L’abolizione dell’appello del P.M. avverso la sentenza di assoluzione: a volte ritorna….

1. E’ cronaca di questi giorni l’annuncio da parte del Ministro della Giustizia Dott. Carlo Nordio di ripensare all’appellabilità della sentenza di assoluzione da parte del P.M.

Il tema è antico e complesso, e, con una estenuante costanza, riemerge ogniqualvolta alcuni processi dalla portata mediatica sollevano la questione.

La materia ha, però, un rilievo assolutamente tecnico e definisce la struttura e la vera natura del rito d’appello in un sistema processuale penale (tendenzialmente) accusatorio[1] e improntato sulla regola decisoria, per il proscioglimento, del ragionevole dubbio. Non è un caso che proprio la riforma operata dalla legge 20 febbraio 2006 n. 46, meglio nota come Legge Pecorella, abbia introdotto, tra l’altro, l’indicata regola decisoria e, parallelamente, l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento (salvo eccezioni), ridimensionando fortemente il potere di appello del pubblico ministero. Il resto è storia: la Consulta con la sentenza n. 26 del 2007 dichiarava l’incostituzionalità della novella per la sua contrarietà al principio di parità delle parti e della “soccombenza” che il p.m. avrebbe dovuto patire, rispetto all’analoga legittimazione dell’imputato.

Per i giudici costituzionali per quanto il potere d’impugnazione della parte pubblica non possa essere configurato quale proiezione del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, esso trova copertura costituzionale unicamente entro i limiti di operatività del principio della parità delle parti[2].

Invero, l’attenzione posta dal giudice delle leggi alla “parità delle parti” e alla (criticata) “soccombenza” del p.m. per sterilizzare il  -parziale- divieto di impugnazione delle sentenze di proscioglimento, secondo una prospettiva ri-equilibratrice tra le parti necessarie del processo, fu l’aspetto meno razionale e giuridicamente meno ineccepibile verso il quale una parte della dottrina formulò le più aspre critiche.

Un aspetto evidenziato dai giudici delle leggi riguardava, poi, il grave squilibrio a cui dava luogo la novella nella parte in cui eliminava il potere di appellare la sentenza di proscioglimento (salvo casi eccezionali) e non quella di condanna dando luogo a una palese inversione logica rispetto al ruolo di parte dell’organo d’accusa chiamato, prima, a istruire una notitia criminis e, poi, a elevare un’accusa e a sostenerla in giudizio: coerenza avrebbe voluto che il pubblico ministero potesse appellare le sentenze liberatorie, che manifestano il rigetto delle sue richieste, piuttosto che quelle di condanna ,che le accolgono.

La Corte, per converso, ha rimarcato come la legittimazione all’impugnazione dell’imputato integri una manifestazione del diritto di difesa, la cui inviolabilità in ogni stato e grado del procedimento, proclamata dall’art. 24 comma 2 Cost., ne accresce la forza di resistenza rispetto alle sollecitazioni di segno contrario.

Al riguardo non va dimenticato che la riforma demolita dall’intervento della Corte costituzionale rinveniva un raccordo normativo con l’articolo 2 del Protocollo numero 7 della Convezione Europea, utile a realizzare la ragionevole durata del processo; nonché dalle incisive sentenze della Corte Costituzionale (la n. 98 del 1994; la n. 280 del 1995) che riposano sull’attenta disamina circa le radici ideali e funzionali del doppio grado di giurisdizione di merito e gli effetti, sul sistema complessivo delle impugnazioni, della abolizione del potere d’appello del pubblico ministero, in particolare.

E’ stato, invece, mantenuto fermo l’intervento  operato rispetto alle sentenze di proscioglimento emesse dal giudice di pace (Corte cost. ord. n. 49 del 2009).

 La compatibilità dell’abolizione con i parametri costituzionali  riposa, in tal caso, sul fatto che essa sia circoscritta ad un gruppo di figure criminose di minore gravità e di ridotto allarme sociale e attengono a delle regole del processo, quello che si celebra davanti al giudice di pace,  tutte improntate alle finalità di snellezza e semplificazione, oltre che di rapidità.

