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Per la Consulta il diritto al silenzio si estende anche alle domande sulle qualità personali dell’imputato.

Segnaliamo la pronuncia con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 64, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti indicati siano rivolti alla persona sottoposta alle indagini o all’imputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui all’art. 21 delle Norme di attuazione del codice di procedura penale.

Con la medesima pronuncia, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 495, primo comma, del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato che, richiesti di fornire le informazioni indicate nell’art. 21 norme att. cod. proc. pen., abbiano reso dichiarazioni false senza che siano stati loro previamente formulati gli avvertimenti di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen.

Di seguito il comunicato stampa:

Chi è sottoposto a indagini o è imputato in un processo penale deve essere sempre espressamente avvertito del diritto di non rispondere alle domande relative alle proprie condizioni personali.
Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza n. 111 pubblicata oggi (redattore Francesco Viganò), con cui sono stati dichiarati parzialmente illegittimi gli articoli 64, terzo comma, del codice di procedura penale e l’articolo 495 del codice penale. Il Tribunale di Firenze doveva decidere sulla responsabilità penale di un imputato per il reato di false dichiarazioni a un pubblico ufficiale sulla propria identità o le
proprie qualità previsto dall’art. 495 del codice penale, che – accompagnato in Questura per l’identificazione nell’ambito di un procedimento penale – aveva dichiarato alla polizia di non avere mai subito condanne, senza essere stato avvertito della facoltà di non rispondere. Successivamente era emerso che, in realtà, quella persona era stata già condannata due volte in via definitiva.
Il giudice rimettente aveva osservato che il codice di procedura penale, così come interpretato dalla costante giurisprudenza della Corte di cassazione, richiede che ogni persona sottoposta a indagini sia avvertita della propria facoltà di non rispondere soltanto alle domande relative al fatto di cui è accusata, ma non alle domande relative alle circostanze personali elencate all’art. 21 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale: e cioè, tra l’altro, se abbia un soprannome, quali siano le sue condizioni patrimoniali, familiari, sociali, se eserciti uffici o servizi pubblici o ricopra cariche pubbliche, e ancora se abbia già riportato condanne penali.
Il Tribunale aveva, allora, chiesto alla Corte costituzionale se questa disciplina fosse compatibile con la dimensione costituzionale del cosiddetto diritto al silenzio, che è parte del diritto di difesa riconosciuto, tra l’altro, dall’art. 24 della Costituzione, dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dall’art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato in seno alle Nazioni Unite.
Con la sentenza odierna la Corte ha ritenuto costituzionalmente illegittima la disciplina vigente.
La Corte ha sottolineato come il diritto al silenzio operi ogniqualvolta l’autorità che procede in relazione alla commissione di un reato “ponga alla persona sospettata o imputata di averlo commesso domande su circostanze che, pur non attenendo direttamente al fatto di reato, possano essere successivamente utilizzate contro di lei nell’ambito del procedimento o del processo penale, e siano comunque suscettibili
di avere un impatto sulla condanna o sulla sanzione che le potrebbe essere inflitta”.
È questo, appunto, il caso delle domande previste dall’art. 21 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale. La circostanza, ad esempio, che la persona interrogata sia già stata condannata può indurre la polizia a disporre il suo arresto quando questo sia solo facoltativo, può determinare un importante inasprimento della pena, e può essere utilizzata, tra l’altro, per valutare la sua pericolosità sociale ai fini dell’applicazione di misure cautelari, del riconoscimento di circostanze attenuanti o della decisione sulla sospensione condizionale della pena. La conoscenza del soprannome della persona può essere anch’essa di grande importanza a fini investigativi, ad esempio in presenza di intercettazioni in cui il soggetto venga indicato dai propri complici con uno pseudonimo.
La Costituzione e le norme internazionali che tutelano i diritti umani consentono, ha osservato la Corte, che si possa imporre ad una persona sospettata di aver commesso un reato il dovere di indicare all’autorità che procede le proprie generalità (nome, cognome, luogo e data di nascita), ma non anche il dovere di fornire ulteriori informazioni di carattere personale, non essendovi per l’indagato o l’imputato alcun obbligo di collaborare con le indagini e il processo a proprio carico. Per garantire una tutela effettiva a questo diritto, è dunque necessario fornire all’indagato e all’imputato un esplicito avvertimento della facoltà di non rispondere anche a queste domande; ed è altresì necessario escludere la sua punibilità nel caso in cui egli risponda il falso, quando non sia stato debitamente avvertito di questa sua
facoltà.
Roma, 5 giugno 2023

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