Cerca
Close this search box.

La disciplina delle intercettazioni telefoniche ed ambientali

1. Inquadramento sistematico dell’istituto.

La disciplina delle intercettazioni e l’esegesi delle principali problematiche alle stesse attinenti rendono opportuno un preliminare inquadramento sistematico dell’istituto.

L’articolato normativo afferente alle intercettazioni è contenuto nel capo IV del titolo III del Libro III del codice di procedura penale.

Le intercettazioni[1], come le ispezioni, le perquisizioni e i sequestri costituiscono “mezzi di ricerca della prova”, ovvero attività e strumenti finalizzati alla individuazione delle fonti di prova, ovverosia di soggetti o cose dalle quali è possibile trarre elementi conoscitivi rilevanti per il procedimento.

La caratteristica comune a tutti i mezzi di ricerca della prova è quella di essere atti a sorpresa[2] e la specificità delle intercettazioni è rappresentata dal fatto di essere strumenti occulti[3] ovvero nascosti agli interessati per l’intero periodo del loro svolgimento: il discrimen tra il mezzo di ricerca della prova in analisi e gli altri strumenti investigativi si rinviene, quindi, nel carattere della segretezza o, ancor meglio, della loro clandestinità[4].

In termini funzionali, le intercettazioni sono strumenti volti ad accertare la responsabilità della commissione di illeciti penali e, più specificamente, finalizzati alla ricerca[5] di fonti di prova rispetto ad un fatto-reato.

Ciò posto, è chiaro che le attività intercettive non possano essere utilizzate per finalità diverse da quelle indicate, salvi i casi espressamente previsti dalla legge[6], e che il mezzo investigativo in esame non possa, in alcun caso, essere impiegato per la ricerca della notizia di reato[7].

2. Nozione giuridica di intercettazione.

Il concetto di intercettazione è ampiamente utilizzato dal Legislatore e, nondimeno, l’ordinamento giuridico italiano non fornisce una puntuale definizione dell’istituto.

A seguito dell’introduzione e delle successive modifiche degli artt. 617 bis, 617-quater e 617-quinquies c.p. – fattispecie incriminatrici che impiegano esplicitamente il termine in esame, o che ad esso fanno implicito richiamo, senza fornirne alcuna specificazione -, sono sorte ulteriori perplessità interpretative, poiché tale espressione viene adottata per definire, promiscuamente, non soltanto attività tipicamente investigative, ma anche di diritto penale sostanziale.

Una ricerca giurisprudenziale, che miri alla soluzione del problema definitorio, risulterebbe vana, poiché limitata è stata, da questo punto di vista, l’attenzione del Giudice di legittimità[8], che ha preferito il ricorso ad un’accezione atecnica della locuzione o ad un significato mutuato dal diritto processuale.

Alla rilevata mancanza di una precisa definizione dell’istituto, si aggiunge il marcato dinamismo evolutivo dello strumento tecnico che obbliga, da un lato, il Legislatore e, dall’altro, la giurisprudenza, ad integrare continuativamente il quadro normativo ed il diritto vivente alla luce del progresso scientifico e tecnologico.

Dal canto suo, la dottrina ha individuato la struttura minima dello strumento investigativo d’interesse, ricorrendo ad una definizione d’intercettazione prettamente processuale, intesa quale mezzo di ricerca della prova, consistente nell’apprensione occulta e contestuale del contenuto di una conversazione o comunicazione tra soggetti, anche nella forma di flusso comunicativo informatico o telematico, come previsto dall’art. 266 bis c.p.p., mediante modalità oggettivamente idonee allo scopo, con intromissioni clandestine che superano il normale livello di percettibilità umana, operate da soggetti terzi rispetto ai conversanti, con apparecchiature in grado di fissarne l’evento ed atte a vanificare le cautele ordinariamente poste a protezione del carattere riservato dell’atto dialogico.

E proprio la segnalata lacuna definitoria ha spinto la giurisprudenza di legittimità a ricercare i profili caratterizzanti il mezzo investigativo in discorso, al fine di comprendere quando ricorra un’intercettazione in senso tecnico e quando, di contro, ciò si debba escludere.

In questa prospettiva, le Sezioni Unite della Cassazione, con la nota pronuncia Torcasio[9], hanno specificamente individuato i tratti costitutivi ed indefettibili dell’istituto, definendo l’intercettazione come la captazione occulta e clandestina del contenuto di comunicazioni o conversazioni riservate in corso di svolgimento inter praesentes o inter absentes, effettuata in tempo reale, tramite l’utilizzo di mezzi tecnici idonei allo scopo, da parte di un soggetto terzo estraneo alla comunicazione o conversazione.

3.  I tratti costitutivi dell’intercettazione.

3.1 L’uso di strumenti tecnici per la captazione.

Il primo aspetto qualificante l’intercettazione in senso tecnico concerne la modalità di esecuzione delle operazioni.

Invero, affinché una captazione possa essere ricompresa nel concetto d’intercettazione occorre che la stessa avvenga mediante l’utilizzo di strumenti meccanici[10] senza i quali la comunicazione – riservata e svolta con modalità tali da escludere i terzi dall’ascolto – non potrebbe essere appresa.

Il requisito in questione si ricava già dall’art. 268 c.p.p. che, al primo comma, prescrive che si provveda alla registrazione delle comunicazioni intercettate e, al terzo comma, sancisce che – salvi casi eccezionali – le operazioni possono essere compiute solo a mezzo di impianti installati presso la procura della Repubblica.

E’ dunque evidente che l’impiego di apparecchiature tecnologiche, atte a captare la conversazione, sia requisito indefettibile dell’intercettazione; ed anzi, secondo autorevole dottrina[11], esso costituirebbe l’elemento maggiormente caratterizzante le intercettazioni, di talché non potrebbe considerarsi intercettazione, da un canto, la captazione, da parte di un terzo, propria aure del contenuto di una conversazione che avvenga inter alios[12] in difetto d’utilizzo di strumenti tecnici ai fini della percezione del dialogo e, da un altro, l’ascolto di un colloquio effettuato aure proprio, con la contemporanea sua registrazione, posto che, in quest’ultimo caso, lo strumento tecnico sarebbe usato non per la captazione del colloquio ma solo per la registrazione.

3.2 Il requisito della simultaneità.

Altro aspetto qualificante l’intercettazione è quello – strettamente connesso alle sue modalità operative – del profilo temporale della captazione: viene in rilievo il requisito della simultaneità[13] tra lo svolgimento del colloquio e l’apprensione del suo contenuto.

In altri termini, perché si possa parlare d’intercettazione è necessario non solo che la captazione avvenga tramite l’impiego di mezzi tecnici, ma anche che tali strumenti consentano di apprendere il contenuto del colloquio in tempo reale: il soggetto captante, terzo estraneo al colloquio, deve avere conoscenza del contenuto del dialogo in corso inter alios, nel momento stesso in cui esso si svolge.

Ne deriva che non costituisce intercettazione in senso proprio la cognizione clandestina di una conversazione che non avvenga in tempo reale, come accadrebbe qualora si prendesse cognizione della registrazione di un messaggio, conservato in una segreteria telefonica, in un momento successivo a quello del colloquio.

In questo caso, in difetto del requisito della “simultaneità”, la captazione non potrà rientrare nel perimetro di quelle disciplinate all’art. 266 ss. c.p.p.; ove ne ricorrano i presupposti si applicherà, piuttosto, l’art. 253 c.p.p. qualora il documento fonografico formi oggetto di sequestro probatorio oppure, in alternativa, la parte che dispone della registrazione potrà produrre il nastro in giudizio quale documento ex art. 234 c.p.p.

Ancora, non può essere fatta rientrare nel concetto d’intercettazione, per difetto del requisito della contestualità tra il momento del colloquio e quello dell’ascolto, sia l’ipotesi della registrazione della conversazione, da parte dell’ascoltatore fisiologico, con consegna della stessa ad un terzo sia quella della registrazione del colloquio, da parte dell’ascoltatore fisiologico, su input della polizia giudiziaria ai fini del suo ascolto ex post.

3.3 L’oggetto dell’intercettazione.

Con riferimento al loro oggetto e sulla scorta della disciplina dettata dal codice di rito, si distinguono tre tipi d’intercettazioni: telefoniche, ambientali ed informatiche o telematiche.

A questo riguardo, il comma 1 dell’art. 266 c.p.p. consente l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche e altre forme di telecomunicazione; il comma 2 dello stesso art. 266 c.p.p. estende la medesima disciplina alle captazioni di comunicazioni tra presenti, contemplando le cd. intercettazioni ambientali; da ultimo, l’art. 266 bis c.p.p. contempla l’intercettazione del flusso di comunicazioni relativo a sistemi informatici o telematici ovvero intercorrenti tra più sistemi (cd. intercettazioni informatiche o telematiche).

Questi tre differenti obiettivi dell’attività captativa debbono essere considerati tutti species dello stesso genus integrato dagli atti comunicativi[14].

Se, dunque, in termini generali, la comunicazione è la consapevole manifestazione del pensiero, diretta a uno o più soggetti specifici, tramite adeguati mezzi naturali o meccanici, occorre preliminarmente precisare la nozione di comunicazione e, quale sua specie, quella di conversazione[15].

Si considera comunicazione ogni “scambio di messaggi[16] tra un emittente ed un ricevente finalizzato a trasmettere informazioni; per conversazione, invece, s’intende un “colloquio[17] tra due o più persone, così identificandola quale atto comunicativo che si svolge tra persone presenti.

Le caratteristiche principali della comunicazione sono due: la volontarietà e la partecipazione di più soggetti.

Quanto al primo aspetto occorre che l’atto comunicativo sia volontario, deve cioè sussistere una consapevole voluntas comunicativa: la nozione di comunicazione implica necessariamente uno scambio volontario di informazioni tra più soggetti, in qualsiasi modo realizzato, fosse anche in forma solo gestuale[18].

Di contro, è chiara la non riconducibilità al concetto di comunicazione rilevante ex art. 266 c.p.p. del comportamento che non si caratterizza per una finalità di scambio di informazioni e ciò a prescindere dal fatto che un simile contegno sia eventualmente idoneo a valere come “segno” esteriore di un’informazione, essendo siffatta idoneità propria di qualunque attività umana percepibile da terzi.

E dunque, per quel che interessa, rileva solo l’atto comunicativo consapevolmente diretto ad uno scambio di messaggi.

Ed infatti, il criterio distintivo dell’atto comunicativo disciplinato dagli artt. 266 ss. c.p.p. va ricercato, secondo il costante orientamento dalla Cassazione, avendo presente la ratio dell’art. 15 Cost., da individuare nella tutela della riservatezza della corrispondenza o delle altre forme di comunicazione, se ed in quanto queste siano volontarie.

Pertanto in difetto del requisito della volontarietà della comunicazione, così come in carenza di quello della riservatezza, l’atto non sarà presidiato dall’art. 15 Cost. (ma, al più, dall’art. 21 della Carta fondamentale) e non troverà applicazione la disciplina delle intercettazioni dettata dal codice di rito.

Ulteriore aspetto caratterizzante gli atti comunicativi è rappresentato dalla necessaria partecipazione di più soggetti: l’espressione del pensiero deve essere diretta a persone determinate e, pertanto, è necessario il coinvolgimento di almeno due persone.

Se così è, ne discende l’esclusione del soliloquio (inteso come atto del parlare tra sé, pur sapendo che non vi sia alcun interlocutore o ascoltatore) dal concetto di atto comunicativo, negandosi che esso formi oggetto di tutela costituzionale ex art. 15 Cost., con conseguente inapplicabilità della disciplina delle intercettazioni e possibile utilizzabilità, ex art. 234 c.p.p., dell’eventuale captazione ad opera di terzi e, in senso contrario, l’inclusione, nella medesima nozione, di tutte le espressioni di pensiero dirette a soggetti determinati, anche qualora non raggiungano la loro preventivata destinazione[19].

Nel concetto di “atto comunicativo” così definito si inseriscono le tre tipologie di comunicazione suscettibili di intercettazione: le comunicazioni telefoniche che consistono nella trasmissione di un messaggio orale da un soggetto ad un altro tramite telefono; le comunicazioni tra presenti, in cui due o più persone in un medesimo luogo realizzano tra loro uno scambio di informazioni o di messaggi; le comunicazioni telematiche o informatiche.

3.4 La necessaria riservatezza della comunicazione.

L’altro distintivo connotato dell’intercettazione è dato dal carattere riservato della comunicazione o conversazione captata.

Il requisito della necessaria riservatezza dell’atto comunicativo captato si desume dalla ratio sottesa all’intera disciplina del mezzo investigativo di cui si tratta: il bilanciamento dell’interesse pubblico alla repressione dei reati con quello, costituzionalmente presidiato, alla segretezza delle comunicazioni.

In questa prospettiva è conveniente ben comprendere cosa deve intendersi per riservatezza della comunicazione.

Una comunicazione può dirsi riservata quando chi la pone in essere intende limitarne la percezione ad uno o più soggetti, con esclusione di chi non ne sia destinatario diretto (colui al quale la comunicazione è rivolta) o indiretto (persona che il dichiarante pone volontariamente e consapevolmente nella condizione di percepire la comunicazione con pari consapevolezza e volontà del suo diretto interlocutore).

Il carattere riservato della comunicazione deve risultare oggettivamente dal mezzo utilizzato e dai modi del relativo svolgimento: questi debbono apparire tali, sulla base di dati sintomatici[20], da far ritenere la sussistenza dell’animus excludendi alios, di talché non potrebbe dirsi conversazione riservata quella estrinsecantesi in un appello ad altro soggetto mediante la televisione oppure il colloquio, condotto a voce alta, tra persone compresenti in luogo affollato.

Ne consegue che, ove il requisito della riservatezza della comunicazione difetti, l’atto comunicativo potrà essere liberamente captato e registrato da chiunque, senza necessità di osservare la disciplina dettata in tema di intercettazioni.

 3.4.1 Riservatezza e radiodiffusione.

Si ritiene certamente connotata da riservatezza la comunicazione effettuata mediante telefono o strumenti simili, trattandosi di apparecchiature tecniche che operano normalmente su canali riservati e che, quindi, ingenerano in chi le utilizza una legittima aspettativa di segretezza, per rinunciare alla quale occorre un’esplicita manifestazione di volontà del comunicante[21].

A questo riguardo, la Corte Europea[22] dei diritti dell’Uomo ha evidenziato come le comunicazioni telefoniche siano, per loro natura, “confidenziali” e il loro carattere privato non venga meno per il solo fatto che il contenuto possa interessare la pubblica autorità.

Al contrario, tali considerazioni non possono estendersi alle comunicazioni effettuate tramite emittenti a irradiazione circolare.

In proposito, la Cassazione[23] ha ritenuto, in molte occasioni, che non occorre un’autorizzazione del magistrato per ascoltare le conversazioni intrattenute via etere mediante impianti radioelettrici di comunicazione.

Tali comunicazioni, invero, non rientrano tra quelle regolate dall’art. 266 c.p.p. posto che esse sono, per loro natura, liberamente captabili da chiunque sia munito di impianto idoneo all’uso.

Le predette comunicazioni sono, quindi, prive del carattere della riservatezza perché per effettuarle vengono utilizzate frequenze liberamente diffuse nell’etere e conseguentemente accessibili a chiunque sia in possesso di apparecchi in grado di riceverle.

Infatti, il divieto di utilizzare ai fini probatori la registrazione non debitamente autorizzata di una conversazione è posto a tutela del diritto, costituzionalmente garantito, alla segretezza delle comunicazioni, diritto che presuppone che la comunicazione sia dotata del carattere della riservatezza.

In carenza di questo fondamentale connotato, l’atto comunicativo rimane estraneo all’egida dell’art. 15 Cost. e la sua captazione non è disciplinata dagli artt. 266 ss c.p.p.

4. I soggetti dell’attività d’intercettazione.

L’art. 267, comma 4, c.p.p. individua i soggetti attivi dell’intercettazione, prescrivendo che le operazioni de quibus devono essere effettuate dal pubblico ministero personalmente oppure avvalendosi di un ufficiale di polizia giudiziaria.

Ne deriva l’esclusione dal novero dei legittimi autori della captazione di coloro che sono privi delle ridette qualifiche, di talché non possono ritenersi abilitati alle operazioni in commento, ad esempio, i difensori, che mai potrebbero legittimamente avviare “intercettazioni difensive”, non contemplate dall’ordinamento e non comprese nell’ambito delle investigazioni tipizzate dalla legge 7 dicembre 2000, n. 397.

In quest’ambito, va considerata la tematica delle cosiddette “intercettazioni private”, espressione con cui si designano le captazioni di comunicazioni effettuate, appunto, da soggetti privati.

Si tratta di operazioni che apprendono il contenuto di colloqui aventi carattere riservato e che sono parimenti effettuate clandestinamente, tramite l’impiego di mezzi meccanici[24], presentando tratti comuni alle intercettazioni autorizzate e disposte dal magistrato.

E, tuttavia, le “intercettazioni private” si distinguono da quelle disciplinate dagli artt. 266 e ss. c.p.p. proprio sotto il profilo soggettivo, per la qualità del soggetto captante: le intercettazioni in discorso non sono eseguite dal pubblico ministero né da ufficiali di polizia giudiziaria, ma da operanti sforniti delle indicate ed indefettibili qualifiche soggettive.

Rispetto a tali captazioni si pongono due fondamentali questioni: la prima è quella della loro qualificazione giuridica, come intercettazioni di conversazioni o comunicazioni; la seconda concerne la possibile utilizzazione, in sede processuale, dei loro risultati.

Ebbene, con riferimento alla prima problematica, non pare potersi fondatamente sostenere che le captazioni seguite da privati possano considerarsi alla stregua di intercettazioni in senso tecnico e ciò per difetto del requisito soggettivo legale di cui all’art. 267, comma 4, c.p.p., trattandosi, come rilevato, di operazioni che non sono poste in essere dal pubblico ministero o da un ufficiale di polizia giudiziaria.

In merito al secondo profilo, va premesso che laddove un soggetto esegua la captazione clandestina di un colloquio svolgentesi inter alios si renderebbe responsabile del reato di cui all’art. 615 bis c.p. o di quello di cui all’art. 617 c.p.

L’argomento implica la tematica spinosa della cd. prova illecita: l’interrogativo afferisce al se l’illiceità sul piano sostanziale dell’attività di ricerca della prova ne comporti l’inutilizzabilità sotto il profilo processuale.

In materia, argomentando della piena autonomia del processo rispetto al diritto penale sostanziale è possibile sostenere che l’inutilizzabilità può desumersi solo dalle norme processuali; è stato osservato[25], infatti, che ove il divieto avesse avuto ad oggetto la violazione di una norma di carattere penale sostanziale nella rubrica dell’art. 191 c.p.p sarebbe stata utilizzata l’espressione “prove illecitamente acquisite”.

Di conseguenza, l’illiceità della condotta acquisitiva, per violazione di norme sostanziali, non comporterebbe l’inutilizzabilità della prova che ne fosse comunque conseguita.

Altra linea di pensiero muove dall’art. 191 c.p.p. e dal rimando, in esso contenuto, ai “divieti stabiliti dalla legge” per sostenere che anche da una norma di diritto penale sostanziale possa discendere il divieto di utilizzazione in ambito processuale[26], soprattutto se si considera che la funzione tipica di ogni fattispecie incriminatrice è quella di vietare una condotta, inibendo la sua commissione ed elidendone gli effetti.

Ne deriverebbe[27] l’inutilizzabilità della prova raccolta in violazione dei divieti posti dalle norme di carattere sostanziale, di modo che la prova illecita sarebbe sempre prova inutilizzabile.

E’ stato tuttavia obiettato[28] che non si può fondatamente sostenere che ogni prova raccolta in violazione d’una norma penale sostanziale sia per ciò solo inutilizzabile.

Nella materia d’interesse, la questione è espressamente risolta dall’art. 240 c.p.p., comma 2, che stabilisce che il pubblico ministero: “dispone l’immediata secretazione e la custodia in luogo protetto dei documenti, dei supporti e degli atti concernenti dati e contenuti di conversazioni o comunicazioni, relativi a traffico telefonico e telematico, illegalmente formati o acquisiti” aggiungendo che “il loro contenuto non può essere utilizzato”, con esplicita previsione, quindi, dell’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni illecite.

La precisa indicazione codicistica dei soggetti attivi abilitati alle attività di captazione non si accompagna all’analoga specificazione dei potenziali soggetti passivi delle stesse operazioni.

Non si tratta, tuttavia, di una lacuna normativa, atteso che non esistono – in linea di massima e fatte salve le eccezioni di legge – limitazioni al novero dei soggetti destinatari delle operazioni di captazione[29].

La delimitazione dell’ambito soggettivo delle operazioni di intercettazione, con riferimento ai potenziali destinatari, deve tenere conto della formula “gravi indizi di reato” prevista nell’art. 267 c.p.p., affatto differente, quanto al contenuto, dal sintagma “gravi indizi di colpevolezza” previsto dall’art. 273 c.p.p.

In effetti, la prima espressione implica, come condizione della legittima captazione, il mero fumus boni iuris del reato, non richiedendo la necessaria sussistenza di un fumus boni iuris di responsabilità di un soggetto determinato.

Ne deriva un notevole ampliamento dell’ambito di applicazione del mezzo di ricerca della prova, con possibilità di disporre attività intercettiva non soltanto nei confronti degli indagati (o, comunque, e prescindendo dal profilo della loro formale iscrizione nel registro previsto dall’art. 335 c.p.p., nei riguardi di soggetti gravati da elementi indiziari di colpevolezza), ma anche nei confronti di coloro che non abbiano assunto la ridetta veste procedimentale e, finanche, nei confronti della persona offesa.

5. La disciplina giuridica delle intercettazioni.

L’attuale disciplina delle intercettazioni si compone per stratificazione di numerosi interventi normativi e di consolidati principi giurisprudenziali che si combinano in un complesso tessuto regolativo dell’istituto.

A tale riguardo, appare utile un breve riepilogo degli interventi legislativi succedutisi, a partire dalla cd. “Riforma Orlando”:

  • la legge 23 giugno 2017, n. 103, ha delegato il Governo ad emanare, sulla base di principi e criteri direttivi, un decreto legislativo per la riforma della disciplina delle intercettazioni (art. 1, commi 82, 83, 84);
  • il decreto legislativo 29 dicembre 2017, n. 216 (cd. “Riforma Orlando”), ha dato attuazione alla delega ed è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale in data 11 gennaio 2018, prevedendo:
    • la riforma della disciplina delle intercettazioni, con la modifica di numerose norme del codice di rito e delle disposizioni di attuazione, applicabile (ai sensi dell’art. 9) alle “operazioni di intercettazione relative a provvedimenti autorizzativi emessi dopo 180 giorni dall’entrata in vigore del decreto” (cioè, a partire dal 27 luglio 2018);
    • alcune modifiche immediatamente operative dal 26 gennaio 2018 (dopo l’ordinaria vacatio legis), quali l’introduzione del delitto ex art. 617 septies c.p. e la nuova regolamentazione delle intercettazioni nei procedimenti per delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena non inferiore nel massimo a 5 anni di reclusione(art. 6 del decreto legislativo cit.), con una sostanziale ma non integrale equiparazione alla normativa semplificata prevista per i delitti in tema di criminalità organizzata (art. 13 del decreto legge n. 152/1991, convertito nella legge n. 203/1991);
  • in seguito, la riforma della disciplina delle intercettazioni è stata differita, prevedendosene l’applicazione alle operazioni d’intercettazione relative a provvedimenti emessi dopo il 31 marzo 2019 (decreto legge n. 91/2018, convertito nella legge n. 108/2018) e, successivamente, dopo il 1° agosto 2019 (legge n. 145/2018) e, ancora, dopo il 31 dicembre 2019 (decreto legge n. 53/2019, convertito nella legge n. 77/2019);
  • il decreto legge n. 161/2019, convertito nella legge n.  7/2020, è nuovamente intervenuto sulla riforma delle intercettazioni, modificandone numerose parti e differendo l’applicabilità al 1° maggio 2020;
  • infine, il decreto legge n. 28/2020, convertito nella legge n. 70/2020, ha ulteriormente differito l’entrata in vigore della riforma, come modificata, riservando la sua applicazione ai procedimenti iscritti a partire dal 1° settembre 2020.

Attualmente, quindi, la disciplina delle intercettazioni consegue alla legge n. 7/2020 di conversione del decreto legge n. 28/2000, e l’intreccio normativo che ne deriva presenta aspetti di vera “controriforma[30] rispetto alla disciplina che era stata dettata dal decreto legislativo n. 216/2017 (cosiddetta “Riforma Orlando”), la cui operatività, come visto, era stata più volte differita.

In via di estrema sintesi, si può dire che la legge n. 7/2020 ha ridimensionato la portata di talune modifiche introdotte dalla previgente disciplina delle captazioni, recependo alcuni consolidati orientamenti giurisprudenziali; ha colto l’occasione per risolvere questioni problematiche in tema d’impiego del captatore informatico e di utilizzabilità delle intercettazioni in procedimento diverso; ha reso più chiara la modalità di acquisizione, al procedimento prima e al processo poi, nel contraddittorio tra le parti, delle intercettazioni ritenute utilizzabili; ha modernizzato il sistema di conservazione degli esiti delle intercettazioni nell’archivio informatico, tenuto dal Procuratore della Repubblica.

5.1 L’entrata in vigore della legge n. 70/2020.

Come evidenziato, il decreto legge n. 28/2020, convertito nella legge n. 70/2020, ha previsto che le modifiche, in materia di intercettazioni, alle disposizioni del codice di rito[31] e alle relative disposizioni di attuazione[32] si applichino ai procedimenti penali iscritti a partire dal 1° settembre 2020 (testualmente: “ai procedimenti iscritti dopo il 31 agosto 2020”).

5.2 La definizione del perimetro temporale della novella legislativa.

L’entrata in vigore della nuova disciplina delle intercettazioni riguarda, dunque, i “procedimenti penali iscritti” a partire dal 1° settembre 2020[33], sicché essa concerne tutti i procedimenti iscritti, dopo il 31 agosto 2020, nel registro ex art. 335 c.p.p., sia per gli indagati noti (modello 21) sia per quelli ignoti (modello 44).

Infatti, il termine “iscrizione”, riferito a procedimento penale, comporta un univoco riferimento alla formazione del fascicolo, a seguito della prima iscrizione della notizia di reato e al cui interno, secondo le disposizioni dello stesso art. 335 c.p.p., potranno poi intervenire, con provvedimento del pubblico ministero, nuove iscrizioni e/o aggiornamenti o variazioni delle precedenti.

E dunque, la nuova disciplina, con riguardo alle modalità di conferimento delle intercettazioni, alla loro fruizione, alla utilizzabilità, all’ascolto ecc., trova applicazione solo in presenza di un nuovo procedimento penale, evitandosi, opportunamente, differenti regolamentazioni delle operazioni di captazione nel corso del suo svolgimento.

In ordine al diritto intertemporale, è stata stabilita, dunque, una netta linea di demarcazione tra i procedimenti iscritti fino al 31 agosto 2020, che continuano a seguire la disciplina originaria del codice di rito, e quelli avviati dopo tale data (a partire, cioè, dal 1° settembre 2020), che seguiranno le nuove regole.

A questo proposito, va ben evidenziato che per l’individuazione di “procedimento iscritto dopo il 31 agosto 2020”:

– non rileva il mutamento dell’iscrizione dal registro modello 44 (indagati ignoti) al registro modello 21 (indagati noti), a seguito dell’acquisizione dei dati identificavi della persona indagata;

– rileva, al contrario, l’iscrizione del procedimento penale al modello 21 (indagati noti) o 44 (indagati ignoti), disposta da fascicolo iscritto a modello 45 (fatti non costituenti reato) o modello 46 (documenti anonimi);

– non rivestono importanza le modifiche, le integrazioni e le nuove iscrizioni di notizie di reato relative al medesimo fatto, integrativo di notizia di reato, disposte successivamente all’iniziale iscrizione e alla formazione del procedimento penale, sicché a questi procedimenti, iscritti prima del 1° settembre 202, continuerà ad applicarsi la disciplina previgente;

– l’iscrizione di una notizia di reato, nell’ambito del procedimento penale iscritto in data antecedente al 1.9.2020, relativa a fatti nuovi e non connessi, ai termini dell’art. 12 c.p.p., con quelli pregressi, va intesa quale autonoma iscrizione, cui va applicata la nuova disciplina giuridica;

– la separazione, disposta nell’ambito di un procedimento iscritto prima dell’anzidetta data, non influisce sulla disciplina applicabile all’attività d’intercettazione, che resta regolata da quella previgente, pur se il fascicolo di recente formazione assume un differente numero di registro generale, posto che, in tal caso, l’incartamento non ha propria autonomia ed integra mera prosecuzione del precedente, da cui è stato separato;

– analogamente, la riunione di procedimento iscritto dopo il 31.8.2020 ad altro coevo o anteriore alla predetta data non esclude l’applicazione della nuova disciplina alle attività d’intercettazione disposte in relazione alla notizia di reato iscritta nel procedimento riunito, sempre che non ricorra l’ipotesi di connessione ex art. 12 c.p.p.

6. I presupposti dell’intercettazione.

6.1 L’art. 266 c.p.p. ed i limiti di ammissibilità.

La prima norma del codice di procedura penale che disciplina le intercettazioni è l’art. 266 c.p.p. rubricato: “limiti di ammissibilità”.

Il predetto articolo, al primo comma, individua i reati in relazione ai quali è permessa la captazione di “conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazione”, da intendere, come più sopra è stato chiarito, quale apprensione occulta di conversazioni e comunicazioni tra persone collocate a distanza tra loro, ossia all’intercettazione inter absentes[34].

Il capoverso dello stesso art. 266 c.p.p., nei medesimi casi previsti dal primo comma, legittima poi l’intercettazione di “comunicazioni tra presenti, ovvero tra soggetti fisicamente ubicati in un identico luogo.

L’articolo in parola fissa, quindi, l’ambito di legittimità del mezzo di ricerca della prova, la cui disciplina si rinviene nel capo IV del titolo III del Libro III del codice di rito.

L’importanza della disposizione in commento emerge, in modo evidente, dalla lettura dell’art. 271 c.p.p. che, nel prevedere i casi d’inutilizzabilità degli esiti captativi, stabilisce tra l’altro che: “i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati qualora le stesse siano state eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge”.

Il riferimento è in primis – ma non esclusivamente – ai limiti di ammissibilità[35] delle intercettazioni e, pertanto, al primo ed al secondo comma dell’art. 266 c.p.p.

La successiva previsione di un catalogo di reati per i quali – e solo per i quali – è ammesso l’impiego dello specifico strumento investigativo è giustificato dal suo essenziale connotato distintivo.

Se è vero, infatti, che non solo le attività captative ma anche gli altri atti di indagine incidono su diritti e libertà costituzionalmente riconosciuti, è innegabile che le intercettazioni presentano un aspetto tipico e caratterizzante che deriva dal fatto che la captazione di conversazioni e comunicazioni coinvolge necessariamente anche soggetti estranei al reato (ad esempio, chiunque contatti l’utenza sotto controllo o frequenti il luogo in cui è stata collocata la microspia).

Bene si comprende, dunque, l’esigenza – assai più pressante rispetto agli altri mezzi di ricerca della prova – di restringere il novero dei casi nei quali è consentita l’intercettazione delle comunicazioni e delle conversazioni e la necessità di circoscrivere le ipotesi di possibile limitazione della loro segretezza.

La rigorosa perimetrazione dell’ambito di legittimità dell’attività captativa integra proiezione dell’art. 15 della Carta fondamentale, che nel prevedere l’inviolabilità della libertà e della segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, ne sancisce la limitazione soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria e con le garanzie previste dalla legge.

Nell’ambito delle garanzie previste dalla legge vi è certamente l’individuazione, compiuta dall’art. 266 c.p.p., del catalogo dei reati per i quali sono consentite le operazioni d’intercettazione e, con lo stabilire i limiti di ammissibilità del mezzo di ricerca della prova, lo stesso art.266 c.p.p. assicura la proporzionalità[36] tra la rilevanza del reato – e quindi le esigenze proprie dell’amministrazione della giustizia – e la possibile limitazione della libertà e segretezza della comunicazione ex art. 15 Cost.

E così, il codice di rito individua i procedimenti nell’ambito dei quali sono consentite le operazioni d’intercettazione secondo tre differenti criteri:

  • la lett. a) del comma 1 dell’art. 266 c.p.p. adotta un criterio quantitativo (correlato alla pena edittale delle figure criminose);
  • la lett. b) del comma 1 dell’art. 266 c.p.p. contempla un criterio misto, ossia quantitativo e qualitativo (correlato alla pena ed alla tipologia delittuosa);
  • le residue lettere del comma 1 dell’art. 266 c.p.p, prendono in considerazione il solo criterio qualitativo, con riferimento alla tipologia di delitto.

In proposito, si segnala che la sola modifica in vigore per i procedimenti iscritti dal 1° settembre 2020, in relazione ai reati che consentono l’intercettazione, elencati dall’art. 266, comma 1, c.p.p., riguarda i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis[37] c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di stampo mafioso (cfr. la nuova lettera f-quinquies).

Si tratta, in sostanza, dei delitti aggravati ai sensi dell’art. 416 bis.1, comma 1, c.p. che, nonostante il previsto aumento del trattamento sanzionatorio (da un terzo alla metà), prevedono una pena non superiore nel massimo a cinque anni, determinata a norma dell’art. 4 c.p.p. e che, perciò, non rientrano tra quelli previsti, in via generale, dall’art. 266, comma 1, lett. a), c.p.p.

6.2 Limiti di ammissibilità e mutamento del titolo di reato oggetto del procedimento.

Come è stato evidenziato, le intercettazioni possono essere disposte solo ed esclusivamente allorché si procede per i reati rientranti nell’elenco fornito dall’art. 266, comma 1, c.p.p.

Si pone, dunque, la questione degli effetti sull’utilizzazione delle captazioni conseguenti all’eventuale riqualificazione del reato per il quale è stato avviato il procedimento penale.

A venire in rilievo sono le ipotesi in cui, in un momento successivo a quello in cui è stata disposta l’intercettazione, il reato alla base dell’autorizzazione venga differentemente qualificato da un punto di vista giuridico e ricondotto, in ipotesi, a fattispecie di reato non rientrante nel novero di quelle previste dall’art. 266, comma 1, c.p.p.

Il tema, in buona sostanza, concerne l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, nell’ambito del medesimo procedimento, anche dopo il mutamento del titolo di reato posto alla base dell’autorizzazione.

Prima facie si potrebbe sostenere che le intercettazioni siano utilizzabili solo qualora il reato per il quale si procede, anche dopo la sua diversa qualificazione giuridica, sia ricompreso tra quelli di cui all’art. 266, comma 1, c.p.p.

E, in effetti, un primo orientamento giurisprudenziale[38] aveva affermato il compendiato principio di diritto, così da evitare che fossero elusi i limiti di ammissibilità previsti dal citato art. 266 c.p.p.

In seguito, secondo l’opzione ermeneutica divenuta maggioritaria e oggi consolidata[39], nel caso in cui l’intercettazione venga ritualmente disposta con riferimento ad un reato per il quale sia ammessa e, successivamente, esso sia diversamente considerato in termini giuridici, ipotizzando una differente fattispecie non legittimata dall’art. 266 c.p.p., la prova acquisita è comunque utilizzabile.

La Cassazione[40] ha infatti rilevato che: “la legittimità di un’intercettazione deve essere verificata al momento in cui la captazione richiesta è autorizzata, non potendosi procedere al controllo della sua ritualità sulla base delle risultanze derivanti dal prosieguo delle captazioni e dalle altre acquisizioni”.

Pertanto se il provvedimento è adottato ab origine con riguardo ad un reato per il quale le intercettazioni sono consentite – e quindi il provvedimento è inizialmente legittimo – i risultati dell’operazione mantengono tale caratteristica anche se la modifica della qualificazione del fatto lo rende non più conforme alla previsione processuale.

Tale orientamento rinviene la sua ratio nel fatto che i limiti di ammissibilità stabiliti dall’art. 266 c.p.p. sarebbero legati alla qualificazione astratta della fattispecie, per cui l’iniziale riconduzione alla medesima sarebbe sufficiente ad assicurare il rispetto delle esigenze garantistiche sottese agli stessi limiti.

 6.3 Limiti di ammissibilità e procedimenti aventi ad oggetto una pluralità di reati.

L’art. 266 c.p.p., nel prevedere il catalogo dei reati intercettabili, non contempla l’ipotesi del concorso di reati nel medesimo procedimento e, quindi, l’eventualità in cui s’intenda disporre le operazioni d’intercettazione nell’ambito di un procedimento penale avente ad oggetto più reati.

Il problema non si pone, evidentemente, quando tutti i reati per i quali si indaga rientrano nel novero di quelli di cui all’art. 266 c.p.p., ma potrebbe concretamente prospettarsi qualora solo un reato o alcuni dei reati iscritti rientrino nel suo perimetro applicativo.

La quaestio iuris afferisce, dunque, alla possibilità di attivare le intercettazioni anche nell’ambito dei predetti procedimenti.

La giurisprudenza di legittimità[41] ha chiarito che l’ipotesi di concorso di reati rappresenta una ipotesi fisiologica del procedimento penale.

Pertanto la locuzione “nei procedimenti relativi ai seguenti reati” impiegata dall’art. 266 c.p.p., per esigenze di coerenza sistematica e di valutazione unitaria, nonché di complessiva del materiale probatorio, deve essere interpretata, onde legittimare il mezzo di ricerca della prova, nel senso della sufficienza, all’interno del procedimento, della presenza di uno soltanto dei reati di cui all’art. 266 c.p.p.

Ne deriva che le operazioni di captazione possono essere disposte anche in presenza di reati per i quali le stesse non sarebbero ammissibili, bastando che ricorra un solo reato per il quale le intercettazioni siano autonomamente autorizzabili.

Ciò posto, occorre focalizzare l’attenzione su ulteriori problematiche giuridiche.

Si profila, in primo luogo, la questione dell’utilizzabilità degli esiti delle intercettazioni disposte in un procedimento che abbia le caratteristiche più sopra indicate: si tratta di comprendere, cioè, se gli esiti captativi potranno essere utilizzati solo in relazione al reato rientrante nel novero di quelli elencati all’art. 266 c.p.p. oppure anche con riferimento al diverso reato che forma oggetto dello medesimo, unico procedimento, ma non rientra nell’area di previsione dello stesso articolo del codice di rito.

La problematica è stata ormai risolta nel senso della necessità del rispetto dei limiti edittali di cui all’art. 266 c.p.p., da un autorevole pronuncia della Suprema Corte a Sezioni Unite[42] che verrà analizzata nel prosieguo della trattazione.

Altra questione giuridica si prospetta nel caso in cui da intercettazioni legittimamente disposte in un determinato procedimento, emergano elementi di prova in ordine ad altro e distinto reato non rientrante nel perimetro dell’art. 266 c.p.p.

Posto che gli esiti captativi possono essere impiegati come fonte di notitia criminis del diverso reato, la vexata quaestio, oggi ormai dipanata dalla giurisprudenza[43], afferiva all’uso, in funzione probatoria, degli esiti captativi anche per la prova dell’ulteriore reato emerso dalle intercettazioni, ed alle condizioni necessarie a tal fine.

6.4 Limiti di ammissibilità ed intercettazioni ambientali

Con l’espressione “intercettazione telefonica” si intende l’intercettazione classica, ovvero la captazione occulta del contenuto di comunicazioni effettuate tra due o più persone collocate a distanza tra loro; si definisce, invece, “intercettazione ambientale” la captazione occulta del contenuto di conversazioni realizzate tra persone presenti nello stesso luogo.

Il comma 1 dell’art. 266 cpp sancisce i limiti di ammissibilità delle intercettazioni telefoniche, mentre i commi 2 e 2 bis della medesima norma dettano la disciplina di ammissibilità delle intercettazioni ambientali anche eseguite mediante captatore informatico (operazioni a cui in particolare si riferisce il comma 2 bis dell’art. 266 c.p.p.).

A differenza delle intercettazioni telefoniche o di comunicazioni informatiche ovvero telematiche (art. 266 bis cpp), la regolamentazione delle intercettazioni di conversazioni fra persone che non parlano fra di loro a distanza, si connota di una fisionomia ben distinta.

 Dalla lettura del comma 2 dell’art 266 c.p.p. emergono due sottocategorie delle conversazioni fra presenti, rientranti nel più ampio genus delle cd intercettazioni ambientali: quelle inerenti alle conversazioni fra presenti tout court (che seguono la medesima disciplina delle intercettazioni telefoniche) e quelle inerenti alle conversazioni fra presenti, che si svolgano nei luoghi indicati nell’art. 614 cp, con un rimando alla fattispecie incriminatrice della violazione di domicilio, che, a sua volta, contempla i luoghi di privata dimora, individuandoli anche nel luogo adibito ad abitazione.

Posto che in merito alle intercettazioni ambientali eseguite mediante captatore informatico su dispositivo elettronico portatile si dirà nel prosieguo della trattazione, come noto, per le intercettazioni ambientali c.d. “domiciliari” il comma 2 della norma in analisi prevede un ulteriore limite di ammissibilità[44]: per la legittimità delle citate operazioni è infatti necessario un “fondato motivo di ritenere che    –nel domicilio o luogo ad esso assimilabile – si stia svolgendo l’attività criminosa”.

La suddetta condizione non è, invece, richiesta quando l’intercettazione afferisce ad un procedimento per delitto di criminalità organizzata – sia rientrante nel catalogo di cui all’art. 51 comma 3 bis e 3 quater cpp sia ivi non ricompreso – applicandosi in tali casi le disposizioni di cui all’art. 13, comma 1 seconda parte, D.L. 13 maggio 1991 n. 152 conv. in L. 12 luglio 1991, n. 203, nonché nel caso in cui l’attività di captazione pertenga a delitti dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio contro la P.A. per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, determinata a norma dell’art. 4 cpp, ai quali si applicano pure le disposizioni sopra citate giusta L. 3 del 2019.

Orbene, l’art. 266 cpp, per quanto di specifico interesse, pone due ordini di problemi.

 La prima problematica afferisce alla definizione dei “luoghi indicati dall’art. 614 cp”: posto che l’art. 266 comma 2 cpp non utilizza la locuzione “domicilio” ma rimanda ai luoghi di cui all’art. 614 cp occorre comprendere cosa si intenda per domicilio[45].

Il secondo problema trae origine dal requisito, necessario per l’attivazione delle intercettazioni ambientali domiciliari, del fondato motivo di ritenere che in ambito “domiciliare” sia in itinere l’attività delittuosa: appare necessario perimetrare il concetto di “attività criminosa”.

6.4.1 La nozione di domicilio.

L’esegesi del concetto di “domicilio” si appalesa necessaria in quanto per le intercettazioni di comunicazioni tra presenti che avvengono “nei luoghi indicati dall’art. 614 del codice penale” il secondo periodo dell’art. 266 cpp contempla un ulteriore limite di ammissibilità, ovvero il fondato motivo di ritenere che in quell’ambiente sia in corso di svolgimento l’attività criminale.

Preliminarmente è da evidenziare che l’art. 266 comma 2 cpp non utilizza expressis verbis la locuzione domicilio, limitandosi a richiamare i luoghi di cui all’art. 614 cp.

La norma ultima citata è rubricata “violazione di domicilio” e collocata in apertura della Sezione IV del Capo III del Titolo XII, intitolata “dei delitti contro la inviolabilità del domicilio”.

Alla luce dell’articolato normativo richiamato è chiaro che le intercettazioni ambientali nei luoghi indicati dall’art. 614 cp coinvolgono non solo il valore di cui all’art. 15 Cost. ma anche quello di cui all’art. 14 della Carta Costituzionale.

In merito all’art 614 cp giova evidenziare che mentre nella rubrica della cita norma è impiegata l’espressione “domicilio”, nel corpo del ridetto articolo non è invece adoperata la medesima espressione, rinvenendosi nel primo comma un riferimento espresso all’abitazione, agli altri luoghi di privata dimora ed alle appartenenze di essi.

In tale ottica, essendo agevole la comprensione del concetto di abitazione, i problemi ermeneutici sono sorti con riferimento alla perimetrazione della nozione di “privata dimora”.

Al riguardo occorre preliminarmente soffermarsi sul rapporto tra il concetto di “privata dimora” e quello di domicilio rilevante ex art. 14 Cost

A questo riguardo si deve tenere distinto il concetto di domicilio da quello di privata dimora, potendosi ritenere il primo come comprensivo del secondo: il luogo di privata dimora può essere considerato come una specie del genus costituito dai luoghi di domicilio.