Ne discende che questo modulo processuale non è comparabile con quello davanti al tribunale, e comunque è tale da giustificare sensibili deviazioni rispetto al modello ordinario. In particolare,  la scelta del legislatore di escludere la proponibilità di censure di merito, da parte del pubblico ministero, avverso le sentenze di proscioglimento emesse dal giudice onorario non può ritenersi eccedente i limiti di compatibilità con il principio di parità delle parti, trovando «una sufficiente ratio giustificatrice sia nella ritenuta opportunità di evitare un secondo giudizio di merito, a iniziativa della parte pubblica, nei confronti di soggetti già prosciolti per determinati reati “di fascia bassa”, all’esito di un procedimento improntato verso una marcata rapidità e semplificazione delle forme; sia – almeno in parte – nell’ottica del riequilibrio dei poteri nell’ambito di un assetto nel quale a essere collocato in posizione di svantaggio era, sotto certi aspetti, l’imputato: ossia, proprio la parte il cui diritto d’appello ha una maggiore “forza di resistenza” rispetto alle spinte di segno soppressivo».

2. Ripristinato, seppur non in maniera equipollente rispetto alla versione del 1988, il diritto d’appello del p.m. nell’ambito di rito ordinario, nel ridisegnare il sistema delle impugnazioni alla luce delle coordinate costituzionali e convenzionali, il legislatore ha successivamente compiuto due interventi di segno opposto: da un lato, con la l. n. 103 del 2017 ha mirato al rafforzamento dei poteri istruttori del giudice di seconde cure, stabilendo all’art. 603, comma 3-bis c.p.p. l’impegno alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nell’ipotesi di appello proposto dal pubblico ministero avverso la sentenza di proscioglimento per motivi riguardanti la valutazione della prova dichiarativa; dall’altro, con il d. lgs. n. 11 del 2018, ha puntato, quanto al p.m., sulla parziale riduzione del diritto all’appello rispetto alle sentenze di condanna (art. 593, comma 1 c.p.p.) e sulla possibilita’ che egli possa impugnare una sentenza nell’interesse dell’imputato solo con ricorso per cassazione ( art. 568, comma 4 bis c.p.p.).

Proprio tale aspetto incide fortemente sul ruolo del pubblico ministero e sulla sua funzione di soggetto pubblico che agisce anche nell’interesse dell’imputato. Posta l’unità organica dei controlli nel processo penale e la scansione dei vari istituti a seconda del tipo di verifica necessaria (di merito o di legittimità) l’agire dell’accusa pare, così, differenziarsi a seconda del tipo di controllo che richiede o del mezzo di impugnazione che intende attivare, affidandogli, se non nei limiti della natura pubblica dell’organo, compiti difensivi. L’organo dell’accusa, proprio in quanto soggetto pubblico, ha, cioè, il dovere di valorizzare gli elementi che acquisisce, anche se essi hanno una prospettiva diversa da quella che tende a raggiungere nel giudizio (la condanna). In questa ottica, si iscrive anche la possibilità, di nuovo conio, di proporre ricorso per cassazione nell’interesse dell’imputato tutte le volte che esso coincide con l’interesse della legge (sulla scia già disegnata dall’istituto della revisione proposta, in favore del condannato, dal procuratore generale). Ma non può più coltivare un controllo di merito in favore dell’imputato se ritiene che la ricostruzione fatta propria dal giudice di merito sia ingiusta. 

Quanto alla modifica dell’art. 603, comma 3-bis c.p.p. si tratta di un meccanismo, assai dispendioso e problematico e destinato a produrre veri e propri cortocircuiti logici quando (operava) nei casi di giudizio abbreviato, esso manifesta il permanente interesse della questione riguardante l’incongruità di un sistema nel quale a fronte di un’assoluzione emessa a fronte del ragionevole dubbio circa la responsabilità dell’imputato si possa, poi, giungere, in appello, alla sua condanna, sulla scorta di un rito non equiparabile  sul piano delle modalità istruttorie a quello di primo grado.

Il tema in esame, come si è detto, si ricollega, infatti, a doppio fino alla regola decisoria fondata sul ragionevole dubbio. D’altro canto, sotto tale aspetto, va ricordato come la l. n. 103 del 2017 ha circoscritto la cd. doppia conforme di assoluzione ai soli casi della violazione di legge (art. 608, comma 1-bis c.p.p.)[3].  

Se, dunque, è stata, così superata la questione che investe oggi, ad esempio, il cd. caso Garlasco il cui clamore ha aperto, appunto, alla possibile modifica del regime d’appello per il p.m., posto che -allo stato- non sarebbe più ammissibile l’annullamento della decisione per vizi di motivazione o mancata assunzione di una prova decisiva, ma solo per violazione di legge, rimane aperta la questione relativa al sovvertimento della prima decisione di assoluzione. 

