimilmente indotto il legislatore ad estendere l’applicazione delle disposizioni dell’art. 175, nuovo comma 2.1, c.p.p. a parziale “compensazione” del maggior onere previsto per l’impugnazione “ordinaria” dall’art. 581, comma 1-quater mediante il possibile ricorso ad un rimedio post iudicatum.

Il richiamato istituto “compensativo” mostra tuttavia di pretermettere gli inevitabili pregiudizi in termini di libertà personale, correlati ai rimedi post iudicatum, i quali, in ogni caso, potranno essere eventualmente attivati solo in un momento nel quale sarà verosimilmente già iniziata, per effetto del “formale” passaggio in giudicato della sentenza, l’esecuzione della pena detentiva.

Sulle ragioni della sua assenza, ovvero sull’effettiva celebrazione a suo carico di un giusto processo, l’imputato si troverà pertanto ad interloquire dal carcere molto più spesso di quanto non accadesse finora.

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