Ciò in quanto dalla stessa costruzione legislativa della rubrica e del corpo dell’articolo 614 cp emergerebbe una tripartizione interna agli ambienti domiciliari sostanziantesi nel riferimento al luogo di abitazione, agli altri luoghi di privata dimora ed alle appartenenze di essi.

Pertanto i luoghi di domicilio non si esauriscono nei luoghi di privata dimora atteso che la stessa disposizione codicistica contiene il riferimento all’abitazione, alle appartenenze dei luoghi di abitazione, ed a quelle dei luoghi di privata dimora.

Appartenenze che quindi, isolatamente considerate, non costituiscono abitazione né luogo di privata dimora, ma che integrano comunque un ambiente domiciliare.

Per queste ragioni pare potersi concordare con autorevole dottrina[46] secondo cui la nozione di domicilio è più ampia di quella di privata dimora.

In merito alla individuazione dei “luoghi di privata dimora” in giurisprudenza si sono registrati contrasti ermeneutici.

Una prima risalente corrente di pensiero, con riferimento agli artt. 614 cp e 624 bis cp, ha osservato che nell’inquadrare il concetto di “luogo di privata dimora” occorrerebbe prendere le mosse dalla considerazione per cui il legislatore, con riferimento a detti luoghi, avrebbe inteso tutelare la sfera giuridica del domicilio; ciò in quanto la ratio delle indicate norme incriminatrici può rinvenirsi nell’esigenza di salvaguardare la vita privata dei singoli assicurando che la sfera ambientale in cui la stessa si svolge resti al riparo da qualsiasi intromissione.

Alla luce delle superiori argomentazioni il luogo di privata dimora sarebbe da individuarsi in quello spazio nell’ambito del quale chi vi si trova può fare affidamento sulla pace, sulla tranquillità e sulla sicurezza del medesimo e, quindi, sull’essere quello spazio un ambito di riservatezza in cui espletare la propria personalità.

In tale ottica la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di osservare come la libertà domiciliare è strettamente connessa a quella personale poiché, nel panorama dei diritti fondamentali, il domicilio viene in rilievo come «proiezione spaziale della persona, nella prospettiva di preservare dalle interferenze esterne comportamenti tenuti in un determinato ambiente»[47].

Posto, che alla luce dell’assetto costituzionale dei diritti di libertà, la tutela dei luoghi indicati all’art. 614 cp è stata intesa come primariamente funzionale alla salvaguardia della vita privata che ivi si svolge, rispetto ad eventuali ingerenze altrui, la giurisprudenza tradizionale, per qualificare un ambiente quale “luogo di privata dimora” ha ritenuto necessari due elementi.

Da un lato si è fatto riferimento al tipo di attività che si svolge[48] in detti luoghi, rientrando nel concetto di privata dimora gli spazi funzionali a proteggere la vita privata (quindi destinati allo svago, al riposo, allo studio) e dall’altro è stato valorizzato lo ius excludendi alios[49]  per cui uno spazio può costituire privata dimora qualora chi ne abbia la titolarità possa negare l’accesso agli altri.

Pertanto per lungo tempo è stato sostenuto che <<per luogo di privata dimora deve intendersi quello adibito ad esercizio di attività che ognuno ha il diritto di svolgere liberamente e legittimamente senza turbativa da parte di estranei>>[50].

Secondo un diverso orientamento[51] per poter qualificare un ambiente come “luogo di privata dimora” i due elementi citati sarebbero necessari ma non sufficienti occorrendo la congiunta sussistenza di un terzo requisito rappresentato dalla stabilità della relazione intercorrente tra il luogo e la persona che se ne serve.

Il contrasto tra le citate opzioni ermeneutiche si è manifestato con riferimento alla alla possibilità di qualificare la toilette di un locale pubblico come luogo di privata dimora.

L’orientamento tradizionale[52] si era espresso positivamente osservando che il bagno di un esercizio pubblico costituisce spazio destinato allo svolgimento di specifici atti della vita privata, rispetto ai quali vi è l’interesse di chi li pone in essere a mantenerli riservati e che chi si reca in detto luogo risulta titolare, seppure temporaneamente dello ius excludendi alios.

Ad opposta conclusione è pervenuto il secondo orientamento[53] secondo cui pur volendo ritenere che nel caso della toilette pubblica sussistano i due requisiti richiesti dall’orientamento tradizionale (svolgimento in essa di atti della vita privata e ius excludendi alios) difetterebbe quel terzo pilastro costituito del rapporto caratterizzato dalla stabilità.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel 2006 con la nota pronuncia Prisco[54], nel comporre il contrasto, hanno accolto la soluzione più restrittiva.

Nell’occasione la Corte di Legittimità ha chiarito che il concetto di domicilio non può essere esteso fino a ricomprendere qualunque luogo tendente ad assicurare l’intimità e la riservatezza di chi se ne serva e che certamente il concetto in analisi presuppone l’esistenza di un rapporto tra la persona ed uno spazio in cui si svolge la vita privata, «in modo anche da sottrarre chi lo occupa alle ingerenze esterne e da garantirgli quindi la riservatezza», ma affinché un ambiente sia qualificabile come domicilio occorre anche che siffatta relazione sia tale da giustificare la tutela del luogo anche quando la persona è assente.

Pertanto per poter sussumere un luogo nel perimetro del “domicilio” è necessario si tratti di un “ambiente personale”: in sostanza la vita privata che una persona svolge in quel tipo di luogo, anche se per un periodo di tempo limitato, implica che questo resti caratterizzato dalla personalità del soggetto, anche se questi sia assente.

Appare quindi imprescindibile il requisito della stabilità poiché solo questa, anche se intesa in senso relativo, che può trasformare un luogo in un domicilio.

In forza del superiore ragionamento si deve, quindi, negare la qualificazione di domicilio alla toilette di un locale pubblico anche relativamente al periodo temporale in cui la stessa è occupata a una persona.

Ancora, dalla lettura dei principi declinati dalla sentenza Prisco affinchè un luogo possa essere qualificato in termini domicilio devono sussistere congiuntamente tre requisiti.

In primis deve trattarsi di un luogo privato rispetto al quale il soggetto che se ne serve sia titolare di uno ius excludendi alios[55].

Secondariamente, deve trattarsi di un luogo in cui la persona che se ne serve svolga attività personali[56] (studio, lavoro, svago) destinate a rimanere riservate.

In terz’ordine è necessario che un pur minimo rapporto di stabilità tra la persona e lo spazio fisico oggetto di valutazione.

Questione diversa, ma connessa, è quella dei rapporti tra il concetto di privata e quello di casa di abitazione: a questo riguardo pare potersi sostenere che il primo dimora abbia un’estensione maggiore rispetto al secondo, sotto due concorrenti profili.

Dal punto di vista della tipologia degli atti della vita privata si evidenzia che mentre[57] i luoghi di abitazione si caratterizzano per lo svolgimento, all’interno di essi di atti di vita domestica, familiare e/o intima, nel novero dei luoghi di privata dimora rientrano anche quelli destinati allo svolgimento di atti della vita privata di tipo diverso (svago, lavoro).

Sotto il profilo della transitorietà/stabilità del rapporto con il luogo, è stato evidenziato[58] che mentre i luoghi di abitazione sono connotati da una relazione stabile con la persona che ne è titolare, nel senso che sussiste un rapporto duraturo tra lo spazio abitativo ed il soggetto che vi abita, nei luoghi di privata dimora diversi dall’abitazione il soggetto può ivi trattenersi per compiere l’atto della vita privata anche in modo transitorio e contingente.

Pertanto il concetto di privata dimora sarebbe, secondo la citata linea interpretativa, più ampio di quello di casa di abitazione, rientrando in esso ogni altro luogo, diverso dalla casa di abitazione, dove la persona si sofferma per compiere, anche in modo transitorio, atti della sia vita privata.

6.4.2 La problematica riconducibilità dei luoghi di lavoro nel novero dei luoghi di privata dimora.

Le problematiche inerenti all’esatta perimetrazione della nozione di “luogo di privata dimora” si sono poste anche con riferimento agli esercizi commerciali, agli studi professionali, agli stabilimenti industriali e, più in generale ai luoghi di lavoro.

Secondo il filone giurisprudenziale[59] per cui per poter considerare un certo luogo come di privata dimora era necessaria la presenza congiunta di due elementi[60], i luoghi di lavoro risultavano sempre qualificabili in termini di luoghi di privata dimora.

Tanto sulla base del fatto che le occupazioni professionali potevano considerarsi esplicazione della vita personale del singolo individuo e che il titolare di luoghi di lavoro privati consterebbe della potestà di negare (ius excludendi alios) l’accesso alle persone a lui non gradite pur quando si tratti di un ambiente aperto al pubblico[61].

Ancora, la citata opzione giurisprudenziale considerava irrilevante il profilo temporale: pertanto i pubblici esercizi erano da ritenersi[62] luoghi di privata dimora, ai fini dell’art. 614 c.p., sia quando cessato l’orario di apertura il proprietario si tratteneva all’interno per compiere determinate attività (pulizia, sistemazione merce, ecc) sia quando gli stessi erano aperti al pubblico.

Pertanto venivano inclusi nel perimetro del domicilio l’ufficio privato[63], il pubblico esercizio[64], lo studio notarile[65].

 Altro orientamento[66], valorizzando il requisito della riservatezza negava la possibilità di qualificare come luoghi di domicilio determinati ambienti, ad esempio escludendo la possibilità di far rientrare nell’ambito applicativo dell’art. 624 bis cp le condotte di furto poste in essere in un esercizio pubblico durante l’orario di apertura e nella parte concretamente aperta al pubblico

 Prendendo le mosse dai principi declinati dalla Sezioni Unite Prisco[67] detta giurisprudenza[68] faceva leva sul fatto che l’art. 14 Cost non tutela qualsiasi manifestazione della vita privata, ma solo quelle che si svolgano in modo riservato: posto che la ratio sottesa alla tutela di un luogo come privata dimora era rinvenibile nell’esigenza di assicurare una particolare protezione a quegli spazi che abbiano caratteristiche tali da consentire di ospitare lo svolgimento riservato di atti della vita privata, ne derivava la non ravvisabilità di siffatta ratio con riferimento agli esercizi commerciali e, più in generale ai luoghi di lavoro, durante l’orario di apertura e nella parte concretamente aperta al pubblico.

Una differente corrente di pensiero[69] pur condividendo l’idea che gli esercizi commerciali nelle ore di apertura non possono considerarsi luoghi di privata dimora e, quindi negando la natura di luoghi di privata dimora agli esercizi commerciali accessibili al pubblico nelle ore di apertura, ha evidenziato che all’interno dei citati esercizi sussistono spazi qualificabili come privata dimora; detti spazi, interdetti al pubblico, sono stati quindi considerati ascrivibili al perimetro dei luoghi di provata dimora.

Per altra linea interpretativa[70] gli esercizi commerciali sarebbero riconducibili al concetto di privata dimora, nella loro interezza, anche durante l’orario di chiusura, sul presupposto che quegli spazi dei luoghi di lavoro che nelle ore di apertura, risultando concretamente accessibili al pubblico, non sarebbero qualificabili come privata dimora, lo potrebbero diventare nei momenti di chiusura al pubblico.

A dipanare i contrasti sono intervenute le Sezioni Unite[71] che nel 2017 hanno individuato un concetto di “luogo di privata dimora” unitario ed unificante.

Nell’occasione gli Ermellini, dopo avere chiarito che il concetto di privata dimora è più ampia di quello di abitazione, hanno evidenziato che nozione di privata dimora non può essere intesa in senso eccessivamente ampio.

Le indicate Sezioni Unite hanno poi individuato i tre elementi qualificanti il luogo di privata dimora:

a) utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio) in modo riservato ed al riparo da intrusioni;
b) durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona in modo tale che detto rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità;

c) non accessibilità del luogo da parte di terzi, senza il consenso del titolare.

Il principio declinato dal Supremo Consesso di Legittimità è stato il seguente: “rientrano nella nozione di privata dimora di cui all’art. 624 bis cp esclusivamente i luoghi, anche destinati ad attività lavorativa o professionale, nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare”.

Applicando il citato principio le Sezioni Unite hanno chiarito che “è indiscutibile che nei luoghi di lavoro il soggetto compia atti della vita privata”, tuttavia “ciò non è sufficiente …per affermare che tali luoghi rientrino nella nozione di privata dimora e che per i reati di furto in essi commessi trovi applicazione la norma rubricata come furto in abitazione..” atteso che “i luoghi di lavoro generalmente sono accessibili ad una pluralità di soggetti anche senza il preventivo consenso dell’avente diritto: ad essi è quindi estraneo ogni carattere di riservatezza..”.

In definitiva secondo le Sezioni Unite citate la disciplina dell’art. 624 bis cp è “estensibile ai luoghi di lavoro soltanto se essi abbiano le caratteristiche proprie dell’abitazione”, per cui potrà essere “riconosciuto il carattere di privata dimora ai luoghi di lavoro laddove in essi, o in parte di essi, il soggetto compia atti della vita privata in modo riservato e precludendo l’accesso a terzi (retrobottega, spogliatoi, bagni privati area riservata di uno studio professionale).”

Pertanto “i luoghi di lavoro non rientrano nella nozione di privata dimora, salvo che il fatto sia avvenuto all’interno di un’area riservata alla sfera privata della persona offesa”.

6.4.3 Le intercettazioni ambientali nell’abitacolo dell’autovettura

La giurisprudenza prevalente ha giudicato la nozione di privata dimora non estensibile fino a ricomprendere l’abitacolo della vettura.

Si è infatti ritenuto che seppure il concetto di privata dimora sia più ampio di quello di casa di abitazione – includendo in sé tutti i luoghi adoperati anche in modo transitorio e contingente per lo svolgimento dell’attività privata – tra questi luoghi non può annoverarsi l’abitacolo.

Infatti da un lato il luogo in discorso sarebbe[72] sfornito dei confort minimi per potervi risedere in modo stabile per un apprezzabile lasso di tempo e dall’altro in esso, normalmente, non si compiono atti caratteristici della vita privata, mentre sotto altro punto di vista è stato evidenziato[73] che l’abitacolo non sarebbe idoneo a garantire la riservatezza poiché consente sia l’inspectio che una facile percezione delle comunicazioni.

Dette caratteristiche, tuttavia, non difettano nel camper[74], fin dalla sua costruzione utilizzabile come dimora.

Tuttavia, con una pronuncia assai nota[75], in una occasione, la Cassazione ha ritenuto che l’abitacolo della vettura potesse essere qualificato come luogo di privata dimora.

La problematica è stata affrontata dalle Sezioni Unite Policastro[76] che, dopo avere dato atto del contrasto giurisprudenziale e richiamato una sentenza della Corte Costituzionale[77] in cui – con riguardo ad altro problema – l’abitacolo era considerato luogo di privata dimora, non hanno risolto la quaestio iuris poiché priva di rilevanza nel caso concreto.

In ogni caso, le conseguenze pratiche dell’adesione all’uno o all’altro degli orientamenti sono importanti: considerando l’abitacolo un luogo di privata dimora il decreto autorizzativo delle intercettazioni dovrà motivare sulla sussistenza del fondato motivo circa lo svolgimento in atto nell’autoveicolo dell’attività delittuosa, mentre in caso contrario il decreto autorizzativo delle captazioni non dovrà essere motivato con riferimento al fumus committendi delicti[78].

Le Sezioni Unite Floris[79], con obiter dictum hanno avallato la tesi maggioritaria, considerando del tutto eccezionali i casi in cui l’abitacolo della vettura sia qualificabile in termini di privata dimora (rimanendo ferma la necessità di una verifica caso per caso).

Oggi, a seguito della puntualizzazione, ad opera della pronuncia della Suprema Corte a Sezioni Unite[80] del 2017, dei tre elementi costitutivi del luogo di privata dimora, è chiaro che almeno di regola i ridetti requisiti non appaiono cumulativamente ravvisabili in relazione all’abitacolo dell’autovettura.

In conclusione l’ulteriore limite di ammissibilità di cui all’art. 266 comma 2 cpp non si applica all’abitacolo dell’autoveicolo, salvo non si tratti di un camper[81].

6.4.4 In merito ad altri luoghi individuati dalla giurisprudenza

Quanto agli ulteriori luoghi astrattamente sussumibili nel concetto di “privata dimora” la cella di un carcere non può certamente essere considerata luogo di privata dimora, mancando, ai detenuti, la disponibilità di quel fondamentale ius excludendi alios, spettante integralmente e unicamente alla sola amministrazione penitenziaria, ferma restando, inoltre, la possibilità di intercettare comunicazioni telefoniche di detenuti o internati, ai sensi dell’art. 39 d.p.r. 30 giugno 2000, n. 230.

Sotto altro angolo visuale difettano i requisiti richiesti dalle Sezioni Unite del 2017 di cui abbiamo detto; l’orientamento della Cassazione attualmente è costante[82] nell’escludere che la cella del carcere possa rientrare nel perimetro del luogo di privata dimora.

Considerazioni simili vengono in rilievo in merito alle stanze delle strutture ospedaliere.

Dunque l’ulteriore limite di ammissibilità di cui all’art. 266 comma 2 cpp non trova applicazione alla sala colloqui del carcere, alla cella del carcere e alle stanze degli istituti ospedalieri.

A diversa conclusione, invece, deve pervenirsi con riguardo alle camere delle strutture alberghiere[83]; fermo restando quanto detto in tema di luoghi di lavoro in generale, è da escludersi che sia luogo di privata dimora l’ufficio del sindaco, quello del tecnico comunale[84] (trattandosi di luogo ove è consentito l’accesso ad un numero indefinito di persone), e le stanze dell’Ufficio giudiziario[85].

6.5 Nozione di attività criminosa.

Quanto all’esegesi della nozione in commento giova precisare che il secondo comma dell’art. 266 cpp non presuppone l’effettivo e concreto svolgimento dell’attività delittuosa nel luogo in cui avviene la conversazione, richiedendo il «fondato sospetto»[86] dell’attuale svolgimento di una tale attività.

In altri termini è necessario, ma anche sufficiente, che dell’attività criminosa possa, con giudizio ex ante, ragionevolmente ritenersi la sussistenza al momento dell’emanazione del provvedimento di autorizzazione ad effettuare le operazioni[87]: ne deriva che il requisito de quo non postula che l’attività criminosa risulti poi essere stata effettivamente in corso[88].

Giova tuttavia precisare che il requisito de quo non deve essere identificato con la flagranza di reato che ricorre quando taluno “viene colto nell’atto di commettere il reato[89].

Ed infatti mentre lo stato di flagranza richiede il concreto ed effettivo svolgimento dell’attività criminosa, nel caso di cui all’art. 266 comma 2 cpp, non si esige la medesima effettività e concretezza, richiedendosi una mera potenzialità atteso che ex ante devono sussistere elementi tali da far ritenere che nel luogo in cui si intende compiere la captazione clandestina sia in corso un’attività delittuosa.

Diversamente opinando il mezzo investigativo in discorso non potrebbe essere attivato in tutti i casi in cui il reato sia già stato commesso, e ciò cozzerebbe col fatto che la fase delle indagini preliminari si svolge per sua natura dopo che un reato si è già verificato[90].

Pertanto se lo “svolgimento dell’attività criminosa” fosse inteso come coincidente con la “flagranza di reato”, allora non avrebbe senso disporre una intercettazione ambientale in luogo di domicilio, potendo la PG fare irruzione e procedere all’arresto in flagranza di coloro che ivi si trovano.

In conclusione il requisito di cui all’art. 266 comma 2 cpp è altro[91] dalla situazione di cui all’art. 382 cpp.

Quanto alla portata del precetto per cui la intercettazione deve essere funzionale all’accertamento di “attività criminosa in atto”, una sentenza della Cassazione[92] ha chiarito che ai fini della verifica di tale presupposto, non può dirsi che esso non ricorra per il fatto che la presunta attività criminosa risulti essere ulteriore rispetto ai fatti criminosi già emersi a seguito delle indagini pregresse, non essendo siffatta limitazione prevista né espressamente né implicitamente dalla legge.

In particolare, l’attività diretta alla assicurazione del profitto del reato, pur essendo posta in essere post delictum, attiene comunque alla condotta delittuosa consumata, della quale costituisce il completamento “economico” o, se si vuole, una delle “conseguenze ulteriori”, il che autorizza a definirla “attività criminosa” ai sensi e per gli effetti dell’art. 266, comma secondo, cpp[93].

6.6. Intercettazioni ambientali domiciliari e modalità di installazione delle microspie.

Importante questione che si pone con riguardo al rapporto tra l’intercettazione ambientale nei luoghi di cui all’art. 614 cp e la tutela della libertà domiciliare, è quella concernente le concrete modalità di effettuazione delle operazioni.

Normalmente per eseguire tale tipo di captazioni viene collocata una microspia nel luogo in cui si ritiene che si svolgeranno le conversazioni da captare clandestinamente.

Tuttavia tale operazione può essere effettuata anche con modalità differenti, tali da non richiedere la collocazione di apparecchi (cimici) in un luogo di domicilio, e pertanto tali da non comportare l’abusivo ingresso in una privata dimora con le connesse problematiche.

In sostanza le intercettazioni di conversazioni che si svolgono all’interno di luoghi di privata dimora possono effettuarsi con apparecchiature tecniche collocabili oltre che all’interno dell’immobile anche dall’esterno dello stesso.

La prima ipotesi si appalesa particolarmente problematica.

L’art. 14 della Costituzione, infatti, nel sancire l’inviolabilità del domicilio, al secondo comma, esclude la possibilità di «ispezioni o perquisizioni o sequestri, se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale» senza alcun riferimento alle intercettazioni, si pone un problema di compatibilità delle operazioni de quibus con la indicata norma costituzionale.

 Posto che la collocazione di una microspia in un luogo di domicilio implica l’ingresso da parte degli operatori della polizia giudiziaria nel luogo medesimo, è sorto l’interrogativo circa l’ammissibilità costituzionale dell’ingresso clandestino in luogo costituzionalmente protetto, quale è il domicilio, al fine di installare un apparecchio di captazione di comunicazioni.

Ciò premesso, la giurisprudenza[94] ha costantemente ritenuto la legittimità costituzionale delle intercettazioni ambientali effettuate in ambito domiciliare atteso che il principio di inviolabilità del domicilio ex art. 14 Cost. va correlato alla facoltà attribuita dall’art. 15 della Carta Costituzionale, alla legge ordinaria, di prevedere e regolare intromissioni in ambito privato, anche mediante limitazione della riservatezza delle comunicazioni, per atto motivato dell’Autorità Giudiziaria.

A questo riguardo deve evidenziarsi che l’intercettazione di comunicazioni inter praesentes è realizzabile soltanto attraverso l’introduzione, necessariamente clandestina, in abitazioni ed in altri luoghi di privata dimora per l’installazione degli strumenti di ascolto e registrazione; detta operazione deve avvenire all’insaputa di coloro che frequentano quell’ambiente diversamente verrebbe vanificata l’efficacia del mezzo di ricerca della prova in analisi.

Sul tema si evidenzia che la Corte di Cassazione[95] ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 266, secondo comma c.p.p, sotto il profilo del contrasto con l’inviolabilità del domicilio (che sarebbe vulnerata poiché, in difetto delle tipizzazione legislativa delle modalità di captazione delle conversazioni tra presenti, la normativa denunciata potrebbe essere interpretato nel senso di legittimare l’ingresso fraudolento dell’autorità di polizia nei luoghi di privata dimora per l’installazione di microspie).

A questo riguardo viene evidenziato da un lato che le intercettazioni costituiscono atto “a sorpresa”, per cui i conversanti devono necessariamente essere ignari della presenza del terzo in grado di captare i loro discorsi, dall’altro che seppure l’art. 14 della Carta Costituzionale, al secondo comma, nel determinare le garanzie di cui l’inviolabilità del domicilio è circondata nei confronti della pubblica autorità fa intendere che questa possa compiere nel domicilio solo gli atti di coercizione reale, le esigenze di realizzazione di interessi generali protetti dalla Costituzione, ovvero il supremo interesse alla giustizia, devono trovare necessaria realizzazione per cui prevalgono in un giudizio di bilanciamento.

Ne deriva che l’interesse all’inviolabilità del domicilio trova dei limiti nella tutela d’interessi generali anch’essi costituzionalmente protetti, ravvisabili, con riguardo alle norme denunciate, nell’esigenza di esercitare l’azione penale (art. 112 Cost.)[96].

6.7. La variazione dell’ambiente di esecuzione delle intercettazioni ambientali

Nella pratica può verificarsi che l’intercettazione tra presenti disposta con riferimento ad un certo ambiente venga poi eseguita in uno spazio diverso da quello indicato nel decreto autorizzativo.

Si tratta allora di comprendere gli effetti del verificarsi di tali situazioni[97] e più nello specifico a tale variazione consegue l’inutilizzabilità processuale degli esiti intercettivi[98].

Punto di partenza della riflessione è la differenza intercorrente tra intercettazioni ambientali ed intercettazioni telefoniche e telematiche.

A questo riguardo, mentre l’intercettazione telefonica e quella telematica postulano un apparecchio da sottoporre ad intercettazione, per cui per ciascuna operazione captativa, devono essere indicati in modo specifico i relativi dati di identificazione nel decreto autorizzativo, le intercettazioni tra presenti, salvo non siano espletate mediante captatore informatico, non hanno ad oggetto mezzi tecnici come tali provvisti di dati identificativi.

La Suprema Corte, in virtù delle caratteristiche delle intercettazioni ambientali tradizionali, ovverosia quelle non espletate mediante trojan, con principio ormai consolidato[99] ha chiarito che l’eventuale variazione non della tipologia di ambiente (ad esempio la stanza d’albergo, l’autovettura, la sala colloqui del carcere) per il quale è stata autorizzata l’intercettazione, ma soltanto del luogo specifico interessato dalla captazione, pur sempre rientrante nella tipologia di spazio considerata nel provvedimento autorizzativo, non determina l’inutilizzabilità dei risultati intercettivi ottenuti.

Con orientamento costante[100], infatti, la giurisprudenza  ritiene che a fronte di intercettazioni ritualmente autorizzante in relazione ad un determinato soggetto, le modalità esecutive dell’operazione restano affidate alla gestione del pubblico ministero non potendosi pretendere che gli spostamenti del soggetto da controllare rendano, di volta in volta, necessario acquisire una nuova autorizzazione; diversamente opinando si correrebbe il rischio di compromettere seriamente lo svolgimento delle investigazioni.

7.     I presupposti e le forme del provvedimento autorizzatorio nella disciplina ordinaria (art. 267 comma 1 cpp).

Per poter disporre un’intercettazione il nostro sistema di diritto processuale penale richiede oltre al rispetto dei limiti di ammissibilità di cui all’art. 266 comma 1 c.p.p., anche la sussistenza degli specifici presupposti e delle forme individuati dall’art. 267 del codice di rito.

I recenti interventi normativi riguardanti la disciplina delle intercettazioni non hanno mutato i presupposti e le forme del provvedimento autorizzativo: devono sussistere i “gravi indizi di reato” e l’intercettazione deve essere “assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini”.

7.1 I gravi indizi di reato

Preliminarmente occorre comprendere cosa si intenda con l’espressione “gravi indizi di reato”.

Punto di partenza dell’analisi è che i gravi indizi de quibus, attengono all’esistenza del reato e non alla colpevolezza di un determinato soggetto; si tratta di elementi tali da far ragionevolmente presumere la commissione del reato, senza che sia necessaria una già avvenuta individuazione del suo autore[101].

Come noto i “gravi indizi di reato” richiesti per disporre le intercettazioni devono essere quindi tenuti distinti[102] dai “gravi indizi di colpevolezza”[103] necessari ai sensi dell’art. 273 comma 1 cpp per l’applicazione di una misura cautelare personale.

La giurisprudenza[104] nel precisare il contenuto dei presupposti dell’intercettazione ha chiarito che il requisito in discorso va inteso non in senso probatorio[105] (ossia come valutazione del fondamento dell’accusa), ma come vaglio di particolare serietà delle ipotesi delittuose configurate, che non devono risultare meramente ipotetiche.

Posto che l’apprezzamento del requisito de quo concerne la mera esistenza di un fatto-reato compreso tra quelli indicati al primo comma dell’art. 266 cpp, secondo il costante orientamento della Cassazione[106] tale valutazione prescinde dalla riferibilità soggettiva del fatto-reato oggetto di investigazioni ad un soggetto specificamente individuato[107].

Pertanto per procedere ad intercettazione non è necessario che gli indizi di reato siano riferibili ai soggetti le cui comunicazioni debbano essere, a fine di indagine, intercettate[108], con conseguente piena legittimità[109] delle intercettazioni disposte nei confronti di soggetti iscritti nel registro degli indagati.

Pertanto sarà possibile attivare intercettazioni:

  • nei procedimenti a carico di ignoti, ad esempio in caso di consumazione di un reato rientrante tra quelli tipizzati al primo comma dell’art. 266 cpp, senza che ne sia stato individuato ancora l’autore, con possibilità di esecuzione dell’attività tecnica sulle utenze in uso a soggetti vicini al reato (si pensi alla vittima o ai familiari della stessa) ma non sospettati né iscritti nel registro ex art. 335 cpp;
  • in procedimenti a carico di soggetti noti, in tal caso oltre che nei confronti dell’indagato anche nei confronti di soggetti non indagati (come sopra).
7.1.1 Gravi indizi di reato e dichiarazioni spontanee dell’indagato

Deve darsi atto del contrasto giurisprudenziale in merito alla possibilità di utilizzare le dichiarazioni spontanee dell’indagato rese a norma dell’art. 350 cpp, non verbalizzate nelle forme dell’art. 357 cpp ma annotate sommariamente in forma libera, quale indizio di reato ai fini di disporre le intercettazioni.

Secondo una sentenza molto risalente[110] la mancata verbalizzazione, da parte della polizia giudiziaria, di atti che, ai sensi dell’art. 357 comma 2 c.p.p dovrebbero essere verbalizzati comporta che gli stessi, poiché non documentati, debbano essere considerati inesistenti e, quindi inidonei ad essere assunti a base anche della semplice adozione di misure cautelari.

Per l’orientamento più recente[111], di contro, le dichiarazioni spontanee dell’indagato possono essere utilizzate erga alios quali indizi nella fase delle indagini preliminari ai fini dell’autorizzazione dell’intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche nell’ambito di un procedimento per delitti di criminalità organizzata, non ricorrendo alcuna ipotesi di inutilizzabilità generale di cui all’art. 191 cpp ovvero di inutilizzabilità specifica.

7.1.2 Gli indizi e l’esposto anonimo.

La questione giuridica oggetto di analisi nel presente paragrafo concerne la possibilità di utilizzare l’esposto anonimo quale indizio di reato per attivare le intercettazioni.

Come noto, ai sensi dell’art. 240 comma 1 c.p.p. la denuncia anonima non può essere acquisita né utilizzata probatoriamente, salvo non costituisca corpo di reato o provenga dall’imputato.

In forza della denuncia anonima, quindi, non possono essere compiute attività che presuppongono la esistenza di indizi di reato, proprio in quanto l’anonimo non è utilizzabile; ne deriva che in base all’esposto anonimo non possono essere eseguite intercettazioni.

Di conseguenza a seguito della ricezione dell’esposto anonimo si procederà all’iscrizione nell’apposito registro Modello 46 (documenti anonimi).  

Tuttavia le notizie contenute nei documenti anonimi possano ed anzi debbono, per effetto del principio della obbligatorietà dell’azione penale, costituire spunti per una investigazione di iniziativa del Pubblico Ministero o della polizia giudiziaria, al fine di assumere dati conoscitivi diretti a verificare se dall’anonimo possano ricavarsi gli estremi utili per la individuazione di una valida notitia criminis[112].

Il tema[113] è quello, sempre attuale, dell’uso ai fini investigativi degli esposti/denunce anonimi.

A questo riguardo va segnalata l’opzione ermeneutica[114] e, di conseguenza, operativa di che, a fronte di un esposto anonimo molto dettagliato e circostanziato ha ritenuto configurabile il delitto di calunnia (falsa incolpazione contenuta in una denuncia anonima), sulla base del ragionamento secondo cui il pubblico ministero deve svolgere atti di verifica al fine di acquisire una valida notitia criminis, con conseguente idoneità di tali atti a ledere l’interesse al corretto funzionamento della giustizia e l’interesse privato della persona offesa, qualora la denuncia si riveli priva di fondamento.

 7.1.3 I gravi indizi e le dichiarazioni degli informatori (art. 267 comma 1-bis cpp).

Uno dei temi più dibattuti è stato quello della inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dagli informatori.

L’art. 203 comma 1 c.p.p. riconosce agli ufficiali ed agenti di pg, la facoltà di mantenere nell’anonimato gli informatori: sul presupposto che essi spesso rappresentano una fonte di acquisizione di notizie rilevanti ai fini investigativi, il Legislatore esclude che il giudice possa obbligare le suddette forze dell’ordine a rivelare i nomi dei loro informatori.

In passato la Cassazione[115] riteneva che le informazioni legittimamente acquisite dagli organi di PG, una volta riferite al PM e da questo poste a fondamento della richiesta di autorizzazione, fossero idonee ad integrare il requisito dei gravi indizi di reato.

Le Sezioni Unite della Cassazione a Sezioni Unite[116], con riguardo ai delitti di criminalità organizzata, avevano ritenuto “idonee ad integrare il requisito della sufficienza degli indizi di reato le informazioni legittimamente acquisite dall’organo di polizia giudiziaria riferite al PM e da questi poste a fondamento della richiesta di “autorizzazione alle intercettazioni”.

A seguito dell’entrata in vigore della legge 1° marzo 2001 n. 63 tale orientamento è ormai superato. La legge citata ha introdotto, negli artt. 203 e 267 cpp[117], i commi 1-bis, diretti ad impedire che le dette dichiarazioni possano fondare i gravi indizi idonei atti a giustificare il ricorso alla intercettazione.

Pertanto la gravità degli indizi, necessaria a disporre le intercettazioni, deve essere – così come accade in tema di misure cautelari – valutata senza tener conto degli elementi desumibili dalle dichiarazioni rese da informatori riservati della polizia giudiziaria, laddove questi non siano stati interrogati né assunti a sommarie informazioni.

Ne consegue che oggi le informazioni acquisite dagli organi di Pg tramite fonti confidenziali non possono costituire l’unico[118] elemento da cui inferire (rectius: l’unico elemento oggetto di vaglio da parte del Gip) i gravi indizi di reato, altrimenti configurandosi l’inutilizzabilità[119] degli esiti delle relative captazioni.

A contrario[120] i risultati di intercettazioni disposte sulla base di simili fonti sono utilizzabili a condizione che queste ultime non siano gli unici elementi posti a supporto della valutazione circa la sussistenza della gravità indiziaria, essendo state autorizzate le operazioni facendo leva anche su altri elementi.

Per dovere di completezza deve essere evidenziato che la nozione di “informatore” non ricorre[121] ove la polizia giudiziaria abbia indicato negli atti le generalità complete dell’informatore ed abbia precisato in una relazione di servizio il contenuto delle notizie da questi riferite, venendo meno in tal caso il carattere anonimo della fonte e non essendo preclusa per gli agenti operatori, riguardo alla fase delle indagini preliminari, una siffatta documentazione delle dichiarazioni raccolte.

7.2 L’assoluta indispensabilità ai fini della prosecuzione delle indagini.

La assoluta indispensabilità della captazione per la prosecuzione delle indagini integra il secondo presupposto, necessario per disporre le intercettazioni, previsto dall’art. 267 c.p.p.

Il sintagma in esame postula che l’atto captativo sia assolutamente indispensabile per la continuazione dell’attività investigativa, situazione che si verifica ove gli altri mezzi di ricerca della prova non garantiscono la utile prosecuzione delle indagini.

Pertanto, le intercettazioni non sono consentite quando altri strumenti investigativi consentono l’acquisizione della prova[122].

7.3 Il doppio binario: la disciplina delle intercettazioni per i delitti di criminalità organizzata o di minaccia col mezzo del telefono (art. 13 comma 1 D. L. 152/91 conv. con L. 203/91).

Esaminati i presupposti delle operazioni di intercettazione nell’ambito dei procedimenti per reati comuni occorre vagliare la disciplina derogatoria introdotta negli anni novanta per i delitti di criminalità organizzata nonché per quello di minaccia col mezzo del telefono.

Ènoto che il Legislatore del 1991 giusto D. L. 13.5.1991 n. 152[123] conv. in L. 12.7.1991 n. 203 ha attenuato le condizioni di legittimazione per l’attivazione delle intercettazioni nei procedimenti aventi ad oggetto indagini relative a “delitti di criminalità organizzata o di minaccia col mezzo del telefono”, richiedendo rispetto a detti reati indizi non “gravi” ma solo “sufficienti” e prevedendo, tra l’altro, che il mezzo di ricerca della prova in commento sia non indispensabile ma semplicemente necessario per lo svolgimento delle indagini.

A seguito della novella non è mutata la disciplina afferente alle intercettazioni nei procedimenti per i reati di criminalità organizzata o di minaccia col mezzo del telefono disciplinati dall’art. 13 comma 1 D. L. 152/91 conv. con L. 203/91.

Pertanto, quando si procede per reati di criminalità organizzata o di minaccia col mezzo del telefono il mezzo di ricerca della prova in discorso potrà essere attivato qualora ricorrano congiuntamente due presupposti: debbano sussistere “sufficienti indizi” del reato oggetto di investigazione e l’intercettazione deve appalesarsi necessaria per lo svolgimento delle indagini.

Con riguardo al primo requisito da un lato aprioristicamente non può individuarsi in modo preciso un discrimen tra indizi “gravi” ed indizi solo “sufficienti” dall’altro i criteri distintivi non sono stabiliti legislativamente; pertanto la suddetta distinzione opera al momento del vaglio, da parte del Pm prima e del Giudice poi, e quindi a livello psichico, del panorama indiziario alla base del procedimento.

In relazione al secondo requisito, il riferimento alla sola necessità e non alla indispensabilità delle intercettazioni ai fini delle indagini consente il ricorso allo strumento investigativo in esame anche ove altri mezzi di ricerca della prova consentirebbero lo svolgimento delle indagini.

La normativa in commento, inoltre, prevede un’ulteriore deroga agli ordinari presupposti con riguardo alle intercettazioni tra presenti eseguite in uno dei luoghi di cui all’art. 614 cp: nei procedimenti per i “delitti di criminalità organizzata o di minaccia col mezzo del telefono” le operazioni captative possono essere disposte anche ove non sia il fondato motivo di ritenere che nei luoghi predetti si stia svolgendo attività criminosa[124].

Da ultimo, in deroga alla disciplina ordinaria, la normativa “speciale” fissa la durata delle intercettazioni in 40 giorni prorogabili per periodi successivi di 20 giorni.

La disciplina in esame è stata estesa[125] ai procedimenti per i delitti di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), n. 4 cpp (delitti con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale con pena non inferiore nel minimo a 5 anni o nel massimo a 10 anni, delitti di cui all’art. 270 comma 3, 270 bis comma 2, 306 comma 2, cod. pen.) e per il delitto ex art. 270-ter cp (Assistenza agli associati nei reati di associazione sovversiva e di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico).

Ancora la normativa de qua si applica[126] ai procedimenti per i delitti previsti dagli artt. 600-604 cp (Riduzione in schiavitù, Prostituzione minorile, Pornografia minorile, Detenzione di materiale pornografico, Iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile, Tratta e commercio di schiavi, Alienazione e acquisto di schiavi) e per i delitti di cui all’art. 3, l. 20 febbraio 1958, n. 75 (c.d. legge Merlin).

7.3.1 La nozione di “criminalità organizzata”.

Il perimetro della nozione di criminalità organizzata è stato vagliato (sia pure a fini diversi e cioè nella disamina della eccezione alla regola posta dall’art. 266, comma 2, cpp, dal citato art. 13, comma 1, secondo inciso, d.l. 152/1991) dalla Cassazione a Sezioni Unite nel 2001[127].

Nell’occasione la Suprema Corte, senza prendere posizione per difetto di rilevanza della questione, ha dato atto contrastante orientamento giurisprudenziale, evidenziando da un lato, i principi declinati dall’opzione ermeneutica estensiva che ricomprendeva nella nozione de qua tutte le attività criminose poste in essere da una pluralità di soggetti costituitisi in apparato organizzativo[128] e dall’altro l’orientamento più rigoroso che faceva riferimento a catalogo di reati di cui agli artt. 407 comma 2, lett a), 372 comma 1-bis, e 51 comma 3-bis cpp[129].

Sul tema le Sezioni Unite della Cassazione si sono pronunciate anche successivamente, prima nel 2005[130] aderendo all’indirizzo che sosteneva l’interpretazione estensiva e la polivalenza semantica della formula in discorso, poi nel 2010[131] e nel 2016[132].

  Le Sezioni Unite del 2016 (sentenza Scurato) chiamate a vagliare la questione dell’utilizzabilità del cd. trojan nelle indagini, aderendo ai principi declinati dalle Sezioni Unite nel 2005 (sentenza Petrarca) hanno chiarito che per reati di criminalità organizzata devono intendersi “non solo quelli elencati nell’art. 51 commi 3 bis e 3 quater cpp, ma anche quelli facenti capo ad una associazione per delinquere ex art. 416 cp, correlata alle attività criminose più diverse, con esclusione del mero concorso di persone nel reato”.

7.4 Il doppio binario: le intercettazioni nei procedimenti relativi a delitti dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione puniti con pena non inferiore nel massimo a 5 anni di reclusione.

Come noto il codice di rito, già nella sua stesura originaria, prevedeva giusta lettera b) del comma 1 dell’art. 266 c.p.p. la possibilità di attivare intercettazioni nei procedimenti relativi a “delitti contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni determinata a norma dell’art. 4”.

Successivamente l’art. 6 del D. lgs. 216/2017 nel prevedere che “nei procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni determinata a norma dell’art. 4 del codice di procedura penale, si applicano le disposizioni di cui all’art 13 del decreto legge 13 maggio 1991, n. 152”, con ciò determinava l’applicazione ai reati de quibus –del regime derogatorio previsto per i reati di criminalità organizzata.

Deve evidenziarsi che la disciplina speciale riguardava una categoria di delitti più ristretta di quella prevista all’art. 266 comma 1 lett. b) cpp ovvero quella dei “delitti contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni” (che comprende sia i delitti dei P.U. contro la PA [artt. da 314 a 335 cp] sia i delitti dei privati contro la PA. [artt. da 336 a 356 cp]).

Ciò premesso, a partire dal 26.1.2018 – data di entrata in vigore del D. lgs. 216/2017 – nei procedimenti per i reati sopra evidenziati, è stato possibile disporre le intercettazioni in presenza di sufficienti(e non gravi) indizi delle fattispecie incriminatrici suddette anche qualora le captazioni fossero solo necessarie (e non indispensabili) per lo svolgimento delle indagini; la durata delle intercettazioni veniva fissata in 40 giorni prorogabili per periodi successivi di 20 giorni.

E tuttavia l’equiparazione tra il regime delle intercettazioni nei procedimenti per i citati delitti e quello delle attività captative eseguite nei procedimenti aventi ad oggetto reati di “criminalità organizzata” non era stata totale. Infatti mentre in relazione ai delitti di criminalità organizzata l’utilizzo del cd. Trojan era consentito anche nei luoghi di cui all’art. 614 cp senza che vi fosse il fondato motivo che negli stessi si stesse svolgendo l’attività delittuosa, nei procedimenti per delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione sopra indicati l’utilizzo del captatore informatico su dispositivo portatile risultava sempre consentito nei luoghi diversi da quelli domiciliari; ai fini dell’intercettazione in detti luoghi, infatti, veniva richiesto il soddisfacimento dell’ulteriore limite di ammissibilità previsto dall’art. 266 comma 2 cpp ovvero il fondato motivo che in detti luoghi si stesse svolgendo l’attività delittuosa.

La indicata parificazione poneva anche profili problematici: in forza del dato testuale dell’art. 6 del D. lgs. 216/2017 che riguardava i soli delitti dei “pubblici Ufficiali contro la pubblica amministrazione” il regime derogatorio sopra descritto non risultava applicabile anche ai delitti commessi dall’incaricato di pubblico servizio contro la PA.