Invero, al riguardo deve dirsi che proprio in questo caso, l’atto d’appello del p.m.   è più oneroso. Invero, la proposizione dell’appello, in ragione della regola che impone la dichiarazione della responsabilità penale solo al di là di ogni ragionevole dubbio, nel caso delle sentenze di proscioglimento importa non tanto una semplice ricostruzione alternativa, pur logica e convincente, dell’apprezzamento di merito operato dal giudice di   primo grado quanto prospettare le ragioni per le quali il ragionamento probatorio  del primo giudice non è più ragionevolmente sostenibile: egli, in altre parole, deve spiegare perché non si possa mantenere nel processo un ragionevole dubbio ex art. 533, comma 1 c.p.p.

Sul versante del ricorso per cassazione, al pm non basta dimostrare che la sua versione dei fatti è la più ragionevole e probabile: anche se fondati tali motivi non potrebbero portare ad un annullamento: al pm non basta dimostrare il ragionevole dubbio sull’innocenz, ma deve dimostrare il dubbio irragionevole sull’innocenza, altrimenti, il ricorso va dichiarato inammissibile.
Dunque, la regola decisoria non si rivolge solo al giudice, ma anche al pubblico ministero che chiede di sovvertire la decisione, deve affrontare e si deve confrontare con l’applicazione della regola dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio” ovvero superare quel rafforzamento dell’innocenza contenuto nella sentenza appellata (cd. specificità di terzo grado)[4].

3. Ora, premesso che secondo la posizione avallata e rimarcata in modo sempre più accentuato dalla Corte costituzionale, sussiste la diversa quotazione costituzionale del potere di impugnazione delle due parti necessarie del processo penale: privo di autonoma copertura nell’articolo 112 Cost., dunque più malleabile in funzione della realizzazione di interessi contrapposti, quello della parte pubblica, intimamente collegato invece all’articolo 24 Cost. e dunque meno disponibile quello dell’imputato, la proposta del Ministro va intesa alla luce dell’attuale sistema penale, vale a dire che essa va contestualizzata alla luce della significativa “ristrutturazione” che il processo, prima, e il giudizio d’appello, poi, hanno subito in questi anni. Determinanti, al riguardo, appaiono le conclusioni raggiunte dai giudici delle leggi nella sentenza n. 34 del 2020[5].

I giudici costituzionali, chiamati a verificare la limitata legittimità dell’esclusione dell’appellabilità della sentenza di condanna da parte del P.M., hanno osservato, ancora una volta, che la garanzia del doppio grado di giurisdizione non fruisce, di per sé, di un riconoscimento costituzionale; che il potere di impugnazione nel merito della sentenza di primo grado – da parte del pubblico ministero – presenta margini di cedevolezza più ampi, anche tenuto conto dei maggiori poteri di cui quest’ultimo si può avvalere nelle indagini preliminari, a fronte di esigenze contrapposte, rispetto a quelli che connotano il simmetrico potere dell’imputato.

L’arresto del 2020, dunque, nel fare salva l’ultima versione dell’art. 593 c.p.p., valorizza, a più riprese, il fatto che la riforma che ha interessato le sentenze di condanna del 2018 abbia limitato il potere di appello del pubblico ministero solo al cospetto delle sentenze «che hanno accolto, nell’ an, la ‘domanda di punizione’ proposta dal pubblico ministero e che non hanno, altresì, inciso in modo significativo sulla prospettazione accusatoria».

L’approdo raggiunto si colloca all’interno, dunque, di un modello processuale significativamente distante da quello nel quale si collocava la riforma del 2006, che la Corte “fotografa” valorizzando proprio la differente posizione e il diverso ruolo spettante all’accusa. Questo, infatti, si è, nel tempo, significativamente rafforzato tanto da cristallizzare, fin dalle prime battute, la valenza probatoria del materiale che transiterà, poi, a giudizio.

Proprio questa decisione fa da sfondo alla proposta avanzata dalla Commissione Lattanzi, che, con l’obiettivo di adeguare i rimedi impugnatori alle direttrici costituzionali, come interpretate in senso evolutivo dopo la costituzionalizzazione del canone del contraddittorio quale architrave del processo penale ha avanzato la soluzione di abolire il potere d’appello della sentenza di proscioglimento della parte pubblica ritenendo il ricorso per cassazione lo strumento a disposizione del pubblico ministero per attivare un controllo di legalità (sulla corretta applicazione della norma sostanziale), di legittimità (su eventuali errores in procedendo) e di razionalità del giudizio di fatto (sulla corretta applicazione delle regole della logica) della decisione. La stessa proposta prevedeva a carico dell’imputato e a “bilanciamento” della prescelta soluzione, l’introduzione dei motivi d’appello a critica vincolata e l’eliminazione dell’appello incidentale[6].

4. La soluzione proposta dalla Commissione Lattanzi che pur aveva riacceso il dibattito tra gli studiosi e operatori del diritto che rinnovavano come la scelta potesse entrare in tensione con i principi costituzionali e, in specie, con il principio della “parità delle parti” processuali, i cui riferimenti costituzionali si rinvengono nell’ art. 3 Cost. e, soprattutto, 111, comma comma 2, Cost., e che aveva sollevato molteplici censure da parte dell’avvocatura associata, per i limiti gravanti a carico dell’imputato, com’ è noto, è stata abbandonata dall’esecutivo. 

Nel d. lgs. n. 150 del 2022 si è preferito coltivare l’aggravamento, per entrambi le parti, delle modalità d’ingresso della domanda d’appello e rimodellare l’art. 603, comma 3-bis c.p.p., lasciando fuori dal circuito della riforma della giustizia penale il tema, in quanto divisivo e gravido d’implicazioni ideologiche e sistematiche.

Anche la l. n. 114 del 2024 (cd. riforma Nordio)[7] si è limitata ad elidere quel potere rispetto ai reati previsti dall’art. 550, comma 1 e 2 c.p.p. per cui si procede con citazione diretta a giudizio, intuitivo è l’apparente ragionamento che associa la riforma ora al minor impegno investigativo, ora alla (ritenuta) minor rilevanza sociale del disvalore dei reati, data dalla loro assegnazione della competenza al tribunale in composizione monocratica, la scelta. Si tratta, pertanto, di una ulteriore contrazione della possibilità di impugnare le sentenze di assoluzione di primo grado da parte del pubblico ministero, che -allo stato- lascia fermo il potere d’ impugnazione per i reati diversi da quelli indicati.

Tuttavia, la limitazione, dopo il d. lgs. n. 150 del 2022, diviene qualitativamente molto significativa, considerando anche la pena edittale prevista per quei reati[8].

In ogni caso, il fatto che l’abolizione per il pubblico ministero del potere di impugnare le sentenze di proscioglimento non sia ‘tombale’, residuando per i reati ‘più gravi’ individuati in relazione al rito, probabilmente rende manifestamente infondata ogni questione di legittimità costituzionale.

Invero, si è più acutamente osservato[9] come la novella non si sia limitata, in realtà, ad abolire il potere del pubblico ministero ad appellare le sentenze di proscioglimento pronunciate dal tribunale monocratico per i reati a citazione diretta, ma, con un tratto di penna, abbia eliminato anche la proposizione normativa per cui «il pubblico ministero può appellare contro le sentenze di proscioglimento»: ebbene, ferma restando una possibile tensione con il principio di tassatività soggettiva, se così fosse la questione affrontata non avrebbe alcun senso essendo già venuta meno la legittimazione di cui si discute. Ma, al contrario, è certo che la riforma del 2024 non avrebbe ragion d’essere, se non muovendo dalla sussistenza di una regola generale immanente al sistema dei gravami – seppur implicita- esistente nel sistema processuale penale.

5. Superato l’empasse appena delineato, la recente proposta del Ministro della Giustizia ha, quindi, (ri)prospettato e argomentato un’innovazione che non si riesce a eclissare: l’abolizione del gravame di merito dell’organo d’accusa avverso le assoluzioni o la sua limitazione ad alcuni meno gravi reati (lasciandolo intatto per i reati di criminalità organizzata o reati di terrorismo) o il rimodellamento, in tali casi, del giudizio d’appello in un rito puramente rescindente.