Con la successiva Legge 3/2019, cd. Spazzacorrotti, in vigore dal 31.1.2019 il Legislatore attuava la definitiva parificazione tra il regime giuridico delle intercettazioni nei procedimenti di criminalità organizzata e quello previsto per le intercettazioni nei procedimenti per i delitti in analisi eliminando per i delitti “dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni determinata a norma dell’art. 4 del codice di procedura penale” la preclusione all’utilizzo del Trojan nei luoghi indicati dall’art. 614 cp laddove non vi fosse il fondato motivo di ivi si stesse svolgendo l’attività delittuosa.

Pertanto dal 31.1.2019 l’uso del captatore informatico nei procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali contro la PA era consentito nei luoghi indicati dall’art. 614 cp anche senza fondato motivo di ritenere che in detti luoghi fosse in atto l’attività delittuosa.

Con il successivo D. L. n. 161/2019 convertito in L. 7/2020 si viene a cristallizzare la disciplina attuale, per cui:

  •  il doppio binario veniva esteso alle intercettazioni da eseguirsi nei procedimenti per i delitti degli incaricati di pubblico servizio contro la PA puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni determinata a norma dell’art. 4 del codice di procedura penale;
  • a seguito della modifica apportata all’art. 266 comma 2 bis cpp l’utilizzo del captatore informatico per eseguire intercettazioni tra presenti è sempre consentito, oltre che per i delitti di cui all’art. 51 commi 3 bis e 3 quater cpp, anche nei procedimenti relativi a delitti in discorso, ferma restando la necessità della “previa indicazione delle ragioni che ne giustificano l’utilizzo anche nei luoghi indicati dall’art. 614 cp” (senza che sia necessaria la condotta criminosa in atto);
  • ai sensi dell’art. 267 comma 1 cpp il decreto che autorizza le intercettazioni con l’utilizzo del trojan nei procedimenti relativi a detti delitti non deve contenere l’indicazione dei luoghi e del tempo di attivazione del microfono;
  • in forza del comma 2 bis dell’art. 267 cpp, laddove si proceda per i delitti in analisi, il Pm può disporre d’urgenza l’attivazione delle intercettazioni con l’utilizzo del trojan.

Si anticipa inoltre, come vedremo funditus nel corso del presente lavoro, che giusta introduzione del comma 1 bis all’art. 270 cpp (con D. L. 161/2019) vi è oggi piena parificazione anche tra il regime di circolazione extra-procedimentale delle intercettazioni eseguite con captatore informatico nei procedimenti per i delitti in discorso e il regime circolatorio delle intercettazioni eseguite, con captatore informatico, nei procedimenti ex art. 51 commi 3 bis e 3 quater cpp.  

8 Le intercettazioni di comunicazioni tra presenti mediante inserimento di un captatore informatico su dispositivo elettronico.

Il cd. Trojan in origine non aveva una propria collocazione giuridica per cui la relativa disciplina scaturiva dalla stratificazione di interventi giurisprudenziali[133] ed interpolazioni normative (dal D. lgs 216 del 2017, alla L. 3/19, a finire con il D. Lgs 161/19) e, pertanto, con l’entrata in vigore della legge 7/2020 la normativa sul captatore informatico viene definitivamente codificata.

In precedenza, infatti, alla luce delle tecniche del cd. Trojan (e della sua capacità di intrusione) si erano dipanate questioni giuridiche di estremo rilievo in particolare con riferimento al tema della garanzia della privacy.

Prima dell’intervento legislativo in commento, in presenza di un vero e proprio vuoto normativo, le Sezioni Unite[134] della Corte di Cassazione, con la sentenza Scurato, si erano pronunciate in merito all’applicazione del Trojan ed evidenziandone l’utilizzabilità per eseguire intercettazioni tra presenti nei soli procedimenti per delitti di criminalità organizzata, trovando applicazione la disciplina di cui alla L. 203/92, e dovendo intendersi tali i delitti elencati nell’art. 51 comma 3 bis e comma 3 quater cp e i delitti facenti capo ad un’associazione per delinquere (art. 416 cp) con esclusione del mero concorso nel reato; l’applicabilità dello speciale regime previsto per i delitti di criminalità organizzata comportava che l’utilizzabilità del captatore anche nei luoghi di cui all’art. 614 cp senza che occorresse che ivi fosse in corso l’attività criminosa.

Il D. Lgs 216/2017, come detto in precedenza, estendeva, seppure con equiparazione non totale, la disciplina prevista per il ricorso alle intercettazioni nei delitti di criminalità organizzata anche ai procedimenti “per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni”.

La successiva legge 3/2019 (cd. Spazzacorrotti) entrata in vigore il 31.1.2019 consentiva l’uso del captatore informatico nei procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali contro la PA nei luoghi indicati dall’art. 614 cp anche in mancanza del fondato motivo di ritenere che ivi fosse in atto l’attività delittuosa, e successivamente il DL. 161/19 (convertito con modifiche dalla L. 7/2020) estendeva il regime del cd. doppio binario ai delitti degli incaricati di pubblico servizio contro la Pubblica Amministrazione.

8.1 Le intercettazioni a mezzo Trojan: limiti di ammissibilità

L’attuale disciplina di ammissibilità del cd. Trojan[135] è ubicata all’interno dei commi 2 e 2 bis dell’art. 266 cpp.

In virtù della novella, al comma 2 dell’art. 266 c.p.p., che disciplina le intercettazioni tra presenti, dopo il primo periodo è stato inserito il sintagma “che può essere eseguita anche mediante inserimento di un captatore informatico su un dispositivo portatile” così consentendosi le intercettazioni mediante il cd. Trojan anche nei procedimenti per i reati comuni (rectius: illeciti tipizzati dall’art. 266 comma 1 cpp).

Si tratta di una rivoluzione copernicana rispetto ai principi declinati dalla citata sentenza Scurato che aveva escluso la possibilità di utilizzo del captatore informatico per l’esecuzione in intercettazioni nei procedimenti per reati comuni, ovverosia quelli previsti dal 1° comma dell’art. 266 c.p.p.

La norma de qua anche per le intercettazioni eseguite mediante captatore informativo prevede il rispetto dell’ulteriore limite di ammissibilità già previsto per le intercettazioni ambientali domiciliari classiche laddove la captazione avvenga nei luoghi indicati dall’art. 614 cp: in tali casi l’operazione sarà consentita solo laddove in detti luoghi si stia svolgendo l’attività criminosa (ed in tale ottica il decreto autorizzativo dovrà indicare i luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, nei quali è consentita l’attivazione del microfono).

Il comma 2 bis dell’art. 266 cpp, praticando una restrizione rispetto ai principi declinati dalle citate Sezioni Unite Scurato,  consente l’uso del captatore informatico su dispositivo elettronico, senza limiti di tempo di luogo, solo qualora si proceda per il delitti di cui all’art. 51 commi 3 bis e 3 quater cpp (e vedremo anche laddove si proceda per i delitti dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni): in tali ipotesi è consentita l’intercettazione in ambito domiciliare, senza il fondato motivo che in detti luoghi si stia svolgendo l’attività delittuosa.

Alla luce del dato testuale, quindi, il Legislatore esclude la possibilità di intercettazioni in ambito domiciliare senza il fondato motivo che in detti luoghi si stia svolgendo l’attività delittuosa, per tutti i reati comunque facenti capo ad una associazione a delinquere semplice ex art. 416 cp che, invece, a detti fini, la sentenza Scurato aveva assimilato ai delitti di cui all’articolo 51 commi 3 bis e 3 quater cpp.

Pertanto oggi ove si proceda per i delitti di cui all’articolo 51 commi 3 bis e 3 quater cpp, lo strumento in analisi sarà utilizzabile anche qualora le comunicazioni avvengano nei luoghi di privata dimora, non essendo richiesta l’indicazione dei luoghi e dei tempi dell’attivazione del microfono poiché, per tali reati la captazione in ambito domiciliare sarebbe comunque consentita indipendentemente dallo svolgimento dell’attività criminosa in ragione del regime derogatorio dell’art. 13 D.L. 152/1991.

Qualora si proceda per i delitti dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione puniti con pena non inferiore a 5 anni di reclusione, l’intercettazione tra presenti con l’utilizzo del captatore informatico è sempre consentita, quindi anche senza il fondato motivo che in detti luoghi si stia svolgendo l’attività delittuosa, previa, però, indicazione delle ragioni che ne giustificano l’utilizzo anche nei luoghi indicati dall’art. 614 cp.

Alla luce dell’attuale normativa l’uso del captatore informatico è previsto:

  1. nei procedimenti relativi ai reati indicati nell’art. 266 comma 1 cpp;in tali ipotesi, qualora le attività tecniche si svolgano nei luoghi indicati all’art. 614 cp, le intercettazioni sono consentite solo se ivi sia in corso l’attività delittuosa. Si consente, quindi, l’utilizzo del captatore informatico con gli ordinari limiti di cui all’art. 614 cp, in precedenza non consentito dalla Sezioni Unite Scurato.
  2. nei procedimenti per i delitti di cui all’art. 51 comma 3 bis e 3 quater cpp; l’utilizzo del captatore informatico, in tali ipotesi, è sempre consentito, anche nei luoghi indicati all’art. 614 cp senza il fondato motivo che in detti luoghi si stia svolgendo l’attività delittuosa. Invero per tali reati la captazione in ambito domiciliare sarebbe comunque consentita indipendentemente dallo svolgimento dell’attività criminosa in forza del regime derogatorio di cui all’art. 13 D. L. 152/1991. Come detto, l’articolato normativo pare escludere tale possibilità applicativa per i reati facenti capo ad una associazione a delinquere semplice ex art. 416 cp che invece, a detti fini, la sentenza Scurato aveva assimilato ai delitti ex art. 51 commi 3 bis e 3 quater cpp; per detti reati[136], quindi, l’utilizzo del captatore può configurarsi secondo le modalità ordinarie, ovvero quelle per i reati comuni.
  3. nei procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio contro la PA (artt. da 314 a 335 cp) per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni; l’utilizzo del captatore è consentito anche nei luoghi ex art. 614 cp, senza il fondato motivo che in detti luoghi si stia svolgendo l’attività delittuosa, previa indicazione delle ragioni che ne giustifichino l’utilizzo anche i detti luoghi.
8.2 L’autorizzazione del Gip nella disciplina prevista per il captatore informatico (art. 267 comma 1 terzo periodo e comma 2 bis cpp).

Il comma 1 dell’art. 267 cpp, per il decreto che autorizza l’intercettazione tra presenti mediante captatore informatico su dispositivo elettronico portatile prevede una disciplina specifica disponendo che il provvedimento autorizzatorio debba indicare “le specifiche ragioni che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini”.

Pertanto nel caso di svolgimento di intercettazioni tra presenti mediante captatore informatico su dispositivo portatile l’atto autorizzativo dovrà sempre (indipendentemente dai delitti per i quali si procede) motivare in relazione alle specifiche ragioni per cui si ritiene necessario, per lo svolgimento delle indagini, scegliere la particolare modalità di intercettazione.

Quanto all’esegesi del sintagma “specifiche ragioni che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini” detta nozione non coincide col presupposto dell’intercettazione fissato dal comma 1, primo periodo, del medesimo art. 267 cpp ovvero che la stessa sia “assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini”.

L’espressione in analisi, per avere significato concreto, deve essere riferita alla particolarità dello strumento, esplicitando le ragioni per cui il risultato investigativo potrà essere raggiunto solo con detto strumento e non con i mezzi tradizionali.

Ancora, ove si proceda per “delitti diversi da quelli di cui all’art. 51 comma 3 bis e 3 quater cp e dai delitti dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio contro la PA puniti con pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni, determinata a norma dell’articolo 4” il decreto autorizzativo dovrà indicare “i luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono”.

Pertanto laddove si svolgano intercettazioni in procedimenti per c.d. reati comuni, ovverosia quelli tipizzati dall’art. 266 comma 1 cpp, e per delitti di criminalità organizzata non rientranti nel perimetro dell’art. 51 comma 3 bis e 3 quater cpp (art. 416 cp) l’autorizzazione dovrà anche indicare luoghi e tempo di attivazione del microfono; tali dati, di contro, non sono richiesti quando si proceda per i delitti cui all’art. 51 comma 3 bis e 3 quater cpp e per i delitti dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio contro la PA puniti con pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni, determinata a norma dell’articolo 4 cpp, per i quali l’uso del captatore informativo, nei luoghi di privata dimora è sempre consentito indipendentemente dal fatto che ivi si stia svolgendo l’attività delittuosa.

Ove si proceda per i delitti dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio contro la PA puniti con pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni, determinata a norma dell’articolo 4 cpp, il decreto autorizzativo dovrà invece indicare le ragioni che giustificano l’utilizzo del captatore informatico nei luoghi ex art. 614 cp (art. 266 comma 2 bis cpp).

L’art. 267 comma 2 bis cpp disciplina la decretazione d’urgenza del PM in caso di utilizzo del captatore informatico prevedendo ulteriori limiti rispetto alla normativa ordinaria di cui al comma 2 della medesima disposizione.

In particolare il decreto d’urgenza è consentito solo ove si proceda per i delitti di cui all’art. 51 commi 3 bis e 3 quater cpp e per i delitti dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio contro la PA puniti con pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni.

Da rilevare che in caso di attivazione della procedura ex abrupto[137] con captatore informatico, il Pm dovrà indicare nel decreto oltre ai presupposti previsti al comma 1 dell’art 267 cpp di cui si è detto, anche le ragioni di urgenza che rendono impossibile attendere il provvedimento del giudice.

Ovviamente il decreto del PM dovrà essere trasmesso immediatamente e comunque non oltre le 24 ore al giudice ai fini della convalida secondo le modalità di cui al comma 2 dell’art 267 cpp, ovvero entro 48 ore dal provvedimento.

In sintesi, con riferimento alle diverse categorie di reati, si indicano i requisiti del decreto autorizzativo alle operazioni di captazione anche mediante trojan.

Ove si proceda per le ipotesi criminose rientranti nel catalogo dell’art. 266 comma 1 cpp, il decreto autorizzativo dovrà indicare:

  • i gravi indizi di reato (art. 267 comma 1 cpp);
  • l’assoluta indispensabilità delle intercettazioni ai fini delle indagini (art. 267 comma 1 cpp);
  • il fondato motivo di ritenere che l’attività criminosa si stia svolgendo nei luoghi indicati all’art. 614 cp; (art. 266 comma 2 cpp)
  • le specifiche ragioni che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini (art. 267 comma 1 terzo periodo cpp) ed i luoghi e il tempo anche indirettamente determinati in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono (art. 267 comma 1 terzo periodo cpp).

In caso di procedimento avente ad oggetto i delitti previsti dall’art. 51 comma 3 bis e 3 quater cpp il provvedimento autorizzativo dovrà indicare:

  • i sufficienti indizi di reato (in applicazione dell’art. 13 D.L. 152/91 conv. in L. 203/91)
  • la necessarietà delle intercettazioni ai fini delle indagini; (art. 13 D.L. 152/91 conv. in L. 203/91);
  • in caso di intercettazione domiciliare: nulla (intercettazioni consentite anche se non vi è motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo attività delittuosa trovando applicazione l’art 13 D.L. 152/91 conv. in L. 203/91);
  • in caso di utilizzo del captatore informatico le specifiche ragioni che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini (art. 267 comma 1 terzo periodo cpp);
  • nel caso di captatore informatico attivato con urgenza da parte del PM le ragioni di urgenza che rendono impossibile attendere il provvedimento del giudice (art. 267 comma 2 bis ultima parte).

Nel caso in cui si proceda per i delitti dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio contro la PA puniti con pena non inferiore nel massimo a 5 anni, l’autorizzazione dovrà indicare:

  • i sufficienti indizi di reato (ex art. 6 D. Lgs 216/2017 trova applicazione l’art. 13 D. L. 152/91 conv. in L. 203/91);
  • la necessarietà delle intercettazioni ai fini delle indagini (ex art. 6 D. Lgs 216/2017 trova applicazione l’art 13 D.L. 152/91 conv. in L. 203/91);
  • in caso di intercettazione domiciliare: nulla (intercettazioni consentite anche se non vi è motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo attività delittuosa applicandosi l’art. 13 D. L. 152/91 conv. in L. 203/91);
  • in caso di utilizzo del captatore informatico le specifiche ragioni che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini (ai sensi dell’art. 267 comma 1 terzo periodo cpp)
  • in caso di intercettazione domiciliare con captatore informatico le specifiche ragioni che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini (art. 267 comma 1 terzo periodo cpp) e l’indicazione delle ragioni che giustificano l’utilizzo dello strumento nei luoghi di cui all’art. 614 cp (art. 266 comma 2 bis cpp);
  • nel caso di captatore informatico attivato con urgenza da parte del PM le ragioni di urgenza che rendono impossibile attendere il provvedimento del giudice (art. 267 comma 2 bis ultima parte).

Laddove il procedimento verta su delitti di criminalità organizzata non ricompresi tra quelli previsti dall’art. 51 comma 3 bis e 3 quater cpp, il decreto autorizzativo dovrà indicare:

  • i sufficienti indizi di reato (trova applicazione l’art. 13 D.L. 152/91 conv. in L. 203/91)
  • la necessarietà delle attività intercettive ai fini delle indagini; (trova applicazione l’art. 13 D.L. 152/91 conv. in L. 203/91);
  • in caso di intercettazione domiciliare con mezzi ordinari: nulla (le intercettazioni sono consentite anche se non vi è motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo attività delittuosa in applicazione dell’art. 13 D. L. 152/91 conv. in L. 203/91);
  • in caso di utilizzo del captatore informatico le specifiche ragioni che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini (art. 267 comma 1 terzo periodo cpp) ed i luoghi e il tempo anche indirettamente determinati in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono (art. 267 comma 1 terzo periodo cpp).
  • in caso di intercettazione domiciliare con captatore informatico le specifiche ragioni che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini (art. 267 comma 1 terzo periodo cpp), il fondato motivo di ritenere che l’attività criminosa si stia svolgendo nei luoghi indicati all’art. 614 cp, nonchè i luoghi e il tempo anche indirettamente determinati in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono (ai sensi dell’art. 267 comma 1 terzo periodo cpp).

9 Il procedimento esecutivo

9.1 La richiesta di autorizzazione

Come noto, in virtù della procedura ordinaria, qualora il Pubblico Ministero[138] nel corso delle investigazioni intenda attivare il mezzo di ricerca della prova in discorso, ai sensi dell’art. 267 comma 1 cpp, dovrà richiedere l’autorizzazione al Giudice[139] per le indagini preliminari.

La richiesta[140] del PM di autorizzazione a disporre le operazioni in commento deve essere motivata sia in relazione ai presupposti di cui all’art. 267 cpp che in merito ai requisiti di cui all’art. 266 cpp.

Il Gip, organo competente a delibare sulla richiesta del Pm, potrà negare[141] l’autorizzazione richiesta ove ritenga mancanti i presupposti richiesti dalla legge o accogliere la richiesta con decreto[142] motivato; l’eventuale incompetenza da parte del Gip emittente l’atto autorizzatorio non pregiudica la legittimità[143] del provvedimento reso.

Nulla dice l’art. 267 cpp circa la forma del provvedimento di rigetto contemplando detta norma solo l’ipotesi di accoglimento; in difetto di specifiche normative il provvedimento di rigetto è da ritenersi a forma libera[144].

A fronte dell’eventuale rigetto da parte del giudice il PM potrà comunque presentare una nuova richiesta di intercettazioni.

Quale eccezione alla indicata regola l’art. 267 commi 2 e 2 bis cpp prevede la decretazione d’urgenza da parte del PM.

9.2 La motivazione dei decreti autorizzativi.

Il Giudice per le indagini preliminari, nel vagliare la richiesta del PM è chiamato a contemperare due distinti interessi costituzionalmente protetti, ovverosia quello tutelato dall’art. 15 Cost. e quello alla prevenzione e repressione dei reati.

Si tratta di un bilanciamento finalizzato ad evitare che nel perseguire l’interesse alla prevenzione e repressione dei reati sia sacrificato in modo sproporzionato l’interesse alla segretezza delle comunicazioni tutelato dall’art. 15 della Carta fondamentale.

Appare chiara allora l’importanza della motivazione del provvedimento autorizzatorio: con la motivazione il giudice dovrà dare atto della sussistenza dei presupposti previsti dalla legge e, quindi, delle esigenze dell’amministrazione della giustizia tali da legittimare il ricorso allo strumento investigativo in analisi; in particolare dovranno risultare il reato oggetto delle indagini, la gravità degli indizi raccolti, l’indispensabilità della captazione ai fini delle indagini e la presenza del fumus committendi delicti per il caso di intercettazione ambientale in luogo domiciliare (art. 266 comma 2 cpp).

Ancora, il decreto autorizzativo dell’intercettazione tra presenti mediante captatore informatico, ex art. 267 comma 1 cpp, dovrà anche indicare le specifiche ragioni che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini, e ove si proceda per delitti diversi da quelli di cui all’art. 51 commi 3 bis e 3 quater cpp e da quelli dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione puniti con pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, il citato provvedimento dovrà indicare i luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono”.

Con riguardo al reato per cui si procede la giurisprudenza[145] ha più volte sottolineato che non è necessaria la specifica indicazione, nel decreto autorizzativo, degli articoli di legge o del titolo di reato ravvisabile: è sufficiente, infatti, che dal contenuto complessivo, implicitamente o per richiamo, emerga che l’intercettazione sia stata consentita per uno dei reati previsti dalla legge.

A questo riguardo è sufficiente evidenziare che in tema di intercettazioni non è presente una disposizione come quella dettata dall’art. 292 comma 2 lett. b) in materia di misure cautelari (ove è prescritta l’indicazione nell’ordinanza delle “norme di legge che si assumono violate”).

Il provvedimento di autorizzazione deve indicare in modo puntuale le circostanze fattuali da cui inferire i gravi – i sufficienti – indizi di reato del reato per il quale si procede.

Il requisito della indispensabilità – o della necessità – delle captazioni ai fini della prosecuzione delle indagini è stato variamente interpretato dalla giurisprudenza: secondo alcune pronunce[146] è sufficiente il riferimento alla struttura del fatto delittuoso mentre altra linea di pensiero[147] ha ritenuto che il presupposto de quo non richieda, a differenza di quello dei gravi indizi di reato, una specifica ed ampia motivazione, bastando a siffatto scopo, che lo stesso sia menzionato nel decreto di autorizzazione e trovi riscontro nel tipo di illecito.

Con specifico riferimento alle intercettazioni ambientali domiciliari, quanto al fondato motivo di ritenere che nei luoghi di cui all’art. 614 cp si stia svolgendo l’attività delittuosa, il Giudice deve indicare gli elementi dai quali si può ragionevolmente supporre che negli stessi sia in corso attività criminosa.

In merito al quantum dell’obbligo motivazionale in passato si è verificato un contrasto giurisprudenziale.

Vi sono state decisioni della Suprema Corte che hanno ritenuto sufficiente una motivazione minima indispensabile[148] sulla base del fatto che le captazioni avvengono normalmente nella fase inziale delle indagini quando gli elementi presenti al fascicolo del PM sono limitati e lo strumento de quo è utilizzato proprio al fine di acquisire detti elementi; ne discende che la motivazione non può che essere coincisa, ridotta agli elementi essenziali che consentano alle parti ed ai successivi giudici di vagliare la legittimità della disposta intercettazione.

Altre pronunce della Cassazione, invece, hanno preteso una motivazione analitica e specifica[149].

La diversa impostazione tra le due indicate linee di pensiero viene in rilievo in merito alla questione giuridica relativa alla possibilità di motivazione per relationem.

La giurisprudenza[150] più rigorosa ha ritenuto non sufficientemente motivato un decreto autorizzativo motivato per relationem, sulla base della richiesta del PM delle informative redatte dalla polizia giudiziaria.

Diversa corrente di pensiero[151], pur ammettendo la possibilità di motivazione per relationem, riteneva indispensabile che nel decreto autorizzativa venissero evidenziate le ragioni per le quali il giudice ritenga di condividere le argomentazioni poste a base della richiesta; in sostanza la motivazione non poteva esaurirsi nel mero richiamo o rinvio all’esposizione delle ragioni contenute nell’istanza.

Altro orientamento[152] ha ritenuto sufficiente la motivazione per relationem,a condizione che l’atto richiamato (richiesta del PM o informative della PG) fosse posto nella disponibilità della parte.

Le Sezioni Unite della Cassazione[153], intervenute a comporre il contrasto, da un lato hanno chiarito che non è possibile fissare una regola precisa in merito al quantum motivazionale (dovendosi dedurre dalla motivazione l’iter cognitivo e valutativo seguito dal Giudicante), e dall’altro hanno fissato[154] il principio secondo cui è consentita la motivazione per relationem, la quale non può risolversi nel mero riferimento alle informative di polizia, purché sussistano tre specifiche condizioni.

Si richiede, nello specifico, che:

–  l’atto oggetto di riferimento, recettizio o mediante semplice rinvio, sia un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all’esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione;

– il provvedimento sia idoneo a dimostrare che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni dell’atto di riferimento, meditandole e ritenendole coerenti con la sua decisione;

– l’atto richiamato, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia conosciuto dall’interessato o almeno ostensibile, quanto meno al momento in cui si renda attuale l’esercizio della facoltà di valutazione, di critica ed eventualmente, di gravame e, conseguentemente, di controllo dell’organo della valutazione o dell’impugnazione.

Il rispetto dei superiori criteri rende legittima la motivazione per relationem.

Tale principio generale può ovviamente essere riferito a qualunque atto del procedimento penale, compresa la sentenza, e pertanto non vi sono ragioni, secondo la Suprema Corte, per escluderne l’applicazione anche ai provvedimenti captativi di cui agli artt. 266 ss cpp.

La citata linea interpretativa è stata costantemente[155] ribadita in giurisprudenza.

La motivazione è ovviamente richiesta anche per i decreti con i quali il Gip disponga la proroga delle intercettazioni già autorizzate, ma essa può essere ispirata anche a criteri di minore specificità rispetto alle motivazioni del decreto di autorizzazione, potendosi risolvere nel dare atto della constatata plausibilità delle ragioni esposte nella richiesta del pubblico ministero atteso che l’adeguatezza della motivazione di un provvedimento reso al di fuori di una contrapposizione dialettica di posizioni contrastanti, non può che essere valutata in relazione alla fondatezza della tesi della parte istante[156].

9.3 I vizi della motivazione.

Cartina di tornasole dell’importanza della motivazione del decreto autorizzativo emerge dalla previsione di sanzioni per il caso di mancato adempimento all’obbligo motivazionale.

In base al combinato disposto dell’art. 267[157] comma 1 cpp e dell’art. 125 comma 3[158] cpp, la mancata motivazione del decreto dovrebbe comportare la nullità dell’atto in analisi.

Tuttavia l’art. 271 comma 1 cpp, norma specificamente dettata in tema di intercettazioni, prevede la sanzione della inutilizzabilità in caso di inosservanza delle disposizioni previste dagli artt. 267 e 268 commi 1 e 3 cpp; pertanto i risultati delle intercettazioni eseguite sulla base di un decreto privo di motivazione sono inutilizzabili[159].

Ciò posto, la verifica dell’adeguatezza motivazionale del decreto autorizzativo è importante in quanto riverbera effetti sull’utilizzabilità degli esiti delle captazioni effettuate sulla base del citato atto.

Preliminarmente in più occasioni[160] le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno innanzitutto rilevato l’inutilizzabilità delle prove incostituzionali in quanto acquisite in violazione dei diritti fondamentali.

Con specifico riguardo ai vizi della motivazione Cassazione a Sezioni Unite[161] ha evidenziato che il vizio di motivazione rilevante sia per i decreti che autorizzano, sia per quelli che prorogano, o che convalidano le operazioni di intercettazioni, può presentarsi sotto due profili.

Da un lato vi è la vera e propria mancanza di motivazione, da ravvisarsi quando la motivazione sia mancante in senso fisico-testuale, nonché in caso di mancanza in senso logico ovvero laddove la motivazione sussista ma sia apparente, semplicemente ripetitiva della formula normativa, del tutto incongrua rispetto al provvedimento che dovrebbe giustificare; si tratta dei casi in cui non rimanga dimostrato[162], non importa se attraverso il rinvio, recettizio o no ad altro atto del procedimento, che il giudice ha valutato la sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge (esistenza di gravi o sufficienti indizi di reato; indispensabilità o necessità del ricorso allo specifico mezzo di ricerca della prova).

L’ulteriore profilo sotto cui può presentarsi il vizio di motivazione è quello del difetto di motivazione che sovviene quando l’iter giustificativo del provvedimento sia incompleto, insufficiente, non perfettamente adeguato, affetto da vizi che non negano né compromettono la giustificazione ma la rendono non puntuale.

Tale distinzione risulta particolarmente significativa sotto il profilo delle conseguenze che ne discendono sul piano procedurale.

Nell’ipotesi di mancanza della motivazione, secondo il consolidato orientamento del Supremo Consesso di Legittimità, i risultati delle operazioni captative non possono essere utilizzati: se non esiste una motivazione la sanzione che ne deriva consiste nella inutilizzabilità degli esiti delle intercettazioni.

Diversamente, nelle ipotesi di difetto di motivazione non scatta necessariamente la sanzione della inutilizzabilità, essendo ammesso il potere di emenda da parte del giudice cui la doglianza venga prospettata, sia esso il giudice del merito che deve utilizzare i risultati delle intercettazioni, sia esso quello dell’impugnazione nella fase di merito o in quella di legittimità. Da ultimo, alla luce del potere giudiziale di integrazione della motivazione inadeguata, tale vizio non può essere rilevato d’ufficio[163].

Tutte le sentenze più recenti della Suprema Corte continuano a seguire la distinzione citata pervenendo alle relative differenti conseguenze[164]: è quindi consolidato l’orientamento secondo cui il difetto di motivazione non comporta l’inutilizzabilità prevista dall’art. 271 cpp qualora sia sanato da parte del giudice di merito deputato a fare uso dei risultati delle captazioni.

Per dovere di completezza si evidenzia, in merito ai rapporti tra nullità ed inutilizzabilità in subiecta materia, che con la citata sentenza cd. Primavera[165] la Cassazione ha escluso che possa farsi applicazione della sanzione della nullità generale, “perché lo stesso vizio non può generale due coeve e concorrenti sanzioni processuali: se non esiste una (valida) motivazione, la conseguenza è l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni; se esiste, ancorché viziata nel senso sopra specificato, la conseguenza è l’irrilevanza, salva l’emenda. Infatti, la nullità attiene sempre e soltanto all’inosservanza di alcune formalità di assunzione della prova, mentre l’inutilizzabilità, presupponendo la presenza di una prova “vietata” per la sua intrinseca illegittimità oggettiva, ovvero per effetto del procedimento acquisitivo, incide sulla legittimità dell’acquisizione, la quale resta al di fuori del sistema processuale. Ma quando l’inosservanza di una data disposizione, comunque qualificabile, produce, per esplicita volontà della legge, l’inutilizzabilità, allora è evidente come il sistema delle nullità sia superato perché l’inutilizzabilità opera, e va dichiarata, in ogni stato e grado del procedimento mentre la nullità opera in limitati ambiti di rilevabilità e di opponibilità”.

9.4 La rilevabilità del vizio di motivazione.

Nel nostro sistema di diritto processuale penale l’art. 191 cpp prevede l’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione dei divieti (inutilizzabilità generale) e sancisce che detta patologia può essere rilevata, anche di ufficio, in ogni stato e grado del procedimento.

In tema di intercettazioni l’art. 271 cpp pur prevedendo una forma di inutilizzabilità speciale, nulla dispone in merito al regime di rilevabilità.

In merito alla quaestio iuris della rilevabilità del vizio di motivazione che dà luogo ad inutilizzabilità delle intercettazioni, la nota sentenza Monteleone delle Sezioni Unite[166] aveva già segnato una svolta rispetto all’orientamento secondo cui detta patologia era rilevante solamente in tema di prova ed in sede di giudizio e non, ad esempio, nelle procedure incidentali per il riesame o l’appello di provvedimenti de libertate[167].

Le sopra citate Sezioni Unite hanno evidenziato l’arbitrarietà di tale opzione interpretativa sul presupposto che l’inutilizzabilità colpisce i risultati dell’intercettazione che possono rivestire la natura di prova, tipica della fase del giudizio, o quella di indizio nell’accezione dell’art. 273 cpp, nella fase delle indagini preliminari ai fini della adozione di misure cautelari; inoltre la circostanza che l’art. 271 comma 3 c.p.p prevede la distruzione delle intercettazioni colpite da inutilizzabilità (ovviamente salvo non costituiscano corpo di reato) induce ad escludere che il materiale di indagine destinato a tale esito possa essere, prima, sfruttato sia pure ai fini cautelari.

Il principio della rilevabilità dell’inutilizzabilità in ogni stato e grado del processo è stato riaffermato in successive pronunce delle Sezioni Unite[168] e, da ultimo, nella nota sentenza Tammaro[169] in cui la Suprema Corte ha sottolineato come tale regime competa ai casi di inutilizzabilità c.d. “patologica” inerente cioè agli atti probatori assunti contra legem, la cui utilizzazione è vietata in modo assoluto.

La questione, in ogni caso, è ormai normativamente superata e risolta a seguito dell’entrata in vigore della legge 1° marzo 2001, n. 63 che, inserendo il comma 1-bis nell’art. 273 cpp ha previsto che la sanzione della inutilizzabilità di cui all’art. 271 comma 1 colpisce anche gli “indizi” di colpevolezza destinati ad essere valorizzati ai fini della adozione di una misura cautelare, nella fase, cioè, delle indagini preliminari.

In forza della norma citata ai fini dell’utilizzazione cautelare dei risultati di captazioni è quindi necessaria un’attenta verifica circa l’avvenuta esecuzione delle stesse entro i casi consentiti dalla legge ed il rispetto delle disposizioni di cui agli artt. 267 e 268 commi 1 e 3 cpp: il giudice potrà basare una misura cautelare sulle intercettazioni solo previo accertamento della loro utilizzabilità nei termini di cui all’art. 271 cpp.

Emerge ormai chiaramente, inoltre, la deducibilità di detto vizio in sede cautelare (e ovviamente la necessità di trasmissione nella sede cautelare dei verbali concernenti le registrazioni).

L’evidenziata differenziazione tra le ipotesi di mancanza totale di motivazione dei decreti e le ipotesi di motivazione insufficiente produce ulteriori effetti in tema di deducibilità dei vizi nel giudizio di Cassazione.

Si ritiene che il difetto di motivazione dei decreti di autorizzazione alle intercettazioni (in particolare nel caso costituito da motivazione per relationem) non possa essere dedotto per la prima volta in sede di legittimità.

Infatti, da un lato, si tratta di vizio non inscrivibile nelle ipotesi tassativamente previste dall’art. 271 cpp e per le quali soltanto è comminata la sanzione dell’inutilizzabilità e la conseguente rilevabilità d’ufficio e dall’altro, la circostanza che detta censura non sia stata dedotta in sede di riesame/merito comporta l’inammissibilità della stessa in sede di legittimità.

Ne deriva che, come affermato dalla Suprema Corte[170], il vizio deducibile per la prima volta dinanzi alla Cassazione è solo quello della mancanza della motivazione del decreto che determina l’inutilizzabilità degli esiti intercettivi.

In tal proposito si è osservato che qualora il vizio venga eccepito in sede di legittimità, dovendo valutare un error in procedendo, il Giudice dovrà disporre del decreto oggetto di censura, eventualmente prodotto dalla parte a corredo di una doglianza, che deve comunque indicarlo con specificità pena la genericità del motivo e la inammissibilità del ricorso.

9.4.1 Intercettazioni inutilizzabili e notitia criminis

Gli esiti delle intercettazioni basate su decreti non motivati o comunque inutilizzabili seppure non possano rivestire portata probatoria (salvo non si tratti di intercettazione corpo di reato) possono essere comunque utili ai fini investigativi, potendo costituire valida notitia criminis ai fini dell’espletamento di nuove attività di indagine.

Pertanto in forza delle intercettazioni – inutilizzabili ex art. 271 cpp nel procedimento originario – ma valide come notizia di reato sarà ben possibile disporre nuove intercettazioni, motivando la sussistenza degli indizi alla luce del contenuto delle intercettazioni inutilizzabili.

A questo riguardo giova evidenziare che in materia di inutilizzabilità non trova applicazione il principio di cui all’art. 185 cpp secondo il quale la nullità dell’atto rende invalidi gli atti consecutivi che da quello dichiarato nullo dipendono[171].

Da ultimo l’inutilizzabilità dei mezzi probatori illegittimi è posta a presidio del momento giurisdizionale, da intendersi non solo come fase dibattimentale, ma come ogni fase o sede nella quale il giudice assume le proprie decisioni e, pertanto, le informazioni assunte attraverso intercettazioni inutilizzabili per il giudice, possono essere utilizzate legittimamente dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria per il prosieguo delle indagini[172].

9.5 I decreti del PM
9.5.1 Il decreto in sede di esecuzione del decreto autorizzativo del GIP.

Come noto la procedura ordinaria di attivazione del mezzo di ricerca della prova in analisi prevede che il Pm dopo avere ottenuto l’autorizzazione del Gip debba disporre le intercettazioni, ovverosia emettere un decreto esecutivo.

In merito a tale atto del Pm l’art. 267 comma 3 cpp sancisce che il citato decreto debba indicate le modalità e la durata delle operazioni.

In forza della medesima disposizione la durata delle operazioni di captazione non può superare i 15[173] giorni, prorogabili dal giudice[174] su richiesta dal Pm con decreto motivato, per successivi periodi di 15 giorni.

La previsione di un termine di durata è finalizzata ad assicurare il controllo giurisdizionale sul contenimento nei limiti temporali necessari l’esecuzione di un’attività di indagini invasiva ed incidente sul diritto alla riservatezza delle comunicazioni.

In caso di mancata indicazione della durata delle operazioni nel decreto emesso dal PM sopperisce l’indicazione legislativa del termine massimo di 15 giorni.

Il termine di cui sopra, tuttavia, non è invalicabile: ove così fosse potrebbero essere pregiudicate le attività investigative e pertanto è previsto l’istituto della proroga così da consentire l’espletamento delle ulteriori e necessarie investigazioni tramite il mezzo tecnico in analisi laddove permangano i presupposti di cui al comma 1 dello stesso art. 267 cpp.

Con riguardo alla durata delle intercettazioni in caso di richiesta la proroga, la giurisprudenza[175] ha sostenuto che debba essere il giudice a indicare specificamente l’ulteriore periodo di protrazione delle operazioni, trattandosi del soggetto cui il Legislatore attribuisce la valutazione della necessità di comprimere, oltre il termine ordinatorio, la sfera di riservatezza delle comunicazioni.

In merito alla decorrenza del termine di durata delle intercettazioni è pacifico[176] che bisogna avere riguardo non alla data del provvedimento che le autorizza ma al giorno dell’inizio effettivo delle operazioni.

Dal punto di vista temporale, con specifico riferimento al momento iniziale dell’attività d’intercettazione assume rilievo oltre che al giorno di inizio delle operazioni, anche lo specifico orario[177] in cui è stata eseguita la prima captazione (ovviamente i dati emergono dal verbale di inizio delle operazioni).

E’ bene chiarire che la data del decreto esecutivo e quella di inizio effettivo delle captazioni possono non coincidere, potendo il PM per esigenze investigative procrastinare l’inizio delle operazioni rispetto alla data del decreto senza dover motivare tale decisione[178].

Ancora, il periodo di durata temporale fissato nel decreto del Pm deve essere rispettato in positivo ma non per forza in negativo, potendo il PM decidere di interrompere le captazioni prima del decorso del termine inizialmente fissato, senza necessità dell’intervento del giudice per le indagini preliminari.

Ne deriva che il dato rilevante è il rispetto[179] dell’arco di tempo, normalmente espresso in giorni, entro il quale le operazioni si debbono svolgere.

La richiesta del PM di proroga deve pervenire al Gip prima della scadenza del termine fissato al fine di assicurare la continuità delle operazioni; in difetto le intercettazioni effettuate tra il momento ultimo indicato nel decreto che le dispone e quello in cui è adottato il provvedimento di proroga non potranno essere utilizzate[180].

La violazione delle disposizioni di cui all’art. 267 cpp determina, ex art. 271 cpp, la inutilizzabilità dei risultati delle attività tecniche.

9.5.2 Il decreto del PM sulle modalità di esecuzione delle intercettazioni (art. 268 comma 3 cpp) e la sua motivazione

Al fine di comprendere adeguatamente le disposizioni di cui all’art. 268 comma 3 cpp giova premettere che la Corte Costituzionale[181] nel 1973 ha osservato che per assicurare il rispetto della disposizione dell’art. 15 comma 2 Cost. non è sufficiente il mero adempimento dell’obbligo di motivazione, bensì è necessario il rispetto di ulteriori garanzie di ordine giuridico e tecnico.

Sotto quest’ultimo angola visuale è stata sottolineata l’esigenza di predisporre i servizi necessari affinché l’Autorità Giudiziaria possa controllare, al fine di evitare fenomeni di manipolazione della prova, che siano eseguite solo e soltanto le intercettazioni oggetto di previa autorizzazione ed entro i limiti della stessa.

Appare chiara, allora, la disposizione di cui al comma 3 dell’art. 268 cpp secondo cui le operazioni di intercettazione “possono essere compiute esclusivamente per mezzo degli impianti installati nella procura della Repubblica”, la cui ratio è quella di assicurare, per le finalità evidenziate in precedenza, una diretta sorveglianza del PM[182] sullo svolgimento dell’attività captativa[183].

E tuttavia il codice di rito ammette una deroga alla regola generale sopra citata: lo stesso terzo comma dell’art. 268 cpp dispone che quando gli impianti della Procura “risultano insufficienti o inidonei ed esistono eccezionali ragioni di urgenza, il Pubblico Ministero può disporre, con provvedimento motivato, il compimento delle operazioni mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria”.

Tutto ciò premesso, è possibile procedere all’analisi delle delicate questioni interpretative poste dall’art. 268 comma 3 cpp.

Uno dei temi più dibattuti[184] nella giurisprudenza di legittimità concerne il perimetro della motivazione del decreto con il quale il PM è tenuto ad autorizzare, a norma dell’art. 268 comma 3 cpp, il compimento delle operazioni di intercettazione mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria, quando si debba derogare all’obbligo, previsto come regola generale, di effettuarle con impianti installati presso la Procura.

Precisamente, posto che il PM può disporre con proprio decreto il compimento delle operazioni mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria solo qualora ricorrano congiuntamente i due presupposti dell’insufficienza ed inidoneità degli impianti interni alla Procura e della sussistenza delle “eccezionali ragioni di urgenza”, le questioni afferiscono al quantum di motivazione in rapporto all’uno e all’altro di questi requisiti.

In via preliminare, posto che è ammessa la motivazione implicita o indiretta, risulta pacificamente sanzionato solo il caso in in cui il Pm si sia limitato ad una affermazione generica ed apodittica circa l’esistenza delle predette condizioni, soprattutto quando dagli atti non sia desumibile in alcun modo una situazione di necessità dovuta a cadenze processuali ravvicinate e concitate[185].

Con specifico riferimento al significato del sintagma “eccezionali ragionidi urgenza” un filone giurisprudenziale risalente riteneva che i “casi di urgenza” di cui all’art. 267 comma 2 cpp comprendessero di regola le “eccezionali ragioni di urgenza” legittimanti l’esecuzione delle operazioni mediante impianti esterni alla Procura.

Tale orientamento non è stato condiviso dalle Sezioni Unite[186] della Cassazione secondo cui “eccezionali ragioni d’urgenza” ricorrono quando vi è l’assoluta necessità di effettuare immediatamente le operazioni di intercettazione per raccogliere elementi di prova che andrebbero altrimenti persi. In sostanza le citate ragioni di urgenza devono essere eccezionali e quindi devono risultare caratterizzate da connotati più stringenti e pregnanti rispetto a quelli riferibili ai casi di urgenza di cui al secondo comma dell’art. 267 cpp.

Quanto al grado di specificità della motivazione del provvedimento in merito al requisito in esame si sono susseguiti svariati orientamenti.

Un’opzione ermeneutica[187] sosteneva la validità della motivazione del decreto ex art. 268 comma 3 cpp riferita, per relationem, al decreto del Pm autorizzativo di intercettazioni urgenti ai sensi dell’art. 267 comma 2 cpp, senza attendere il provvedimento del giudice, trattandosi di indagini relative a reato per il quale risultavano in corso pedinamenti e accertamenti incalzanti in continua evoluzione.

Altra corrente di pensiero[188] ha ammesso il rinvio per relationem al decreto di autorizzazione del Gip a “condizione che da tale ultimo provvedimento emerga la esistenza delle eccezionali ragioni di urgenza occorrenti per legittimare il decreto del PM”[189].

In tal senso si erano espresse già le Sezioni Unite[190] nella nota sentenza Policastro ritenendo, in linea con i criteri già espressi, sempre nella massima composizione, nella sentenza Primavera, che fosse idoneo ad integrare la motivazione del decreto del PM il rinvio al passo del decreto autorizzativo del Gip che affermava la esistenza in atto dell’attività organizzativa dei reati fine della associazione.

Le Sezioni Unite[191] del 2003 pronunciatesi in materia, ponendosi sulla scia dei due citati precedenti sempre nella medesima composizione, ha confermato la legittimità della motivazione per relationem effettuata mediante la formula “…visto il decreto del Gip” a condizione che nel decreto del giudice cui si sia fatto rinvio, si possano rinvenire gli elementi atti ad argomentare il requisito – non indispensabile ai fini della emanazione del decreto autorizzativo del Gip ed indispensabile invece ai fini della autorizzazione del PM all’uso di impianti esterni – delle eccezionali ragioni di urgenza.

La validità di tale tesi è stata ribadita anche nell’anno 2005 dalle citate Sezioni Unite con la pronuncia Campennì[192].

Con riferimento alla motivazione sul requisito della “inidoneità o insufficienza degli impianti” installati in Procura, prima del contributo ermeneutico delle Sezioni Unite con la sentenza Gatto[193]  vi erano due orientamenti contrapposti.

In taluni casi[194] la Corte di legittimità aveva ritenuto che l’obbligo di motivazione in ordine al presupposto de quo fosse correttamente assolto mediante il semplice riferimento all’insufficienza o inidoneità degli impianti presso l’Ufficio giudiziario, non ritenendo esigibile un’indicazione puntuale delle ragioni circa tale carenza.

Per altro filone[195] interpretativo la semplice affermazione dell’insufficienza o inidoneità degli impianti presenti in Procura costituiva una clausola di stile, mera ripetizione del dettato normativo per cui ai fini del corretto adempimento all’obbligo motivazionale de quo si reputava necessario un preciso riferimento alle cause e alla durata di queste situazioni[196].

Le problematiche connesse ai requisiti minimi necessari per poter considerare correttamente adempiuto l’obbligo di motivazione sui requisiti in commento è stata dipanata dalle citate Sezioni Unite “Gatto”

Nell’occasione la Cassazione, ribadendo quando affermato nella sentenza “Primavera”, ha osservato che ciò che rileva è la possibilità di dedurre dalla motivazione fornita, l’iter cognitivo e valutativo seguito dal giudice, nonché di conoscere i risultati che devono essere conformi alle prescrizioni di lege.

Pertanto ai fini del corretto adempimento all’obbligo di motivazione de quo il decreto del PM non può essere meramente assertivo in merito all’insufficienza o l’inidoneità degli impianti, dovendo piuttosto, in ossequio ai principi generali in tema di motivazione, individuare ed esprimere in modo puntuale le ragioni specifiche di tale insufficienza o inidoneità, sia pure tramite una motivazione sintetica.

A questo riguardo, infatti, l’oggetto della motivazione è costituito proprio dall’insufficienza e dall’inidoneità degli impianti per cui il PM è tenuto ad esporre le ragioni in forza delle quali ritiene sussistere una di queste situazioni.

Alla luce dei superiori principi il citato onere motivazionale è stato ritenuto assolto anche in mancanza di indicazione delle cause che hanno dato origine alla indisponibilità degli impianti, ma in presenza della affermazione che “le linee presso la Procura erano indisponibili”, trattandosi di formula non ripetitiva della norma di legge ma indicativa di un’ipotesi specifica di insufficienza di impianti che offre al Giudice ed alle parti uno strumento di controllo circa la correttezza dell’operato del PM.

Sul medesimo aspetto sono ulteriormente intervenute le Sezioni Unite della Cassazione[197] precisando, con interpretazione che ha trovato conferma nelle successive pronunce[198] a sezioni semplici, che il requisito in esame attiene non solo all’aspetto tecnico-strutturale – ossia alle condizioni materiali degli impianti – ma anche a quello funzionale, afferendo anche al rapporto intercorrente tra le caratteristiche delle intercettazioni nel caso concreto e le finalità perseguite con le stesse.

In sostanza appare ben possibile che gli impianti della Procura siano inidonei o insufficienti in ragione delle concrete caratteristiche dell’indagine nel cui ambito l’attività di captazione viene espletata: ne deriva che il requisito in parola deve essere valutato non in astratto, ma con riguardo alle concreteed obiettive caratteristiche dell’indagine nel cui contesto si inseriscono le operazioni di intercettazione.  

Il principio consente, pertanto, il ricorso ad impianti della polizia giudiziaria quando l’indagine richieda il coordinamento immediato di molti investigatori sparsi sul territorio, e dunque l’uso contestuale di numerose linee telefoniche e apparecchiature radio, oppure il sollecito raffronto tra gli esiti dell’intercettazione e l’oggetto di riprese televisive automatiche trasmesse ad impianti esistenti presso strutture di polizia giudiziaria[199].

 Per quanto concerne l’esecuzione dei decreti di proroga delle intercettazioni emessi dal Gip, se da un lato la legge non prevede un ulteriore decreto esecutivo del Pm, dall’altro è consolidato  principio giurisprudenziale quello per cui “il pubblico ministero non è tenuto ad adottare un ulteriore decreto esecutivo che si limiti a confermare anche per le operazioni prorogate quanto già precedentemente disposto in merito alle modalità delle intercettazioni e in particolare dell’impiego dell’apparato alternativo” [200],  

L’assunto è stato bene esplicitato da una ulteriore pronuncia[201] secondo cui “I decreti di proroga delle intercettazioni di comunicazioni o conversazioni telefoniche (art. 267, comma terzo, cpp), sono provvedimenti preordinati solo a differire nel tempo la durata delle intercettazioni in corso, mentre le modalità esecutive delle captazioni debbono rimanere quelle originarie; di conseguenza non è necessario riesporre le ragioni di indisponibilità della strumentazione esistente presso gli uffici della Procura che hanno legittimato il ricorso ad impianti esterni, ove non risulti in alcun modo nè sia dedotta una sopravvenuta disponibilità della strumentazione in uso alla Procura”.

Con riferimento alla possibilità di adozione o integrazione ex post della motivazione del decreto di cui all’art. 268 comma 3 c.p.p. le Sezioni Unite[202] della Corte di Cassazione nel dirimere un contrasto giurisprudenziale, hanno chiarito che in forza della citata norma il ricorso ad impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria è ammesso solamente se sussistono i due requisiti ivi previsti e previa l’adozione, da parte del PM, di un apposito decreto con cui il requirente dia conto dell’intervenuto accertamento della presenza dei presupposti legittimanti la deroga alla regola generale, dimostrando di avere correttamente esercitato il potere attribuitogli anche nel rispetto delle garanzie di tipo tecnico previste dalla legge.

Ciò posto, solo in presenza della motivazione, in tal senso condizione indefettibile, il decreto de quo potrà legittimare l’esecuzione delle operazioni captative mediante le eccezionali modalità de quibus; pertanto la motivazione deve essere necessariamente soddisfatta prima che abbiano inizio le attività di intercettazione.

In definitiva il provvedimento motivato di cui all’art. 268 comma 3 cpp costituisce presupposto legittimante lo svolgimento della successiva operazione intercettiva mediante gli strumenti operativi in esame e, come tale, non può che precederla: l’esecuzione della seconda è legittima in quanto sia stato adottato ritualmente il primo.

Corollario di tale principio è che i risultati delle captazioni eseguite mediante impianti esterni, senza l’emissione – prima dell’avvio delle stesse – del necessario decreto motivato, sono inutilizzabili ex art. 271 comma 1 cpp[203].

Ciò posto, l’eventuale integrazione ex post da parte del PM, del decreto che dispone l’utilizzo di apparecchiature esterne, può ritenersi ammissibile solo qualora intervenga prima dell’inizio dell’attività di intercettazione.

Diversamente opinando, il controllo circa l’effettiva presenza dei presupposti di legge non avrebbe più carattere preventivo ma successivo (e sarebbe manifesto il contrasto con l’art. 268 comma 3 cpp e con l’art. 15 della Costituzione che richiedono, invece, che la suddetta verifica e la relativa motivazione intervengano prima dell’intercettazione, in modo da legittimarla).

Da ultimo, dalla lettura della citata sentenza a Sezioni Unite emerge che l’eventuale mancanza o carenza della motivazione del provvedimento del Pm non può essere sanata dal Giudice, non potendo quest’ultimo intervenire in una sfera di discrezionalità deliberativa e determinativa riservata al primo.

I medesimi principi sono stati poi espressi dalla successiva pronuncia a  Sezioni Unite[204] “Aguneche” che nel ribadire l’importanza della motivazione in merito alle ragioni giustificative dell’utilizzo degli impianti esterni alla Procura, hanno evidenziato che il decreto in esame può essere integrato ex post solo prima dell’inizio dell’attività intercettiva con valutazione e facoltà che compete esclusivamente al Pm e non anche al Giudice.

10. La procedura d’urgenza (art. 267 commi 2 e 3 cpp).

Come noto, il secondo comma dell’art 267 c.p.p. codifica una deroga alla disciplina “ordinaria” attribuendo al PM, in presenza dei presupposti previsti dalla legge, il potere di disporre direttamente l’intercettazione.

Nello specifico il Pubblico Ministero può adottare autonomamente il decreto di intercettazione, così limitando il diritto costituzionale alla segretezza delle comunicazioni, “nei casi di urgenza, quando vi è fondato motivo di ritenere che dal ritardo possa derivare grave pregiudizio alle indagini”.

Ovviamente, ai fini dell’attivazione d’urgenza delle operazioni intercettive, devono sussistere i presupposti richiesti in via generale dal primo comma dell’art. 267 cpp e dai primi due commi dell’art. 266 cpp.

La procedura ex abrupto per l’attivazione di intercettazioni tra presenti mediante inserimento del captatore informatico è disciplinata dal comma 2 bis dell’art. 267 cpp che prevede la possibilità di ricorrere alla procedura d’urgenza soltanto nei procedimenti per i delitti di cui all’art. 51 comma 3 bis e 3 quater cpp e per i delitti dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio contro la PA puniti con pena della reclusione non inferiore nel massimo ad anni cinque.

In merito alla perimetrazione della situazione di urgenza secondo i giudici di legittimità[205] le ragioni che integrano in concreto tale situazione sono processualmente irrilevanti: con riferimento al requisito de quo il giudice non deve apprezzare la ragione per la quale esso si è determinato ma la sua effettiva sussistenza; in sostanza ciò che rileva è l’effettiva necessità di procedere immediatamente alla captazione potendo ogni ulteriore ritardo compromettere le indagini.

Ne deriva, ad esempio, che il PM potrà attivare la procedura de qua eventualmente per porre rimedio alla omessa richiesta di proroga, entro il termine di legge, delle intercettazioni precedentemente autorizzate secondo la procedura ordinaria: ove l’urgenza scaturisca dalla colpevole inerzia del magistrato tale dato non inciderà sull’utilizzabilità[206] delle intercettazioni disposte in via d’urgenza.

In merito allo spazio temporale cui bisogna avere riguardo per valutare l’effettiva sussistenza dell’urgenza nel caso concreto la Cassazione[207] ha chiarito che l’arco cronologico con riferimento al quale va valutata l’eventualità di un grave pregiudizio alle indagini si identifica con lo stesso lasso di tempo riservato al giudice per la convalida del decreto dell’organo requirente.

Trattandosi di atto limitativo del diritto costituzionale alla segretezza delle comunicazioni autonomamente adottato dal Pm, il decreto d’urgenza deve essere trasmesso immediatamente e comunque non oltre le 24 ore al Gip che assicura un controllo tempestivo seppure x post, e che entro 48 ore[208] dal provvedimento decide sulla convalida con decreto motivato.

Le questioni di inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni disposte con decreto emesso dal PM in via di urgenza si originano dal richiamo all’art. 267 c.p.p. presente nell’art 271 c.p.p.

Infatti l’art. 271 cpp prevede che la detta sanzione processuale trovi applicazione se non sono osservate, tra le altre, le disposizioni previste dall’art. 267 cpp, comprensive di quelle che disciplinano, per l’appunto, i poteri in materia del PM.

La giurisprudenza ha, tuttavia, nel corso del tempo, apportato temperamenti all’apparente ampiezza del rinvio consolidando il principio per cui all’eventuale mancata specificazione, nel decreto del P.M. emesso in via di urgenza, della durata delle operazioni a norma dell’art. 267, comma 3, cpp, sopperisce l’indicazione legislativa del termine massimo di quindici giorniivi previsto, sicché non si determina l’inutilizzabilità dei relativi risultati, che l’art. 271 stesso codice ricollega alla violazione dell’art. 267, da ritenere configurabile solo nel caso in cui sia stato superato quel termine massimo.

Ancora sempre la Cassazione ha chiarito che il termine per la trasmissione al giudice della convalida del decreto d’urgenza del PM presenta carattere meramente ordinatorio, per cui la sanzione di inutilizzabilità delle risultanze acquisite trova applicazione solo nel caso in cui la convalida del giudice non intervenga entro quarantotto ore dall’adozione del decreto in questione[209].

Da evidenziare che la norma in analisi nel disporre che in caso di mancata convalida del decreto del Pm nel termine stabilito l’intercettazione non può essere proseguita e i risultati di essa non possono essere utilizzati ribadisce una sanzione già prevista dall’art. 271 cpp. in forza del rinvio di cui si è detto in precedenza.

Posto che la sanzione dell’inutilizzabilità delle intercettazioni disposte in via d’urgenza è collegata solo alla mancata convalida è principio giurisprudenziale ormai consolidato[210] quello secondo cui intervenuto il decreto di convalida resta sanato ogni vizio formale del provvedimento del Pm ivi compreso quello relativo alla mancanza dell’urgenza.

Ne deriva che il decreto di convalida del Gip assorbe[211] integralmente il provvedimento urgente del PM rendendo utilizzabili i risultati delle operazioni e precludendo ogni questione sull’originaria sussistenza dell’urgenza; tale precipitato emerge osservando[212] che la valutazione circa la sussistenza del requisito de quo è rimessa alla discrezionalità dell’organo procedente.

Ne deriva che in caso di convalida (e pertanto di verifica positiva del Gip circa l’effettiva sussistenza nel caso concreto di tale condizione), secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, ogni questione circa l’inutilizzabilità di tali intercettazioni, per difetto dell’urgenza, risulterebbe improponibile[213].

Questione particolare è quella relativa al caso in cui il decreto di convalida del Gip intervenga fuori termine, ovvero in momento temporale successivo a quello fissato dalla legge.

A questo riguardo per il secondo comma dell’art. 267 cpp l’inosservanza del termine legale di convalida (rectius: la convalida intervenuta dopo la scadenza del termine legislativamente previsto) determina l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni urgenti.

Ciò posto, secondo la Cassazione[214] la convalida tardiva è equiparata alla mancata convalida ma può[215] assurgere a nuova autorizzazione qualora ne sussistano i requisiti di forma e sostanza.

Per l’ipotesi della mancata convalida, posto che il decreto del PM contiene l’indicazione dei presupposti della richiesta ordinaria e dunque è atto idoneo a manifestare la volontà del requirente a che il mezzo di ricerca della prova venga comunque adottato dal giudice per il prosieguo delle indagini, la giurisprudenza ha sottolineato non vi è alcuna sanzione processuale volta a precludere la possibilità di riconoscere al decreto adottato dal Pm ex art. 267 comma 2 cpp anche “la natura di richiesta autonoma a disporre per il prosieguo le operazioni, laddove il Gip non ritenga sussistenti le ragioni di urgenza e dunque non proceda alla convalida[216].

Ad ogni buon conto ove il Gip neghi la convalida non sussistono rimedi esperibili da parte del PM che sarà quindi tenuto a reiterare la richiesta intercettiva.

11. La nuova procedura di spoglio delle intercettazioni: trasmissione, acquisizione e stralcio.

All’interno dell’ampio procedimento in cui si articolano le intercettazioni, il segmento deputato a separare[217]le registrazioni utili dal materiale superfluo assume grande rilevanza; svariati interessi, spesso in conflitto, risultano in gioco: il diritto alla prova e quello di difesa, il diritto alla riservatezza e quello di cronaca, il diritto ad una ragionevole durata del processo: per queste ragioni il Legislatore è da sempre chiamato ad una non facile mediazione.

11.1 La disciplina prevista dal codice del 1988.

Nella normativa codicistica originaria, ancora applicabile sino ad esaurimento ai procedimenti penali iscritti fino al 31.8.2020, era presente una procedura di stralcio delle intercettazioni prevedendosi al comma 6 dell’art. 268 cpp nel contraddittorio tra le parti “l’acquisizione delle conversazioni o dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche indicati dalle parti, che non appaiano manifestamente irrilevanti, procedendo anche di ufficio allo stralcio delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata l’utilizzazione” e al comma 7 della citata norma la trascrizione nelle forme della perizia con successivo inserimento delle trascrizioni medesime nel fascicolo per il dibattimento.

Attraverso tale meccanismo si perseguiva l’effetto di espellere, dal materiale effettivamente necessario ai fini processuali, il coacervo degli esiti captativi raccolti che risultava privo dei requisiti di pertinenza e di necessità.

Fermo restando il deposito integrale degli atti da parte del PM a seguito dell’emissione dell’avviso ex art. 415 bis c.p.p (e dunque la cessazione del segreto sul contenuto delle conversazioni), le difese avevano diritto ad ottenere copia delle trascrizioni e dei files audio relativamente alle intercettazioni non manifestamente irrilevanti (art. 268 comma 8 cpp).

Nella prassi delle aule giudiziarie, però, detta procedura è stata omessa atteso che la selezione e la trascrizione delle conversazioni rilevanti è stata effettuata normalmente nella fase dibattimentale per cui il diritto difensivo alla copia delle trascrizioni e dei files audio veniva soddisfatto senza una preventiva eliminazione a monte delle registrazioni manifestamente estranee al processo: a seguito della notifica dell’avviso ex art. 415 bis cpp, infatti, le difese avevano diritto alla copia integrale degli atti ed a tutto il materiale intercettivo con indiscriminata diffusione di dati.

Per ovviare alle problematiche sorte in forza della indicata (e previgente) disciplina il Legislatore ha previsto la procedura che sarà analizzata nel prossimo paragrafo.

11.2 La procedura applicabile ai procedimenti iscritti dopo il 31.8.2020

Il D. lgs 216/2017 aveva modificato profondamente la procedura di stralcio di cui ai commi 6, 7 ed 8 del previgente art. 268 cpp abrogandoli e sostituendoli con gli artt. 268 bis, ter e quater cpp.

Con radicale revirement il D. L. 161/2019, come convertito dalla L. 7/2020 opera, seppure con talune innovazioni, un ritorno all’antico facendo rivivere i commi 6, 7 ed 8 dell’art. 268 cpp ed abrogando totalmente gli artt. 268 bis, ter e quater cpp.

La procedura attualmente in vigore, maggiormente rispettosa della riservatezza, è quella dettata dal D. L. 161 del 2019 e ricalca l’impostazione di base dell’originario articolo 268 cpp.

I passaggi operativi possono essere così sintetizzati:

  • la PG delegata alle operazioni di captazione procede all’ascolto delle conversazioni;
  • le comunicazioni intercettate sono (continuano ad essere) registrate, delle operazioni la PG redige un verbale in cui trascrive anche sommariamente il contenuto delle intercettazioni [art. 268 commi 1 e 2 c.p.p. non modificati];
  • il PM fornisce indicazioni e vigila sulla polizia giudiziaria affinchè “nei verbali non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge, salvo che risultino rilevanti per le indagini” [art. 268comma 2 bis cpp inserito dal D. lgs 216]
  • la polizia giudiziaria tramette immediatamente[218] al Pubblico Ministero i verbali delle intercettazioni e le registrazioni per la conservazione nell’archivio (rectius: conferimento all’archivio) di cui all’art. 269 cpp [art. 268 comma 4 cpp];
  • entro 5 giorni dalla conclusione delle operazioni il PM deposita nell’archivio riservato di cui all’art. 269 comma 1 cpp i verbali e le registrazioni unitamente ai decreti di autorizzazione, convalida e proroga (non più presso la segreteria del Pubblico Ministero);
  • il deposito avrà la durata fissata dal PM, salvo che il Giudice non riconosca necessaria una proroga [art. 268 comma 4 cpp modificato dal D.L. 161/2019 ed in precedenza sostituito dal D. lgs 216/2017].
  • il PM potrà chiedere al Gip l’autorizzazione a ritardare il deposito non oltre la chiusura delle indagini preliminari ove dallo stesso possa derivare un grave pregiudizio per le indagini [art. 268 comma 5 cpp non modificato]
  • il PM all’atto del deposito[219] delle intercettazioni, che segna la cessazione del segreto istruttorio, deve dare immediatamente avviso ai difensori delle parti[220] della facoltà di esaminare per via telematica[221] gli atti e di ascoltare[222] le registrazioni ovvero prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche entro il termine da lui fissato ovvero quello prorogato dal Giudice [art. 268 comma 6 pp non modificato];
  • scaduto il termine per l’esame degli atti da parte dei difensori il Giudice dispone l’acquisizione delle conversazioni o dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche indicati dalle parti che non appaiono irrilevanti;
  • nel medesimo contesto il Giudice procede anche d’ufficio allo stralcio delle registrazioni indicate dalla legge come non acquisibili (art. 268 comma 6 cpp);
  • il PM ed i difensori hanno facoltà di partecipare allo stralcio e a tal fine devono ricevere avviso almeno 24 ore prima dell’udienza camerale nella quale si svolgerà il procedimento incidentale destinato ad operare la selezione del materiale intercettivo.
11.2.1 La selezione preventiva delle intercettazioni (art. 268 comma 2 bis cpp)

Prima dell’entrata in vigore della novella, in applicazione dei commi[223] 1 e 2 dell’art. 268 cpp,in presenza di conversazioni non rilevanti ai fini delle indagini la polizia giudiziaria ometteva la verbalizzazione lasciando solo una traccia generica (e cioè limitandosi ad annotare nei brogliacci data, ora e conversanti con la annotazione che si trattava di conversazione non trascritta in quanto attinente ad argomenti non utili); allo stesso modo si procedeva per le intercettazioni inutilizzabili (es: intercettazioni di conversazioni tra difensore ed indagato).

In sostanza, seppure PM procedeva comunque ad un controllo sulla base delle valutazioni da lui operate giusta interlocuzione con la PG, non era legislativamente previsto un meccanismo di selezione preventiva (rectius: già in fase di ascolto) delle conversazioni irrilevanti ai fini delle indagini.

Introducendo il comma 2 bis dell’art. 268 cpp la riforma è intervenuta nell’ottica della corretta redazione dei verbali mediante la previsione di un dovere di vigilanza in capo al Pubblico Ministero[224].

 Alla luce della nuova normativa al PM è affidata una duplice funzione: quella di dare indicazioni sulle conversazioni da non trascrivere perché contenenti “espressioni lesive della reputazione delle persone” o perché riguardanti “dati personali definiti sensibili dalla legge, salvo che si tratti di intercettazioni rilevanti ai fini delle indagini” e quella di vigilare affinché tale trascrizione non avvenga.

Ciò posto, appare evidente, oggi più che in passato, la necessità di una interlocuzione costante, ragionata, anche eventualmente informale[225] tra PM e PG.

11.2.2 Espressioni lesive della reputazione e dati personali definiti sensibili dalla legge.

Preliminarmente, alla luce della nuova normativa, non vanno trascritte le “espressioni lesive della reputazione delle persone” e quelle relative a “dati personali definiti sensibili dalla legge” sempre che non siano rilevanti ai fini delle indagini.

Il sintagma “espressioni lesive della reputazione delle persone” si riferisce certamente alle espressioni diffamatorie in quanto il termine reputazione evoca la disposizione di cui all’art. 595 cp.

Le persone la cui reputazione può essere lesa dalla trascrizione delle conversazioni non sono, evidentemente, solo i soggetti intercettati, ma anche – e più spesso – le persone alle quali si fa riferimento nelle conversazioni.

Ciò posto, alla luce della novella, ove la PG nel corso dell’ascolto colga espressioni o dialoghi lesivi della reputazione di un soggetto, dovrà limitarsi ad annotare data, ora e conversanti, riportando, quanto al contenuto, che si tratta di conversazione non rilevante per le indagini oppure conversazione non utilizzabile; ovviamente potrà trascrivere la parte della medesima conversazione ritenuta utile alle indagini.

In termini esegetici la categoria dei “dati personali definiti sensibili dalla legge” non suscita particolari problemi interpretativi: appare evidente il riferimento all’art. 167 comma 1 D. lgs 196/2003 (delitto di trattamento illecito di dati personali posto a tutela della riservatezza), identificandosi così i dati sensibili con quelli relativi alla salute, alla sfera sessuale, alle opinioni politiche e religiose.

Ovviamente alla difficoltà di selezionare il materiale intercettivo sulla base del solo dato testuale, se ne aggiungono altre quali l’inserimento dell’espressione nel contesto generale delle conversazioni, la difficoltà di effettuare la valutazione in corso di intercettazione, la fase processuale, in cui la trascrizione è sommaria, la valutazione dell’irrilevanza sotto il profilo investigativo (ai fini della completezza dell’indagine):  pertanto la PG potrà effettuare tale valutazione solo al termine delle attività di intercettazione e previo consulto costante con il Pubblico Ministero[226].

Quanto alle conseguenze di una eventuale violazione della disposizione di cui all’art. 268 comma 2 bis cpp, si evidenzia che la trasposizione sommaria di una conversazione che contenga espressioni lesive della reputazione delle persone ovvero dati definiti sensibili non possa avere effetti in termini di inutilizzabilità della conversazione stessa, in quanto tale violazione non rientra nei casi tassativi di inutilizzabilità richiamati dall’art. 271 cpp.

11.2.3 Le conversazioni o comunicazioni con il difensore ex art. 103 cpp

Come noto, nel novero delle conversazioni rispetto alle quali vige il divieto di trascrizione, neppure in forma riassuntiva, vi sono anche quelle intercorse con il difensore, ove esse siano coperte dalla garanzia di cui all’art. 103 comma 5 cpp.

Anche se queste non sono richiamate espressamente dall’art. 268 comma 2 bis cpp, deve considerarsi il nuovo comma 7 dell’art. 103 cpp che contiene il divieto di trascrizione anche solo sommaria del loro contenuto.

11.2.4 L’interpretazione del concetto di “rilevanza” ai fini delle indagini

La preclusione alla trasposizione nei brogliacci delle conversazioni -o delle parti di esse – che contengano espressioni lesive della reputazione delle persone o riferimenti a dati personali definiti sensibili per legge, non opera laddove le stesse siano da considerarsi rilevanti ai fini delle indagini.

Il giudizio di rilevanza è riferito non alle intercettazioni in senso lato ma alle espressioni colte nel corso dell’ascolto e nel cui ambito vengano in rilievo le espressioni tipizzate dall’art. 268 comma 2 bis cpp.

 Posto che la rilevanza ai fini delle indagini costituisce la chiave di lettura ed il discrimine tra ciò che si deve e ciò che non si può trascrivere appare imprescindibile dare contenuto concreto non solo all’aggettivo “rilevante” ma anche alla locuzione “ai fini delle indagini”.

A questo riguardo la Corte Costituzionale[227] ha evidenziato che occorre individuare il giusto equilibrio tra esigenze di indagine e di accertamento della responsabilità – da un lato – e garanzia del diritto costituzionale alla riservatezza – dall’altro.

 Sotto questo angolo visuale, il criterio guida dovrà essere quello della rilevanza ai fini della prova[228] per cui tra i risultati di ascolto dovranno essere trascritte solo quelle conversazioni che siano effettivamente utili nell’ambito del procedimento.

11.2.5 La trasmissione dei verbali e delle registrazioni ed il conferimento nell’archivio digitale.

Punto di partenza dell’analisi è l’art. 268 comma 4 cpp secondo cui “i verbali e le registrazioni sono immediatamente trasmessi al pubblico ministero per la conservazione nell’archivio di cui all’articolo 269 comma 1. Entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni, essi sono depositati presso l’archivio di cui all’articolo 269 comma 1, insieme ai decreti che hanno disposto, autorizzato, convalidato o prorogato l’intercettazione…”.

La formulazione della citata disposizione, nella sua pratica attuazione, potrebbe risultare foriera di incertezze.

Infatti, se interpretata in modo restrittivo, la norma implicherebbe la trasmissione al Pm ed il successivo deposito nell’archivio del materiale intercettivo, a chiusura dell’ascolto di ogni singola utenza ovvero di ogni singolo ascolto ambientale (rectius: ogni singolo RIT), e ciò anche se nel complesso l’attività sia in pieno svolgimento anche per mezzo di ulteriori intercettazioni.

Tuttavia in considerazione delle esigenze della polizia giudiziaria di avere a disposizione la totalità del materiale acquisito nel corso dell’attività di intercettazione ai fini della redazione dell’informativa[229] finale e per rendere comunque gestibili le attività di indagine si impone un’interpretazione ampia della citata norma.

Pertanto l’avverbio “immediatamente” – che connota la trasmissione richiesta alla pg -dovrà essere rapportato non alla conclusione dell’ascolto di un singolo bersaglio, bensì alla conclusione delle indagini[230], poi evocata per il pubblico ministero come termine a quo per il decorrere del deposito nei cinque giorni[231] a sua disposizione per effettuare il deposito nell’archivio.

Detto deposito riguarderà tutto il materiale – verbali, registrazioni, ed atti autorizzativi – che entrerà nell’archivio, previa scansione[232] e trasmissione telematica.

Effettuato il deposito, la normativa prevede che ai difensori delle parti[233] sia dato “immediatamente” avviso del deposito e “che entro il termine fissato a norma dei commi 4 e 5, per via telematica hanno facoltà di esaminare gli atti e ascoltare le registrazioni ovvero di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche”: nella procedura c.d. ordinaria, non vi è, quindi, il diritto alle copie.

11.2.6 Selezione delle conversazioni da utilizzare e acquisizione da parte del Giudice: il procedimento di stralcio.

Alla luce della nuova normativa il momento della selezione, acquisizione e dell’eventuale stralcio delle intercettazioni secondo la procedura ordinaria deve svolgersi al termine delle operazioni di intercettazione nel corso delle indagini o, qualora il Giudice accolga la richiesta di ritardato deposito ex art. 268 comma 5 cpp, in un momento successivo all’avviso di conclusione delle indagini e non oltre l’udienza preliminare; sono previsti tempi e modalità diversi di acquisizione in caso di richiesta di applicazione di misura cautelare o di richiesta di giudizio immediato.

Come vedremo, il coacervo del materiale intercettivo non acquisito – in quanto irrilevante, inutilizzabile o non trascrivibile – rimane custodito nell’archivio ex art. 269 comma 1 cpp e continuerà ad essere coperto da segreto (salva la possibilità di distruzione di cui si dirà nel prosieguo).

11.3 La procedura “ordinaria” di acquisizione e la cd. udienza stralcio.

A seguito dell’avviso del deposito delle intercettazioni da parte del PM, i difensori delle parti prendono coscienza dei flussi, delle registrazioni, dei verbali e degli atti relativi alle stesse; ciò è funzionale alle richieste di acquisizione delle intercettazioni e/o a quelle di inutilizzabilità ai fini dello stralcio.

Pur in assenza di una esplicita previsione dal comma 6 dell’art. 268 cpp si desume che il PM ed i difensori, al fine di ottenere l’acquisizione del materiale intercettivo rilevante, debbono presentare apposita richiesta indicando le conversazioni o i flussi di comunicazioni di cui chiedono[234] l’acquisizione.

Decorsi i termini di cui all’art. 268 comma 4 e 5 cpp, il giudice dispone de plano l’acquisizione delle intercettazioni indicate dalle parti che non appaia irrilevante, ferma restando la non utilizzabilità – e quindi la non acquisizione (rectius: lo stralcio) – di quanto intercettato in violazione dei divieti e delle registrazioni che riguardino particolari categorie di dati personali[235], sempre che non ne sia dimostrata la rilevanza.

Seppure il Giudice per le indagini preliminari possa procedere in via immediata all’acquisizione delle intercettazioni indicate dalle parti che non appaia irrilevante, deve ritenersi che a tal fine sia necessaria la fissazione di un’udienza[236] al cui esito l’acquisizione sia disposta con formale ordinanza; seppure il dato normativo sul punto nulla prevede, non pare potersi sostenere la tesi di una acquisizione meramente cartolare.

 Di contro, alla luce della novella, ai fini dell’acquisizione delle intercettazioni la procedura di stralcio non deve necessariamente avere luogo, dandosi corso alla stessa ove su indicazione di taluna delle parti o anche d’ufficio, sia rilevata l’esistenza di conversazioni non acquisibili (qualora le parti formulino questioni di irrilevanza, inutilizzabilità, non trascrivibilità delle intercettazioni o qualora dette questioni siano rilevata d’ufficio dal Giudice).

A questo riguardo, il comma 6 dell’art. 268 cpp dispone che il Giudice, facultato ex art. 89 bis comma 3 disp. att. ad accedere all’archivio digitale per ascoltare le conversazioni, anche d’ufficio possa procedere allo stralcio “delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata l’utilizzazione e di quelli che riguardano categorie particolari di dati personali” sempre che non ne sia dimostrata la rilevanza.

Al fine di dare luogo all’udienza di stralcio non sono previste particolari formalità: risulta necessario solo l’avviso alle parti della fissazione della indicata udienza (camerale), nel corso della quale si procederà, appunto, lo stralcio delle intercettazioni inutilizzabili, irrilevanti e di quelle che riguardano categorie particolari di dati personali sempre che non sia dimostrata la rilevanza ad opera della parte che chiede al Giudice l’acquisizione della conversazione.

Ciò che non viene acquisito come materiale probatorio in quanto inutilizzabile, irrilevante, non trascrivibile, rimarrà custodito nell’archivio.

La procedura ordinaria appena descritta, deve svolgersi al termine delle operazioni di intercettazione e nella fase delle indagini preliminari; non è, invece, previsto un termine per la decisione del Giudice per cui, onde evitare stasi processuali, deve ragionevolmente ritenersi che, collateralmente alla procedura di acquisizione – e se del caso di stralcio – il PM possa contestualmente esercitare l’azione penale.

Il procedimento appena esaminato non è l’unica via attraverso la quale i risultati delle intercettazioni possono essere acquisiti atteso che la novella prevede altri momenti in cui procedere alla selezione delle intercettazioni utilizzabili nel procedimento: il caso in cui il deposito ex art. 268 comma 5 cpp venga rimandato alla conclusione delle indagini (si tratta stragrande maggioranza dei casi) per cui la procedura di selezione ed acquisizione – e se del caso di stralcio – si collocherà nella fase del deposito atti ex art. 415 bis cpp e comunque non oltre l’udienza preliminare, il percorso alternativo previsto all’art. 454 comma 2 bis cpp, oltre all’ipotesi di utilizzo delle intercettazioni per la redazione della misura cautelare.

11.4 Il deposito delle intercettazioni alla conclusione delle indagini

Come noto, ai sensi dell’art. 268 comma 5 cpp il Pubblico Ministero può chiedere al Gip di essere autorizzato al ritardato deposito dei verbali e delle registrazioni non oltre la conclusione delle indagini preliminari.

Pertanto alla conclusione delle investigazioni il PM notificherà l’avviso ex art. 415 bis cpp ed unitamente al citato atto indicherà le intercettazioni rilevanti delle quali intende chiedere l’acquisizione.

In base al comma 2 bis della citata norma il requirente avviserà l’indagato ed il suo difensore (non la persona offesa) della facoltà di esaminare per via telematica gli atti depositati relativi ad intercettazioni, ascoltare[237] le registrazioni (tutte, anche quelle non selezionate dal PM), prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche, estrarre copia delle registrazioni o dei flussi indicati come rilevanti dal PM.

Dalla lettura della norma in analisi emerge che il parametro valutativo ai fini dell’acquisizione considerato dall’art. 415 bis comma 2 bis cpp è diverso da quello di cui all’art. 268 comma 6 cpp: la prima norma citata considera, ai fini dell’acquisizione, le intercettazioni “rilevanti”, mentre l’art. 268 comma 6 cpp si riferisce alle intercettazioni “che non appaiono irrilevanti”.

A questo riguardo è stato evidenziato[238] che nella procedura speciale in analisi il parametro di acquisizione utilizzato è quello che, nella procedura ordinaria vale solo per le comunicazioni a tutela rafforzata ossia quelle che riguardano i dati sensibili; per questa ragione nell’ipotesi ex art. 415 bis comma 2 bis cpp i dati sensibili non sono neppure nominati. Questa diversità si spiega alla luce del differente contesto in cui operano le due procedure acquisitive in commento: nel caso della procedura acquisitiva che si svolge all’esito delle indagini il giudizio sulla rilevanza è più facile e più penetrante

Ciò posto, entro 20 giorni dalla notifica dell’avviso (termine coincidente con quello per l’esercizio delle facoltà di cui al comma 3 della medesima norma) il difensore potrà depositare l’elenco delle ulteriori registrazioni ritenute rilevanti (escluse dal pm) e di cui chiede copia.

Sulla domanda del difensore provvede il PM con decreto motivato che potrà autorizzare il rilascio di copia delle registrazioni e della documentazione, qualora ritenga effettivamente utili le comunicazioni indicate dalla difesa, o rigettare la richiesta.

Nel primo caso, ai sensi degli artt. 114 comma 2 bis e 269 comma 1 cpp, la documentazione entrerà a far parte del fascicolo delle indagini e, più tardi, transiterà nel fascicolo ex art. 431 cpp.

In caso di rigetto della richiesta, così come in quello di contestazioni sulla rilevanza di quanto oggetto delle richieste di acquisizione, il difensore potrà avanzare istanza al Giudice affinchè si proceda ex art. 268 comma 6 cpp (ovvero mediante l’udienza stralcio).

La lettura del comma 2 bis dell’art. 415 bis cpp consente di argomentare in merito ad unapossibile acquisizione patteggiata delle intercettazioni, ovvero circa la possibilità che le parti si accordino in merito al materiale captativo da acquisire.

In tal caso sarebbe inutile la procedura di stralcio che, pertanto, non avrebbe luogo così come l’acquisizione ex art. 268 comma 6 cpp: il materiale concordato sarebbe acquisito al fascicolo del Pm (con cessazione del segreto) e successivamente a quello del Giudice.

In particolare ricevuto l’avviso ex art. 415 bis cpp – unitamente alla lista delle intercettazioni ritenute rilevanti dal Pm – ed esaminati gli atti relativi alle intercettazioni ove il difensore non abbia contestazioni da fare ed il PM accolga l’istanza del difensore circa le ulteriori registrazioni ritenute rilevanti, non ci sarebbe necessità di ricorrere al giudice ex art. 268 comma 6 cpp, con acquisizione de plano.

Nella pratica tuttavia appare comunque indispensabile che tale acquisizione concordata si tenga davanti al Gup per formalizzare l’accordo: il Gup, infatti, dispone la trascrizione delle intercettazioni la cui acquisizione è stata concordata ai fini del transito al fascicolo ex art. 431 cpp; di conseguenza la formalizzazione dell’acquisizione avverrebbe in udienza preliminare.

11.5 La procedura di acquisizione in caso di adozione di misura cautelare

La novella legislativa prevede un’autonoma modalità di acquisizione delle intercettazione laddove si verta in tema di misure cautelari.

Infatti la procedura ordinaria di acquisizione delle intercettazioni non sarebbe compatibile con i tempi e con le esigenze procedurali in materia atteso che l’utilizzo di intercettazioni alla base di una misura cautelare implica una discovery degli esiti delle stesse anticipata rispetto alla conclusione delle indagini.

Punto di partenza della riflessione è l’art. 291 comma 1 cpp il cui testo è stato oggetto di numerose modifiche.

In particolare è previsto che alla conclusione delle operazioni, quindi dopo la trasmissione ex art. 268 comma 4 cpp da parte della PG dei verbali e delle registrazioni e del conferimento nell’archivio ex art. 269 cpp (e dopo l’autorizzazione del Gip al ritardato deposito ex art. 268 comma 5 cpp) il Pm selezionerà, tra quelle confluite nell’archivio e già oggetto di preventiva seleziona ex art. 268 comma 2 bis cpp, le conversazioni rilevanti per la richiesta di applicazione di misura cautelare.

Detto materiale, ovviamente è ancora coperto da segreto ex art. 329 cpp e che tale rimarrà fino a quando l’indagato non potrà averne conoscenza.

Unitamente alla richiesta di applicazione della misura cautelare, il pubblico ministero dovrà trasmettere al Giudice i verbali ex art. 268 comma 2 cpp, limitatamente alle comunicazioni e conversazioni rilevanti, nonché gli atti autorizzativi così da consentire al Giudice prima ed alle difese poi di avere contezza della legittimità delle operazioni di intercettazione.

La normativa non prevede l’obbligo di trasmissione delle registrazioni (e quindi dei relativi supporti informatici) fermo restando che il Gip, accedendo all’archivio riservato, potrà effettuare l’ascolto delle intercettazioni indicate dal Pm.

Qualora il Gip si determini nel senso di adottare la misura cautelare richiesta dall’organo d’accusa emetterà ordinanza che, a seguito dell’esecuzione/notificazione sarà depositata pressa la cancelleria del Giudice unitamente alla richiesta del Pm e a tutti gli atti a sostegno della stessa.

La procedura di acquisizione di cui alla novella prevede che Giudice restituisca al PM, subito dopo l’adozione dell’ordinanza cautelare e prima che avvenga il deposito della stessa, gli atti contenenti le comunicazioni e conversazioni intercettate e ritenute dal Giudice non utilizzabili o irrilevanti: all’uopo l’art. 92 comma 1 bis disp. att. (inserito dalla riforma) stabilisce che detto materiale torni ad essere custodito nell’archivio.

In conclusione il giudice deposita nella cancelleria l’ordinanza cautelare unitamente alla richiesta del Pm ed agli atti a sostegno della stessa, con espunzione del materiale ritenuto non rilevante o inutilizzabile, e pertanto il materiale captativo depositato in segreteria sarà solo quello ritenuto dal Giudice utilizzabile e rilevante ai fini della cautela.

Alla luce della disciplina in analisi emerge che alla prima selezione del materiale captativo da parte del PM segue quella del Gip.

Con il deposito dell’ordinanza, ovviamente cessa il segreto sugli atti utilizzati nella stessa e, pertanto, sulle intercettazioni utilizzate ai fini cautelari ed acquisite al fascicolo del PM mentre permane il segreto sulle intercettazioni non acquisite in quanto non utilizzate dal Pm nella richiesta o restituite dal Gin poiché irrilevanti o inutilizzabili.

A seguito dell’esecuzione del provvedimento cautelare al difensore sarà notificato avviso di deposito dell’ordinanza ed ex art. 293 comma 3 cpp l’avvocato potrà esercitare il diritto di “esaminare e di estrarre copia dei verbali delle comunicazioni e conversazioni intercettate di cui all’art. 291 comma 1 cpp”.

L’art. 293 comma 3 cpp, come modificato dal D. Lgs 216/2017, prevedeva[239] il diritto “alla trasposizione su supporto idoneo alla riproduzione dei dati, delle relative registrazioni”; tuttavia il quarto periodo del citato comma 3 della norma in commento è stato soppresso dal D.L. 161/2019.  

Ad ogni buon conto oggi non è dato dubitare della sussistenza del diritto del difensore alla trasposizione su supporto idoneo alla riproduzione dei dati, delle relative registrazioni, alla luce della giurisprudenza[240] formatasi sul punto.

La disciplina in analisi esclude che il diritto di ascolto e di copia del difensore si estenda anche al materiale che il PM non ha trasmesso al giudice a fondamento della richiesta cautelare ovvero a quel materiale che, pure essendo stato trasmesso, il giudice non abbia ritenuto rilevante e/o utilizzabile.

Il difensore acquisisce il citato diritto solo all’esito della regolare procedura di deposito ex art. 415 bis comma 2 bis cpp ed ex art. 454 comma 2 bis cpp.