A fronte di un proscioglimento che risulti correttamente disposto, l’ eventuale decisione di segno contrario e opposto nel giudizio di secondo grado potrebbe confliggere con la logica del ragionevole dubbio ed entrerebbe in tensione con il diritto dell’imputato che risulterebbe condannato per la prima volta in appello, senza possibilità di impugnare la decisione nel merito, ancorché il suo diritto alla prova sia stato assicurato in via “preventiva” (arg. ex art. 603, comma 3-bis c.p.p.). Inoltre, non sarebbe possibile ridimensionare questo elemento con la previsione di cui all’art. 595 c.p.p. che consente all’imputato di presentare appello incidentale, memorie e istanze. Invero, si tratta di opzioni legislative non innovative e spesso abbandonate per le loro molteplici implicazioni: così se l’ultima soluzione avanzata parrebbe poco compatibile con l’economia ed efficienza processuale, oggi “mantra” del nuovo sistema processuale, la seconda appare poco compatibile con gli artt. 3, 24 e 27 Cost. Invero, l’azione riformatrice, come si è visto in riferimento ai reati di competenza del giudice di pace, non potrebbe elidere il diritto alla revisione della decisione di primo grado solo per alcune fattispecie e non per altre.

Un conto, in altri termini, è abolire quel diritto all’interno di un unico binario processuale, altro è operare una distinzione fra reati di criminalità o meno, differenziazione tipica per la fase delle indagini e inerente agli aspetti probatori legati al giudizio di primo grado, ma che nulla ha a che vedere con lo sviluppo del rito d’appello (come dimostra il ripristino del concordato operato dalla riforma Cartabia).

6. Si colloca, dunque, all’interno di un rimaneggiato modello processuale a “trazione anteriore” che manifesta sempre di più la tendenza a una formazione anticipata degli elementi probatori, nell’ambito del quale un ruolo centrale ha assunto il P.M. (non casualmente l’annuncio della riforma si accompagna a quella sulla separazione delle carriere) e del mutamento del rito d’appello da “nuovo giudizio” a rito di controllo, la proposta ministeriale della parziale abolizione dell’appello del pubblico ministero delle pronunce assolutorie, il quale, pertanto, in quel disegno, potrebbe innescare unicamente controlli di legalità, legittimità e razionalità delle sentenze di prime cure, a mezzo del solo ricorso per cassazione.

Invero, posto che la Corte costituzionale ha sempre sostenuto di non riconoscere al gravame della pubblica accusa un addentellato costituzionale diretto, non potendo essere configurato come proiezione necessaria del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, enunciato dall’art. 112 Cost., la scelta di abolire l’appello del pubblico ministero rientra, astrattamente, nelle prerogative del legislatore.

La proposta potrebbe, quindi, essere accolta, senza risultare, da questa specifica angolatura prospettica, costituzionalmente eterodossa. Né sarebbe ravvisabile una possibile violazione del principio della parità delle parti se, come sembra, questo vada inteso quale antagonismo tipico di un processo di parti da rispettare nel processo penale di primo grado, caratterizzato da una diversa quotazione delle prerogative, che vede un prevalente vantaggio, oggi ampliamente valorizzato, per la parte pubblica nella prima fase del procedimento.

Il principio di parità non è inteso, infatti, dalla Corte costituzionale[10]  nel senso della necessaria identità dei poteri processuali del pubblico ministero e dell’imputato, essendo inevitabile che intercorrano differenze di disciplina tra una parte pubblica, istituzionalmente chiamata a compiere indagini e a sostenere un’accusa, e una parte privata, che da quell’accusa ha l’inviolabile diritto di difendersi e rispetto alla quale è presunto innocente[11].

Proprio quel diritto, considerata quella ontologica e naturale disparità, pare, dunque, riespandersi appieno nell’ambito del giudizio di seconde cure: è questa prerogativa difensiva derivante ancor più dal rafforzamento della presunzione di innocenza che discende dalla pronuncia di assoluzione, a confermare come la diversità di disciplina rispetto al pubblico ministero non potrebbe dirsi sguarnita di un’adeguata ratio giustificatrice e, dunque, non potrebbe tacciarsi d’irragionevolezza. In altri termini, il mantenimento dell’appello a vantaggio dell’imputato nasce della necessità di assicurargli una chance reattiva nei confronti delle sentenze: si tratta di un potere che consente la possibilità d’innescare un controllo sulla ricostruzione dei fatti e sulla valutazione delle risultanze probatorie, con la deduzione – eventualmente- degli errori di diritto del provvedimento.