Il regime acquisitivo citato, previsto per la fase cautelare, non si pone come alternativo al regime ordinario, il ricorso al quale si renderà successivamente necessario quando il procedimento addiverrà a definizione con richiesta di giudizio immediato o con deposito degli atti ex art. 415 bis cpp.

Infatti solo tutti i passaggi della procedura ordinaria consentiranno una piena acquisizione, rispondente anche agli interessi delle difese; e pure il PM peraltro avrà la possibilità di indicare esiti captativi ulteriori rispetto a quelli dal medesimo considerati in sede di redazione della richiesta di misura cautelare.

11.6 La procedura di acquisizione nel rito immediato (art. 454 comma 2 bis cpp)

Una specifica disciplina è stata introdotta per l’acquisizione delle intercettazioni nel caso si proceda con rito immediato, ordinario o cautelare: all’interno delle norme afferenti al citato rito speciale il Legislatore ha inserito in simmetria[241]con l’art. 415 bis comma 2 bis cpp, il comma 2 bis dell’art. 454 cpp.

In particolare, ove il PM non abbia dato corso alla procedura di selezione ordinaria ex art. 268 commi 4, 5 e 6 cpp e non intenda procedere con la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini, sussistendone i presupposti potrà procedere con il rito speciale ex art. 454 cpp; in tal caso, unitamente alla richiesta di giudizio immediato, il requirente dovrà depositare l’elenco delle intercettazioni rilevanti ai fini della prova.

Da rilevare che il parametro valutativo ai fini dell’acquisizione non è quello dell’art. 268 comma 6 cpp (che si riferisce alle intercettazioni “che non appaiono irrilevanti”) ma quello di cui all’art. 415 bis comma 2 bis cpp (che menziona le intercettazioni “rilevanti”).

L’art. 454 comma 2 bis cpp non prevede esplicitamente il diritto alla copia delle registrazioni indicate dal Pm e tuttavia, alla luce del chiaro parallelismo tra la norma in commento e il comma 2 bis dell’art. 415 bis cpp, pare potersi sostenere che i citati diritti difensivi siano stati dati per scontati dal Legislatore.

Il difensore, soggetto legittimato all’accesso all’archivio, potrà depositare l’elenco delle ulteriori intercettazioni rilevanti di cui chiede copia entro i 15 giorni successivi alla notifica del decreto di giudizio immediato emesso dal giudice; il termine è prorogabile di 10 giorni su richiesta del difensore.

Sull’istanza del difensore provvede il PM con decreto motivato; in caso di rigetto dell’istanza o di contestazioni sulle registrazioni ritenute rilevanti, il difensore può avanzare istanza al Giudice affinchè si proceda secondo la regola declinata dall’art. 268 comma 6 cpp specularmente a quanto previsto per il caso di rigetto dell’istanza o di contestazioni dopo la notifica dell’avviso ex art. 415 bis cpp.

Sembrerebbe, inoltre, potersi dare luogo una acquisizione concordata delle intercettazioni per l’ipotesi in cui esaminate le registrazioni ritenute rilevanti dal Pm e gli atti ad esse relativi il difensore non abbia contestazioni da fare e/o il PM accolga l’istanza del difensore circa le ulteriori registrazioni ritenute rilevanti.

In tal caso non ci sarebbe necessità di ricorrere al giudice perché si proceda nelle forme ex art. 268 comma 6 cpp; sarebbe, in ogni caso, a parere di chi necessario un formale provvedimento di acquisizione, nella forma dell’ordinanza resa in udienza.

11.7 Il deposito delle intercettazioni in caso di giudizio abbreviato, patteggiamento e richiesta di archiviazione.

Nessun problema si pone per il deposito delle intercettazioni nel giudizio abbreviato richiesto nel corso dell’udienza preliminare o davanti al giudice monocratico, posto che tali fasi sono sempre precedute dall’avviso ex art. 415 bis cpp; medesime considerazioni valgono per il patteggiamento.

La littera legis nulla dispone per il caso in cui all’esito delle attività tecniche il PM si determini per richiedere l’archiviazione: deve pertanto ritenersi che le intercettazioni vadano conferite in archivio senza le citate procedure e che la persona offesa che abbia chiesto di essere avvisata abbia il diritto di ascoltare le registrazioni.

11.8 La trascrizione delle intercettazioni

Ai sensi dell’art. 268 comma 7 cpp il giudice, anche nel corso delle attività di formazione del fascicolo ex art. 431 cpp, dispone la trascrizione integrale delle registrazioni ovvero la stampa in forma intellegibile delle informazioni contenute nei flussi di comunicazioni telematiche o informatiche; le trascrizioni e le stampe sono inserite nel fascicolo per il dibattimento.

Da un punto di vista temporale l’attività de qua potrà collocarsi nella fase delle indagini in caso in cui sia dia corso alla procedura ordinaria, nella fase dell’udienza preliminare ove si proceda con il deposito degli atti a seguito dell’avviso ex art. 415 bis cpp, o davanti al Gip nel caso di rito immediato ex artt. 454 e 457 cpp; nulla, tuttavia, vieta che la trascrizione sia fatta dal giudice del dibattimento.

La normativa prevede, inoltre, che con il consenso delle parti il Giudice possa disporre l’utilizzazione delle trascrizioni delle registrazioni o delle informazioni contenute nei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche effettuate dalla PG nel corso delle indagini; in caso di contestazioni, tuttavia, verrà disposta la trascrizione applicandosi le disposizioni di cui al medesimo comma 7 dell’art. 268 cpp.

I difensori possono estrarre copia delle trascrizioni e fare eseguire la trasposizione della registrazione su idoneo supporto.

Ad ogni buon conto, nei casi più complessi, il Gup potrà dare incarico al perito trascrittore e, senza attendere il deposito della perizia, procedere se del caso al rinvio a giudizio, indicando le trascrizioni delle intercettazioni nell’elenco degli atti destinati al fascicolo ex art. 431 cpp ove poi confluirà anche la perizia.

Una volta che il materiale intercettivo sia stato legittimamente acquisito nel fascicolo del dibattimento, esso rientra tra le prove[242] che a norma dell’art. 526 cpp possono essere utilizzate ai fini della decisione.

12. Conservazione e distruzione della documentazione

Come noto, la polizia giudiziaria deve trasmettere immediatamente al PM i verbali sommari e le registrazioni (art. 268 comma 4 cpp) ai fini del conferimento nell’archivio digitale.

L’art. 269 cpp è la norma che istituisce l’archivio digitale[243], dedicato alla conservazione della documentazione relativa alle intercettazioni.

Si tratta, appunto, di uno spazio digitale e non fisico, tenuto sotto la direzione del Procuratore della Repubblica, destinato alla conservazione integrale delle registrazioni, dei verbali e di ogni altro atto inerente alle stesse.

Ciò premesso, emerge ictu oculi una differenza rispetto alla previgente normativa: la destinazione dei verbali e delle registrazioni non è più la segreteria del PM ma il citato archivio, ritenuto dal Legislatore più sicuro.

Il suddetto materiale confluisce informaticamente all’archivio dopo la trasmissione operata dalla PG.

L’art. 269 cpp oltre ad istituire l’archivio digitale individua, con riferimento ai verbali, alle registrazioni ed ogni altro atto ad esse relativo, il limite temporale della loro permanenza nel medesimo archivio, nonché le modalità della loro distruzione.

Infatti la norma dispone che, salvo quanto previsto dall’art. 271 comma 3[244] cpp, le registrazioni siano conservate fino alla sentenza non più soggetta a impugnazione.

Tuttavia gli interessati, quando la documentazione non è più necessaria per il procedimento, possono chiederne la distruzione a tutela della riservatezza al giudice che ha autorizzato o convalidato l’intercettazione; in tali ipotesi la decisione avviene in camera di consiglio ex art. 127 cpp.

Il codice di rito, quindi, subordina la distruzione del citato materiale a due circostanze: la documentazione deve essere non necessaria per il procedimento e la richiesta deve provenire da un soggetto interessato “a tutela della riservatezza”.

La scelta della conservazione del materiale fino alla sentenza non più soggetta ad impugnazione è finalizzata, ad avviso di chi scrive, a tutelare il dato probatorio ai fini del futuro utilizzo: non sono rari i casi in cui il materiale intercettivo, anche dopo lungo tempo e, quindi dopo la definitività del giudizio, risulta prezioso per la dimostrazione della colpevolezza o dell’innocenza di un imputato sia nel procedimento in cui le comunicazioni sono state captate che in altro procedimento. Cautela processuale imporrebbe la conservazione più che la distruzione salvo la prospettazione di particolari esigenze di riservatezza.

Ne deriva che il vaglio sotteso alla disposizione in esame appare assai delicato chiedendosi al giudice una valutazione circa la potenziale, futura necessità o meno delle comunicazioni nello stesso o in altro procedimento; per queste ragioni è previsto un apposito procedimento ex art. 127 cpp per cui il giudice non può decidere de plano ma deve fissare apposita udienza in camera di consiglio con tutte le garanzie di contraddittorio tra le parti.

Posto che l’espressione “interessati”, utilizzata dalla norma in commento, è diversa dall’espressione “parti” si discute in merito alla legittimazione a richiedere la distruzione del materiale de quo.

Interpretando la formula in senso restrittivo la richiesta potrebbe essere presentato solo dai conversanti, a prescindere che siano o meno parti processuali, seguendo una interpretazione più ampia la richiesta de qua potrebbe essere avanzata da chiunque possa essere esposto ad un pregiudizio alla sua riservatezza in conseguenza di un’eventuale divulgazione della comunicazione.

La ratio della disciplina in oggetto, che è quella di predisporre un rimedio ex post alle capacità intrusive dell’intercettazione, consente di propendere per la seconda liena di pensiero; il riferimento normativo alla riservatezza non deve essere inteso in senso tecnico, ma come finalizzato a distinguere la distruzione de qua da quella prevista dal comma terzo dell’art. 271 cpp (ovvero quella disposta dal giudice rispetto alle intercettazioni inutilizzabili i cui ai commi 1[245], 1 bis[246] e 2[247] dell’art. 271 cpp).

Vi è, infatti, un’evidente differenza sotto il profilo funzionale, la prima essendo diretta a salvaguardare la riservatezza dei soggetti le cui comunicazioni, irrilevanti, siano state intercettate; la seconda essendo diretta a garantire l’osservanza dei divieti di utilizzazione previsti dalla legge.

Tale distinzione trova implicita conferma nella clausola di salvezza di cui al comma secondo dell’art. 269 cpp che fa salva la norma dettata in tema di intercettazioni inutilizzabili.

Alla luce di tale chiave di lettura, il vero problema risulterebbe di ordine pratico: pare difficoltoso che tutti i possibili interessati, non aventi la qualità di parti né quella di interlocutori, possano avere conoscenza delle intercettazioni; e tuttavia quando soggetti estranei al processo abbiano contezza delle registrazioni essi saranno certamente legittimati[248] ad agire ex art. 269 comma 2 cpp.

Quanto all’oggetto della distruzione, alla luce della normativa parrebbe doversi ritenere che, su istanza di parte motivata per “ragioni di tutela della riservatezza”, al giudice sia rimessa la valutazione su tutto il materiale indipendentemente dall’essere stato acquisito al fascicolo del dibattimento (quindi sia le intercettazioni non acquisite che quelle acquisite).

Infatti, posto che il termine riservatezza è ampio e che le captazioni per loro natura incidono nella sfera di riservatezza delle comunicazioni, sotto questo angolo visuale al giudice spetterebbe valutare se, anche in presenza di intercettazioni acquisite – e quindi rilevanti probatoriamente – l’istanza adduca particolari esigenze di riservatezza che la distruzione sarebbe opportuno intervenga a tutelare.

Tuttavia l’acquisizione delle intercettazioni costituisce cartina di tornasole della necessarietà per il processo e, quindi, delle caratteristiche della pertinenza e della rilevanza probatoria; rispetto ad intercettazioni ritualmente acquisite, quindi, difetterebbe certamente il requisito del non necessarietà ai fini del processo. Pertanto dette intercettazioni non possono essere distrutte.

Circa l’organo competente alla distruzione, dottrina e giurisprudenza hanno sostenuto tesi contrapposte.

Posto che il dato letterale della norma fa riferimento al giudice che ha autorizzato o convalidato l’intercettazione, la giurisprudenza[249] ha ritenuto che la competenza spetti al citato giudice.

Per la dottrina[250], di contro, la competenza spetterebbe al Giudice che procede; sarebbe sempre necessario guardare all’organo giurisdizionale procedente al momento in cui la richiesta viene formulata indipendentemente dalla circostanza che questi abbia o meno la disponibilità degli atti.

Detta tesi è stata, in alcune ipotesi, anche accolta dalla Suprema Corte[251]; tuttavia la giurisprudenza prevalente, attenendosi alla lettera del dettato normativo, ha aderito al primo indirizzo[252]: funzionalmente competente a decidere sulla richiesta di distruzione è il giudice che ha autorizzato o convalidato le intercettazioni, con esclusione di ogni competenza in capo al giudice che procede al momento di formulazione dell’istanza di distruzione.

A sostegno di tale tesi milita sia l’argomento sistematico della collocazione della procedura di selezione ex art. 268 cpp nell’ambito delle indagini preliminari al fine di evitare che il giudice del dibattimento possa conoscere il materiale intercettivo non selezionato ed esserne condizionato; sarebbe evidentemente in contrasto con tale scelta quella di consentire la distruzione ex art 269 comma 2 cpp al Giudice del dibattimento.

13. L’utilizzazione delle intercettazioni in altri procedimenti (art. 270 cpp)

Il codice di rito dedica all’argomento in esame una norma specifica ovvero l’art. 270 cpp rubricato “utilizzazione in altri procedimenti”.

Al primo comma la indicata norma stabilisce che “I risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti”.

Si tratta di un vero e proprio divieto probatorio, non consentendo la norma de qua la possibilità di impiegare gli esiti captativi al di fuori della loro sede naturale.

E tuttavia lo stesso comma 1 dell’art. 270 cpp, già prima della riforma, ammetteva un’eccezione al citato principio: i risultati dell’attività intercettiva disposta in un procedimento potevano (e possono) essere utilizzati in differente procedimento quando “risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza”.

Tale espressa clausola di salvezza era (ed è) finalizzata a consentire la circolazione delle prove da un procedimento ad un altro onde evitare un’eventuale perdita di elementi probatori non sostituibili.

La legge n. 7 del 2020 di conversione del D.L. 161/2019 (in vigore dal 1.9.2020) ha disposto la sostituzione del comma 1 nei seguenti termini: “I risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino rilevanti e indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza e dei reati di cui all’art. 266 comma 1”.

Pertanto, fermo restando il divieto generale di trasmigrazione extra-procedimentale degli esiti captativi, la novella ha inciso sul piano della derogabilità, determinando l’emersione di opzioni interpretative differenti.

Secondo alcuni autori[253] il nuovo testo normativo avrebbe determinato una restrizione del campo della eccezionale utilizzabilità delle intercettazioni in procedimenti diversi: l’utilizzabilità risulterebbe consentita solo laddove siano congiuntamente presenti entrambi i requisiti previsti dalla norma e, quindi, solo per l’accertamento di reati che risultino al contempo tanto nel catalogo di cui all’art. 380 cpp quanto in quello di cui all’art. 266 cpp.

Altri autori[254], in senso contrario, hanno ritenuto che la norma de qua non può essere interpretata nel senso della necessità congiunta dei due requisiti tipizzati ai fini della utilizzabilità extra-procedimentale delle attività tecniche: la presenza, dopo la congiunzione “e” del sintagma “dei reati” in prosecuzione del precedente sintagma “dei delitti” conduce a ritenere che il legislatore abbia fatto riferimento a due distinte deroghe al generale divieto di utilizzazione degli esiti captativi in procedimenti diversi.

In attesa delle prime pronunce giurisprudenziali sul punto, in ossequio alla littera legis, si ritiene preferibile questa seconda opzione ermeneutica.

Alcun argomento, a questo riguardo, emerge dalle Sezioni Unite “Cavallo” n. 51 del 2020 che è intervenuta non in relazione all’operatività delle deroghe al generale divieto in esame, ma con riferimento al concetto di “procedimento diverso” e quindi a monte al fine di comprendere quando trovi applicazione l’art. 270 comma 1 cpp e quando no.

13.1 La ratio della norma

Come noto, la materia delle intercettazioni risente dello scontro tra vari interessi in conflitto: da un lato occorre disciplinare attentamente le condizioni che legittimano la compressione a fini processuali del sommo bene costituito dalla segretezza delle comunicazioni, dall’altro occorre tutelare la riservatezza[255], altamente compromessa dal mezzo di ricerca della prova in esame.

Tali concetti erano invero già stati espressi dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 34 del 4 aprile 1973 che aveva chiarito che la disciplina de qua rappresenta l’attuazione in via legislativa del bilanciamento tra due valori costituzionali confliggenti, ovvero il diritto dei singoli alla libertà e segretezza delle comunicazioni e l’interesse pubblico a perseguire e reprimere i reati, affermando che la libertà e la segretezza della corrispondenza costituiscono un diritto dell’individuo rientrante tra i valori supremi e per questo definito inviolabile dall’art. 15 della Costituzione. 

Ne consegue che il diritto dei singoli alla libertà e segretezza delle comunicazioni non può subire restrizioni o limitazioni da parte di alcuno dei poteri costituiti se non in ragione dell’inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante, come è l’interesse all’amministrazione della giustizia.

In tale ottica non vi è dubbio che tale interesse primario giustifichi anche il ricorso a un mezzo dotato di grande capacità intrusiva quale l’intercettazione; posto che l’attività intercettiva risulta in grado di invadere la privacy anche di soggetti terzi del tutto estranei al reato per cui si procede, proprio perché la Costituzione riconosce particolare rilievo alla intangibilità della sfera privata, le restrizioni alla libertà e segretezza delle comunicazioni, conseguenti alle attività captative, sono sottoposte a condizioni di validità particolarmente rigorose.

Infatti l’atto dell’autorità giudiziaria con cui vengono autorizzate le intercettazioni deve essere munito di adeguata e specifica motivazione, a garanzia del corretto bilanciamento delle esigenze sopra evidenziate: il provvedimento autorizzatorio deve infatti motivare sui gravi indizi di reato e sulla sussistenza di tutti i presupposti previsti dalla legge, e quindi sulla presenza dei requisiti che consentono una limitazione legittima del diritto alla privacy.

Ciò premesso, la ratio sottesa all’art. 270 cpp è chiara: un’indiscriminata utilizzazione degli esiti captativi in procedimenti diversi da quello nel quale gli stessi sono stati attivati determinerebbe un’elusione della garanzia in discorso in difetto del preventivo vaglio giudiziale circa la effettiva sussistenza nel caso concreto dei presupposti a cui la legge subordina il ricorso al mezzo di ricerca della prova in commento. In sostanza tali presupposti formerebbero oggetto di controllo nel procedimento a quo ma non in quello ad quem inevitabilmente caratterizzato da un diverso contesto investigativo. In tale prospettiva appare chiara, allora, la regola prevista dall’art. 270 cp per cui i risultati dell’attività captativa possono essere utilizzati solo per la prova di quei reati che siano riconducibili al provvedimento giudiziale con cui quell’attività è stata autorizzata.

Pertanto il divieto generale cristallizzato all’art. 270 cpp di utilizzazione probatoria degli esiti intercettivi in relazione a reati che non possano dirsi rientrare nell’alveo dell’originaria autorizzazione del giudice, trova la sua ragion d’essere nell’esigenza di salvaguardare la garanzia costituita dalla motivazione del decreto autorizzativo. Motivazione, a sua volta, diretta a tutelare un diritto costituzionalmente riconosciuto.

13.2 La tradizionale deroga al divieto di utilizzazione previsto all’art. 270 cpp

Dalla lettura dell’art. 270 cpp emerge una prima (e tradizionale) deroga al divieto di circolazione extra-procedimentale delle intercettazioni per i casi in cui gli esiti captativi “risultino rilevanti e indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza”.

In ordine alla compatibilità con la Carta Costituzionale di tale previsione derogatoria è intervenuta, pronunciandosi positivamente, la Corte Costituzionale[256] con la sentenza n. 63 del 1994.

Secondo la Corte, nell’ambito di un contesto sociale caratterizzato dalla seria minaccia alla convivenza sociale e all’ordine pubblico rappresentata dalla criminalità organizzata la norma che eccezionalmente consente, in casi tassativamente individuati dalla legge, di utilizzare le captazioni avvenute in altri procedimenti costituisce il risultato di un bilanciamento operato discrezionalmente dal legislatore; ancora il requisito della “indispensabilità” costituisce garanzia del contemperamento dei vari interessi in gioco ed assicura la stretta necessarietà rispetto al soddisfacimento concreto dell’interesse alla repressione dei reati.

A tal fine la novella del 2020 ha affiancato alla originaria condizione della “indispensabilità” quella della “rilevanza” così incrementando la salvaguardia del nucleo di valore della libertà e segretezza delle comunicazioni.

La tecnica legislativa utilizzata, quella per relationem[257], pone due problematiche applicative.

La prima afferisce alla possibilità di utilizzo delle intercettazioni nell’ambito di un procedimento, con pluralità di imputati ed imputazioni, rispetto ai quali l’arresto in flagranza sia obbligatorio solo per alcune delle ipotesi criminose contestate e per alcuni imputati: si tratta di stabilire se le intercettazioni provenienti dal procedimento a quo siano utilizzabili o meno per la prova di tutti i reati contestati nel processo ad quem e nei confronti di tutti gli imputati (quindi anche per reati per i quali l’arresto obbligatorio in flagranza non è previsto).

Appare preferibile una risposta di segno negativo poiché la scelta del Legislatore è stata quella di limitare l’utilizzazione delle captazioni in procedimenti diversi ai soli casi in cui si proceda per delitti caratterizzati da particolare gravità.

Ulteriore questione giuridica è sorta con riferimento all’ipotesi di mutamento (rectius: riqualificazione) dell’originaria imputazione nell’ambito del procedimento ad quem, e cioè per il caso in cui a seguito di una riqualificazione ex art. 335 cpp, il reato per cui si procede nel procedimento di destinazione non rientri più tra quelli previsti all’art. 380 cpp.

Rispetto a tali ipotesi la giurisprudenza di legittimità, sulla base del medesimo principio seguito per il caso[258] della riqualificazione del reato originariamente alla base dell’autorizzazione in ipotesi criminosa non rientrante nell’elenco di cui all’art. 266 cpp, ha ritenuto che il requisito riguardante il reato per cui si procede costituisce una condizione la cui sussistenza va accertata nel momento dell’acquisizione, nel procedimento ad quem, degli atti assunti in diverso procedimento.

Pertanto, qualora l’atto sia originariamente legittimo, i suoi risultati conservano tale caratteristica anche se la modifica della qualificazione giuridica del reato fa diventare, con valutazione ex post, non più conforme alla previsione legale l’intercettazione eseguita[259].

Ne deriva che i presupposti fissati dall’art. 270 comma 1 cpp vanno vagliati al momento in cui è disposta l’acquisizione degli esiti da parte del Giudice ad quem, e non quando, considerato il quadro nel suo insieme, il Giudice decide di modificare la qualificazione giuridica del fatto.

In conclusione se il titolo di reato per cui si procedeva al momento dell’acquisizione dei risultati di intercettazioni effettuate in altro procedimento rientrava nell’elenco di cui all’art. 380 cp, allora la sua eventuale modifica successiva non incide sull’utilizzabilità di tali risultati[260].

13.3 La deroga al divieto previsto dall’art. 270 cpp introdotta dalla riforma

Il Legislatore del 2020 nel modificare l’art. 270 cpp ha tipizzato una seconda deroga al divieto di circolazione delle intercettazioni in procedimento diverso.

La citata norma, nella nuova stesura, fa salva, oltre alla eccezione tradizionale di cui si è detto, anche l’ipotesi in cui le intercettazioni “risultino rilevanti e indispensabili per l’accertamento… dei reati di cui all’articolo 266 comma 1”.

Posto che i cataloghi dei reati riportati all’art. 380 cpp e all’art. 266 cpp non coincidono (la previsione generale, per limiti edittali, prevista dall’art. 266 comma 1 lett. a) cpp risulta più ampia rispetto alla corrispondente previsione dettata dall’art. 380 comma 1 cpp) la modifica normativa ha ampliato i casi in cui risulta consentita l’utilizzazione, in procedimenti diversi, dei risultati delle intercettazioni.

Pertanto, in forza di questa nuova norma eccezionale, i risultati di intercettazioni, legittimamente disposte in un procedimento, possono essere utilizzati in procedimenti diversi per la prova di quei reati che, di per sé, avrebbero comunque permesso di ricorrere al mezzo di indagine di cui si discute.

Appare quindi ridotta l’area dell’inutilizzabilità delineata dall’art. 270 comma 1 cpp poiché risulta rimosso in limite alla prova nei procedimenti diversi in cui si ponga l’esigenza di accertare uno dei reati di cui all’art. 266 comma 1 cpp.

Alla base di tale scelta legislativa pare esserci l’esigenza di evitare la dispersione della prova: si mira quindi ad evitare che esiti di intercettazioni regolarmente autorizzate ed eseguite in un procedimento possano andare perduti ai fini della decisione da adottare nell’ambito di un diverso procedimento.

13.4 Il concetto di “procedimento diverso”: orientamenti giurisprudenziali e Sezioni Unite.

Ai fini dell’individuazione del concreto ambito di applicazione dell’art. 270 cpp occorre perimetrare il concetto di “procedimento”; più nello specifico si tratta di comprendere quando venga in rilievo la nozione di “procedimento diverso”.

Sul punto sono emersi diversi indirizzi giurisprudenziali cui è poi seguito l’intervento risolutore delle Sezioni Unite “Cavallo” (n. 51 del 2020).

Il filone interpretativo[261] maggioritario, per la definizione del concetto di “procedimento diverso” di cui all’art. 270 cpp utilizzava un criterio di natura sostanzialistica: la nozione de qua non poteva coincidere con quella di diverso reato, essendo la prima più ampia della seconda. Né il concetto in analisi poteva essere ricollegato ad un dato meramente formale quale la materiale distinzione degli incarti relativi a due procedimenti o il loro diverso numero di iscrizione.

Ciò posto, nel concetto di diverso procedimento non venivano fatte rientrare le indagini strettamente connesse sotto il profilo oggettivo, probatorio, finalistico al reato in ordine al quale il mezzo istruttorio de quo veniva disposto: il procedimento era considerato identico – e quindi non assoggettato alle limitazioni dell’articolo 270 cpp – quando tra il contenuto dell’originaria notizia di reato (alla base dell’autorizzazione ad intercettare a monte) e quello dei reati per cui si procede altrove vi fose una stretta connessione sotto il profilo oggettivo, probatorio, finalistico.

Più precisamente il nesso che rileva ai fini dell’identità procedimentale era ritenuto quello connettivo in senso stretto (art. 12 cpp) – unico criterio oggi infine recepito dalle Sezioni Unite – e quello derivante dal collegamento investigativo [art. 371 comma 2 lett. a) e b) del cpp], con l’unica eccezione del mero nesso probatorio di cui alla lettera c) ossia quando la prova dei reati derivi dalla stessa fonte.

L’orientamento sostanzialista è stato avallato sia pure incidentalmente da un precedente[262] dictum nomofilattico, sebbene in via pregiudiziale rispetto alla questione di diritto allora trattata. Nell’occasione il massimo Consesso di Piazza Cavour chiamato a dipanare i dubbi interpretativi sull’utilizzabilità delle intercettazioni come corpo di reato, ha ancorato la nozione di “diverso procedimento” al criterio di valutazione sostanzialistico che prescinde da elementi formali, quale il numero di iscrizione del procedimento nel registro ex art. 335 cpp, considerandosi decisiva ai fini dell’individuazione dell’identità di procedimenti, l’esistenza di una connessione tra il contenuto dell’originaria notitia criminis, per la quale sono state attivate le intercettazioni, e i reati per i quali si procede sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico.

Nell’ambito dell’orientamento delineato si è registrato un ulteriore contrasto ermeneutico: ai fini dell’utilizzabilità probatoria delle intercettazioni alcune sentenze[263] ritenevano necessario che l’ulteriore reato emergente dalle captazioni rispettasse i limiti di ammissibilità previsti dall’art. 266 cpp, altre pronunce[264], invece, argomentavano per l’utilizzabilità probatoria dei risultati delle intercettazioni anche rispetto a reati non autonomamente intercettabili.

Altro indirizzo[265] giurisprudenziale, più formalistico, facendo leva su una nozione formale di procedimento (in quanto connotato da un numero di iscrizione), valorizzava l’inerenza delle risultanze relative a reati diversi da quelli oggetto del provvedimento autorizzativo al medesimo procedimento in cui il mezzo di ricerca della prova era stato disposto.

Pertanto, a fronte di un’autorizzazione legittimamente emessa all’interno di un procedimento per uno dei reati contemplati nell’art. 266 cpp., gli esiti captativi sarebbero stati comunque utilizzabili per tutti i reati emersi dall’attività di intercettazione, trovando applicazione il divieto di cui all’art. 270 cpp solo nel caso di procedimento ab origine diverso e non in caso di procedimento unitario; il dato rilevante era, quindi, quello dell’unitarietà iniziale venendo ricollegata la diversità di procedimento ex art. 270 cpp a dati meramente formali.

In questa prospettiva la circostanza che l’intercettazione fosse stata disposta all’interno di un determinato procedimento concernente uno dei delitti ex art. 266 cpp faceva sì che i suoi risultati fossero utilizzabili anche per tutti gli altri reati trattati nel medesimo procedimento senza condizione[266] alcuna.

Anche all’interno di questo filone interpretativo si registrava una divaricazione sul punto relativo alla necessità o meno che il reato emerso nel corso delle intercettazioni rientrasse nei limiti di ammissibilità di cui all’art. 266 cpp.

Alcune pronunce[267] sostenevano la possibilità di utilizzazione degli esiti delle intercettazioni per la prova di ulteriori reati emersi dalle stesse solo qualora questi fossero reati autonomamente intercettabili; altre sentenze[268], di contro, non richiedevano che il nuovo reato rientrasse quoad poenam o per titolo, nei limiti generali dell’articolo 266 cpp.

Una terza linea interpretativa, più risalente[269] e più restrittiva, sosteneva che l’utilizzazione trasversale dei flussi captati non potesse essere mai consentita al di fuori dei casi tassativamente elencati nell’art. 270 comma 1 cpp ovvero laddove le stesse fossero indispensabili per l’accertamento per reati che prevedono l’arresto in flagranza; e ciò anche laddove i due procedimenti fossero stati strettamente connessi sotto il profilo oggettivo o probatorio in quanto altrimenti si sarebbe eluso il divieto di circolazione probatoria sancito dal Legislatore. Detta opzione ermeneutica, muovendo dall’art. 335 cpp, equiparava la nozione di “procedimento” a quella di “reato” reputando così sempre operante il divieto di cui all’art. 270 cpp a fronte di qualsiasi legame sostanziale tra il reato in relazione al quale l’intercettazione era stata autorizzata e il reato accertato grazie ai risultati della stessa. Risultava quindi inidoneo ad inibire il divieto di cui all’art. 270 cpp qualsiasi legame sostanziale tra il reato in relazione al quale l’intercettazione è stata autorizzata ed il reato accertato grazie ai risultati della stessa.

In questo complesso quadro giurisprudenziale sono intervenute le Sezioni Unite con la nota pronuncia Cavallo per risolvere la seguente questione di diritto “se il divieto di utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le intercettazioni siano state disposte, di cui all’art 270 cpp, riguardi anche i reati non oggetto della intercettazione ab origine disposta e che, privi di collegamento strutturale, probatorio e finalistico con quelli già oggetto di essa, siano emersi dalle stesse operazioni di intercettazione”.

Le citate Sezioni Unite hanno chiarito che l’autorizzazione del Giudice non solo costituisce “il fondamento di legittimazione del ricorso all’intercettazione” ma rappresenta anche il “limite all’utilizzabilità probatoria dei relativi risultati ai soli reati riconducibili alla stessa autorizzazione”: senza tale limitazione il provvedimento autorizzatorio si trasformerebbe in una autorizzazione in bianco.

Secondo i principi declinati dalla sentenza in commento per comprendere cosa si debba intendere per “procedimento diverso” ex art. 270 cpp occorre individuare il legame che, intercorrendo tra il reato in rapporto al quale è autorizzata l’intercettazione ed il reato emerso dai risultati dell’intercettazione medesima, assicuri la riconducibilità di quest’ultimo reato all’alveo dell’autorizzazione relativa al primo.

Pertanto, alla luce del criterio di natura sostanzialistica, secondo la Suprema Corte la diversità dei procedimenti deve essere esclusa nei casi di connessione ex art. 12 cpp (e non quelli di collegamento probatorio ex art. 371 comma 2 lett. b) e c): quando hanno ad oggetto reati connessi i procedimenti non sono diversi a norma dell’art 270 cpp.

Ciò posto, accertata la non applicabilità dell’art. 270 cpp (alla luce della connessione di cui sopra) all’ulteriore reato emerso dalle intercettazioni, in merito alla ulteriore quaestio iuris relativa alla “necessità o meno che il reato emerso nel corso dell’intercettazione rientri nei limiti di ammissibilità dettati, in particolare, dall’art 266 cod. proc. pen” la Corte ha chiarito che attraverso l’individuazione dei reati in relazione ai quali l’intercettazione può essere autorizzata, il Legislatore ha inteso circoscrivere l’area di impiego di questo mezzo di ricerca della prova.

Infatti la previsione di limiti di ammissibilità delle intercettazioni costituisce espressione della riserva assoluta di legge ex art. 15 Cost; conseguentemente l’utilizzabilità dei risultati di intercettazioni disposte nell’ambito di un medesimo procedimento presuppone che i reati diversi da quelli per i quali il mezzo di ricerca della prova è stato autorizzato rientrino nei limiti di ammissibilità delle intercettazioni stabiliti dalla legge.

In definitiva l’art. 270 cpp non trova applicazione qualora non si sia in presenza di “procedimenti diversi” e, quindi, con riferimento agli esiti delle captazioni riguardanti reati che risultino connessi ex art. 12 cpp a quello in relazione al quale l’intercettazione era stata ab origine autorizzata, semprechè detti ulteriori reati connessi rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge.

 Pertanto alla luce delle Sezioni Unite “Cavallo” il divieto di cui all’art. 270 cpp non opera laddove vi sia la duplice condizione: i reati emersi dalle intercettazioni risultino connessi ex art. 12 cpp[270] a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata ab origine concessa, e detti reati rispettino i limiti di ammissibilità previsti dall’art. 266 cpp.

In conclusione nell’eventualità in cui dalle intercettazioni ritualmente autorizzate nell’ambito di un determinato procedimento con riferimento ad uno specifico reato, ne emerga un ulteriore occorrerà verificare dapprima la riconducibilità di quest’ultimo al catalogo dell’art. 266 cpp; ove detta verifica abbia esito positivo dovrà accertarsi la sussistenza di una connessione ex art. 12 cpp tra detto reato e quello alla base dell’autorizzazione alle operazioni.

In caso di esito positivo di entrambe le verifiche i risultati delle intercettazioni potranno essere utilizzati anche per la prova del reato di nuova emersione: la connessione, infatti, consente di escludere che venga in rilievo un diverso procedimento nell’accezione di cui all’art. 270 cpp che, pertanto, non troverà applicazione.

All’opposto l’art. 270 comma 1 cpp opererà in difetto di una connessione ex art. 12 cpp: in tali ipotesi si porrà la necessità di valutare l’eventuale ricorrere, nel singolo caso concreto, di una delle due eccezioni poste dallo stesso art. 270 cpp al divieto di carattere generale.

E precisamente dovrà accertarsi: in primis se il reato di nuova emersione rientri nel novero di quelli contemplati all’art. 380 cpp o dall’art. 266 cpp (alla luce del nuovo testo dell’art. 270 cpp in vigore dal 1.9.2020 che consente di recuperare l’utilizzo delle intercettazioni per i reati che rientrino nel perimetro dell’art 266 cpp.); secondariamente se i risultati delle intercettazioni della cui utilizzabilità si discute siano rilevanti ed indispensabili per il suo accertamento nell’ambito del diverso procedimento.

13.5 Il comma 1 bis dell’art. 270 cpp

Le problematiche afferenti alla circolazione extra-procedimentale delle intercettazioni si pone, ovviamente, anche rispetto alle captazioni eseguite mediante captatore informatico.

Punto di partenza dell’analisi è il testo del comma 1 bis dell’art 270 cpp che, nell’attuale stesura, costituisce il portato di svariate modifiche[271] normative succedutesi nel tempo.

L’attuale testo dispone: “Fermo restando quanto previsto dal comma 1, i risultati delle intercettazioni tra presenti operate con captatore informatico su dispositivo portatile possono essere utilizzati anche per la prova di reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, qualora risultino indispensabili per l’accertamento dei delitti indicati dall’articolo 266 comma 2 bis”; si consente, quindi, la circolazione extra-procedimentale degli esiti delle intercettazioni inter praesentes eseguite tramite captatore informatico.

Ciò premesso, le questioni giuridiche afferiscono all’interpretazione della clausola “Fermo restando quanto previsto dal comma 1” ed in particolare all’ampiezza del citato richiamo.

Il sintagma appare certamente diretto a richiamare il divieto generale di utilizzazione in procedimenti diversi degli esiti captativi, mentre si discute se il richiamo afferisca oltre che alla deroga tradizionale al citato divieto, anche alla ulteriore deroga introdotta dalla novella.

Sembra doversi ritenere che l’unica deroga al generale divieto di impiego extra-procedimentale cui il comma 1 bis dell’art. 270 cpp rinvii richiamando il comma 1 della medesima norma, sia quella tradizionale relativa all’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza; non pare potersi sostenere che il comma 1 bis richiami anche la seconda deroga a tale divieto, introdotta nel comma 1 dalla L. 7/2020 in sede di conversione del D. L. 161/19.

A tali considerazioni si giunge alla luce del testo della norma: il comma 1 bis dell’art. 270 cpp fa riferimento ai delitti di cui all’art. 266 comma 2 bis cpp, delitti che solo in parte risultano riconducibili al catalogo di cui all’art. 266 cpp; posto che la clausola “Fermo restando quanto previsto dal comma 1” deve essere letta congiuntamente alla locuzione “anche”, il citato comma 1 bis dell’art. 270 cpp introduce una ulteriore ipotesi di utilizzabilità extra-procedimentale degli esiti captativi eseguiti mediante captatore informatico.

Invero le intercettazioni de quibus saranno utilizzabili per la prova di reati diversi da quelli per i quali l’autorizzazione è stata disposta oltre che per l’ipotesi derogatoria di cui al comma 1 (ovvero ove siano indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza) anche qualora risultino indispensabili per l’accertamento dei delitti indicati all’art. 266 comma 2 bis cpp.

Ciò posto, per gli esiti delle intercettazioni operate con captatore informatico vi è un regime di utilizzabilità extra-procedimentale più circoscritto rispetto a quello delineato per gli esiti di tutti gli altri tipi di intercettazioni; argomentando diversamente, ovvero nel senso del richiamo del comma 1 bis dell’art 270 cpp anche alla seconda e più recente deroga introdotta al comma 1 dalla novella,  si riconoscerebbe un’area di utilizzabilità extraprocessuale alle intercettazioni de quibus più ampia rispetto a quella riconosciuta per i risultati delle intercettazioni meno invasive.

In conclusione, posto il generale divieto di circolazione delle intercettazioni in procedimenti diversi, e posta la deroga tradizionale al citato divieto:

  1.  per le intercettazioni “classiche” il comma 1 dell’art. 270 cpp, a seguito della novella, contempla l’ulteriore eccezione che consente la trasmigrazione degli esiti delle intercettazioni in procedimento diverso qualora esse siano indispensabili per l’accertamento dei delitti di cui all’art. 266 comma 1 cpp (quindi per l’accertamento di un reato per il quale le intercettazioni classiche avrebbero potuto essere disposte);
  2. per le intercettazioni operate con captatore informatico il comma 1 bis dell’art. 270 cpp a seguito della novella, quale seconda eccezione al divieto di cui al richiamato comma 1 della medesima norma, prevede quella volta a consentire l’utilizzazione extra-procedimentale dei risultati intercettivi solo qualora esse siano indispensabili per l’accertamento dei delitti di cui all’art. 266  comma 2 bis cpp (quindi non per l’accertamento di uno dei delitti che avrebbero comunque permesso di intercettare, ma solo per delitti per i quali il captatore risulta sempre consentito); si tratta di una deroga particolarmente limitata poiché riferita ai soli delitti di cui all’art. 51 commi 3 bis e 3 quater cpp e ai delitti dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni.

Quanto al regime di utilizzabilità endo-procedimentale dei risultati delle intercettazioni effettuate con captatore, trovano comunque applicazione i principi declinati dalle Sezioni Unite Cavallo.

13.6 L’acquisizione delle intercettazioni nel procedimento ad quem

Le problematiche connesse all’acquisizione delle intercettazioni nel procedimento ad quem sono variegate.

Occorre in primis vagliare il momento a partire dal quale è possibile effettuare la trasmigrazione degli esiti captativi a norma dell’art. 270 cpp da un procedimento all’altro.

Prima della novella si riteneva che il meccanismo in discorso potesse operare, nel procedimento a quo, solo in momento successivo a quello di cui ai commi 4 e 5 dell’art. 268 cpp.

Il presupposto logico della tesi di cui sopra era rappresentato dalla necessità di una discovery degli atti nel procedimento: il deposito dei verbali e delle registrazioni risultava imprescindibile al fine di salvaguardare il segreto istruttorio.

Le superiori osservazioni, valevoli anche dopo la riforma in analisi, trovano conferma nella previsione di cui al terzo comma dell’art. 270 cpp che prevede la facoltà del PM e dei difensori – del procedimento ad quem – di esaminare i verbali e le registrazioni in precedenza depositati nel procedimento in cui le intercettazioni furono autorizzate.

Quanto al procedimento ad quem da un lato le parti hanno l’onere di chiedere l’acquisizione degli esiti di captazioni eseguite in altro procedimento al più tardi nella fase pre-dibattimentale con il deposito delle liste ex art. 468 comma 4 bis cpp, dall’altro la legge impone il deposito dei verbali e delle registrazioni.

Infatti il secondo comma dell’art. 270 cpp sancisce che “ai fini della utilizzazione prevista dal comma 1, i verbali e le registrazioni delle intercettazioni sono depositati presso l’autorità competente per il diverso procedimento”.

La norma menziona expressis verbis solo i verbali e le registrazioni e non anche i decreti che hanno autorizzato, convalidato o prorogato l’intercettazione, con ciò ingenerando problemi ermeneutici.

Invero suddetti provvedimenti hanno fondamentale importanza nel procedimento ad quem costituendo lo strumento mediante cui le parti sono in grado di verificare la legittimità delle captazioni; ciò posto, la queastio iuris afferisce alla necessità e/o all’obbligo di deposito dei decreti de quibus presso il giudice del secondo procedimento.

Sul punto si è registrato un contrasto giurisprudenziale.

Secondo un primo orientamento[272] gli atti da depositare presso la cancelleria del giudice competente per il procedimento ad quem sarebbero esclusivamente quelli indicati dall’art. 270 comma 2 cpp quindi verbali e registrazioni; a tale soluzione si perveniva alla luce del principio di tassatività delle inutilizzabilità.

Altra linea interpretativa[273] sosteneva la necessità del deposito degli atti autorizzativi presso il Giudice ad quem.

Si sosteneva che seppure l’art. 270 cpp non prevedesse l’obbligo di depositare nel secondo giudizio i decreti autorizzativi delle intercettazioni eseguito nel procedimento a quo, doveva escludersi che il legislatore avesse voluto impedire alle difese il controllo su detti provvedimenti; infatti eventuali illegittimità dei decreti in discorso avrebbero comportato la nullità delle intercettazioni e l’inutilizzabilità dei risultati dalle stesse conseguiti.

Secondo un terzo filone[274] ermeneutico la mancata previsione del deposito dei decreti de quibus nella diversa procedura, importava che la relativa omissione non poteva incidere sull’utilizzabilità degli esiti captativi.

A comporre il contrasto sono intervenute le Sezioni Unite “Esposito”[275] evidenziando la distinzione tra i due momenti in cui si articola lo strumento in esame: quello relativo all’ammissione dell’intercettazione e quello attinente alla selezione dei verbali e delle registrazioni rilevanti.