Arduo, in tale ipotesi, “accontentarsi” del solo ricorso per cassazione: il riconoscimento all’imputato della possibilità di appellare, per motivi di rito e di legittimità, una sentenza di condanna (salve minime eccezioni, arg. ex art. 593, comma 3 c.p.p.) trova un presidio diretto negli artt. 24 comma 2 e 27 comma 2 Cost., capaci di arginare ogni eventuale riduzione delle tutele del soggetto, anche all’interno di un sistema di regole che finisca per estromettere il pubblico mistero dal circuito del gravame di merito[12]. Chiaro, sul punto, l’art. 14 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici – il quale garantisce ad ogni condannato il diritto «a che l’accertamento della sua colpevolezza e la condanna siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza» – contempla solo l’appello dell’imputato e non quello del pubblico ministero; ed è una scelta equilibrata, se si considera che un’ingiusta condanna è senza dubbio più grave rispetto ad un’ingiusta assoluzione. Di qui la ragionevolezza di un sistema che contempla il solo rimedio del ricorso per cassazione avverso l’assoluzione, mentre quello verso la condanna esiga (benchè nei limiti attuali) la doppia garanzia dell’appello e del ricorso[13].

7. Analizzando, in estrema sintesi, la legittimazione del P.M. ad appellare le decisioni penali, quello che emerge è tuttavia, un quadro eccessivamente frastagliato e incrementato nella sua eterogeneità.

Così, al di là di quanto si è già esaminato, con riferimento alle sentenze di proscioglimento emesse all’esito dell’udienza preliminare e predibattimentale, il legislatore prevede l’appellabilità del pubblico ministero: art. 428 comma 1, lett. a) c.p.p. e art. 554-quater comma 1, lett. a) c.p.p. Con riferimento al procedimento per decreto il rinvio va ammesso da parte del pubblico ministero secondo le regole generali. Per quanto attiene alla responsabilità degli enti e persone giuridiche, l’art. 71 comma 3 d. lgs. n. 231 del 2001 3 dispone che contro la sentenza che riguarda l’illecito amministrativo il pubblico ministero può proporre le stesse impugnazioni consentite per il reato da cui l’illecito amministrativo dipende. il pubblico ministero può proporre le stesse impugnazioni che concernerebbero i reati da cui l’illecito dipende.

L’art. 469 comma 1 c.p.p. prevede, invece, che il pubblico ministero possa impugnare solo nel caso di prospettata opposizione alla decisione camerale.

Quanto al rito abbreviato l’art. 443 comma 1 c.p.p., come definito da C. Cost. n. 320 del 2007, consente al pubblico ministero di appellare la sentenza di proscioglimento.

Una disciplina specifica è prevista per il patteggiamento ai sensi dell’art. 448 commi 2 e 2-bis c.p.p. che prevedono l’appello del pubblico ministero in caso di suo dissenso. Per il proscioglimento per la particolare tenuità del fatto dovrebbero applicarsi le regole generali in relazione al provvedimento riguardante i singoli reati. In caso di sospensione emessa alla prova ai sensi dell’art. 464-quater è previsto il solo ricorso per Cassazione da parte del pubblico ministero (art. 464-quater comma 7 c.p.p.) escluso nel caso di una sua richiesta nella fase delle indagini (art. 464-ter c.p.p.).

 Ne discende che la materia meriterebbe forse una revisione organica – più che, come d’abitudine, degli interventi settoriali[14]– anche al fine di individuare una soluzione generale per la materia capace di suggerire un intervento unitario e coerente, salvo prendere atto che la diversità delle situazioni considerate rende impossibile l’adozione di soluzioni capaci di prospettare rimedi “di sistema”[15].


[1] V., R. ORLANDI, Riforma della giustizia penale: due occasioni mancate e una scelta ambigua in tema di prescrizione, in DisCrimen, 16 luglio 2021, 2: l’abolizione dell’appello del pubblico ministero integra una scelta di valore sistemico, capace di sviluppare i propri effetti sull’intera dinamica processuale, inclusa la fase iniziale del procedimento penale.

[2] Attesa la possibilità di impugnare in ogni caso il proscioglimento, con la sentenza n. 85 del 2008 la Consulta, preso atto che una situazione appare lesiva del diritto di difesa dell’imputato, diritto« al quale la facoltà di appello (…) risulta collegata come strumento di esercizio »ha nuovamente dichiarato illegittimo l’art. 1 della legge n. 46 del 2006, ripristinando la situazione anteriore alla riforma: di conseguenza, ha restituito all’imputato il potere di appellare le sentenze proscioglimento pronunciate dal tribunale e dalla corte d’assise, salvo quelle relative a contravvenzioni punibili con la sola ammenda o con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda.

[3] L’ esclusione del potere è stata ritenuta legittima (cfr. Cass. Sez. IV, 15 novembre 2018, n. 53349 P.G. in proc. Schuster Helmuth Walter, Rv. 274573: “E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 608 c.p.p., comma 1-bis, introdotto dalla L. 23 giugno 2017, n. 103, in relazione agli artt. 3,24,101,111 e 112 Cost., in quanto la limitazione alla sola violazione di legge della ricorribilità per cassazione della sentenza d’appello confermativa della decisione di proscioglimento da parte del pubblico ministero trova ragionevole giustificazione, nell’ambito delle scelte discrezionali riservate al legislatore, nell’esigenza di deflazione del giudizio di legittimità“).

[4] Per il rilievo, v., C. Citterio, La legge Nordio e il giudizio di impugnazione, in Giust. insieme on line, 23 luglio 2024.

[5] V., per tutti, N. Rombi, La Corte costituzionale e i nuovi limiti ai poteri d’appello del pubblico ministero, in Proc. e giust. 2020, 1352.

[6] Per una serrata critica, P. Ferrua, Appunti critici sulla riforma del processo penale secondo la Commissione Lattanzi, in Discrimen, 12 luglio 2021, 5.

[7] G. Spangher, È stato definitivamente approvato il ddl Nordio, in Ius, 10 luglio 2024.

[8] Ricollegano, invece, la scelta al legame sussistente tra la presunzione di innocenza e la necessità che essa, se superata, lo sia in maniera pregnante al di là di ogni ragionevole dubbio, A. Villani-L. Loprieno, La riforma della giustizia e la reintrodotta inappellabilità da parte del P.M. delle sentenze di assoluzione per taluni reati: il caso dell’omessa dichiarazione, on line, 4.

[9] Così anche, S. Ciampi, Eterogenesi dell’appello penale, Giappichelli, Torino, 2024, 15; M. Gialuz, Le novità della “manovra Nordio” in materia processuale: quando l’ideologia rischia di provocare un’eterogenesi dei fini, in www.Sistemapenaleonline, 22 luglio 2024, 16.

[10]V. ancora corte cost., ord. n. 34 del 2020.

[11] Cfr., già, O.  MAZZA, Tradimenti di un codice accusatorio, Torino, 2020, p. 182 s.:in questa materia, una prospettiva della parità fra le parti appare fuorviante e distorcente, [..J Il pubblico ministero non può mettere in discussione l’operato del giudice che ha prosciolto l’imputato a meno che non si tratti di una decisione illegale, nel qual caso il vizio di legittimità potrà essere denunciato con il ricorso per cassazione. […] Questa è la ragione di fondo per cui non può essere previsto l’appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento.
 

[12] V., D. NEGRI, L’avvenire del processo penale. Tre voci a confronto, in Leg. pen., 2021, n. 2, p. 489: «un ruolo di primo piano spetta alla scelta politica, tecnicamente meglio assecondata di quanto avvenne con la legge n. 46 del 2006, che sancisca l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento (e pure di quelle di condanna) da parte del pubblico ministero. È infatti auspicabile un ripensamento della Corte costituzionale rispetto all’indirizzo espresso nella sentenza n. 26 del 2007. Una volta escluso che l’impugnazione sia proiezione necessaria del principio di obbligatorietà dell’azione penale, bisogna aggiungere come, dal lato della pretesa punitiva, la Costituzione tolleri che il sistema si appaghi di un unico giudizio di merito. Non c’ề simmetria tra l’esigenza di evitare la condanna di un innocente e quella di non lasciare impunito il colpevole.

[13] Autorevolmente, P. Ferrua, Appunti critici sulla riforma del processo penale secondo la Commissione Lattanzi, in Discrimen, 12 luglio 2021, 4.

[14] Sul necessario approccio tecnico, v., ancora C. Citterio, La legge Nordio e il giudizio di impugnazione, cit., 23 luglio 2024.

[15] V., così, S. Ciampi, Eterogenesi dell’appello penale, cit., 50-51 il quale avanza la necessità di una parallela riduzione dell’appello dell’imputato, fatte salve alcune limitate eccezioni.

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