L’art. 270 cpp considera solo il secondo dei momenti sopra indicati, rimanendo il primo estraneo alla disciplina dell’utilizzazione dei risultati captativi in procedimento diverso. Tuttavia nel giudizio ad quem non è affatto irrilevante la legalità del procedimento di autorizzazione ed esecuzione delle intercettazioni eseguite nel procedimento a quo: se la violazione delle garanzie può comportare l’inutilizzabilità della prova nel giudizio a quo, la medesima conseguenza può verificarsi nel giudizio di destinazione, nel quale la prova stessa ha più ristretti limiti di ammissibilità.

Pertanto, l’illegalità dell’iter di ammissione dell’intercettazione rende inutilizzabile la prova ottenuta anche in altri giudizi.

Diversa questione, invece, è quella della mancata trasmissione al giudice ad quem del documento rappresentativo dell’intervenuta autorizzazione o della proroga delle operazioni; alla luce dell’art. 271 comma 1 cpp anche nel procedimento ad quem l’inutilizzabilità scaturisce dalla violazione degli art. 267 e 268 commi 1 e 3 cpp non applicandosi tale sanzione in caso di violazione del comma 4 di tale ultimo articolo che prevede il deposito oltre che dei verbali e delle registrazioni anche dei decreti di autorizzazione.

Di conseguenza i provvedimenti appena considerati hanno un diverso valore nei due procedimenti: in quello d’origine ed in quello di destinazione.

Nel giudizio a quo costituiscono elemento necessario di documentazione della prova desumibile dalle intercettazioni, in quanto servono ad individuare la vicenda criminosa per il cui accertamento l’autorizzazione fu rilasciata; ne discende che nel giudizio d’origine la parte ove eccepisca la mancanza o l’illegittimità dell’autorizzazione deve semplicemente allegare il fatto dal quale dipende l’inutilizzabilità eccepita.

Nel secondo giudizio la legge richiede il solo deposito dei verbali e delle registrazioni ritenendoli documentazione sufficiente della prova ricavabile dalle captazioni autorizzate per l’accertamento di una vicenda criminale diversa da quella oggetto del procedimento ad quem.

Ciò posto, i decreti autorizzativi sono atti del procedimento a quo che vanno prodotti nel giudizio ad quem da chi vi abbia interesse, perché il controllo sulla legalità del procedimento di ammissione dell’intercettazione è demandato all’iniziativa delle parti. L’onere di dare dimostrazione dell’illegalità del procedimento di ammissione delle intercettazioni incombe su chi formula l’eccezione di inutilizzabilità.

In quest’ottica ex art. 270 comma 3 cpp il PM ed i difensori hanno facoltà di esaminare i verbali e le registrazioni in precedenza depositati nel procedimento d’origine; mentre per i decreti de quibus vengono in rilievo gli artt. 117 e 116 cpp.

Le indicate Sezioni Unite hanno declinato il principio, ormai  consolidato nella giurisprudenza della Suprema Corte[276], secondo cui qualora nel procedimento di destinazione non siano depositati i decreti autorizzativi, la parte non può invocare, per ciò solo, l’inutilizzabilità degli esiti intercettivi, tale sanzione ricollegandosi solamente alle illegalità dell’iter di ammissione delle captazioni nel giudizio a quo; pertanto, affinchè i risultati captativi siano dichiarati inutilizzabili nel giudizio ad quem, è necessario che la parte interessata dia specifica dimostrazione della mancanza o illegittimità dell’autorizzazione originaria.

Non vi è, dunque, un obbligo di deposito nel procedimento ad quem dei decreti autorizzativi.

Altra problematica è quella relativa alle conseguenze del mancato deposito delle registrazioni e dei verbali nel giudizio ad quem.

Posto che l’art. 271 comma 1 cpp prevede la sanzione dell’inutilizzabilità in caso captazioni eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge e ove non siano osservate le disposizioni di cui agli artt. 267 e 268 commi 1 e 3 cpp, secondo la Cassazione[277] al mancato deposito delle registrazioni e dei verbali nel giudizio ad quem non consegue l’inutilizzabilità degli esiti delle intercettazioni.

Tuttavia l’esclusione della sanzione dell’inutilizzabilità non equivale a negare che la violazione delle regole sul deposito degli atti de quibus, possa determinare la nullità[278] delle intercettazioni: a questo riguardo la Suprema Corte ha ritenuto che il mancato deposito nel procedimento ad quem dei verbali e delle registrazioni – in violazione di quanto prescritto dal secondo comma dell’art. 270 cpp – dia luogo ad una nullità di origine generale a regime intermedio ai sensi del combinato disposto degli art 178 lett. c) e 180 cpp comportando indubbiamente una lesione del diritto di difesa dell’imputato; sarà compito del Giudice valutare se essa sia stata tempestivamente eccepita[279].

13.7 Utilizzazione in altri procedimento e applicabilità dell’art. 268 commi 6, 7 ed 8 cpp.

Con riferimento alle modalità di acquisizione delle intercettazioni in procedimento diverso vengono in rilievo i commi 6, 7 ed 8 dell’art. 268 cpp, richiamati che il secondo comma dell’art. 270 cpp.

Posto che la rilevanza delle intercettazioni riversate nel procedimento ad quem è connessa all’ipotesi d’accusa in discussione in quest’ultimo, nell’ambito del procedimento ad quem è necessaria la rinnovazione oltre che del deposito dei verbali e delle registrazioni già compiuto nel procedimento a quo, ma anche della selezione e dell’acquisizione delle conversazioni rilevanti.

A tal fine, al di là del deposito delle registrazioni e dei verbali nel procedimento ad quem, l’art. 270 comma 3 stabilisce la facoltà del PM e delle difese di esaminare i verbali e le registrazioni in precedenza depositati nel procedimento in cui le intercettazioni furono autorizzate; tanto per far valere davanti al Giudice ad quem eventuali ipotesi di inutilizzabilità depositando, come visto, i decreti autorizzativi a tal fine acquisiti ex art. 116 cpp.

In merito alla trascrizione delle intercettazioni alla luce della prassi si ritiene che qualora tale operazione sia già stata fatta nel procedimento a quo appaia superflua una nuova perizia nel procedimento di destinazione; pertanto la prima perizia potrà essere acquisita ex art. 238 cpp nel procedimento ad quem.

Ulteriore problematica scaturisce dall’ipotesi in cui gli esiti delle captazioni trasmigrate in altro procedimento vengano dichiarate inutilizzabili dal Giudice del procedimento a quo.

L’interrogativo afferisce alla possibilità che l’inutilizzabilità dichiarata nella sede di provenienza possa estendersi anche al giudizio di destinazione.

La giurisprudenza[280] ha risposto negativamente: la valutazione compiuta dal primo Giudice non condiziona l’analogo vaglio operato dall’Autorità competente per il procedimento in cui i risultati intercettivi trasmigrano.

Pertanto il Giudice del procedimento ad quem ben potrebbe ritenere utilizzabili captazioni dichiarate inutilizzabili nel procedimento a quo in quanto l’inutilizzabilità è una forma di invalidità a carattere relativo e non assoluto.

A conferma si rileva che l’art. 270 cpp prevede espressamente anche nel procedimento ad quem la procedura di garanzia e controllo caratterizzata dal deposito della documentazione relativa alle operazioni di intercettazione, dall’acquisizione in contraddittorio e dallo stralcio.

Pertanto, a mezzo della procedura ex art. 268 commi 6, 7 ed 8 cpp richiamata dall’art. 270 cpp, è assicurata nel procedimento di destinazione la possibilità di verificare la regolarità formale e sostanziale delle intercettazioni eseguite nel giudizio originario.

Ove si ritenesse che l’inutilizzabilità dichiarata nel procedimento a quo possa incidere sull’utilizzo delle intercettazioni acquisite nel procedimento ad quem, le citate previsioni perderebbero di senso.

13.8 Art. 270 cpp ed indagini preliminari.

Il Legislatore non ha espressamente disciplinato l’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in altro procedimento che si trovi in fase di indagini.

Ovviamente il divieto probatorio previsto dall’art. 270 cpp riguarda il processo ma anche il procedimento, e pertanto anche la fase delle indagini: ne deriva che gli esiti delle intercettazioni eseguite in un procedimento non possono essere utilizzati in diverso procedimento, a fondamento di una misura cautelare, ove si proceda per un reato che non rientra nel perimetro delle deroghe dell’art. 270 cpp.

A conferma dell’applicabilità della norma de qua alla fase delle indagini giova rilevare che la rubrica dell’art. 270 cpp si riferisce ai “procedimenti” e che ai sensi dell’art. 191 comma 2 cpp, l’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione dei divieti e pertanto anche del divieto probatorio de quo, può essere rilevata in ogni stato e grado del procedimento.

Né depone in senso contrario la possibile di utilizzazione delle intercettazioni quale notitia criminis, venendo in rilievo una forma di utilizzabilità non probatoria.

In senso contrario, però, si potrebbe sostenere che la disciplina dettata dall’art. 270 cpp, atteso il riferimento alla discovery degli esiti intercettivi ed alla relativa procedura garantita, sia riferita alla sola fase processuale, l’unica in cui si pone il problema dell’acquisizione delle prove.

E tuttavia, ferma restando l’utilizzabilità quale notizia di reato, in sede di indagini appare inutile acquisire – ai fini probatori – da altro procedimento intercettazioni che, laddove non siano rispettate le deroghe di cui all’art. 270 cpp che dovrà essere applicato in sede dibattimentale, non potranno essere utilizzate.

14. L’uso dell’intercettazione come notizia di reato

Problematica connessa all’art. 270 cpp è quella relativa all’utilizzabilità degli esiti captativi come notizia di reato.

Secondo un principio ormai pacifico il divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in altro procedimento, di cui all’art. 270 cpp, va inteso nel senso che questi elementi non possono valere come prove in un diverso procedimento; di contro nessuna preclusione esiste con riguardo all’utilizzazione[281] di tali esiti intercettivi quali notizie di illeciti penali per l’inizio di un diverso procedimento e per l’espletamento di accertamenti volti ad acquisire nuovi elementi di prova.

In altri termini non vi è una disposizione codicistica che impedisca di dedurre, dalle intercettazioni disposte in altro procedimento, notizie di nuovi reati: notizie che potranno essere impiegate come punto di partenza per le relative indagini ed acquisizioni probatorie; i limiti di utilizzazione dei risultati captativi sanciti dalla norma in analisi non escludono la possibilità di uso degli stessi come notizia di reato.

A questo riguardo la Cassazione a Sezioni Unite[282] ha chiarito che “la inutilizzabilità delle intercettazioni in ambito processuale non ne esclude la funzione di notizia di reato, come tale utilizzabile dalla pubblica accusa per l’espletamento delle necessarie indagini volte all’acquisizione di elementi di prova sulla cui base potrà successivamente esercitare l’azione penale”.

15. L’intercettazione come corpo di reato.

Posto che l’impiego degli esiti captativi in altro procedimento incontra il divieto di utilizzazione ex art. 270 cpp salvo le specifiche deroghe da questo tipizzate, ulteriore questione giuridica connesso alla norma de qua concerne l’applicabilità del divieto in discorso per l’ipotesi in cui la comunicazione stessa integri una condotta criminosa.

Secondo un primo orientamento[283] la risposta al quesito sarebbe negativa atteso che l’art. 270 cpp non troverebbe applicazione ai casi in cui “la bobina della registrazione viene ad essere essa stessa corpo di reato”.

Dunque quando la conversazione captata non costituisce dialogo evocativo di un fatto-reato autonomamente esistente, ma integra ex se un reato, le relative registrazioni sono considerate “cose sulle quali il reato è stato commesso[284] e possono essere acquisite al processo secondo le norme disciplinanti l’uso processuale del corpo del reato; in simili ipotesi l’operatività dell’art. 270 cpp sarebbe esclusa.

Altra linea interpretativa[285] sosteneva che, nel caso di reato commesso attraverso una comunicazione telefonica, la bobina della registrazione non potesse ritenersi utilizzabile quale corpo del reato.

Secondo detta giurisprudenza occorrerebbe tenere distinto il risultato dell’intercettazione dalla cosa materiale (nastro occorrente per la registrazione) che documenta il fatto-reato, altrimenti realizzandosi una non corretta sovrapposizione tra la condotta criminosa e l’attività esterna di documentazione; tale opzione ermeneutica riteneva che il riferimento all’intercettazione come concetto di corpo del reato potrebbe ritenersi corretto solo nel caso in cui la captazione stessa costituisse condotta criminosa, come nei casi rientranti nel perimetro dell’art. 615 bis cp.

A dirimere il contrasto sono intervenute le Sezioni Unite Floris[286] che hanno definito la nozione di corpo di reato, da intendersi nella sua accezione ampia non legata all’esistenza di un’essenza materiale connessa alla commissione del reato.

L’art. 253 comma 2 cpp definisce corpo del reato “le cose sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso nonché le cose che ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo”, ed il termine “cosa” potrebbe indurre a ritenere che il Legislatore abbia voluto attribuire  al corpo del reato una accezione strettamente materiale, con esclusione dal concetto in discorso di tutto ciò che è immateriale.

E tuttavia:

  • negli artt. 254 e 254 bis cpp in tema di sequestro della corrispondenza o di dati informatici, si coglie che in relazione a determinate forme di comunicazione ciò che al Legislatore preme acquisire sia il contenuto della corrispondenza o del dato informatico anche se l’intervento ablativo si materializza sul contenitore. L’oggetto del sequestro, quindi, viene a connaturarsi di immaterialità, identificandosi, ai fini del provvedimento ablativo, il contenuto della comunicazione o del dato informatico rilevante per il processo, con il supporto materiale che lo ha registrato.
  • l’identificazione del supporto materiale che contenga elementi di natura dichiarativa costituenti illecito penale con il suo contenuto trova riconoscimento nell’art. 235 cpp che individua la categoria dei documenti costituenti corpo del reato;
  • vi sono reati in cui la condotta criminosa assume carattere dichiarativo (falsità ideologica) ed è pacifico che il supporto cartaceo o la registrazione che contiene l’elemento dichiarativo che integra la fattispecie criminosa costituisce corpo di reato ed oggetto del disposto dell’art. 235 cpp.

Alla luce delle superiori argomentazioni, considerando la nozione di corpo di reato nella sua accezione ampia, le Sezioni Unite hanno espresso il principio secondo cui “la comunicazione o conversazione oggetto di registrazione costituisce corpo del reato, unitamente al supporto che la contiene, solo allorchè essa stessa integri ed esaurisca la fattispecie criminosa, mentre deve essere escluso che sia tale una comunicazione o conversazione che si riferisca a una condotta criminosa o che ne integri un frammento, venendo portata a compimento la commissione del reato mediante ulteriori condotte rispetto alle quali l’elemento comunicativo assuma carattere meramente descrittivo”.

Ciò posto, la registrazione o la trascrizione del dato dichiarativo o comunicativo, che integra la fattispecie criminosa, costituisce corpo del reato da acquisirsi agli atti del procedimento ai sensi dell’art. 431 comma 1 lett. h) cpp e, pertanto, utilizzabile come prova nel processo penale.

A cartina di tornasole della validità dell’interpretazione sposata dalla Suprema Corte giova evidenziare che l’identificazione della registrazione con il corpo del reato, allorchè la stessa comunicazione integri ipotesi delittuosa, è espressamente prevista dall’art. 271 comma 3 cpp che sottrae all’obbligo di distruzione[287] la documentazione delle intercettazioni che costituisca corpo del reato.

La clausola di salvezza contenuta nell’art. 271 comma 3 cpp, dunque, individua un’eccezione al generale obbligo di distruzione della documentazione concernente i dialoghi inutilizzabili con riferimento alle ipotesi in cui queste costituiscano “corpo del reato”; la ratio di tale deroga è stata esplicata dalle citate Sezioni Unite “Floris”[288].

Infatti, secondo un orientamento[289] antecedente alle indicate Sezioni Unite il concetto di intercettazioni inutilizzabili che fossero anche corpo di reato veniva messo in relazione all’attività captativa illegittimamente eseguita che può integrare essa stessa reato: il riferimento è alle intercettazioni “private” o abusive[290] con integrazione del reato di cui all’art. 615 bis cp o di cui all’art. 617 cp.

 Invero, in tali ipotesi, l’intercettazione costituirà corpo del reato ex art. 615 bis o ex art.  617 cp nel procedimento instaurato a carico di chi ha operato[291] l’abusiva captazione, ma non viene in rilievo un utilizzo di intercettazioni in procedimento diverso.

La Cassazione a Sezioni Unite con la citata sentenza “Floris” da un lato ha evidenziato che il Legislatore ha previsto l’ipotesi in cui la documentazione delle intercettazioni, in considerazione del contenuto comunicativo o dichiarativo, costituisca corpo del reato, sottraendola all’obbligo di distruzione e consentendone l’acquisizione agli atti del procedimento ex art. 431 cpp, e dall’altro ha rilevato che l’art. 271 comma 3 cpp non ri riferisce alle ipotesi di captazioni abusive: “ è ipotizzabile che la disposizione intenda riferirsi alla fattispecie criminosa dell’interferenza illecita nella vita privata altrui, sanzionata dall’art. 615-bis c.p., considerato, da un lato, la collocazione della norma nella disciplina delle intercettazioni e, dall’altro, l’espresso riferimento ai divieti di utilizzazione stabiliti dai primi due commi dell’art. 271 c.p.p. che riguardano detta disciplina”.

Le superiori conclusioni sono state costantemente ribadite dalla successiva giurisprudenza[292].

16. L’inutilizzabilità delle intercettazioni (art. 271 cpp)

Con specifico riferimento alle intercettazioni la categoria dell’inutilizzabilità trova origine nella sentenza della Corte Costituzionale n. 34 del 1973 con cui il Giudice delle leggi intervenne sull’art. 266 del codice di rito del 1930 declinando principi[293] validi ancora oggi nella materia concernente il valore probatorio delle intercettazioni illegittime.

Successivamente con la riforma del 1988 è stato inserito nell’attuale codice di rito l’art. 271 che prevede[294] una specifica sanzione sul piano probatorio, quella dell’inutilizzabilità e non come in precedenza, quella della nullità.

In linea generale l’art. 191 cpp[295] prevede la cd. inutilizzabilità generale, al primo comma escludendo che possano essere utilizzate le prove “acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge”.

Pertanto il Giudice non potrà fare ricorso a qualsiasi tipo di prova, ma solo a quel materiale introdotto nel procedimento nel rispetto di quanto stabilito dalla legge. La disposizione citata è quindi diretta ad estromettere dal processo le prove raccolte in violazione dei divieti probatori, talora posti a tutela di diritti fondamentali della persona; a tal fine si è previsto il più ampio regime di rilevabilità per il vizio in discorso.

In tema di intercettazioni la norma da applicare non è quella generale di cui all’art. 191 cpp ma piuttosto quella ad hoc di cui all’art. 271 cpp in ragione della particolare insidiosità di questo strumento investigativo; lo stesso regime di rilevabilità delineato dall’art. 191 cpp vale con riferimento alla inutilizzabilità “speciale” prevista dall’art. 271 cpp, norma che detta una specifica disciplina di tale invalidità con riferimento alle intercettazioni.

In questo senso si sono pronunciate le Sezioni Unite[296] rilevando come in materia di intercettazioni la disciplina dell’inutilizzabilità a cui deve aversi riguardo è quella contenuta nell’art. 271 cpp, trattandosi di disciplina a carattere speciale che prevale su quella generale di cui all’art. 191 cpp.

Si è, quindi, circoscritta la conoscenza dell’organo giurisdizionale solamente alle risultanze di quelle captazioni che siano state legittimamente acquisite in conformità ai principi dettati dall’art. 15 Cost.; in definitiva l’invalidità de qua è indirizzata al giudice alla cui cognizione sono sottratte le prove ottenute in spregio ai limiti imposti dall’ordinamento a tutela dei diritti fondamentali della persona.

E tuttavia gli esiti captativi di cui sia stata riconosciuta la inutilizzabilità ex art. 271 cpp possono costituire notitia criminis per l’espletamento di nuove investigazioni: la giurisprudenza[297] di legittimità ha chiarito che l’inutilizzabilità degli esiti di intercettazioni non preclude la possibilità di condurre indagini per l’accertamento dei fatti reato eventualmente emersi dalle stesse. Infatti in materia di inutilizzabilità non opera il principio di cui all’art. 185 cpp secondo il quale la nullità dell’atto rende invalidi gli atti consecutivi che da quello dichiarato nullo dipendono[298]; posto che l’operatività della sanzione di inutilizzabilità dei mezzi probatori illegittimi è riservata al momento giurisdizionale, da intendersi non solo come fase dibattimentale ma come ogni fase o sede nella quale il giudice assume le proprie decisioni, pertanto le informazioni assunte attraverso mezzi di prova illegittimi, inutilizzabili per il giudice, possono essere utilizzate legittimamente dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria per il prosieguo delle indagini[299].

Detti principi sono stati condivisi anche dalla Corte Costituzionale[300] nella sentenza n. 219 del 2019: pertanto per l’inutilizzabilità che scaturisce dalla violazione di un divieto probatorio non può trovare applicazione un principio di “inutilizzabilità derivata” sulla falsariga di quanto è previsto, invece, nel campo delle nullità dall’art. 185 cp; ne deriva che le intercettazioni derivanti da decreti non motivati o comunque inutilizzabili possono essere comunque utili ai fini investigativi.

 

16.1 I casi di inutilizzabilità previsti dall’art. 271 comma 1 cpp.

L’art. 271 cpp che prevede diverse ipotesi di intercettazioni inutilizzabili (inutilizzabilità speciale) è stato modificato dal D. Lgs. 216/2017.

Ciò premesso, restano inutilizzabili le intercettazioni eseguite:

  1.  fuori dei casi consentiti dalla legge (artt. 266 cpp e 103 comma 5 cpp[301]); (art. 271 comma 1 cpp);
  2. senza l’osservanza delle disposizioni previste dall’art. 267 cpp (art. 271 comma 1 cpp);
  3. senza l’osservanza delle disposizioni previste dall’art. 268 commi 1 e 3 (art. 271 comma 1 cpp).

Per quanto concerne le intercettazioni eseguite fuori dei casi previsti dalla legge la norma da considerare, in primis è l’art. 266 cpp che elenca tassativamente i reati per i quali è consentito ricorrere al mezzo di ricerca della prova in commento. Pertanto ove le operazioni vengano eseguite rispetto ad illeciti che non rientrino nel catalogo di quelli indicati all’art. 266 cpp i risultati delle intercettazioni dovranno considerarsi inutilizzabili.

Devono ritenersi eseguite fuori dei casi previsti dalla legge quelle operate in violazione di specifiche immunità; si fa riferimento all’art. 90 Cost. per il Presidente della Repubblica, all’art. 68 comma 3 Cost. per i parlamentari, all’art. 96 Cost. per il presidente del Consiglio dei Ministri, all’art. 10 del Protocollo sulle immunità della Comunità Europea.

Deve inoltre essere considerata la violazione dell’art. 343 commi 2 e 3 cpp che vieta di sottoporre ad intercettazioni la persona nei confronti della quale sia necessaria l’autorizzazione a procedere, e la cui sanzione di inutilizzabilità è prevista dal comma 4 della stessa norma.

Un ulteriore divieto di utilizzazione si ricava dall’art. 407 cpp prevede che non si possa tenere conto dell’attività di indagine eseguita oltre i termini di durata massima delle indagini preliminari.

In merito alla violazione delle disposizioni di cui agli artt. 267 e 268 commi 1 e 3 cpp vengono in rilievo plurime possibili ipotesi in ragione della pluralità di regole poste da dette norme.

In particolare rivestono importanza i vizi di motivazione dei decreti giudiziali autorizzativi, di convalida o di proroga delle intercettazioni, il decreto emesso dal PM in via d’urgenza, il decreto con cui il Pm dispone lo svolgimento delle attività di ascolto mediante impianti esterni alla Procura.

Quanto alle violazioni del dettato della nuova disciplina si rileva che l’art. 271 cpp non richiama il comma 4 dell’art. 268 cpp e, pertanto, in caso di ritardato conferimento delle intercettazioni da parte della PG operante non discende[302], quale conseguenza, alcuna inutilizzabilità.

Ancora, non sono previste sanzioni di inutilizzabilità per la violazione delle norme procedure ex art. 268 commi 4, 5 e 6, 415 bis comma 2 bis e 454 comma 2 bis cpp.

Da ultimo, viene in rilievo il comma 1 bis dell’art. 271 cpp – inserito dal Dlgs 216/2017 e non modificato e destinato ad applicarsi ai procedimenti iscritti in data successiva al 31.8.2020 – con specifico riferimento alle intercettazioni ambientalimediante captatore informatico inserito in dispositivo elettronico portatile.

La norma de qua dispone che non possono essere utilizzati i dati acquisiti nel corso delle operazioni preliminari all’inserimento del captatore informatico sul dispositivo elettronico e i dati acquisiti al di fuori dei limiti di tempo e luogo indicati nel decreto autorizzativo.

Al secondo comma dell’art. 271 cpp è previsto che non possono essere utilizzate le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni delle persone indicate dall’art. 200 comma 1 cpp quando hanno ad oggetto fatti conosciuti perragione del loro ministero, ufficio o professione, salvo che le stesse persone abbiano deposto sugli stessi fatti o li abbiano in altro modo divulgati.

La norma mira ad estendere la tutela processuale del segreto professionale anche allo specifico ambito delle intercettazioni; si tratta di un segreto è già specificamente salvaguardato rispetto alla testimonianza diretta (art. 200 cpp) e alla testimonianza de auditu (art. 195 comma 6 cpp), oltre che in tema di sequestri (art. 256 comma 2 cpp).

Da questo punto di vista l’art. 271 comma 2 cpp può considerarsi una sorta di proiezione del diritto di astensione riconosciuto alle persone indicate dal comma primo e terzo dell’art. 200 cpp in sede di testimonianza; mediante la norma de qua si è mirato ad evitare che la sfera di riserbo garantita dalla legge potesse venire elusa mediante il ricorso al mezzo di ricerca della prova in esame.

Che questa sia la ratio della previsione in oggetto sembra trovare conferma nell’ultima parte dello stesso capoverso: vi si trova un’espressa clausola di salvezza per l’ipotesi in cui le persone de quibus “abbiano deposto sugli stessi fatti o li abbiano in altro modo divulgati”.

Tale formula è sostanzialmente coincidente con quella impiegata dal comma sesto dell’art. 195 cpp in tema di testimonianza indiretta.

16.2 La distruzione delle intercettazioni inutilizzabili.

Il terzo comma dell’art. 271 cpp impone, in ogni stato e grado del processo, la distruzione materiale della documentazione delle intercettazioni previste dai commi 1, 1 bis e 2 della medesima norma, salvo che la stessa costituisca corpo del reato.

La finalità della citata disposizione è quella di ridurre il rischio di elusione dei divieti codificati dall’art. 271 cpp.

Quanto alla fase di operatività della disposizione de qua, la norma fa riferimento al solo “processo”.

Ciò premesso, prima dell’entrata in vigore riforma si disquisiva sulla possibilità di applicazione nella fase delle indagini preliminari; oggi il punto di partenza del ragionamento si rinviene nella nuova procedura di acquisizione di cui all’art. 268 cpp che al comma sesto dispone che all’esito della procedura di selezione ed acquisizione delle conversazioni il giudice proceda, anche d’ufficio, allo stralcio delle registrazioni di cui rilevi l’inutilizzabilità.

Pertanto posto che all’esito dello spoglio delle intercettazioni il materiale inutilizzabile resterà custodito nell’archivio digitale appare impraticabile un’applicazione dell’art. 271 comma 3 cpp nella fase delle indagini preliminari.

Giova rilevare che la distruzione in analisi deve essere tenuta distinta da quella prevista dell’art. 269 commi 2 e 3 cpp.

L’oggetto materiale della distruzione prevista dall’art. 271 comma 3 cpp è costituito dalle intercettazioni di cui ai commi 1, 1 bis e 2 della stessa norma ovvero quelle inutilizzabili perché eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge o senza l’osservanza delle disposizioni previste dagli artt. 267 e 268 commi 1 e 3 cpp.

La distruzione prevista dall’art. 269 commi 2 e 3 cpp afferisce ai verbali e alle registrazioni non acquisite in quanto irrilevanti e/o non trascrivibili ex art. 268 comma 2 bis cpp, quindi diverse da quelle inutilizzabili sopra menzionate.

Ancora, l’art. 269 comma 2 cpp stabilisce che l’eliminazione, a tutela della riservatezza, della documentazione non acquisita possa essere richiesta al giudice dagli interessati: alcun potere officioso è riconosciuto al magistrato.

Di contro l’art. 271 cpp prevede un’attività di distruzione doverosa, che può essere disposta anche d’ufficio, senza escludere la facoltà delle parti di formulare istanze in tale senso.

L’art. 269 cpp prevede la conservazione nell’archivio riservato delle registrazioni non acquisite “fino alla sentenza non più soggetta a impugnazione”; rispetto ad eventuali istanze di distruzione (salvo i casi di intercettazioni inutilizzabili ex art. 271 comma 3 cpp cui la norma rimanda) decide in camera di consiglio il giudice che ha autorizzato o convalidato l’intercettazione.

Quindi l’eliminazione della documentazione de qua può essere richiesta subito, ma può essere disposta solo all’esito del sub procedimento da svolgersi nelle forme dell’art. 127 cpp.

Diversamente l’art. 271 comma 3 cpp stabilisce che l’ordine di distruzione è dato dal giudice in ogni stato e grado del processo, senza indicare una procedura da seguire.

Il giudice competente a disporre la distruzione di cui all’art. 271 comma 3 cpp è da identificarsi[303] nel giudice che ha dichiarato l’inutilizzabilità.

Circa la specifica fase temporale in cui può essere disposta la distruzione de qua, risulta ormai consolidato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui per poter addivenire alla distruzione delle intercettazione deve divenire irrevocabile il provvedimento che dichiara l’inutilizzabilità.

A questo riguardo la Cassazione[304] ha evidenziato che “La distruzione della documentazione delle intercettazioni inutilizzabili presuppone che l’inutilizzabilità sia dichiarata con decisione processualmente insuscettibile di modifiche e, pertanto, non può essere ordinata nel caso in cui detta decisione sia intervenuta nel giudizio abbreviato richiesto solo da alcuni dei coimputati”.

Ancora, a conferma la Suprema Corte ha pure chiarito che “La distruzione della documentazione delle intercettazioni, i cui risultati non possono essere utilizzati a norma dell’art. 271, commi primo e secondo, cod. proc. pen., non può essere disposta in esecuzione di una dichiarazione di inutilizzabilità intervenuta nel procedimento incidentale “de libertate”, perché presuppone una statuizione di inutilizzabilità processualmente insuscettibile di modifiche, che faccia escludere la possibilità di utilizzazione futura di quelle conversazioni nell’ambito del processo[305]  e che “In tema di intercettazioni telefoniche, il giudice delle indagini preliminari non può disporre, ai sensi dell’art. 271, comma 3, cod. proc. pen., la distruzione delle intercettazioni dichiarate inutilizzabili in sede di riesame, essendo necessaria una decisione in ordine all’inutilizzabilità adottata nell’ambito del processo di cognizione ed insuscettibile di modifiche.”[306]

16.3 L’eccezione alla distruzione: l’intercettazione come corpo di reato.

La clausola di salvezza contenuta nell’art. 271 comma 3 cpp, individua un’eccezione al generale obbligo di distruzione della documentazione concernente i dialoghi inutilizzabili con riferimento alle ipotesi in cui queste costituiscano “corpo del reato”.

Come evidenziato al paragrafo sub 15 il perimetro delle intercettazioni considerate dalla clausola di salvezza in analisi (captazioni inutilizzabili che siano corpo di reato) non è rappresentato dalle intercettazioni “private” o abusive, che fuoriescono dal perimetro degli artt. 266 cpp ss., ma da captazioni ritualmente autorizzate dall’ A.G. che vulnerino l’art. 271 commi 1, 1 bis e 2 cpp ed il cui contenuto comunicativo o dichiarativo costituisca reato.

A quest’ultimo riguardo è stato evidenziato con la nota sentenza “Floris”  che “in tema di intercettazioni, la conversazione  o comunicazione  intercettata, costituisce corpo del reato allorché essa integra di per sé la fattispecie criminosa, e, in quanto tale, è utilizzabile nel processo penale” e che “la identificazione della registrazione o dell’elemento documentale che ne costituisce trascrizione con il corpo del reato, allorché la stessa comunicazione o conversazione integra la fattispecie criminosa, è, peraltro, espressamente prevista proprio nella materia delle intercettazioni disciplinate dagli art. 266 e ss. c.p.p. Stabilisce infatti l’art. 271, comma 3, c.p.p.: <<In ogni stato e grado del processo il giudice dispone che la documentazione delle intercettazioni previste dai commi 1 e 2 sia distrutta, salvo che costituisca corpo del reato>>”.

Inoltre, e per quanto di specifico interesse, la pronuncia in commento ha chiarito che “Né, peraltro, è ipotizzabile che la disposizione intenda riferirsi alla fattispecie criminosa dell’interferenza illecita nella vita privata altrui, sanzionata dall’art. 615-bis c.p., considerato, da un lato, la collocazione della norma nella disciplina delle intercettazioni e, dall’altro, l’espresso riferimento ai divieti di utilizzazione stabiliti dai primi due commi dell’art. 271 c.p.p. che riguardano detta disciplina”.

Di conseguenza oggi è chiaro che l’art. 271 comma 3 cpp non si riferisce alle intercettazioni abusive che fuoriescono dal perimetro della disciplina codicistica, ma concerne intercettazioni di cui agli artt. 266 ss cpp., inutilizzabili ex art. 271 cpp, in cui la conversazione stessa integri reato.

17. Le registrazioni di conversazioni da parte di uno degli interlocutori.

Un aspetto particolarmente interessante nella tematica delle intercettazioni è quello concernente le registrazioni di conversazioni da parte di uno degli interlocutori.

A questo riguardo occorre distinguere tra due differenti ipotesi a seconda che la memorizzazione sia realizzata da uno dei dialoganti di propria iniziativa oppure dietro indicazione della polizia giudiziaria.

In ordine alla prima eventualità occorre prendere le mosse dalla nozione di intercettazione; come si è detto[307] pur mancando all’interno del codice una definizione di tale mezzo investigativo il sistema consente di individuare e delineare i caratteri fondamentali del medesimo.

In quest’ottica l’intercettazione consiste nella captazione occulta, in tempo reale, del contenuto di una conversazione o di una comunicazione in corso di svolgimento tra due o più persone; captazione eseguita da parte di altri soggetti estranei al colloquio.

Nel dettaglio i requisiti necessari affinché la captazione di un atto comunicativo possa essere qualificata come intercettazione sono stati individuati dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza “Torcasio”[308].

Si richiede in primis che i conversanti comunichino tra loro con il preciso intento di escludere soggetti estranei dal contenuto della comunicazione stessa e con modalità tali da mantenere quest’ultima riservata[309]: l’esclusione dei terzi dalla percezione dell’atto comunicativo non solo deve essere voluta ma deve anche risultare dalle concrete modalità dell’atto stesso.

In secundis la captazione per poter essere considerata un’intercettazione deve essere realizzata attraverso strumenti tecnici di percezione particolarmente invasivi, ovvero mezzi idonei a superare le elementari cautele predisposte, per assicurare la segretezza delle comunicazioni, dai loquenti.

Deve inoltre trattarsi di apparecchiature tali da consentire l’apprensione in tempo reale[310] del contenuto della comunicazione.

In terzo luogo viene in rilievo il requisito della terzietà del captante: per poter qualificare la captazione di una conversazione come intercettazione è necessario che tale attività sia compiuta da parte di un soggetto estraneo al dialogo che, in modo clandestino, viola la segretezza della comunicazione.

Alla luce dei superiori criteri identificativi non appare qualificabile come intercettazione la captazione di un colloquio effettuata di propria iniziativa da parte di uno dei conversanti all’insaputa dell’altro, per difetto dei requisiti sopra indicati.

Punto di partenza dell’analisi è rappresentato dal fatto che la disciplina delle intercettazioni è finalizzata a bilanciare due contrapposti interessi costituzionalmente rilevanti: quello alla libertà e segretezza delle comunicazioni e quello alla repressione dei reati; ha senso applicare detta disciplina laddove si sia in presenza di limitazioni alla libertà e segretezza delle comunicazioni.

Quando la comunicazione è registrata da uno dei conversanti non si ha alcuna lesione del diritto alla segretezza in quanto la registrazione è operata dal soggetto stesso cui è diretto l’atto comunicativo; pertanto, in tali ipotesi[311], non si potrà parlare di intercettazione e non si dovrà invocare, né applicare, la disciplina di cui agli artt. 266 ss cpp.

Posto che chi prende parte ad un colloquio giunge legittimamente a conoscenza di quanto in esso si discute, ne deriva che ciascun interlocutore è libero di formare prova di ciò che viene detto, anche ponendo in essere una registrazione; quest’ultima può considerarsi come un mero strumento mediante il quale il soggetto interessato memorizza fonicamente le informazioni apprese.

Ciò detto, la registrazione effettuata può essere acquisita al processo come prova documentale ex art. 234 comma 1 cpp; difatti questa norma fornisce una definizione di documento comprensiva di tutto ciò che rappresenta fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia e qualsiasi altro mezzo.

E da ultimo, come sottolineato nella sentenza in discorso, la documentazione fonografica de qua ha ad oggetto fatti in relazione ai quali sarebbe ammessa una testimonianza indiretta ex art. 195 cpp.

Alla luce delle Sezioni Unite citate la giurisprudenza[312] è consolidata nel sostenere che la registrazione di un colloquio, senza autorizzazione del magistrato, ad opera di una delle persone che vi partecipi non è qualificabile come intercettazione per mancanza di una lesione del diritto alla segretezza della comunicazione; mancanza che si ricollega al difetto del requisito dell’estraneità del soggetto captante.

Medesime considerazioni valgono con riguardo alla registrazione di un colloquio da parte di un terzo non destinatario che, tuttavia, il mittente, consapevolmente e volontariamente, ponga nella condizione di ascoltare il dialogo: non sussiste in tal caso alcuna lesione del diritto alla segretezza della comunicazione.

17.1 Le conseguenze dell’incertezza sull’autore della registrazione

L’ipotesi in cui sia incerto l’autore della registrazione pone problemi di qualificazione giuridica e di utilizzabilità.

 Affrontando specificamente il tema la Cassazione[313] nel 2020 ha evidenziato che un file-audio del quale si sconosce l’autore della registrazione, in ragione della mancata acquisizione di elementi di fatto inerenti alle modalità della sua formazione, non può considerarsi un documento.

Pertanto non può essere considerato documento ex art. 234 cpp la registrazione rispetto alla quale non vi sia prova certa che la stessa provenga da una delle persone “che partecipava o che fosse comunque legittimata ad assistereall’incontro”; nell’occasione si è inoltre chiarito che l’onere di individuare chi avesse proceduto a realizzare la registrazione, e con quali modalità, fa capo all’accusa.

Da ultimo la citata sentenza ha evidenziato l’applicabilità, a tali tipi di registrazione, dell’art. 191 cpp: operando un richiamo a due pronunce a Sezioni Unite[314] volte a riconoscere l’applicabilità dell’art. 191 cpp anche alle prove incostituzionali in quanto formate o acquisite in violazione dei diritti soggettivi tutelati dalla Costituzione, come nel caso dell’art. 15 Cost., ha chiarito che “la registrazione in parola, nell’attuale incertezza sulle sue modalità di acquisizione, in quanto potenzialmente lesiva dei diritti fondamentali dell’individuo costituzionalmente tutelati, non [potesse] essere utilizzata nel processo e in sede cautelare, alla stregua del divieto recato dall’art. 191 comma 1 cod. proc. pen”.

Ancora, alla registrazione in discorso non può applicarsi neppure la disciplina delle intercettazioni di cui agli artt. 266 ss cpp in difetto della prova che la captazione sia stata disposta dall’Autorità Giudiziaria.

Ne deriva, in conclusione, che la registrazione de qua che non può essere considerata documento ex art. 234 cpp e non può essere considerata intercettazione si pone nel perimetro applicativo dell’art. 191 cpp.

E tuttavia il contenuto di tale file, come precisato dalla medesima pronuncia, può assumere rilievo come notitia criminis in ossequio all’indirizzo giurisprudenziale secondo cui “l’operatività della garanzia di inutilizzabilità dei mezzi probatori illegittimi è riservata al momento giurisdizionale, da intendersi non solo come fase dibattimentale, ma come ogni fase o sede nella quale il giudice assume le proprie determinazioni” da ciò derivando che “le informazioni assunte attraverso mezzi di prova illegittimi, inutilizzabili per il giudice, possono essere utilizzate legittimamente dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria per il prosieguo delle indagini”.

18 Le registrazioni eseguite dal privato in accordo con la polizia giudiziaria.

L’ipotesi in cui la registrazione della conversazione venga effettuata dall’interlocutore non di propria iniziativa ma in accordo con la polizia giudiziaria è ovviamente differente rispetto a quelle analizzate in precedenza.

In tali casi viene in rilievo la tematica dell’“agente segreto attrezzato per il suono”[315]: si tratta del caso del privato a cui la polizia giudiziaria chiede di avvicinare una persona per rivolgergli domande e registrare il colloquio che ne scaturisce.

Sul punto si è aperto un ampio dibattito giurisprudenziale[316] non ancora addivenuto ad uniformità.

Secondo le Sezioni Unite “Torcasio” al pari della registrazione effettuata autonomamente da uno degl’interlocutori, anche quella realizzata su input della polizia giudiziaria non integra intercettazione, difettando il requisito della terzietà del soggetto captante.

In tali ipotesi mancherebbe l’intromissione di una persona non autorizzata nella vita privata di terzi in quanto il privatore munito di registratore è soggetto ammesso legittimamente a partecipare al colloquio: la registrazione de qua, in quanto rappresentativa di un fatto, dovrebbe essere qualificata come prova documentale ex art. 234 cpp.

A questo riguardo, dopo le citate Sezioni Unite “Torcasio”, in seno alla Suprema Corte sono nati due orientamenti.

Una opzione ermeneutica[317], fondata sulla diretta riferibilità della registrazione alla polizia giudiziaria, ha ritenuto detta registrazione assimilabile ad una intercettazione, con ciò richiedendo l’applicazione della disciplina di cui agli artt. 266 ss cpp.

In talune occasioni la Corte[318] ha affermato che la disciplina in tema di intercettazioni ambientali debba applicarsi almeno al caso in cui il partecipante alla conversazione utilizzi strumenti tecnici che consentono alla PG l’ascolto del colloquio in tempo reale, venendo rispettato, in tali ipotesi, il requisito dell’attualità della captazione indicato espressamente dalla Sezioni Unite “Torcasio” come elemento costitutivo del concetto di intercettazione.

Opposto orientamento[319] riprendendo le affermazioni della ridetta pronuncia “Torcasio” ha ritenuto che la registrazione realizzata dal privato su imput della PG costituisse documento fonografico, e come tale acquisibile secondo la disciplina dell’art. 234 cpp senza previa autorizzazione dell’operazione de qua da parte dell’autorità giudiziaria.

Punto di partenza del ragionamento era il fatto che la garanzia costituzionale non copre l’attività di registrazione del colloquio posta in essere da uno degli interlocutori: la disciplina di garanzia prevista per le intercettazioni riguarda esclusivamente l’intromissione esterna dell’autorità in una conversazione intercorrente tra altri soggetti, poiché in tal caso si va ad incidere sulla libertà e segretezza delle comunicazioni.

Pertanto, le norme previste dagli artt. 266 ss c.p.p. non si applicherebbe ai colloqui registrati da parte di uno degli interlocutori, anche laddove la registrazione sia stata da questi effettuata su richiesta della polizia giudiziaria ovvero questi abbia agito utilizzando materiale dalla stessa fornito[320].

Sul punto è anche intervenuta la Corte Costituzionale[321] nel 2009 respingendo la questione di legittimità costituzionale sollevata rispetto agli artt. 234 e 266 comma 2 cpp nella parte in cui – secondo l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità – includono tra i documenti e non tra le intercettazioni, le registrazioni di conversazioni effettuate da uno degli interlocutori d’intesa con la polizia giudiziaria e, comunque, nell’ambito di un procedimento penale già avviato; così sottraendole alla disciplina dell’art. 266 cpp e, in ogni caso alla necessità di un provvedimento autorizzativo del giudice.

Infatti sulla base dei principi espressi dalla sentenza “Torcasio” era stato evidenziato che la normativa in tema di intercettazioni non si sarebbe dovuta applicare ai colloqui registrati da uno dei conversanti neppure nel caso di previo accordo in tal senso con la polizia giudiziaria ed ove i relativi strumenti fossero stati forniti da quest’ultima. Pertanto in tali ipotesi si sarebbe avuto un documento fonografico acquisibile al processo ex art. 234 cpp.

Tuttavia, secondo il giudice a quo, detta impostazione avrebbe dovuto essere vagliata alla luce dei principi declinati dalle Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza “Prisco”[322]. Considerando la distinzione tra documenti ed atti del procedimento, detta pronuncia ha evidenziato che le norme del codice di procedura penale dettate con riferimento ai primi, sono state concepite con esclusivo riferimento ai documenti formati fuori dal processo nel quale si chiede o si dispone l’acquisizione.

Ciò posto, ai fini dell’ammissione di una prova documentale è necessaria la sussistenza congiunta di due condizioni: il documento deve essere formato materialmente fuori, ma non necessariamente prima, del procedimento, e si richiede che l’oggetto del documento attenga al fatto oggetto di conoscenza giudiziale e non riguardi invece lo svolgimento del processo.

Da ciò si è dedotto che solo le videoregistrazioni effettuate al di fuori del procedimento possono essere introdotte nel processo come documenti e diventare prova ex art. 234 cpp.

Diversamente quelle videoriprese operate dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini costituiscono documentazione investigativa; dunque queste ultime possono essere utilizzate processualmente solo se riconducibili ad altra categoria probatoria.

Prendendo le mosse da tale distinzione il giudice a quo aveva ritenuto che la registrazione di una conversazione effettuata da uno dei conversanti d’intesa con la polizia giudiziaria non potesse essere considerato documento ma integrasse piuttosto un atto di indagine.

Come anticipato, la questione di legittimità costituzionale è stata dichiarata inammissibile dal Giudice delle Leggi; e tuttavia la pronuncia de qua risulta rilevante perché pare avere riconosciuto la necessità di tenere conto, anche nella materia di cui si discute, della distinzione operata dalle Sezioni Unite “Prisco”.

In quest’ottica la citata sentenza costituzionale è stata richiamata dalle successive decisioni della Suprema Corte sul tema in esame che hanno ribadito la differenza che intercorre tra documenti e documentazione investigativa, osservando che detta distinzione deve trovare applicazione alla materia in discorso.

Secondo tale indirizzo[323] ermeneutico la registrazione occulta eseguita da uno dei privati partecipanti al colloquio in accordo con la polizia giudiziaria non può costituire un documento formato al di fuori del procedimento ed utilizzabile ai sensi dell’art. 234 cpp, rappresentando documentazione di un’attività investigativa (essendosi in presenza di un vero e proprio uso investigativo dello strumento magnetofonico).

Ciò posto, trattandosi di operazioni che incidono sul diritto alla segretezza delle comunicazioni, esse necessitano di un apposito controllo da parte dell’autorità giudiziaria – così differenziandosi dalle registrazioni realizzate da uno degli interlocutori di propria iniziativa -, senza che ciò comporti la necessità di applicare le norme di cui agli artt. 266 ss cpp.

Da rilevare che le registrazioni de quibus non possono essere equiparate alle intercettazioni ambientali e, quindi, non possono ritenersi sottoposte ai limiti previsti per queste ultime.

A questo riguardo si evidenzia che le due operazioni hanno una differente incidenza sulla segretezza delle comunicazioni: non vi è dubbio che le registrazioni fonografiche effettuate da uno degli interlocutori d’intesa con le forze dell’ordine siano meno invasive delle sfera privata.

Si tratta, infatti, di operazioni che si svolgono con il consenso di uno dei due soggetti partecipanti al colloquio, diversamente da quanto avviene per le intercettazioni.

In conclusione si è affermato[324] che le registrazioni di colloqui eseguite da uno dei partecipanti allo stesso, in collaborazione con la polizia giudiziaria e con strumenti da quest’ultima forniti, richiedono a pena di inutilizzabilità un previo provvedimento motivato di autorizzazione emesso dal giudice o anche dal PM.

Per completezza deve darsi atto che pur in presenza dell’invito formulato dalla Corte Costituzionale citata seguire la strada indicata dalla sentenza “Prisco,  vi sono state pronunce[325] che hanno riconosciuto comunque la sussistenza della prova documentale anche nel caso di suggerimento o incarico proveniente dalla polizia giudiziaria e ciò sulla base del fatto che la registrazione è materialmente effettuata da un privato protagonista della conversazione e dunque da persona estranea agli apparati investigativi e pienamente legittimata a rendere testimonianza nel processo.

Altre pronunce[326] hanno nuovamente attribuito nuovamente carattere decisivo all’attualità della captazione ritenendo che se il collaborante si limiti a registrare la conversazione si abbia una prova documentale, mentre se si consenta alla polizia giudiziaria di ascoltare in contemporanea viene in rilievo una intercettazione.

Alla luce del complesso panorama giurisprudenziale non è quindi possibile pervenire a conclusioni specifiche nella materia trattata; si potrebbe accogliere, in una prospettiva de iure condendo, a livello normativo l’orientamento seguito dalla giurisprudenza maggioritaria[327] secondo cui per svolgere simili registrazioni è necessario un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, ben potendo questo essere costituito anche da un mero decreto del PM.

Soluzione preferibile anche poiché indicata come tale dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 320 del 2009.

Ipotesi ulteriore, e differente, è quella in cui a registrare il colloquio sia operatore di polizia giudiziaria: viene in rilievo, a questo riguardo la prassi della pg. di registrare occultamente i colloqui intrattenute con persone informate sui fatti, indagati o confidenti.

Orbene, ove a registrare il contenuto della conversazione a cui partecipa sia un agente di polizia, l’attenzione deve spostarsi sulla particolare qualità di tale interlocutore, ponendosi l’esigenza di assicurare il rispetto delle specifiche regole stabilite dalla legge in ordine all’acquisizione delle prove.

Ciò posto, tali operazioni risultano in contrasto con l’art. 188 cpp: il rischio che deve essere evitato è quello di ricorrere alle registrazioni de quibus come espediente per procurarsi dichiarazioni altrimenti non ottenibili.

Ciò posto, la pronuncia Torcasio ha fissato una importante serie di limitazioni, stabilendo che non è acquisibile al processo né, ove acquisita, è utilizzabile come prova la registrazione fonografica realizzata occultamente da appartenenti alla polizia, nel corso di operazioni investigative, durante colloqui da loro intrattenuti con indagati, confidenti o persone informate sui fatti quando si tratti rispettivamente di:

  • dichiarazioni indizianti raccolte senza le garanzie indicate all’art. 63 cpp;
  • informazioni confidenziali inutilizzabili per il disposto dell’art. 203 cpp;
  • dichiarazioni sulle quali sia preclusa la testimonianza in applicazione degli artt. 62 e 195, comma 4, cpp.

A sostegno di tale principio la Corte ha osservato che la registrazione di una comunicazione da parte di soggetto che ne sia stato partecipe, per quanto astrattamente suscettibile di produzione come documento, non può sostituirsi, in violazione dell’art. 191 cpp, a fonti di prova delle quali la legge vieta l’acquisizione.

Infatti, il divieto di testimonianza indiretta degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, che il comma 4 dell’art. 195 cpp stabilisce con riguardo al contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lett. a) e b), cpp, si riferisce tanto alle dichiarazioni che siano state ritualmente assunte e documentate in applicazione di dette norme, quanto ai casi nei quali la polizia giudiziaria non abbia provveduto alla redazione del relativo verbale, con ciò eludendo proprio le modalità di acquisizione prescritte dalle norme medesime.

Sono dunque inutilizzabili come prove le registrazioni fonografiche di colloqui effettuate da operatori di pg ogni qualvolta violino divieti previsti dagli artt. 63 comma 2, 191, 195 comma 4 e 203 cpp.

Dunque le Sezioni Unite hanno chiarito che la prova documentale contemplata all’art. 234 cpp non può essere impiegata per introdurre nel processo informazioni la cui cognizione da parte del giudice risulta preclusa in quanto carpite in “frode alla legge”[328].

19. Le intercettazioni “a cornetta sollevata”.

Interesse suscita il tema, sempre attuale, delle intercettazioni a cornetta sollevata.

Nella prassi può capitare che a seguito della rituale autorizzazione di una intercettazione telefonica, il soggetto posto sotto controllo, dopo avere sollevato la cornetta del telefono (cui è associata l’utenza) e prima di comporre il numero da chiamare – o prima di instaurare il contatto telefonico con l’interlocutore corrispondente al numero composto – intrattenga un colloquio con un terzo presente nel medesimo luogo in cui si trova l’apparecchio telefonico.

Posto che in caso di intercettazione telefonica la captazione ha inizio nel momento stesso in cui è sollevata la cornetta, in simili ipotesi viene in rilievo una captazione inter praesentes mediante intercettazione telefonica.

Sul medesimo piano si pongono le ipotesi in cui il colloquio tra presenti abbia luogo all’esito della conversazione telefonica e venga captato in ragione del successivo errato ricollocamento della cornetta del telefono che, quindi, resta sollevata.

Ciò posto, entrambe le tipologie di intercettazione incidono sull’altrui diritto alla riservatezza: le intercettazioni telefoniche colpiscono l’affidamento sulla riservatezza della comunicazione legato al tipo di mezzo utilizzato (il telefono) quelle ambientali attentano all’affidamento sulla riservatezza connesso al luogo scelto per la conversazione.

Trattandosi di due distinte tipologie di intercettazioni è necessario che ciascuna di esse formi oggetto di autonoma autorizzazione.

Nelle ipotesi di intercettazione a cornetta sollevata, quindi, la vexata quaestio attiene all’individuazione dell’autorizzazione necessaria per eseguire una simile operazione captativa e, più nello specifico si tratta di comprendere se l’autorizzazione a svolgere l’intercettazione telefonica sia idonea a legittimare[329] anche la captazione dell’eventuale dialogo tra presenti posto in essere a cornetta sollevata.

A questo riguardo la Corte di Cassazione[330] è intervenuta nel 1993 con una prima pronuncia di segno negativo rilevando che è inutilizzabile il contenuto di una conversazione tra presenti intercettata in modo anomalo e fortuito (nella specie a seguito di errato posizionamento del ricevitore) non potendo estendersi detta autorizzazione, legata a presupposti e parametri del tutto diversi rispetto a quelli legittimanti una intercettazione ambientale, a quest’ultima.

Si mirava ad evitare condotte elusive delle garanzie presidiate dalle norme disciplinanti le intercettazioni.

Un successivo indirizzo di segno positivo, ormai assolutamente consolidato[331], ha invece chiarito che “le intercettazioni di conversazioni che l’utente sotto controllo, sollevata la cornetta dell’apparecchio telefonico domestico, e prima di comporre il numero del destinatario, abbia occasionalmente con persone presenti…non abbisognano di particolare autorizzazione, non potendo essere considerate alla stregua delle intercettazioni ambientali operate nei luoghi la cui riservatezza esige maggiore tutela”; pertanto l’autorizzazione alla base dell’intercettazione delle conversazioni telefoniche rende legittima anche la captazione di quelle del genere in analisi.

A sostegno del superiore principio è stato sottolineato che una volta che sia stata autorizzata l’intercettazione delle conversazioni telefoniche è irrilevante l’oggetto delle registrazioni purché queste siano realizzate con lo specifico mezzo in relazione al quale è stata concessa l’autorizzazione; dunque l’audizione nel corso di una intercettazione telefonica di frasi pronunciate da chi si trova nei pressi dell’apparecchio non trasforma in “tra presenti” la intercettazione telefonica.

Da ultimo e sempre in questo senso è stato evidenziato[332] che “Nel caso di intercettazione telefonica “a cornetta sollevata”, la registrazione dei colloqui fra presenti, casualmente ascoltati nel corso di un’intercettazione telefonica ritualmente autorizzata, anche prima dell’inizio della conversazione, è utilizzabile, non solo per l’applicazione di una misura cautelare, ma anche ai fini del giudizio”.


[1] Marinelli C., Intercettazioni processuali e nuovi mezzi di ricerca della prova, Giappichelli, Torino, 2007, p. 99ss.

[2] Si veda in particolare: Camon A., Le intercettazioni nel processo penale, Giuffrè, Milano, 1996, p. 1.

[3] Infatti mentre nelle perquisizioni, nelle ispezioni e nei sequestri la ricerca della prova avviene in modo palese verificandosi una intrusione percepita dai destinatari (tanto che i soggetti sottoposti a perquisizione possono risultare riottosi all’operazione stessa ed il decreto di sequestro successivo all’apprensione materiale della res viene notificato alla persona a cui le cose sono state sequestrate ex art. 253 comma 4 cpp) nelle intercettazioni l’intrusione investigativa non è avvertita da chi la subisce.

[4] Nel senso che l’intercettazione si connoti per “l’assoluta estraneità al colloquio del soggetto captante che, in modo clandestino, consenta la violazione della segretezza della conversazione”, v. Cass. Pen., Sez. Un., 28.5.2003, n. 36747, Torcasio.

[5] La predetta finalità emerge dall’art. 267 comma 1 cpp che richiede, quale presupposto per l’emanazione da parte del Gip del decreto autorizzativo delle operazioni, l’assoluta indispensabilità delle attività in oggetto ai fini della prosecuzione delle indagini.

[6] Si può pensare al caso delle intercettazioni preventive, espressamente previste e disciplinate dall’art. 226 disp. att. c.p.p. E tuttavia tali captazioni vanno distinte da quelle disciplinate dall’art. 266 c.p.p. (dirette alla ricerca di elementi probatori in ordine a reati già commessi), attesa la finalità non investigativa ma di mera prevenzione dei reati.

[7] Infatti il presupposto per lo svolgimento dell’atto intercettivo è la sussistenza di indagini in corso, per cui la notizia di reato deve risultare già iscritta nel registro ex art. 335 c.p.p.

[8] Cass. Pen., Sez. Un., 28.5.2003, n. 36747, Torcasio, cit.

[9] Cass. Pen., Sez. Un., 28.5.2003, n. 36747, Torcasio, cit.

[10] Sul punto si veda: Caprioli F., Intercettazione e registrazione di colloqui tra persone presenti nel passaggio dal vecchio al nuovo codice di procedura penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1991, p. 155.

[11] A questo riguardo si veda: Illuminati G., La disciplina processuale delle intercettazioni, Giuffrè, Milano, 1987, p. 27

[12] Si potrebbe pensare al caso dell’agente di polizia che, seduto su una panchina, ascolti clandestinamente una conversazione tra due soggetti.

[13] Sul punto, si veda Filippi L., voce Intercettazioni telefoniche (diritto processuale penale) in Enc. Dir., Aggiornamento, Vol. VI, Giuffrè, Milano, 2002, p. 565.

[14] Sul punto, funditus, si veda Marinelli C., op. cit., p. 21

[15] Caprioli F., Colloqui riservati e prova penale, Giappichelli, Torino, 2000, p. 176.

[16] Zingarelli N., voce Comunicazione, Vocabolario della lingua italiana, Zanichelli, Bologna, 2007.

[17] Zingarelli N., op. ult. cit.

[18] Cass. Pen., 10.11.1997, n. 4397, Greco;

[19] E’ il caso emblematico del messaggio di testo (sms) inviato tramite cellulare e pervenutoa soggetto diverso dal destinatario.

[20] Marinelli C., Op. cit., p. 24.

[21] Filippi L., Op. cit, p. 10; Caprioli F., Intercettazioni e registrazione, op. cit., p.156.

[22] Corte Europea dei diritti dell’uomo, 23.11.1993, sentenza A. contro Francia.

[23] Cass. Pen., 20.5.1997, n. 5894, Bottaro ed altri; Cass. Pen., 6.12.1994, n. 2164, Imerti e altri.

[24] Il fenomeno delle intercettazioni private deve essere tenuto distinto da quello delle registrazioni di colloqui eseguite da parte di uno degli interlocutori dacché, in quest’ultima ipotesi, manca il requisito della terzietà del soggetto captante.

[25] A questo riguardo si veda esaustivamente: Tonini P. e Conti C., Manuale di Procedura Penale, Giuffrè, 2022, p. 208 ss.

[26] Nobili M., la nuova procedura penale. Lezioni agli studenti, Clueb, Bologna, 1989, p. 149.

[27] In questo senso Cass. Pen., 10.5.2014, n. 35681, secondo cui “Sono inutilizzabili, in quanto acquisite in violazione della norma dell’art. 615 bis cod. pen., le prove ottenute attraverso una interferenza illecita nella vita privata. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto inutilizzabile una registrazione illegittimamente effettuata da un coniuge delle conversazioni intrattenute, in ambito domestico, dall’altro coniuge con un terzo)”.

[28] Cordero F., Procedura Penale, Giuffrè, 2006, p. 617; ancora Cordero F., Prove Illecite, in Tre studi sulle prove penali, Milano, 1963, p. 63 e 149.

[29] Devono farsi salve le specifiche previsioni dettate dal legislatore con riguardo alle intercettazioni nei confronti di parlamentari, alle intercettazioni delle comunicazioni dei difensori, degli investigatori privati e incaricati in relazione al procedimento, dei consulenti tecnici e dei loro ausiliari.

[30] In argomento, si vedano Pestelli G., La controriforma delle intercettazioni di cui al d.l. 30 dicembre 2019 n. 161: una nuova occasione persa, tra discutibili modifiche, timide innovazioni e persistenti dubbi di costituzionalità, in SP, 2020 (2), 126 ss; Camon A., Il Nuovo procedimento di spoglio dei risultati delle intercettazioni, in Legislazione Penale, 11, 2020.

[31] In specie – e fatta salva l’introduzione del delitto di cui all’art. 617 septies c.p., in vigore dal 28 gennai 2018 – sono stati modificati gli artt. 103, 114, 242, 266, 267, 268, 269, 270, 291, 203, 295, 415 bis, 422, 454, 472 c.p.p.

[32] Le innovazioni hanno riguardato gli artt. 89, 89 bis, 92 disp. att. c.p.p.

[33] La precedente disciplina transitoria di cui al decreto legislativo n. 216/2017 prevedeva, diversamente, l’applicazione delle nuove disposizioni alle operazioni d’intercettazione correlate a provvedimenti autorizzativi emessi dopo la data ivi indicata, contemplando la possibilità che, nell’ambito dello stesso procedimento, vi fossero captazioni con differente regolazione giuridica.

[34] Marinelli C., Intercettazioni processuali e nuovi mezzi di ricerca della prova, Giappichelli, Torino, 2007, p. 6.

[35] In argomento si veda Vele A., Ambito di applicazione dello strumento intercettazioni. Uso dei risultati in altri procedimenti, in Legislazione Penale, 24.11.2020.

[36] E’ conveniente ricordare che la materia delle intercettazioni risente dello scontro tra vari interessi in conflitto: da un lato occorre disciplinare attentamente le condizioni che legittimano la compressione, a fini processuali, della segretezza delle comunicazioni, dall’altro tutelarne la riservatezza, altamente compromessa dal mezzo di ricerca della prova in esame; cfr. Tonini P. e Conti C., Manuale di Procedura Penale, Giuffrè, 2022, p. 427 ss.

[37] Anche in tal caso il legislatore applica il criterio qualitativo; deve notarsi che per la prima volta nel catalogo di cui all’art. 266 c.p.p. si fa riferimento non ad un titolo di reato ma ad un’aggravante (art. 416 bis.1 introdotta con D. Lgs n. 21 del 2018; in precedenza art. 7 D. L. n. 152 del 1991).

[38] Cass. Pen., 22.3.1994, n. 9247, Dell’Erba.

[39] Ex Multis: Cass. Pen., 28.2.1994, n. 5331, Roccia; nonché Cass. Pen., 28.9.1995, n. 794, Russo; Cass. Pen. 20.10.2009, 50072, Bassi; Cass. Pen., 22.9.2010, n. 39761. Da ultimo Cass. Pen., 16.5.2019 n. 40122. Si veda, inoltre, più di recente Cass. Pen., 20.1.2021, n. 23148, secondo cui “In tema di intercettazioni, il principio secondo cui l’utilizzabilità delle intercettazioni per un reato diverso, connesso con quello per il quale l’autorizzazione sia stata concessa, è subordinata alla condizione che il nuovo reato rientri nei limiti di ammissibilità previsti dall’art.266 cod. proc. pen., non si applica ai casi in cui lo stesso fatto-reato per il quale l’autorizzazione è stata concessa sia diversamente qualificato in seguito alle risultanze delle captazioni. (In motivazione la Corte ha precisato che in tale evenienza non vi è elusione del divieto di cui all’art. 270 cod. proc. pen., attese l’intervenuta legittima autorizzazione dell’intercettazione e la modifica dell’addebito solo per sopravvenuti fisiologici motivi, legati alla naturale evoluzione del procedimento)”.

[40] Cass. Pen. 16.5.2019 n. 40122 richiamando Cass. Pen. 1.3.2016, n. 21740.

[41] Cass. Pen., 1.3.2016, n. 21740; Cass. Pen., 4.10.2012, n. 49795; Cass. Pen., 23.2.2016, n. 9500.

[42] Cass. Pen., Sez. Un., 28.11.2019 (dep. 2.1.2020) n. 51, Cavallo.

[43] Cass. Pen., Sez. Un., 28.11.2019 (dep. 2.1.2020) n. 51, Cavallo.

[44] Tale ulteriore limite di ammissibilità si giustifica con la volontà del Legislatore di tutelare non solo la segretezza delle comunicazioni ex art. 15 Cost., ma anche l’inviolabilità del domicilio. In altri termini la disposizione contenuta nell’art. 266 comma 2 cpp è finalizzata alla tutela della libertà di cui all’art. 14 Cost: libertà violata anche nel caso di <<penetrazione meramente sensoriale (in questo caso acustica) tra le altrui mura domestiche>>.

[45]La scelta del legislatore di graduare l’intensità delle garanzie in considerazione del luogo di svolgimento delle conversazioni da intercettare non è finalizzata ad assicurare solo la tutela della segretezza delle comunicazioni, ma è funzionale alla salvaguardia dell’inviolabilità del domicilio. In altri termini la disposizione di cui all’art. 266 comma 2 cpp è finalizzata anche alla tutela della libertà di cui all’art 14 della Costituzione; libertà violata anche nel caso della penetrazione meramente sensoriale tra le altrui mura domestiche. A questo riguardo si veda compiutamente: Camon A., Colloqui riservati e prova penale, Giappichelli, Torino, 2000.

[46] A questo riguardo Gaito A., La prova penale, Utet, Torino, 2008, pag. 141 secondo cui “il domicilio è qualunque luogo di cui si disponga a titolo privato, anche se non si tratta di privata dimora”.

[47] Corte Cost. 11.4.2002, n. 135

[48] Cass. Pen., 14.5.1981, n. 5767; Cass. Pen., 26.2.2003, n. 18810

[49] Nella direzione de qua: Cass. Pen., 6.11.1984, n. 1353

[50] Cass. Pen., 19.10.1992, n. 4141. Nello stesso senso già Cass. Pen., 6.11.1984, n. 1353.

[51] Cass. Pen., 10.1.2003, n. 6962.

[52] Funditus sull’argomento si veda: Cass. Pen., 15 giugno 2000, 7063, Viskovic che ha evidenziato come la nozione di domicilio accolta dall’art. 14 Cost sia più ampia di quella di cui all’art. 614 cp, ricomprendendo – con conseguente tutela costituzionale – tutti quei luoghi, siano o meno di privata dimora, dei quali l’utilizzatore ha sia pure in via temporanea, ma comunque esclusiva, la disponibilità. Ancora, il concetto de quo ricomprenderebbe anche quegli spazi nei quali è assicurata, anche solo temporaneamente, la intimità e la riservatezza della persona che vi si trova. In definitiva, secondo questo orientamento, potrebbe essere qualificata come domicilio anche la toilette del locale pubblico, trattandosi indubbiamente di un ambiente in cui è garantita all’utente la possibilità di farne uso in modo riservato.

[53] Cass. Pen., 10.1.2003, n. 3443; Cass. Pen., 10.1.2003, n. 6962.

[54] Cass. Pen., Sez. Un., 28.3.2006, 26795, Prisco. Il caso sottoposto all’attenzione della Corte riguardava la possibilità di qualificare come luogo domiciliare i c.d. prives di un locale pubblico.

[55] In ciò potendosi ravvisare un elemento distintivo rispetto ai luoghi pubblici e, secondo alcuni, rispetto ai luoghi privati aperti al pubblico. Tuttavia non può farsi affidamento solo sul citato primo requisito atteso che non tutti i luoghi di cui una persona abbia la esclusiva disponibilità possono considerarsi come domicilio in quanto lo ius excludendi alios rilevante ex art. 614 cp (ed ex art. 266 comma 2 cpp) non è fine a se stesso, ma serve a tutelare il diritto alla riservatezza nello svolgimento di alcune manifestazioni della vita privata che l’art. 14 Cost. garantisce proclamando l’inviolabilità del domicilio. A questo specifico riguardo si veda Cass. Pen., 20.12.1991, n. 5032, Marsella.

[56] Questo secondo requisito è stato specificato dalla Corte Costituzionale (sentenza del 16.4.2008, n. 149) secondo cui l’art. 14 Cost. tutela il domicilio sotto due distinti aspetti:

  1. come diritto ad ammettere o escludere altre persone da determinati luoghi;
  2. come diritto alla riservatezza su quanto si compie nei medesimi luoghi.

Posto che non ogni attività svolta in luogo privato per ciò solo è connotata da riservatezza, secondo il Giudice delle Leggi, per potersi dire operante la protezione di cui all’art 14 Cost. non è sufficiente che un certo comportamento venga tenuto in luogo privato, ma è necessario che quel comportamento sia tenuto con modalità tali da renderlo non percepibile da terzi estranei. All’opposto qualora il comportamento, pur svolgendosi in un luogo privato, risulta poter essere liberamente percepito da terzi, senza ricorrere a particolari accorgimenti, non può evidentemente venire in rilievo una pretesa di riservatezza.

[57] Tale profilo di differenziazione tra i luoghi di privata dimora ed i luoghi di abitazione, attinente alla tipologia di atti della vita privata svolgentisi nei luoghi di privata dimora e nei luoghi di abitazione in senso stretto, pare rinvenirsi anche nella pronuncia delle Sezioni Unite del 2017

[58] A questo riguardo Cass. Pen., 17.9.2003, n. 43671.

[59] Cass. Pen., 26.10.1983, n. 10531.

[60] Si tratta dei requisiti analizzati in precedenza ovvero quello per cui l’ambiente doveva essere deputato ad assolvere alla funzione di proteggere la vita privata e quello secondo cui l’utilizzatore dell’ambiente doveva avere lo ius excludendi alios,

[61] Precisamente si è osservato che la facoltà di accesso da parte del pubblico a locali come osterie, bar e negozi non fa venire meno nel titolare, anche per le responsabilità connesse alla conduzione dell’esercizio, il diritto di escludere singoli individui non autorizzati ad entrarvi o a rimanervi.

[62] Orientamento che emerge anche da Cass. Pen., 5.4.2012, n. 28045.

[63] Cass. Pen., VI, 29 settembre 2003, n. 49533, Giliberti. 

[64] Cass. Pen., 26.10.1983, n. 10531.

[65] Cass. Pen., 15.3.1972, n. 4821

[66] Cass. Pen., 8.5.2012, n. 18200; Cass. Pen., 28.9.2012, n. 39134.

[67] Cass. Pen., Sez. Un., 28.3.2006, 26795, Prisco.

[68] Ex Multis: Cass. Pen., 16.3.2016, n. 30419; Cass. Pen., 21.4.2016, n. 20200.

[69] Cass. Pen., 13.11.2014, n. 51749.

[70] A questo riguardo si veda Cass. Pen., 24.11.2009, n. 47304.

[71] Cass. Pen., Sez. Un., 23.3.2017, n. 31345; In particolare la questione controversa sottoposta all’attenzione delle Sezioni Unite è stata la seguente: “se, ed eventualmente a quali condizioni, ai fini della configurabilità del delitto previsto dall’art. 624 bis cp, i luoghi di lavoro possano rientrare nella nozione di privata dimora”.

[72] Cass. Pen., 22.1.1996, n. 1904, Porcaro.

[73] Sul punto con diverse argomentazioni: Cass. Pen., 18.10.2000, n. 3363, Galli; Cass. Pen., 23.1.2001, De Palma e nello stesso senso, sempre contrario a ritenere l‘abitacolo un luogo di privata dimora: Cass. Pen., 1.12.2005, n. 47180; Cass. Pen., 22.4.2014, n. 45512.

[74] Cass. Pen., 12.1.2015, n. 7204;

[75] Cass. Pen., 12.3.1998, n. 1831, Zagaria.

[76] Cass. Pen., 31.10.2001, n. 42792, Policastro.

[77] Corte Cost. 15.3.1987, n. 88.

[78] Cass. Pen., 10.12.2002, n. 8009, Palumbo; Cass. Pen., 22.4.2014, n. 45512.

[79] Cass. Pen., Sez. Un., 26.6.2014, n. 32697.

[80] Cass. Pen., Sez. Un., 23.3.2017, n. 31345.

[81] Cass. Pen., 12.1.2015, n.7204.

[82] Cass. Pen., 15.5.2018 n. 26028.

[83] Cass. Pen., 13.12.2007, n. 1127.

[84] Cass. Pen., 10.1.1992, n. 2517, Verdini.

[85] Cass. Pen., 10.11.1997, n. 6296, Belfiore.

[86] Espressione utilizzata per indicare tale presupposto delle intercettazioni ambientali in luoghi di domicilio da Cass. Pen., 4.6.1992, n. 2623, Flaminio.

[87] Cass. Pen.,12.12.1994, n. 1367, Manzi.

[88] Cass. Pen., 7.1.1997, n. 7, Pacini Battaglia; nonché più di recente Cass. Pen., 5.6.2018, n. 9116 (dep.  il 1.3.2919).

[89] Cfr. l’art. 382 cpp; in realtà la definizione del concetto di stato di flagranza fornita dall’art 382 comma 1 cpp è più ampia ed include anche “chi, subito dopo il reato, è inseguito dalla polizia giudiziaria, dalla persona offesa o da altre persone ovvero è sorpreso con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima”.

[90] E’ però da segnalare quell’orientamento dottrinale per cui le intercettazioni in luoghi di domicilio potrebbero ammettersi solo in relazione a reati la cui commissione, già iniziata al momento in cui viene disposta la captazione, prosegue anche successivamente; il riferimento è ai reati abituali, quali lo sfruttamento della prostituzione, o ai reati permanenti con l’art. 416 cp. E tuttavia seguendo tale orientamento l’ambito di operatività del mezzo di ricerca della prova in analisi si restringerebbe notevolmente; ne deriva che l’istituto de quo può e deve trovare applicazione anche rispetto a reati diversi da quelli d durata.

[91] Sul punto si veda anche l’opinione di Gaito A., La prova penale, Utet, Torino, 2008, p. 138.

[92] Cass. Pen., 6.10.1999, n. 3093, Perre; e nello stesso senso: Cass. Pen., 19.1.2004, n. 10776, Idà; Cass. Pen., 29.9.2003, Giliberti.

[93] Fattispecie di sequestro di persona a scopo di estorsione, nella quale le operazioni di intercettazione ambientale erano state attivate, dopo la liberazione dell’ostaggio, al fine sia di individuare gli autori del reato sia di accertare la loro attività diretta ad assicurare il prezzo del riscatto.

[94] Cass. Pen., 19.10.1992, n. 4141, Liggieri.

[95] Cass. Pen., 8.5.1992, n. 1586 (dep. 28/5/1992).

[96] Si vedano le seguenti sentenze della Corte Costituzionale: Corte Cost., n. 45 del 1963; Corte Cost., n. 61 del 1964; Corte Cost., n. 10 del 1971; Corte Cost., n. 76 del 1973; Corte Cost., n. 173 del 1974; Corte Cost., n. 106 del 1975; Corte Cost., n. 110 del 1976.

[97] Il riferimento è al caso, non infrequente, in cui il Giudice autorizza la captazione ex art. 266 comma 2 cpp all’interno di un’autovettura ma l’operazione intercettiva è svolta in altro veicolo in uso al medesimo bersaglio.

[98] Problematica diversa da quella affrontata da Cass. Pen., 26.5.2017, n. 31297 così massimata: “sono utilizzabili le conversazioni captate su un’utenza telefonica diversa da quella autorizzata, a condizione che l’utenza sia in uso alla medesima persona nei riguardi della quale l’intercettazione è stata disposta”

[99] Da ultimo si veda: Cass. Pen., 20.2.2019, n. 19146.

[100] Ex Multis: Cass. Pen., 6.10.2003, n. 957, Caminiti.

[101] Gaito A., La prova penale, Utet, Torino, 2008, pag. 140.

[102] Diversità sottolineata dalla giurisprudenza: Cass. Pen., 18.6.1999, n. 9428, Patricelli; Cass. Pen., 7.2.2003, n. 38413, Alvaro e altri; ed ancora Cass. Pen., 8.10.2003, n. 41131, Liscai.

[103] I gravi indizi di colpevolezza costituiscono elementi tali da far presagire una futura condanna a carico di un soggetto determinato. Difatti i provvedimenti cautelari richiedono elementi tali da far ritenere probabile la colpevolezza del soggetto in ordine al reato per cui si procede; in altri termini gli indizi raccolti devono permettere la formulazione, allo stato degli atti, di un giudizio prognostico di ragionevole probabilità che il reato sia stato commesso dal soggetto nei cui confronti si chiede la misura cautelare. Diversamente nel caso delle intercettazioni occorre la presenza di indizi in grado di fondare un giudizio circa la mera commissione di un reato.

[104] Cass. Pen., 8 ottobre 2003, n. 41131, Liscai.

[105] Cass. Pen., Sez. Un., 29.11.2005, Campennì. Da ultimo: Cass. Pen., 31.1.2018, n. 9041.

[106] Cass. Pen., 11.7.2000, n. 4979, Nicchio; Cass. Pen., 20.2.2003, 11023, Rossi.

[107] Affermazione logico corollario del dettato normativo che fa riferimento ai gravi indizi di reato e non i gravi indizi di colpevolezza.

[108] Cass. Pen., 18.6.1999, n. 9428, Patricelli; Cass. Pen., 7.2.2003, n. 38413, Alvaro e altri.

[109] In questo senso Cass. Pen., 8.10.2003, n. 41131, Liscai; nonché Cass. Pen., 16.1.1995, 1079, Catti.

[110] Cass. Pen.,12.10.1994, n. 4480, Savignano.

[111] Cass. Pen., 22.1.2004, n. 14980, Picano. Nello stesso senso Cass. Pen., 1.7.2005, n. 30113, Scrugli.

[112] Cass. Pen., 10.8.2005, n. 30313; Cass. Pen., 21.9.2006, n. 36003; Cass. Pen., 28.10.2008, n. 4329.

[113] Sul punto si veda: Morgese G., I limiti di utilizzabilità della denuncia “anonima” ai fini investigativi, in Giurisprudenza Penale, 2016.

[114] Cass. Pen., 14.12.2006, n. 40763.

[115] Cass. Pen., 20.2.1994, n. 4273, Marotta.

[116] Cass. Pen., Sez. Un., 21.6.2000, Primavera.

[117] Disposizione analoga è stata inserita all’art. 273 cpp (comma 1 bis) in materia di misure cautelari, dalla medesima L. 63/2001

[118] Cass. Pen., 14.5.2019, n. 11640 secondo cui “la sanzione dell’inutilizzabilità….non opera quando l’informazione assunta dal confidente anonimo ha costituito solo un dato storico dal quale hanno preso avvio le indagini di iniziativa della polizia giudiziaria che hanno portato all’acquisizione  di ulteriori elementi valutati ai fini  dell’autorizzazione delle disposte intercettazioni”.

[119] Sul punto: Cass. Pen., 31.5.2011, n. 29666; Cass. Pen., 19.9.2012, n. 1258; Cass. Pen., 14.5.2019, n. 11640.

[120] Cass. Pen., 26.6.2013, n. 42845; Cass. Pen., 16.1.2020, n. 7030.      

[121] Cass. Pen., 6.8.2003, n. 35450, Cardamone; e nello stesso senso Cass. Pen., 15.12.2011, n. 6844, Damiano

[122] Spangher G., La disciplina italiana delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, in Arch. Pen., 1994, p. 7.

[123] In particolare il riferimento è all’art. 13 della citata norma, successivamente modificato dall’art. 3-bis D. L. 8 giugno 1992 n. 133 conv. in L. 7 agosto 1992, n. 356 e dall’art. 23, L. 1° marzo 2001, n. 63

[124] Si tratta della integrazione operata dal DL 8.6.1992, n. 306 convertito con Legge 7.8.1992, n. 356.

[125] Art. 3, comma 1, DL. 18.10.2001, n. 374, convertito con Legge 15.12.2001, n. 438.

[126] Art. 9 l. 11 agosto 2003 n. 228.

[127] Cass. Pen., Sez. Un., 31 ottobre 2001, n. 32, Policastro.

[128] Cass. Pen., 7.1.1997, Pacini Battaglia; Cass. Pen.,16.5.1997, Pacini Battaglia; Cass. Pen., 2.7.1998, Ingrosso; Cass. Pen., 2.7.1998, Capoccia, n.m.; Cass. Pen., Sez. Un., 21.6.2000, Primavera. Successivamente: Cass. Pen., 20.10.2003, n. 46221, Altamura ed altro, secondo cui sono tali non solo i reati di criminalità mafiosa ma tutte le fattispecie criminose di tipo associativo.

[129] Cass. Pen., 24.2.1995, Galvanin. Secondo Cass. Pen., 5.11.2003, n. 46963, Anghelone, la speciale disciplina dettata dall’art. 13 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, derogatoria delle disposizioni di cui all’art. 267 cpp., si applica anche al sequestro di persona a scopo di estorsione. E, infatti, a parte che il delitto anzidetto è, ormai da tempo, ritenuto un tipico reato di criminalità organizzata, anche nella generale considerazione del legislatore (come si rileva, tra l’altro, dall’art. 51, comma terzo bis, cpp, che attribuisce la competenza per tale reato al procuratore distrettuale) e che un’eventuale sua realizzazione in forma monosoggettiva   -in contrasto con un’iniziale imputazione ad organizzazione delittuosa-   sarebbe, comunque, accertabile solo ex post, ad indagini concluse, è sufficiente, ai fini dell’applicabilità della normativa in questione, il mero riferimento alle modalità di esecuzione della richiesta estorsiva che, di norma, è realizzata mediante telefono. E, infatti, il menzionato art. 13 si riferisce sia ai delitti di criminalità organizzata sia a quelli di minaccia posta in essere con il mezzo telefonico. Ancora si legga Cass. Pen., 3.2.2005, dep. 25 febbraio 2005, Rochira, per la quale l’art. 21-bis d.l., 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni nella legge, 7 agosto 1992, n. 356, modificativo dell’art. 240-bis d.lgs., 28 luglio 1989, n. 271, sostitutivo, a sua volta, dell’art. 2, legge, 7 ottobre 1969, n. 742, secondo cui la sospensione feriale dei termini delle indagini preliminari “non opera nei procedimenti per reati di criminalità organizzata”, è da intendere riferito non solo ai reati di criminalità di tipo mafioso o assimilato, ma anche ai reati di criminalità organizzata di altra natura, così come pure a quelli che ad essi risultino connessi e si estende anche ai termini di impugnazione dei provvedimenti in materia di misure cautelari personali; per reati di criminalità organizzata debbono intendersi le fattispecie criminose analiticamente individuate e selezionate, con la tecnica di normazione per “cataloghi”, dagli artt. 407, comma 2, lett. a), 372, comma 1-bis e 51, comma 3-bis, cpp.

[130] Cass. Pen., Sez. Un., 22.3.2005, n. 17706, Petrarca.

[131] Cass. Pen., Sez. Un., 15.7.2010, n. 37501, Donadio.

[132] Cass. Pen., Sez. Un., 28.4.2016, n. 26889, Scurato.

[133] Il riferimento è alla sentenza della Cassazione a Sezioni Unite del 28.4.2016, Scurato.

[134] Cass. Pen., Sez. Un., 28.4.2016 n. 26889, Scurato.

[135] In merito si legga: Marcello D., L’illusione di domare il captatore informatico, in Legislazione Penale, 24.11.2020

[136] Marcello D., L’illusione di domare il captatore informatico, op. cit.; Amato G., Trojan applicabile ai reati degli incaricati di pubblico servizio, in Guida al Diritto, 2020 (6), p. 68.

[137] Ai sensi dell’art. 89 comma 2 disp. att. per le intercettazioni con captatore informatico devono essere utilizzati solo programmi conformi a requisiti tecnici fissati con decreto ministeriale.

[138] Trattasi dell’unico soggetto legittimato alla richiesta: ne deriva l’impossibilità di impiego di detto mezzo investigativo nell’ambito delle indagini difensive atteso che le attività intercettive non rientrano tra le operazioni che il difensore può porre in essere ex art. 391 bis cpp.

[139] Spetta dunque esclusivamente al Gip, decidere se disporre o meno l’operazione captativa richiesta; si tratta di un monopolio che costituisce una peculiarità nell’impianto di disciplina dei mezzi di ricerca della prova, sintomatica della notevole incidenza dello strumento investigativo de quo sulle libertà fondamentali. Ipotesi analoghe sono contemplate nell’art 103 comma 3 cpp e nell’art 359 bis cp.

[140] Nulla dice l’art. 267 cpp in merito agli atti da trasmettere al Gip unitamente alla richiesta di autorizzazione. Seppure alcuni autori hanno ritenuto che sotto questo punto di vista il Pm sia assolutamente libero di scegliere quali atti del fascicolo allegare alla richiesta, tuttavia detto potere di selezione non è previsto dalla legge per cui deve ritenersi che vada inoltrata copia integrale degli atti procedimentali (nei quali potrebbero sussistere elementi a favore dell’indagato).

[141] Il provvedimento di rigetto non è impugnabile: a tale conclusione si arriva alla luce del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione ex art. 568 cpp; sul punto: Cass. Pen., 22.9.1992, n. 3477. E peraltro, come sottolineato da Cass. Pen., 12.11.2008, n. 4877 rispetto a detto decreto non è previsto alcun mezzo di gravame.

[142] Anche il decreto di accoglimento-autorizzazione non è impugnabile e tuttavia sindacabile nel corso del giudizio; ed infatti l’art. 271 cpp sancisce, per il caso di inosservanza delle disposizioni dell’art 267 cpp, l’inutilizzabilità degli esiti delle captazioni. Pertanto ove il decreto autorizzativo fosse illegittimo per violazione dell’art. 267 cpp, il ridetto provvedimento sarebbe sindacabile in sede di giudizio e le captazioni sulla cui base eseguite sarebbero eventualmente inutilizzabili.

[143] Cass. Pen. 28.10.1997, n. 4714; e nello stesso senso, in base all’art 266 cpp si veda Cass. Pen., 19.10.2006, n. 37372, Di Grazia.

[144] Detta opzione legislativa, che non prevede una forma specifica né l’obbligo di motivazione per il provvedimento di rigetto dell’autorizzazione, ha suscitato perplessità atteso che, invece, il secondo comma dell’art. 267 cpp prevede il giudice decida sulla convalida con decreto motivato. Pertanto il Gip è tenuto a motivare con decreto l’eventuale non convalida del provvedimento emesso d’urgenza dal PM.

[145] Cass. Pen., 4.6.1992, n. 2623, Filannino.

[146] Cass. Pen., 11.3.1987, n. 6088, Femia.

[147] Cass. Pen., 11.3.1991, n. 8130, Cassol.

[148] Cass. Pen., 15.2.2000, n. 784, Terracciano.

[149] Cass. Pen., 23.5.1997, n. 6231, Bormolini; Cass. Pen., 11.2.1999, n. 163, Carlino, secondo cui non è sufficiente il mero riferimento alle informative di polizia.

[150] Cass. Pen., 11.2.1999, n. 163, Carlino.

[151] Cass. Sez. VI, 14 agosto 1998, n. 4007, Venturini.

[152] Cass. Sez. I, 26 maggio 1999, n. 3909, Adorisio.

[153] Cass. Pen., Sez. Un., 21 giugno 2000, n. 17, Primaveraed altri.

[154] Sul solco di quanto affermato da Cass. Pen., 15.2.2000, n. 784, Terracciano, Cass. Pen., 23.5.1997, n. 6231, Bormolini, e Cass. Pen., 11.2.1999, Carlino.

[155] Tra le numerosissime sentenze che hanno ribadito il principio si vedano: Cass. Pen., 29.11.2005, n. 2737 Campennì; Cass. Pen., 5.6.2017, n. 36913; Cass. Pen., 3.5.2019, n. 26139.

[156] Cass. Sez. IV, 14 maggio 2004, n. 32924, Belforte ed altri.

[157] Norma che impone esplicitamente la motivazione del provvedimento di autorizzazione, riferita ovviamente sia al decreto del Gip che al decreto d’urgenza emesso dal PM.

[158] Comma in forza del quale i decreti sono motivati a pena di nullità nei casi in cui la motivazione è espressamente prescritta dalla legge.

[159] Una parte della dottrina sostiene la tesi della coesistenza delle due sanzioni ovvero nullità del decreto ed inutilizzabilità delle intercettazioni; la nullità colpisce l’atto e l’inutilizzabilità colpisce gli esiti captativi. Altra parte della dottrina pare ritenere che nel caso del decreto privo di motivazione si debba applicare la disposizione dell’art. 271 comma 1 cpp in quanto norma speciale rispetto all’art. 125 comma 3 cpp; mentre quest’ultima concerne tutti i decreti, la prima si riferisce specificamente al decreto che autorizza le intercettazioni. Per un approfondimento sul tema si veda Camon A., Le intercettazioni nel processo penale, Giuffrè, Milano, 1996.

[160] Cass. Pen., Sez. Un., 27.3.1996, n. 5021, Sala; Cass. Pen., Sez. Un., 13.7.1998, n. 21, Gallieri; Cass. Pen., Sez. Un., 23.2.2000, n. 6, D’Amuri, secondo cui “Ai fini dell’acquisizione dei tabulati contenenti i dati esterni identificativi delle comunicazioni telefoniche conservati in archivi informatici dal gestore del servizio è sufficiente il decreto motivato dell’autorità giudiziaria, non essendo necessaria, per il diverso livello di intrusione nella sfera di riservatezza che ne deriva, l’osservanza delle disposizioni relative all’intercettazione di conversazioni o comunicazioni di cui agli articoli 266 e seguenti cod. proc. pen. (Nell’affermare tale principio la Corte ha altresì precisato che il controllo giurisdizionale sul provvedimento acquisitivo, che attiene ad un mezzo di ricerca della prova, si attua mediante la rilevabilità anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, dell’eventuale inutilizzabilità, essendo l’art. 191 cod. proc. pen. applicabile anche alle c.d. prove “incostituzionali” perché assunte con modalità lesive dei diritti fondamentali). Pertanto l’art. 191 cpp è applicabile anche alle c.d. prove incostituzionali, prove colpite come tali dalla patologia irreversibile della inutilizzabilità, a prescindere dal fatto che la legge contempli divieti espliciti al loro impiego nel procedimento. Non è infatti necessario che le garanzie siano puntualmente previste nel testo normativo che disciplina una materia, possono rinvenirsi in altre norme o nei principi generali, anche contenuti nella carta Costituzionale.

[161] Cass. Pen., Sez. Un., 21.6.2000, n. 17, Primavera ed altri.

[162] In tale prospettiva si veda Cass. Pen., 10.7.2018, n. 48543.

[163] Cass. Pen., 5.7.2004, n. 31110, Anastasi.

[164] Cass. Pen., 15.2.2000, n. 776, Coppola; Cass. Pen., 14.6.2001, n. 35091, Cefalù; Cass. Pen., Sez. Un., 17.11.2004, n. 45189.

[165] Cass. Pen., Sez. Un., 21.6.2000, n. 17, Primavera ed altri. Nello stesso senso v. Cass. Pen., Sez. Un., 27.3.1996, n. 5021, Sala.

[166] Cass. Pen., Sez. Un., 27.3.1996, n. 3, Monteleone.

[167] In particolare le Sezioni Unite Monteleone furono chiamate a risolvere il contrasto giurisprudenziale in merito alla necessità di trasmissione, ex art. 291 cpp, da parte del Pm al Gip, in sede di richiesta di applicazione di misura cautelare, del decreto autorizzativo e di proroga delle intercettazioni. Secondo un primo orientamento (Cass. Pen., 30.7.1992, n. 2997, Agostino; Cass. Pen., 6.8.1992, n. 3025, Ferlin), molto risalente, tra gli atti che il Pm doveva trasmettere al Gip a sostegno della richiesta di misura cautelare non vi erano i citati decreti; si sosteneva che gli elementi che il PM deve presentare al Gip sono solo quelli di carattere sostanziale, ossia quelli relativi ai gravi indizi di colpevolezza ed alle esigenze cautelari. Detto filone interpretativo distingueva tra illegittimità formale (per violazione degli artt. 267 e 268 commi 1 e 3 cpp) ed illegittimità sostanziale (per violazione dell’art. 266 cpp), e solo queste ultime violazioni potevano avere rilievo sia nel giudizio che nella fase cautelare, mentre le violazioni solo formali potevano determinare inutilizzabilità degli esiti captativi solo ai fini del giudizio. Altra linea interpretativa non condivideva la citata distinzione tra vizi formali e vizi sostanziali; si affermava che a prescindere dal tipo di violazione, l’inutilizzabilità ex art. 271 cpp doveva essere rilevata in ogni caso. Ciò perché tale invalidità avrebbe colpito i risultati viziati in quanto tali, in qualunque sede si intendesse farne uso, e avrebbe avuto rilievo anche nel procedimento cautelare. Pertanto si riteneva necessaria la trasmissione al Gip e la acquisizione in sede di riesame dei decreti autorizzativi e di proroga delle captazioni, in mancanza dei quali sarebbe stato precluso al Giudice sindacare i provvedimenti e alla difesa di accertare la legittimità della prova. Le Sezioni Unite Monteleone aderiscono a quest’ultimo orientamento. Si è puntualizzato, nel campo specifico delle intercettazioni, che la disciplina dell’inutilizzabilità da applicare non è quella di cui all’art. 191 cpp ma quella dettata dall’art 271 cpp, trattandosi di disposizioni speciali. Ciò posto, ritenere applicabile l’art. 271 cpp alla sola fase del giudizio risulta arbitrario; infatti l’inutilizzabilità, per espresso dettato legislativo, colpisce non l’intercettazione ma i suoi risultati. Risultati che possono rivestire o la natura di prova, tipica della fase del giudizio, o quella di indizio, nell’accezione di cui all’art. 273 cpp. A conferma le citate Sezioni Unite hanno evidenziato che la patologia che inquina le intercettazioni eseguite fuori dal paradigma degli artt. 267 e 268 commi 1 e 3 cpp è così grave da imporre la distruzione, in ogni stato e grado del processo, della relativa documentazione (come previsto dall’art. 271 comma 3 cpp). Conseguentemente non si può ipotizzare un’inutilizzabilità parziale del materiale di indagine, che dipende dalla fase processuale. In conclusione deve essere negato ogni fondamento alla distinzione tra vizi formali e sostanziali, non trovando riscontro nella lettera dell’art. 271 cpp che anzi accomuna quali cause di inutilizzabilità, tutte le violazioni ivi indicate. Se dunque l’inutilizzabilità si configura, indifferentemente, in tutte le ipotesi contemplate dall’art. 271 cpp, ne discende inevitabilmente che i decreti autorizzativi devono essere allegati dal PM agli atti da trasmettere al Gip – unitamente alla domanda cautelare – e successivamente al Tribunale del riesame. La rilevabilità dell’inutilizzabilità in ogni stato e grado del giudizio comporta che tanto il primo quanto il secondo giudice debbano poter vagliare la legittimità delle intercettazioni per poterne valutare i risultati ai fini della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza; e che la difesa, nel giudizio incidentale de libertate, possa contestare tale legittimità proprio eccependo l’inutilizzabilità. Discorso differente è quello in cui i decreti de quibus siano stati presentati al Gip ex art. 291 cpp ma poi non trasmessi al Tribunale del riesame. In tal caso vengono in rilievo i commi 5 e 10 dell’art. 309 cpp con conseguente perdita di efficacia della misura cautelare in caso di inosservanza del termine perentorio previsto dal comma 5 della norma ultima citata per la trasmissione degli atti al Tribunale della Libertà.

[168] Cass. Pen., Sez. Un., 20.11.1996, n. 21, Glicora; Cass. Pen., Sez. Un., 13.7.1998, n. 21, Gallieri, ove si è sottolineato che “rientrano nella categoria delle inutilizzabilità” rilevabili in ogni stato e grado del processo “non solo le prove oggettivamente vietate ma anche quelle formate o acquisite in violazione dei diritti soggettivi tutelati in modo specifico dalla Costituzione come nel caso degli artt. 13, 14, 15 in cui la prescrizione della inviolabilità attiene a situazioni fattuali di libertà assolute”; Cass. Pen., Sez. Un., 23.2.2000, n. 6, D’Amuri; Cass. Pen., Sez. Un., 25.3.1998, n. 9, D’Abramo; Cass. Pen., Sez. Un., 25.3.1998, n.10, Savino.

[169] Cass. Pen., 21.6.2000, n. 16.

[170] Cass. Pen., Sez. Un., 25.3.1998, n. 11, Manno; ed ancora Cass. Pen., 9.6.2004, n. 33700, Campisi; Cass. Pen., 3.11.2005, n. 2375, Tamarisco ed altri; Cass. Pen., 26.11.2014, n. 15828; Cass. Pen. 21.11.2016, n. 31046; Cass. Pen., 10.7.2018, n. 48543.

[171] A questo riguardo si veda Cass. Pen., 29.4.2004, n. 26112, Canaj.

[172] Cass. Pen., 10.2.2004, n. 16499, Mache; Cass. Pen., Sez. Un., 31.10.2001, Policastro, n. 42792.

[173] Ciò vale per i cd. reati comuni; una disciplina speciale è dettata dall’art. 13 comma 2 D.L. 152/1992 per i “delitti di criminalità organizzata”. Pertanto nei procedimenti per i delitti previsti dall’art. 51 commi 3 bis e 3 quater cpp, cui si applica l’art. 13 comma 2 Dl 152/1992, la durata delle operazioni non può superare i 40 giorni e la durata delle proroghe non può superare i 20 giorni. Così anche per i delitti dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la PA puniti con pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni.

[174] Ai sensi dell’art 267 comma 3 cpp il potere di prolungare le intercettazioni spetta al Giudice; e tuttavia per i reati di criminalità organizzata per i quali il comma 2 dell’art. 13 D.L. 152/91 prevede il potere del PM di provvedere, se sussistano ragioni di urgenza, direttamente alla proroga della durata delle operazioni. In tali casi la normativa speciale prevede l’applicazione del secondo comma dell’art 267 cpp; pertanto il decreto motivato di proroga urgente del PM dovrà essere trasmesso entro 24 ore al gip per la convalida che dovrà avvenire entro 48 ore dal provvedimento del PM.

[175] Cass. Pen., 10.5.1993, n. 5928, Sicilio.

[176] Cass. Pen., 4.6.1992, n. 2623, Filannino; nello stesso senso: Cass. Pen., 17.5.2000, n. 3631; Cass. Pen., 18.3.2011, n. 22501.

[177] Cass. Pen., 11.3.2011, n. 21047.

[178] Cass. Pen., 12.12.1995, n. 5501.

[179] Cass. Pen., 5.11.1999, n. 3541; Cass. Pen., Sez. Un., 23.2.200, n. 6, D’Amuri.

[180] Sul punto: Cass. Pen., 23.2.2012, n. 12252, Bortolato e altri.

[181] Corte Cost., 4.4.1973, n. 34.

[182] Nella citata sentenza n. 34 del 1973 della Corte Costituzionale, pronuncia occorsa in merito all’art. 226 del vecchio codice di rito, è stata riconosciuta la necessità che la captazione si svolga sotto il diretto controllo del Giudice, mentre l’art. 268 comma 3 cpp attribuisce la sorveglianza sullo svolgimento delle intercettazioni al PM; tanto potrebbe legittimare questioni di legittimità costituzionale della norma de qua. E tuttavia la sentenza in discorso si riferisce al concetto di Autorità Giudiziaria (magistrato), così ritenendo intrinsecamente costituzionalmente legittimo anche il controllo ad opera del PM.

[183] In relazione ai rischi connessi all’impiego abusivo di intercettazioni si veda: Conso G., Intercettazioni telefoniche: troppo e troppo facilmente divulgabili, in Dir. pen. e proc., 1996, p. 137.

[184] Contrasto giurisprudenziale di particolare rilievo alla luce delle conseguenze che dalla soluzione del medesimo possono derivare sul piano della inutilizzabilità degli esiti intercettivi ex art. 271 comma 1 cpp.

[185] Cass. Pen., 19.11.2003, n. 48252, Malaj.

[186] Cass. Pen., Sez. Un., 29.11.2005, n. 21, Campennì.

[187] Cass. Pen., 27.3.2003, n. 1639, Di Pietro.

[188] Cass. Pen., 21.1.2004, n. 7691, Flori.

[189] Cass. Pen., 19.1.2004, n. 10777, Tassone.

[190] Cass. Pen., Sez. Un., 31.10.2001, n. 42792, Policastro.

[191] Cass. Pen., Sez. Un., 26.11.2003, n. 30482, Gatto.

[192] Cass. Pen., Sez. Un., 29.11.2005, n. 21, Campennì.

[193] Cass. Pen., Sez. Un., 26.11.2003, n. 30482, Gatto.

[194] Cass. Pen., 6.11.2002, n. 42161; Cass. Pen., 5.5.2000, n. 2539; Cass. Pen., 11.2.2003, n. 20104.

[195] Cass. Pen., 18.7.2003, Barbaro.

[196] Cass. Pen., 9.10.2002, Ferraro; Cass. Pen., 9.10.2002, Pesce.

[197] Cass. Pen., Sez. Un., 29.11.2005, n. 21, Campennì.

[198] Cass. Pen., 14.4.2010, n. 17231, Hosa; Cass. Pen., 26.9.2006, n. 40668, Cangiano; Cass. Pen., 17.2.2006, n. 11576, Vecchione.

[199] Cass. Pen., 19.11.2003, n. 467, Caleca.

[200] Cass. Pen., Sez. Un., 31.10.2001, n. 42792, Policastro

[201] Cass. Pen., 9.3.2004, n. 23123, Nuvoletto.

[202] Cass. Pen., Sez. Un., 29.11.2005, n. 21, Campennì.

[203] Il quale, infatti, ricollega la sanzione dell’inutilizzabilità anche alla violazione della disposizione del terzo comma dell’art. 268 cpp.

[204] Cass. Pen., Sez. Un., 12.7.2007, n. 30347, Aguneche.

[205] Cass. Pen., 12.10.2000, n. 1392, Sansone.

[206] Cass. Pen., 12.10.2000, n. 1392, Sansone.

[207] Cass. Pen., 30.1.2007, n. 21923, Cirillo.

[208] Diversamente non è previsto, nell’ipotesi ordinaria di cui al primo comma dell’art 267 cpp, alcun termine per l’adozione del decreto autorizzativo da parte del Giudice.

[209] Sul punto Cass. Pen., 4.11.2003, n. 6875, Carbonaro.

[210] Cass. Pen., 22.11.1994, n. 2533, Seminara; Cass. Pen., 28.10.1997, n. 4714, Caputo; e ancora Cass. Pen., 22.4.2004, n. 23512, Termini ha chiarito il medesimo principio della sentenza Seminara.

[211] Sul punto si veda: Cass. Pen., 4.12.2006, n. 215, Figliuzzi; e da ultimo Cass. Pen., 14.9.2017, n. 55748 secondo cui in materia di intercettazioni, l’eventuale difetto di motivazione del decreto emesso in via d’urgenza dal Pm è sanato con l’emissione del decreto di convalida del Gip, che assorbe integralmente il provvedimento originario e rende utilizzabili i risultati delle captazioni, precludendo ogni discussione sulla sussistenza del requisito dell’urgenza.

[212] Cass. Pen., 4.5.2001, n. 26015, Berlingeri; e Cass. Pen., 5.6.2003, n. 28252, Monachella.

[213] In tal senso è ormai orientata la giurisprudenza. Si vedano in particolare: Cass. Pen., 16.7.2009, n. 35930, Iaria e atri; Cass. Pen., 16.3.2010, n. 16285, Baldassin e altri; Cass. Pen., Sez. fer., 24.8.2010, n. 32666, Crupi.

[214] Ex Plurimis: Cass. Pen., 4.11.2003, n. 6875 e più di recente Cass. Pen., 7.9.2016, n. 43419.

[215] Cass. Pen., 16.5.2007, n. 26500, Valentini.

[216] Cass. Pen., 3.5.2019, n. 26139.

[217] A questo riguardo si veda: Camon A., Il Nuovo procedimento di spoglio dei risultati delle intercettazioni, op. cit.;

[218] Avverbio da rapportare non alla chiusura del singolo RIT ma alla conclusione delle operazioni, termine a quo per il Pm. In questa prospettiva si veda anche la Circolare del CSM del 24.10.2022 “Prassi Virtuose all’esito del monitoraggio in materia di intercettazioni”; interpretazioni ritenuta preferibile già con la Circolare del 31.7.2020 della Procura Generale della Corte di Cassazione (prot. 16926/20 pag. 5). Pertanto la PG alla conclusione delle operazioni dovrà trasmettere verbali e registrazioni al PM e da tale momento decorre il termine dei 5 giorni per il deposito in archivio.

[219] Come detto nel termine di 5 giorni dalla conclusione delle operazioni ex comma 4 dell’art. 268 cpp o entro il termine di conclusione delle indagini in caso di ritardato deposito ex comma 5 della stessa norma

[220] La norma parla di difensori delle parti, ma trattasi dei soli difensori degli indagati atteso che, nella fase in cui ci si trova, la persona offesa non ha veste per partecipare alla selezione delle intercettazioni.

[221] In tale fase non è previsto il diritto per i difensori di estrarre copia; a conferma: Cass. Pen., 28.3.2019, n. 16853.

[222] Si tratta di facoltà finalizzate ad attivare il sub-procedimento per la selezione delle intercettazioni rilevanti.

[223] Commi non modificati dalla riforma.

[224] Sotto il profilo delle indicazioni laddove si parla di Pubblico Ministero si fa riferimento all’Ufficio e non al singolo sostituto; pertanto dette indicazioni devono essere date dal Procuratore della Repubblica nell’ambito della sua funzione direttiva.

[225] Circolare del 31.7.2020 della Procura Generale della Corte di Cassazione, op. cit., pag. 3; Parodi C., Riforma delle intercettazioni: le indicazioni della Procura Generale presso la S. C.;

[226] A questo riguardo con la Circolare del 31.7.2020 di cui sub note 228 e 234, è stata sottolineata l’opportunità dell’adozione di direttive generali che impongano alla polizia giudiziaria di sottoporre i casi dubbi alla tempestiva valutazione del Pm.

[227] Corte Cost. n. 463 del 1994.

[228] Riferimento che concerne sia la prova del reato per il quale l’autorizzazione alle intercettazioni è stata concessa sia quella degli altri reati emersi durante l’ascolto per i quali le intercettazioni siano utilizzabili.

[229] Infatti, soprattutto nelle attività di indagine più complesse per la redazione dell’informativa finale la dovrà effettuare il riascolto dell’intero compendio intercettivo.

[230] In questa prospettiva si veda anche la Circolare del CSM del 24.10.2022 “Prassi Virtuose all’esito del monitoraggio in materia di intercettazioni”, op. cit., la Circolare del 31.7.2020 della Procura Generale della Corte di Cassazione, op. cit.;

[231] Come evidenziato da autorevole dottrina (Camon A., Il Nuovo procedimento di spoglio dei risultati delle intercettazioni, op. cit.) non è chiaro cosa abbia spinto il Legislatore a prevedere una “fermata” dei verbali e delle registrazioni dal Pm dopo il deposito ad opera della Pg e prima del conferimento all’archivio; ciò non certamente per evitare fughe di notizie ma evidentemente per consentire agli Uffici di Procura di creare copie digitali di atti nati in forma analogica oltre che per permettere al Pm un controllo sul materiale.

[232] Il riferimento è al TIAP.

[233] Di fatto si tratta dei soli difensori degli indagati in quanto, nella fase in cui ci si trova la persona offesa non ha veste per partecipare alla selezione delle intercettazioni da acquisire.

[234] Ove le parti chiedano l’acquisizione di conversazioni che riguardino categorie particolari di dati personali avranno l’onere di fornire adeguata motivazione.

[235] Espressione che evoca, ma non ricalca, quella di cui all’art. 268 comma 2 bis cpp; infatti mentre quest’ultima norma, più precisa e specifica, fa riferimento ad espressioni lesive della reputazione o contenenti riferimenti a di dati sensibili, l’art. 268 comma 6 cpp si riferisce ai “dati personali”. Tuttavia una interpretazione logico-sistematica consente di ritenere le due diciture sovrapponibili.

[236] In merito si legga Camon A., Il Nuovo procedimento di spoglio dei risultati delle intercettazioni, op. cit.;

[237] Previo accesso ex art. 89 bis comma 4 disp. att. cpp all’archivio di cui all’art. 269 cpp

[238] Sul punto si veda: Camon A., Il Nuovo procedimento di spoglio dei risultati delle intercettazioni, op. cit.;

[239] Si trattava della codificazione di un diritto già garantito in via giurisprudenziale, come evidenziato sub nota 250.

[240]In tema di riconoscimento del diritto di acceso si veda: Corte Cost. n. 336 del 2008 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 268 cpp nella parte in cui non prevede che, dopo la notificazione dell’ordinanza il difensore non possa ottenere trasposizione su nastro magnetico delle conversazioni utilizzate ai fini dell’adozione del provvedimento cautelare, anche se non depositate. Nella specie è stato chiarito che ben può il PM utilizzare a sostegno dell’istanza cautelare i soli brogliacci di ascolto, poiché la richiesta potrebbe intervenire in un momento in cui le intercettazioni sono ancora in atto; in tal caso l’interesse della difesa ad esaminare i dialoghi captati (rectius: all’ascolto) per valutarne l’effettivo significato probatorio, non può essere surrogato dalla conoscenza dei meri brogliacci. Quindi se da un lato non vi è motivo per disconoscere la possibilità per il Pm di depositare a supporto della richiesta i soli brogliacci, dall’altro tale facoltà non deve pregiudicare il diritto di difesa ad accedere alla prova. Né, in tal caso, la limitazione dell’accesso alle registrazioni sarebbe bilanciata da altro interesse processuale atteso che le esigenze di segretezza investigativa, con riferimento alle comunicazioni poste alla base dell’ordinanza cautelare, sono venute meno. Pertanto, secondo la Corte Cost. sussiste il diritto incondizionato dei difensori ad accedere, previa istanza, alle registrazioni poste alla base della domanda cautelare e non presentate a corredo di quest’ultima, ma sostituite dalle trascrizioni. Detto diritto implica, come naturale conseguenza, quello alla trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni medesime; nonché, anche in tema di conseguenze dell’inottemperanza del Pm alla richiesta di accesso: Cass. Pen., Sez. Un., 22.4.2010, n. 20330, Lasala che hanno precisato che il difensore, nel sub procedimento cautelare, ha diritto di accedere alle registrazioni in tempo utile per esercitare il diritto di difesa nel procedimento di riesame. Si è inoltre aggiunto che, essendo i termini procedurali noti al Pm questi è tenuto ad attrezzarsi preventivamente in modo da poter far fronte ad eventuali richieste di rilascio copie. Le citate Sezioni Unite hanno chiarito che eventuali ingiustificati dinieghi di accesso o impedimento possono essere fatti valere nel giudizio de libertate; laddove la censura venga posta nel ridetto procedimento, le conseguenze non saranno né la nullità dell’originario provvedimento cautelare – in quanto esso risulta fondato su atti a suo tempo prodotti dal Pm a sostegno della richiesta – né l’inutilizzabilità che si verifica solo nei casi ex art 271 cpp. Piuttosto si avrà un vizio nel procedimento di acquisizione della prova per l’illegittima compressione del diritto di difesa: pertanto una nullità di ordine generale a regime intermedio ex art. 178 lett. c) cpp e qualora esso venga tempestivamente dedotto il giudice di cui all’art. 309 cpp non potrà decidere in base al dato di giudizio scaturente dal contenuto delle intercettazioni riportato in forma cartacea mancando la possibilità di  controllare la sua effettiva conformità a quanto registrato. Ciò comporta che il giudice del riesame, ove non possa tenere conto di tale dato, sarà chiamato a verificare se lo stesso rivesta o meno rilevanza decisiva nel contesto e, quindi se, senza fare ricorso a tale dato sai possibile ritenere ugualmente sussistente il richiesto grave quadro indiziario. Qualora, all’esito della suddetta verifica, il provvedimento cautelare risulti fondato in via decisiva su quell’elemento ciò comporterà l’annullamento dell’ordinanza cautelare (secondo le Sezioni Unite, nulla impedisce dopo l’annullamento, al Pm di reiterare la richiesta accompagnata dal supporto fonico). Nella medesima prospettiva: Cass. Pen. 5.4.2011, n. 18609, Palmieri; Cass. Pen., 4.4.2012, n. 25806, Petracca; e successivamente Cass. Pen., 26.9.2017, n. 50760.

E’ stato poi chiarito in tema di diritto d’accesso che:

  •  il soggetto titolare del diritto è esclusivamente il difensore;
  • l’AG. Competente al rilascio delle copie è il PM che procede in quanto nella disponibilità materiale dei reperti: sul punto Cass. Pen., 30.9.209, n. 41256;
  • l’accesso concerne solo quelle intercettazioni poste alla base della misura cautelare (presupposto dell’effettivo utilizzo) e non può riguardare soggetti diversi da quello sottoposto alle indagini e che non rilevino al fine di valutare la posizione di quest’ultimo;
  • non sussiste un diritto al rilascio di un’attestazione di conformità della copia richiesta alle registrazioni contenute nel server della Procura: Cass. Pen., 9.11.2011, n. 43654, Aga.
  • ai fini della presentazione dell’istanza non vi è un termine perentorio ad quem, quindi ben potrà il difensore formulare istanza anche dopo la richiesta di riesame (Cass. Pen., 17.1.2011, n. 20547). L’accesso è infatti finalizzato ad esperire i rimedi previsti dalle norme processuali.

[241] Sul punto si veda Camon A., Il Nuovo procedimento di spoglio dei risultati delle intercettazioni, op. cit.;

[242] Anche in relazione alle intercettazioni viene in rilievo la distinzione tra prova diretta e prova indiretta o indiziaria; quanto al valore probatorio da riconoscersi alle intercettazioni occorre poi discernere tra quelle abbiano captato dichiarazioni autoaccusatorie e quelle captative di dichiarazioni etero-accusatorie.

[243] A questo riguardo si veda anche: Tonini P. e Conti C., Manuale di Procedura Penale, op. cit., p. 416.

[244] Il riferimento è alla documentazione delle intercettazioni di cui all’art. 271 commi 1, 1 bis e 2 cpp, ovvero quelle inutilizzabili, delle quali il Giudice deve disporre, in ogni stato e grado del processo, la distruzione, salvo non costituiscano corpo del reato.

[245] Intercettazioni eseguite fuori dai casi previsti dalla legge, o in violazione degli artt. 267 e 268 commi 1 e 3 cpp.

[246] Il riferimento è alle operazioni preliminari all’inserimento del captatore informatico su dispositivo portatile.

[247] Il riferimento è alle intercettazioni relative a conversazioni delle persone indicate nell’art. 200 comma 1 cpp quando hanno ad oggetto fatti conosciuti per ragione del loro ministero, ufficio, professione, salvo che le stesse persone abbiano deposto sugli stessi fatti o li abbiano in altro modo divulgati.

[248] Tesi accolta dalla giurisprudenza di legittimità: Cass. Pen., 5.2.2007, n. 5904. La legittimazione del Pm è stata riconosciuta dalla Corte Costituzionale con pronuncia n. 463 del 1994

[249] Cass. Pen., 20.11.1955, n. 5939, Stasi; Cass. Pen., 6.7.2008, n. 40957, Recchi.

[250] Cordero F., Procedura penale, Giuffrè, Milano, 2006, p. 860.

[251] Cass. Pen., 30.3.1993, n. 1364, Grosoli.

[252] Già in passato Cass. Pen., 20.11.1995, n. 5939; Cass. Pen., 16.7.2008, n. 40957.

[253] L. Filippi, Intercettazioni: finalmente una legge! (ma in vigore a settembre) in Penale, diritto e procedura, 2020.

[254] F. Alvino, La circolazione delle intercettazioni e la riformulazione dell’art 270 cpp: l’incerto pendolarismo tra regola ed eccezione, in Sistema penale, 5/2020.

[255] Riservatezza che viene in rilievo sia per tutte quelle persone, non indagate, che si trovino a riferire vicende personali nel corso della comunicazione intercettata, sia per lo stesso indagato qualora narri fatti privati non attinenti alle indagini.

[256] Ha evidenziato che senza dubbio la possibilità di impiegare i risultati delle intercettazioni, disposte nell’ambito di un determinato procedimento, in procedimenti diversi relativi all’accertamento di reati per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza, risulti giustificata dall’interesse all’accertamento dei reati di maggiore gravità.

[257] Il riferimento è al richiamo all’art. 380 cpp.

[258] Come visto, in tali casi, la prova acquisita deve considerarsi utilizzabile in quanto la sanzione processuale dell’art. 271 cpp trova applicazione soltanto con riferimento ai provvedimenti adottati in casi non consentiti.

[259] Tra le tante: Cass. Pen., 28.2.1994, n. 5331, Roccia ed altri.

[260] Cass. Pen., 24.6.2005, n. 33751, Bellato ed altri.

[261] Cass. Pen., 23.9.2014, n. 52503, Sarantsev; Cass. Pen., 19.1.2010, n. 7320, Verdoscia; Cass. Pen., 19.1.2004, n. 9579, Amato; Cass. Pen., 4.11.2004, n. 46075; Cass. Pen., 11.1.1998, n. 6242, Tomasello; Cass. Pen., 16.5.1997, n. 1972, Pacini Battaglia.

[262] Cass. Pen., Sez. Un., 26.6.2014, n. 32697, Floris.

[263] Cass. Pen., 15.1.2004, n. 4942; Cass. Pen., 17.11.1999, n. 14595.

[264] Cass. Pen., 16.3.2016, n. 45535.

[265] Cass. Pen., 10.10.2013, n. 3253; Cass. Pen., 15.7.2015, n.  41317; Cass. Pen., 23.2.2016, n. 9500; Cass. Pen., 4.3.2016, n. 26817.

[266] Cass. Pen., 4.10.2012, n. 49745.

[267] Cass. Pen., 18.12.2015, n. 1924; Cass. Pen., 17.6.2015, n. 27820.

[268] Cass. Pen., 21.2.2018, n. 19496; Cass. Pen., 9.2.2018, n. 15288; Cass. Pen., 26.4.2017, n. 31984.

[269] Cass. Pen., 11.12.2008, n. 4169; Cass. Pen., 11.12.2012, n. 49930.

[270] Pertanto il procedimento è “identico” – e come tale non assoggettato alle limitazioni dell’articolo 270 cpp – solamente quando tra il contenuto dell’originaria notizia di reato alla base dell’autorizzazione ad intercettare, e i reati emersi in fase captativa, via sia una connessione ex art 12 cpp, ovvero:

  1. se il reato è stato commesso da più persone in concorso (art. 110 cp) o in cooperazione fra loro (art. 113 cp) o se più persone con condotte indipendenti hanno determinato l’evento;
  2. se una persona è indagata per più reati commessi con una sola azione od omissione ovvero con più azioni od omissioni esecutive del medesimo disegno criminoso (art. 81 cp);
  3. se dei reati sono stati eseguiti gli uni per eseguire o per occultare gli altri (art. 61 n. 2 prima ipotesi cp).

[271] Infatti il D. L. 161/19 ha modificato la precedente formulazione dovuta al D. Lgs 216/2017 ed il testo è stato poi ulteriormente modificato dalla L. 7/2020.

[272] Cass. Pen., 15.11.2002, n. 9245, Aleccì; Cass. Pen., 3.7.2003, n. 32315, De Felice.

[273] Cass. Pen., 1.9.1992, n. 3107, Bruzzese,

[274] Cass. Pen., 10.2.2003, n. 9483, Torcasio.

[275] Cass. Pen., Sez. Un., 17.11.2004, n. 45189, Esposito.

[276] Cass. Pen., 21.10.2010, n. 38626, Romeo; Cass. Pen., 18.9.2015, n. 41515.

[277] Cass. Pen., 17.12.1999, n. 790, Santoro; Cass. Pen., 17.12.2002, n. 35201, Maugeri.

[278] Come noto nullità ed inutilizzabilità pure operanti nell’area della patologia della prova, restano distinte ed autonome, siccome collegate a presupposti diversi: la nullità attiene sempre e soltanto all’inosservanza di certe formalità di assunzione della prova così che il procedimento formativo non risulta totalmente al di fuori del parametro normativo di riferimento il quale non viene rispettato in alcuni dei suoi presupposti; l’inutilizzabilità presuppone la presenza di una prova vietata, per intrinseca illegittimità o per un procedimento acquisitivo che si pone al di fuori del sistema processuale. In particolare sulla distinzione tra le due categorie si veda Cass. Pen., Sez. Un., 27.3.1996, n. 5021, Sala.

[279] In questo senso: Cass. Pen., 22.3.2001, n. 20919, Zhezha; Cass. Pen., 13.3.2009, n. 14783, Badescu.

[280] Cass. Pen., 10.11.2001, n. 13151, Ginfreda.

[281] Cass. Pen., 3.9.1992, n. 3129, Donzelli; Cass. Pen., 3.10.2006, n. 2596, Abate. E nello stesso senso Cass. Pen., 23.4.2010, n. 19699, Trotta.

[282] Cass. Pen., Sez. Un., 26.6.2014, n. 32697.

[283] Cass. Pen., 7.5.1993, n. 8670, Olivieri. Nello stesso senso Cass. Pen., 18.12.2007, n. 5141, Cincavalli.

[284] Cass. Pen., 27.3.2001, n. 14345, Cugnetto.

[285] Cass. Pen., 5.4.2001, n. 33187, Ruggiero.

[286] Cass. Pen., Sez. Un., 26.6.2014, n. 32697.

[287] Il terzo comma dell’art. 271 cpp che impone al Giudice di disporre, in ogni stato e grado del processo, la distruzione materiale della documentazione delle intercettazioni previste dai commi 1, 1 bis e 2 della medesima norma, salvo che costituisca corpo del reato

[288] Cass. Pen., Sez. Un., 26.6.2014, n. 32697.

[289] Cass. Pen., 5.4.2001, n. 33187, Ruggiero;

[290] captazioni che, come detto, però fuoriescono dal perimetro degli artt. 266 cpp ss.

[291] Dette intercettazioni non saranno probatoriamenteutilizzabili in un eventuale procedimento a carico del soggetto intercettato abusivamente e ciò alla luce delle problematiche in tema di prova illecita. Seppure in linea generale non sembra possibile sostenere che ogni prova raccolta violando una norma penale sostanziale sia inutilizzabile, in tema di intercettazioni viene in rilievo l’art. 240 cpp che al secondo comma stabilisce che il pubblico ministero “dispone l’immediata secretazione e la custodia in luogo protetto dei documenti, dei supporti e degli atti concernenti dati e contenuti di conversazioni o comunicazioni, relativi a traffico telefonico e telematico, illegalmente formati o acquisiti” aggiungendo che “il loro contenuto non può essere utilizzato”.

[292] Da ultimo si veda Cass. Pen., 27.6.2022 n. 24753.

[293] Nella citata pronuncia la Corte, con riferimento all’art. 15 della Costituzione ha chiarito che quest’ultimo non solo sancisce l’inviolabilità della segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, ma prevede anche la possibilità di una loro limitazione a condizione che vi sia un atto motivato dell’autorità giudiziaria e che siano assicurate le garanzie stabilite dalla legge. Conseguentemente la disposizione de qua risulta tutelare due distinti interessi: quello sottostante ai diritti della personalità – definiti come inviolabili dall’art. 2 Cost. – e quello alla prevenzione e repressione dei reati, anch’esso riconosciuto a livello costituzionale. Pertanto, posto che lo stesso art. 15 comma 2 Cost. individua le condizioni necessarie a legittimare le limitazioni del diritto ivi sancito, ne consegue che quest’ultimo sarebbe notevolmente compromesso qualora eventuali incisioni sullo stesso si realizzassero al di fuori dei “paletti” costituzionalmente previsti. In particolare la ridetta sentenza ha chiarito che ove potessero valere come indizi o prove intercettazioni eseguite illegittimamente senza previa, motivata autorizzazione giudiziale, un diritto sancito dalla Costituzione sarebbe violato: ne deriva il divieto probatorio nei confronti delle captazioni abusive. Ma la pronuncia in discorso non si è tuttavia limitata a ricavare un divieto probatorio nei confronti delle captazioni “abusive”, ma è giunta ad affermare un principio generale molto rilevante: “le attività poste in essere in dispregio dei diritti fondamentali del cittadino non possono essere assunte di per sé a giustificazione ed a fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito”. A seguito del citato arresto giurisprudenziale intervenne il Legislatore nell’anno 1974 con l’inserimento dell’art. 226 quinquies del vecchio codice di rito (rubricato “Divieto di utilizzazione delle intercettazioni illecite”) stabilendo la sanzione della nullità insanabile per intercettazioni eseguite fuori dei casi consentiti: al di là della terminologia usata si trattava di un vero e proprio divieto probatorio. 

[294] L’intervento del Legislatore è stato quindi quello di prevedere una sanzione più specificamente concernente il piano probatorio, differente da quella tradizionale della nullità. Dunque si è voluto differenziare la conseguenza processuale connessa ai “vizi del procedimento di acquisizione” della prova da quella sancita per i “vizi di forma” degli atti. Invero l’area di applicazione di tale sanzione non si estende a qualsivoglia violazione delle regole dettate dalla legge per l’acquisizione delle prove, ma coesiste all’interno del sistema processuale-penalistico con le nullità, tuttora previste; in sostanza nel nostro sistema penale, come noto, inutilizzabilità e nullità coesistono. Mentre la prima colpisce le prove vietate per la loro intrinseca illegittimità derivante da espressi divieti posti dalle norme processuali o dal contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento, la nullitàattiene all’inosservanza di talune formalità nell’assunzione della prova. Dunque è entro tali limiti – che per il principio di tassatività non sono suscettibili di espansione – che opera la sanzione dell’inutilizzabilità.

[295] L’art. 191 cpp sancisce al secondo comma che l’inutilizzabilità è rilevabile anche di ufficio in ogni stato e grado del procedimento; quindi essa può essere rilevata anche nell’ambito del giudizio di Cassazione e non ammette sanatorie, non così per le nullità il cui regime di rilevabilità è quello di cui all’art. 180 – 182 cpp.

[296] Cass. Pen., Sez. Un., 27.3.1996, n. 3, Monteleone; Cass. Pen., Sez. Un., 20.11.1996, n. 21, Glicora ed altri.

[297] Ex Plurimis: Cass. Pen., 22.11.2007, n. 47109; Cass. Pen., 2.3.2010, n. 16293.

[298] A questo riguardo si veda Cass. Pen., 29.4.2004, n. 26112, Canaj; nello stesso senso Cass. Pen. 10.10.2019, n. 44114

[299] Cass. Pen., 10.2.2004, n. 16499, Mache; Cass. Pen., Sez. Un., 31.10.2001, Policastro, n. 42792

[300] Corte Cost., 15.7.2019, n. 219.

[301] L’art. 103 comma 5 cpp, non modificato, prevede che “non è consentita l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori, degli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, dei consulenti tecnici e loro ausiliari, né a quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite”.

[302] Considerazioni espresse anche nella circolare della Procura Generale della Cassazione n. 16926 del 31.7.2020, cit.

[303] Cass. Pen., 26.5.2009, n. 25590.

[304] Cass. Pen., 21.1.2009, n. 14461;

[305] Cass. Pen., 25.11.2015, n. 8953;

[306] Cass. Pen., 2.12.2019, n. 51021;

[307] Si confrontino le pagine di apertura del presente lavoro.

[308] Cass. Pen., Sez. Un., 28.5.2003, n. 36747, Torcasio.

[309] A riguardo la Cassazione distingue tra la tutela di cui all’art.15 Cost. e quella di cui all’art. 21 Cost.: mentre il primo articolo tutela la libertà e segretezza delle comunicazioni, il secondo tutela la libertà di manifestazione del pensiero; pertanto qualora un’espressione del pensiero, pur indirizzata ad uno specifico soggetto, sia effettuata in modo tale da consentire a terzi di percepirne il contenuto, essa non integrerà il concetto di “comunicazione” ma piuttosto quello di “manifestazione”.

[310] Trattasi del requisito dell’attualità della captazione: non si ha intercettazione qualora la captazione dell’atto comunicativo non avviene mediante mezzi tecnici in grado di permettere la percezione in tempo reale del contenuto del colloquio.

[311] Sulla tematica si veda Caprioli F., Intercettazione e registrazione di colloqui tra persone presenti nel passaggio dal vecchio al nuovo codice di procedura penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1991, p. 155.

[312] Cass. Pen., 3.6.1992, n. 10350, Gabriele ed altri; Cass. Pen., 14.4.1999, n. 6302, Iacovone ed altri; Cass. Pen., 10.4.1996, n. 6223, Bordon; Cass. Pen., 20.11.2000, n. 3846, Finini ed altri.

[313] Cass. Pen., 13.2.2020, n. 5782.

[314] Cass. Pen., Sez. Un., 23.2.2000, n. 6 e Cass. Pen., Sez. Un., 13.7.1998, n. 21.

[315] Espressione, secondo quanto risulta da Scaparone M., In tema di indagini di polizia giudiziaria condotte per mezzo di un agente segreto <<attrezzato per il suono>>, in Giur. Cost., 1988, p. 247, coniata da George, Constitutional Limitations on Evidence in Criminal Cases, 1969, pag. 148.

[316] In merito agli orientamenti giurisprudenziali si veda: Trib. Milano, ordinanza del 13.3.2012; si veda inoltre Leo G., Necessario il provvedimento autorizzativo dell’Autorità giudiziaria per il ricorso al cd. <<agente segreto attrezzato per il suono>> in Diritto Penale Contemporaneo, 1/12, p. 167.

[317] Cass. Pen., 5.7.1988; Cass. Pen., 6.11.2008, n. 44128.

[318] Cass. Pen., 7.11.2007, n. 46274, Ditto, che fa espresso richiamo a Cass. Pen., 23.1.2002, n. 30082, Aquino.

[319] Cass. Pen., 4.10.2007, n. 40332, Picillo.

[320] Nel senso della utilizzabilità, in assenza di provvedimento giudiziario di autorizzazione, dei nastri formati da un interlocutore collaborante con la polizia giudiziaria si veda: Cass. Pen., 9.6.2005, n. 33030, Dottino.

[321] Corte Cost. 4.12.2009, n. 320.

[322] Cass. Pen., Sez. Un., 28.3.2006, n. 26795, Prisco.

[323] In tal senso si veda: Cass. Pen., 1.12.2009, n. 49511, Ticchiati.

[324] Cass. Pen., 7.4.2010, n. 23742, Angelini.

[325] Cass. Pen., 24.2.2009, n. 16986, Abis.

[326] Cass. Pen., 24.2.2010, n. 9132, Caldaras Ghizela.

[327] Cass. Pen., 14.10.2010, n. 7, Biffis.

[328] Leo G., Per trasformare l’intercettazione in una prova l’ufficiale non deve intervenire nel colloquio, in Guida dir., 2003, n. 42, pag.59

[329] Problematica ulteriormente complicata nel caso in cui siano poste sotto controllo utenze di un’abitazione – cd. fisse – con il rischio di captazione di un dialogo in ambiente domiciliare in assenza dei requisiti di ammissibilità di cui all’art. 266 comma 2 cpp per le intercettazioni ambientali eseguite nei luoghi di cui all’art 614 cp ovvero il fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa.

[330] Cass. Pen., 16.4.1993, n. 1625.

[331] Cass. Pen., 10.11.1995, n. 12591; successivamente ex plurimis: Cass. Pen., 23.11.2005, n. 39549

[332] Cass. Pen., 15.3.2017, n. 19200.

Condividi su:

Articoli Correlati
Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit, sed do eiusmod tempor incididunt ut labore et dolore
Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit, sed do eiusmod tempor incididunt ut labore et dolore